martedì 15 marzo 2011

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    "Allah" vuol dire "Dio", ma non per i cristiani malesi di Anna Bono, 15-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2)    «Migrazione non stravolga l'identità culturale» di Massimo Introvigne, 14-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3)    TERREMOTO GIAPPONE/ Il mistero cercato lontano da questa vita di Lorenzo Albacete, martedì 15 marzo 2011, da il sussidiario.net
4)    CRONACA - IL CASO/ Janet Porter (Usa): così il battito di un bimbo "uccide" gli abortisti - INT. Janet Porter - martedì 15 marzo 2011, ilsussidiario.net
5)    L’Occidentale :“Sento dunque sono” - March 13th, 2011 - Cosa prova un feto prima di nascere? Di Carlo Bellieni - http://carlobellieni.com/
6)    PAPA/ Stefano Alberto: Benedetto porta l’umanità di Cristo davanti ai nostri occhi di INT. Stefano Alberto, martedì 15 marzo 2011, il sussidiario.net
7)    Avvenire.it, 15 marzo 2011, BIOETICA E POLITICA, Elefante: «Legge indispensabile dopo la morte di Eluana» di Lucia Bellaspiga
8)    Il crocifisso non lede la libertà religiosa - Laicità in pericolo? La Cassazione dice no - Resi noti i motivi per cui la Suprema corte ha confermato la rimozione del giudice Tosti, che si rifiutava di tenere udienze in presenza della croce - DA MILANO DAVIDE RE, Avvenire, 15 marzo 2011

"Allah" vuol dire "Dio", ma non per i cristiani malesi di Anna Bono, 15-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

È sempre più difficile la vita in Pakistan per le comunità cristiane. Quella di Kot Addu, una città del Punjab meridionale, nelle scorse settimane si è vista confiscare beni e terreni da alcuni piccoli latifondisti senza che le autorità intervenissero a impedirlo. Accusando i cristiani di occupazione abusiva, e forti della complicità di parlamentari e amministratori locali, i latifondisti si sono impadroniti di negozi e campi coltivati da cui la comunità ricavava di che vivere. Inoltre essi rivendicano il terreno su cui sorgono una chiesa, di cui hanno profanato Bibbie e croci, e un cimitero, in cui hanno già demolito 150 tombe. Evidentemente la legge sulla blasfemia vale solo per l’Islam e non si applica quando a essere dissacrati sono i simboli cristiani o di altre religioni. Dopo l’omicidio del governatore del Punjab, Salman Taseer, ucciso a gennaio per aver criticato la legge sulla blasfemia, e quello del ministro per le minoranze, Shahbaz Bhatti, cattolico, assassinato il 2 marzo scorso, la tensione continua a salire in tutto il Paese.

Anche in India l’intolleranza infierisce sui simboli cristiani. A Mumbai l’amministrazione comunale ha avviato la demolizione di 729 croci situate lungo le strade e le piazze cittadine. Il 3 marzo sono state abbattute tre croci e un’edicola in tre diversi distretti nonostante le rassicurazioni del governo statale che due giorni prima aveva dichiarato che nessun simbolo cristiano sarebbe stato toccato. L’aggravante a quanto sta accadendo è data dal fatto che la legge consente solo la rimozione delle strutture sacre costruite su suolo pubblico dopo il 1964, mentre quasi tutte le croci, incluse quelle già demolite, risalgono ad anni antecedenti, come dimostra la documentazione da tempo presentata alle autorità comunali dalla comunità cristiana. Per di più molte delle croci non costituiscono intralcio alla viabilità e all’edificazione di nuove strutture, il che fa decadere le motivazioni addotte dagli amministratori comunali per l’abbattimento.

In Malaysia, Paese a maggioranza islamica, la Federazione dei cristiani sta invece protestando per il rifiuto del governo di consentire la distribuzione di 30mila Bibbie scritte in lingua malay, bloccate in un porto del Borneo, perché in esse ci si riferisce a Dio usando il termine ‘Allah’. Come riportato dall’agenzia di stampa Asia News, il problema nasce dalla posizione del governo secondo cui l’uso del termine ‘Allah’ in testi non islamici “potrebbe confondere i musulmani e addirittura condurli alla conversione al cristianesimo”. Nel 2009 un tribunale aveva invece stabilito che i cristiani malesi possono usare il termine ‘Allah’, come hanno fatto nel corso di almeno quattro secoli, ma il governo è ricorso in appello contro il verdetto e una nuova udienza non è stata ancora fissata. Nel frattempo la sentenza ha scatenato la collera degli estremisti islamici che nel gennaio 2010 hanno attaccato 11 chiese.

In Cina a creare problemi ai cristiani sono i funerali del vescovo sotterraneo di Xiwanzi, Monsignor Andrea Hao Jinli, deceduto il 9 marzo. Il villaggio di Gonghui dove si svolgeranno le esequie è stato isolato dalla polizia che blocca tutte le strade d’accesso per impedire l’afflusso di fedeli desiderosi di porgere un estremo omaggio alla salma. Allo stesso modo, un anno fa le autorità avevano tentato di frenare la partecipazione popolare ai funerali del vescovo coadiutore Monsignor Leo Tao Liang, ai quali tuttavia presenziarono oltre 5.000 persone. Negli anni la diocesi di Xiwanzi ha subito sequestri di chiese e l’arresto di numerosi sacerdoti e fedeli. Lo stesso Monsignor Andrea Hao Jinli, ordinato sacerdote nel 1943, è stato condannato nel 1958 a dieci anni di carcere seguiti da dieci anni in un lager per essere “rieducato tramite il lavoro”.

Per finire, gravi episodi di intolleranza si sono verificati in Etiopia. A partire dal 2 marzo, su istigazione dal gruppo islamico radicale Kwarej, sono stati sferrati ripetuti attacchi ai cristiani evangelici di Asendabo, nel centro del paese, accusati di aver dissacrato il Corano. Dapprima sono state bruciate tre chiese al grido di “Allah akbar” (Dio è grande). Poi, nonostante l’intervento della polizia federale, sono state distrutte altre nove chiese, le abitazioni di due predicatori e molte altre proprietà di fedeli evangelici. Infine la stessa sorte è toccata a un orfanotrofio, a una scuola e agli uffici di un’altra chiesa. Nei disordini decine di cristiani sono stati feriti e uno ha perso la vita. Inoltre le violenze hanno indotto molte famiglie a cercare temporaneo scampo lontano da casa: gli sfollati sarebbero circa 3mila.


«Migrazione non stravolga l'identità culturale» di Massimo Introvigne, 14-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Il 12 marzo Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i sindaci dell'Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani), con i quali ha condiviso alcune importanti riflessioni sulla Dottrina sociale della Chiesa. Il Papa ha ricordato anzitutto il «particolare legame che esiste tra il Papa, vescovo di Roma e Primate d’Italia, e la Nazione italiana, la quale ha proprio nella variegata molteplicità di città e paesi una delle sue caratteristiche». In effetti, «la prima idea che viene alla mente incontrando i Rappresentanti dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani, è quella dell’origine dei comuni, espressioni di una comunità che si incontra, dialoga, fa festa e progetta insieme, una comunità di credenti che celebra la Liturgia della domenica, e poi si ritrova nelle piazze delle antiche città o, nelle campagne, davanti alla chiesetta del villaggio».

A sorpresa il Pontefice ha citato un curioso riferimento alla Messa di un poeta massone e anticlericale, Giosuè Carducci (1835-1907), il quale «in un’ode sulla gente della Carnia, richiama: "del comun la rustica virtù / Accampata all’opaca ampia frescura / Veggo, ne la stagion de la pastura / Dopo la messa il giorno de la festa…"». Il brano poetico è occasione per Benedetto XVI di evocare e insieme auspicare un'Italia dove ogni paese possa essere davvero «una comunità fraterna dove, ad esempio, parrocchia e comune siano ad un tempo artefici di un modus vivendi giusto e solidale, pur in mezzo a tutte le tensioni e sofferenze della vita moderna».

Questa immagine di una nazione che vive nelle sue mille comunità locali è lo spunto per una riflessione del Papa su un problema dibattuto: come coniugare in Italia unità e diversità? Benedetto XVI risponde che «la molteplicità dei soggetti, delle situazioni, non è in contraddizione con l’unità della Nazione, che è richiamata dal 150° anniversario che si sta celebrando. Unità e pluralità sono, a diversi livelli, compreso quello ecclesiologico, due valori che si arricchiscono mutuamente, se vengono tenuti nel giusto e reciproco equilibrio». Tale equilibrio può essere garantito solo se si rispettano i due principi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa: il principio di sussidiarietà e il principio di solidarietà. «Due principi che consentono questa armonica compresenza tra unità e pluralità sono quelli di sussidiarietà e di solidarietà, tipici dell’insegnamento sociale della Chiesa».

Il Pontefice ha voluto ricordare che la «dottrina sociale ha come oggetto verità che non appartengono solo al patrimonio del credente, ma sono razionalmente accessibili da ogni persona», così che la Chiesa proponendoli a tutti non realizza un'indebita ingerenza ma propone principi universali che valgono per cattolici e non cattolici, credenti e non credenti. «Su questi principi - spiega il Papa - mi sono soffermato anche nell’Enciclica Caritas in veritate, dove il principio di sussidiarietà è considerato "espressione dell’inalienabile libertà umana". Infatti, "la sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità" (n. 57).

Come tale, "si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano" (ibid.)». Sussidiarietà e solidarietà vanno unite, non contrapposte. «"Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno"».

La Dottrina sociale della Chiesa non è solo per gli Stati. Ha qualcosa da dire anche ai comuni. «Questi principi vanno applicati anche a livello comunale, in un duplice senso: nel rapporto con le istanze pubbliche statali, regionali e provinciali, così come in quello che le autorità comunali hanno con i corpi sociali e le formazioni intermedie presenti nel territorio. Queste ultime svolgono attività di rilevante utilità sociale, essendo fautrici di umanizzazione e di socializzazione, particolarmente dedite alle fasce emarginate e bisognose». Tra le formazioni intermedie presenti nei comuni «rientrano anche numerose realtà ecclesiali, quali le parrocchie, gli oratori, le case religiose, gli istituti cattolici di educazione e di assistenza». Il Papa chiede «che tale preziosa attività trovi sempre un adeguato apprezzamento e sostegno, anche in termini finanziari».

La natura di tale richiesta va però ben compresa: «La Chiesa non domanda privilegi, ma di poter svolgere liberamente la sua missione, come richiede un effettivo rispetto della libertà religiosa». Il rispetto di questo principio «consente in Italia la collaborazione che esiste fra la comunità civile e quella ecclesiale». Non dovunque, come sappiamo, è così. «Purtroppo, in altri Paesi le minoranze cristiane sono spesso vittime di discriminazioni e di persecuzioni». Al riguardo, anche i comuni possono svolgere un'opera utile con iniziative a favore dei cristiani perseguitati nel mondo. Il Papa esprime così «apprezzamento per la mozione del 3 febbraio 2011, approvata all’unanimità dal vostro Consiglio Nazionale, con l’invito a sensibilizzare i Comuni aderenti all’Associazione nei confronti di tali fenomeni e riaffermando, allo stesso tempo, "il carattere innegabile della libertà religiosa quale fondamento della libera e pacifica convivenza tra i popoli"».

Una parte di rilievo del discorso pontifico è stata dedicata al «tema della "cittadinanza"», definito «uno degli ambiti fondamentali della vita e della convivenza delle persone». Oggi, ha detto il Papa, «la cittadinanza si colloca, appunto, nel contesto della globalizzazione, che si caratterizza, tra l’altro, per i grandi flussi migratori». Sull'immigrazione la Dottrina sociale della Chiesa invita a tenere conto sia dei diritti degli immigrati, alla luce del principio di solidarietà, sia del diritto della società che li ospita non solo alla sicurezza ma anche alla propria identità culturale e religiosa, che non deve essere stravolta. Di fronte all'immigrazione, ha detto il Pontefice, «bisogna saper coniugare solidarietà e rispetto delle leggi, affinché non venga stravolta la convivenza sociale e si tenga conto dei principi di diritto e della tradizione culturale e anche religiosa da cui trae origine la Nazione italiana».

Il riferimento dunque non è solo alla sicurezza ma anche all'identità, e a una identità non solo culturale ma anche religiosa, con un preciso rilievo sul rischio che questa sia «stravolta». Il Papa sa che «questa esigenza è avvertita in modo particolare da voi che, come amministratori locali, siete più vicini alla vita quotidiana della gente». Il Pontefice ha voluto citare in tema di sindaci la figura del servo di Dio Giorgio La Pira (1904-1977), definito «cristiano esemplare e amministratore pubblico stimato». La difesa dell'identità, ha concluso il Pontefice, rischia oggi di diventare impossibile senza un riferimento esplicito alla religione «perché – come dice il Salmo – "se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella" (127,1)».


TERREMOTO GIAPPONE/ Il mistero cercato lontano da questa vita di Lorenzo Albacete, martedì 15 marzo 2011, da il sussidiario.net

Il disastroso terremoto che ha devastato il Giappone l’11 marzo ha dominato i notiziari degli scorsi giorni, accantonando anche ciò che sta accadendo in Medio Oriente. La maggior parte degli articoli e dei video si è concentrata sulle vittime, sui danni fisici ed economici provocati dal terremoto e sull’ampiezza dell’area colpita dal terremoto e dallo tsunami.

L’unico articolo che mi ricordi abbia trattato sui grandi media quella che possiamo chiamare la dimensione culturale o spirituale della tragedia è apparso sul blog di Cnn il 12 marzo, a firma Marnie Hunter.

Nell’articolo si fa notare, come avevo notato anch’io, la differente reazione dei giapponesi di fronte a questa tragedia paragonata ad altre simili catastrofi, come ad Haiti, in Cile o anche in Italia non così tanto tempo fa. La Hunter sottolinea la mancanza di bande di saccheggiatori e di segni di sciacallaggio o di risse, neppure per procurarsi il cibo.

Per capire questa situazione, si è rivolta a due autorità in materia di Giappone e della sua cultura. Uno è Gregory Pflugfelder, Direttore del Centro Donald Keene di cultura giapponese presso la Columbia University, secondo il quale il saccheggio semplicemente non c’è in Giappone. La ragione, dice è “il sentimento di essere in primo luogo e soprattutto responsabili per la comunità”.
La seconda autorità citata nell’articolo è Merry White, professoressa di antropologia all'Università di Boston e studiosa di cultura giapponese. Il vero problema, afferma, non è che non ci sono saccheggi in Giappone, ma che ce ne sono in America. La ragione dei saccheggi in America è “l’alienazione sociale e la differenza tra le classi”. Tuttavia, “anche in Giappone vi è qualche alienazione sociale e differenza tra classi”, ma, secondo lei, “la violenza e l’appropriarsi di ciò che appartiene ad altri non sono approvate, né sostenute culturalmente.”

Non sono certo della validità di questa osservazione, perché non penso che si possa dire che violenza e furto godano di approvazione sociale negli Stati Uniti, e tuttavia accadono. Perciò, il fatto che ciò non succeda invece in Giappone non può essere interamente dovuto alla disapprovazione sociale.

Il Dottor Pflungfelder si trovava alla National Diet Library (Biblioteca nazionale del Parlamento) a Tokyo quando il terremoto ha colpito e, con sua grande sorpresa, la biblioteca è rimasta aperta un’ora e mezza oltre il suo normale orario. Attraverso questo ha capito la gravità di ciò che stava accadendo! Attorno a mezzanotte la metropolitana è stata riaperta e si è formata un fila ordinata di persone per salire sui treni, invece che una folla che cercava di uscirne.

Il Dottor Pflungfelder dice che “l’ordine e la disciplina sociale sono così inculcate in tempi normali che penso sia molto facile per i giapponesi continuare a comportarsi come sono abituati normalmente, anche in situazioni di emergenza.” Invece, attribuisce il comportamento degli americani al sistema economico capitalista, perché si tratta di un sistema in cui ciascuno protegge il suo interesse personale, e da questo deriva comunque un certo ordine.
Questa osservazione mi pone qualche problema sulla base della mia personale esperienza dei comportamenti dopo l’attacco dell’11 settembre. Almeno qui a New York si è verificato l’opposto, con la solidarietà verso gli altri e la volontà di aiutarli fino a punte di eroismo.

Voglio anche aggiungere che all’epoca del terremoto ad Haiti, i giornalisti notarono che chi era stato colpito, perdendo tutto e con probabilità minime di avere un alloggio o un rifugio per molto tempo, si rivolgeva alla religione per trovare conforto e perfino gioia in mezzo a un tale disastro. Si ricordi la cattedrale di Port au Prince crollata sui fedeli, compreso l’arcivescovo che lì morì. Ciò nonostante, la gente continuava a vedere Dio accanto a sé e la domanda “perché tutto ciò è successo?” non è mai stata posta.

Credo che la ragione di tutto questo sia la conferma cristiana della cultura religiosa haitiana, dove il mistero è riconosciuto nelle cose di questa vita, nello spazio e nel tempo, come parte dell’esperienza della nostra umanità. La dottrina dell’Incarnazione implica che l’uomo e Cristo condividano lo stesso destino. Per questo, Dio non è sottoposto a quella domanda quando accadono simili disastri, perché chi crede in Cristo sperimenta che Dio è al fianco degli uomini.
Nella cultura religiosa del Giappone, il mistero è cercato lontano da questa vita, dalla carne, dallo spazio e dal tempo. Perciò la realtà non è vista come amica. Quando arriva un evento disastroso, ciò che diventa importante è fronteggiare con coraggio la tragedia, perché non ci si aspetta che la realtà sia amichevole.

Per me, comunque, si è mostrata ancora una volta la forza umanizzante del cristianesimo in confronto al senso religioso, che si deve rassegnare a non poter mai trovare da solo il mistero che afferma il valore della vita umana.
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CRONACA - IL CASO/ Janet Porter (Usa): così il battito di un bimbo "uccide" gli abortisti - INT. Janet Porter - martedì 15 marzo 2011, ilsussidiario.net

In tema di interruzione di gravidanza, le leggi più conosciute pongono dei limiti dettati dalle settimane trascorse dal concepimento, riconoscendo solo ai feti più sviluppati lo status di persona e le relative tutele. Tutto questo potrebbe adesso cambiare in modo radicale.


Siamo negli Stati Uniti, precisamente nel piccolo Stato dell'Ohio, già protagonista in passato di decise azioni e iniziative pro-life. E' in ballo una iniziativa legislativa che, a prescindere di come andrà a finire, porterà a un acceso dibattito e punterà ancora una volta i riflettori sulla lotta per il diritto alla vita e contro l'aborto.  Si tratta dell'"Heartbeat Bill", il "decreto legislativo del battito del cuore", e a proporlo ufficialmente è il governatore dello Stato, Lynn Watchman. Di cosa si tratta? In breve: secondo la proposta di legge, se un feto ha il cuore funzionante, è in grado cioè di rilasciare i battiti del suo cuore, tale feto non potrà essere abortito. Ed essendo che il battito del cuore è possibile avvertirlo 18 giorni dopo il concepimento, automaticamente sarà vietato per le donne abortire dopo il 18esimo giorno.

Un abbassamento della possibilità di abortire clamoroso. "Ogni qualvolta il battito del cuore di un feto sarà identificato" ha detto il governatore alla stampa "quel bambino sarà protetto dall'aborto. Una cosa molto semplice. Dato che nel campo medico le tecnologie continuano a progredire, la protezione dei feti si avvicinerà sempre di più al momento stesso della concezione, cosa che per molti di noi è l'obiettivo finale nella difesa della vita". Per dare forza a questa iniziativa, i promotori di questo decreto (tra cui l'associazione pro-life Faith2Action) hanno deciso di portare in aula un testimone particolarissimo, il più giovane testimone della storia: un feto di 18 giorni. In modo da far sentire ai giudici il battito del suo cuore. Il presidente di Faith2Action, Janet Porter ha così spiegato l'iniziativa: "Per la prima volta in un'aula di tribunale, i legislatori stessi saranno in grado di vedere e sentire il battito del cuore di un bambino dentro alla pancia materna. Esattamente come i battiti di tutti quei cuori che l'Heartbeat Bill vuole proteggere". Abbiamo contattato personalmente Janet Porter per farci spiegare a fondo il significato della battaglia "Heartbeat Bill".


Cosa è esattamente Faith2Action? È una organizzazione solo religiosa o anche politica? Vi partecipano anche rappresentanti dei partiti americani?

Faith2Action è il più grande network in America di organizzazioni per la vita e la famiglia che operano insieme online per vincere la guerra culturale in favore della vita, della libertà e della famiglia. Abbiamo anche collegamenti internazionali, che speriamo continuino a crescere attraverso le mail che arrivano sul nostro sito  www.f2a.org. Questo è anche lo strumento per far conoscere chi lavora per questo scopo nel luogo in cui uno vive, così da unire gli sforzi.
Dall’esterno, ad esempio qui in Italia, la divisione tra pro-life e pro-choice viene identificata come una divisione tra Repubblicani, pro-life, e Democratici, pro-choice. È veramente così o vi sono impostazioni diverse nei partiti?

Senz’altro tra le piattaforme programmatiche dei due partiti la divisione è quella indicata: i Repubblicani sostengono la vita, i Democratici l’aborto. Detto questo, all’interno dei partiti vi sono posizioni diverse: vi sono Repubblicani pro aborto e Democratici pro-life. Le stesse diversità vi sono all’interno della Commissione che sta esaminando lo Heartbeat Bill.

The Heartbeat Bill si basa sul riconoscimento del battito del cuore del feto, già verificabile prima dell’invenzione degli ultrasuoni. Come mai questo fatto “naturale” ha la possibilità di essere preso in considerazione laddove vengono rifiutate tante altre evidenze scientifiche?

I tribunali non hanno mai considerato questo particolare aspetto, che è unico e peculiare rispetto ad altri elementi presi in considerazione da leggi e tribunali. Per esempio, la protezione dal momento in cui il feto è definito “vitale”, cioè in grado di vivere fuori dell’utero, può salvare diversi bambini, ma dipende dalle tecnologie disponibili e può essere diverso a seconda dei tempi e dei luoghi; infatti non tutti gli ospedali sono avanzati in uguale misura. Il battito del cuore, invece, o lo si sente o non lo si sente, come per ogni altro paziente in qualsiasi ospedale di ogni parte del mondo.  Non è l’inizio della vita, ma è un “indicatore” della vita, come sentire il polso. Non si seppellisce una persona il cui cuore batte, perché vuol dire che è viva. Questa legge porrà fine alla discriminazione e porterà allo stesso comportamento anche nei confronto degli inizi della vita.


Su quale principio giuridico si basa la vostra proposta di legge e in che modo si oppone alle leggi vigenti sull’aborto?

Nel periodo in cui sono stata Direttore Legislativo di Right to Life in Ohio (NdT: Diritto alla Vita, organizzazione pro-life), una dozzina di anni fa, ho lavorato per far approvare una serie di leggi migliorative, ad esempio sul consenso dei genitori, sul consenso informato delle donne con un periodo di sospensione di 24 ore, sul cosiddetto Fetal Homicide, quando una donna incinta viene uccisa, sui regolamenti clinici, sui finanziamenti, e la prima legge negli Stati Uniti che proibiva l’aborto con nascita parziale. Leggi molto buone, ma che rappresentano solo dei miglioramenti. Tutte insieme non danno la protezione che la legge sul battito del cuore assicurerà, fino a 20.000 bambini nel suo primo anno in Ohio.


Se lo Heartbeat Bill verrà approvato quali cambiamenti introdurrà nel sistema giuridico americano? Un ricorso alla Corte Suprema e una sua possibile decisione negativa vedrebbero cancellata la legge?

Se lo Heartbeat Bill verrà approvato, cambierà tutto. Un ricorso alla Corte sarebbe un bene, perché per ottenere prima bisogna chiedere. Anche se all’inizio perdessimo, come nel 1995 con la messa al bando dell’aborto con nascita parziale, ci sono già altri Stati pronti a seguirci , come appunto successe allora. Erano 30 gli stati che avevano adottato una legge simile a quella dell’Ohio e la Corte Suprema prese in esame quella dello Stato del Nebraska, e disse “no”. Ma non tutto era perduto e, come nella parabola della vedova molesta, noi abbiamo continuato a bussare alla porta della Corte e anche un “giudice iniquo” alla fine ci ha reso giustizia. Sette anni dopo, nel 2007 la Corte disse finalmente “sì”, proibendo quel metodo brutale di aborto chiamato “con nascita parziale”.


Un feto può avere il battito cardiaco ed avere gravi danni cerebrali. Se la legge viene approvata, pensa che questi bimbi saranno curati meglio? O ci sarà la possibilità di altri casi Terry Schiavo?

La legge fermerà la discriminazione. Come una persona disabile o ammalata ha ancora un cuore che batte e continua a essere fatta a immagine di Dio e ha diritto a essere curata (il che include, naturalmente, acqua e cibo), così dovrà essere per il bambino. Colgo l’occasione per scusarmi a nome del mio Paese per l’orrenda tragedia e per il messaggio che abbiamo mandato a tutto il mondo con quell’atto crudele, che non sarebbe stato tollerato per un cane, con cui è stata fatta morire di fame e sete una donna disabile. Ho combattuto per la vita di Terry fino all’ultimo.


La Chiesa Cattolica ha sempre difeso la vita fin dal suo concepimento. Pensa che questa posizione sia ancor più “giusta” rispetto allo Heartbeat Bill o piuttosto questa legge rappresenta principalmente un tentativo di diminuire il numero degli aborti?

La posizione della Chiesa è giusta ed è confermata da ogni libro di biologia, embriologia e fetologia: la vita comincia con il concepimento. Come un vigile del fuoco di fronte a un edificio che brucia, stiamo solamente cercando di porre in salvo più bambini possibili in un solo viaggio. Portati in salvo questi, torneremo per salvare anche gli altri.


Pensa che una iniziativa come la vostra finisca per radicalizzare il conflitto tra pro-choice e pro-life?

In effetti, chi è in favore dell’aborto detesta questa proposta di legge. Hanno perfino scritto che la considerano più “pericolosa” dei  Personhood Amendments (che cercano di proteggere il bambino dalla concezione). Di fronte a questa proposta non possono più usare le solite tattiche allarmistiche dello “stupro e incesto” e non funzione più neppure il loro mantra favorito della “scelta”, perché la proposta dice semplicemente: se senti il cuore del bambino battere, non fermarlo. È centrata sul bambino e, come il fondatore del National Right to Life e attuale presidente dell’International Right to Life, Dr. Jack Willke, ha testimoniato di fronte alla Commissione, potrà salvare il 90/95% dei bambini altrimenti destinati a essere abortiti.
 (Paolo Vites)

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L’Occidentale :“Sento dunque sono” - March 13th, 2011 - Cosa prova un feto prima di nascere? Di Carlo Bellieni - http://carlobellieni.com/

Cosa prova un feto prima di nascere? Ve lo sarete chiesti e chissà quali risposte avrete arzigogolato. Bene, a dare una risposta con i dati delle ultime ricerche scientifiche sono un gruppo di scienziati che operano direttamente in questo campo: non giornalisti che si interrogano, ma ricercatori che parlano. E lasciano a bocca aperta. Già, perché la vita fetale è ricca, colorata, appassionante: è la preparazione alla vita dopo l’uscita all’aria aperta, passaggio in cui non cambia proprio niente dal punto di vista sostanziale: il bambino sentiva suoni e sapori già prima di nascere: o credete che magicamente l’aria gli ha conferito per incanto i cinque sensi? Così, Vivette Glover da Londra, Benoit Bayle da Parigi, e altri scienziati da Canada, Stati Uniti, Italia, narrano quello che hanno scoperto e portano per mano dentro i misteri della nostra vita prenatale.

Il libro si intitola “Sento dunque sono”, a cura del sottoscritto, Edizioni Cantagalli. Il testo riprende idealmente il testimone lasciato anni prima da un testo analogo: “L’alba dei sensi”, pubblicato in Francia nel 1980 e aggiornato nel 2000, che lasciava molte domande in sospeso: è possibile il dolore nel feto? Come risentirà dello stile di vita della mamma? I gusti alimentari sono influenzati da quello che la mamma mangia in gravidanza? A queste domande ora siamo in grado di dare una risposta.

Il libro raccoglie anche ricercatori che danno le ultime novità sulle capacità della moderna ecografia fetale di mostrare gli stati comportamentali del feto, e l’ordine di comparsa temporale delle varie capacità. Verrà anche dettagliatamente mostrato come oggi si è anche in grado di eseguire interventi chirurgici sul feto, vero e proprio piccolo paziente, per curare alcune anomalie senza tirarlo fuori dall’utero.

Il testo è stato pensato chiedendo ai ricercatori non solo di mettere a disposizione le loro competenze di prima linea, con un linguaggio semplice e uno stile accattivante, ma anche chiedendo loro di raccontare come l’impatto con questo livello della vita umana li abbia interrogati, e forse cambiati.

Certo non è facile entrare nella mente di un piccolo feto, immedesimarsi con lui (o lei) per capire di cosa ha bisogno, quali sono gli stimoli giusti che gli devono arrivare e quali evitare. Ma questo libro ci porta per mano a scoprire quanto è nascosto nel pancione materno e quanto serve per restare meravigliati e magari già iniziare ad entrare in contatto e chiamare per nome prima ancora che nasca, questo piccolo nuovo membro di una famiglia.

Riportiamo qui un estratto dal capitolo “Quali sono i suoni che il feto è in grado di udire e imaparare?” di Barbara Sikilevsky, di Kingston, Canada.

“Poiché non sapevamo se il feto era in grado di udire, né a quali suoni avrebbe reagito, né l’intensità che essi dovevano avere per raggiungerlo attraverso l’addome e i tessuti della madre, iniziammo le nostre ricerche con un suono che, in base alla nostra esperienza, già suscitava reazioni nel neonato. All’epoca, uno dei metodi con cui esaminavamo i neonati per stabilire se erano in grado di udire consisteva nel produrre un forte suono dietro la loro testa per innescare e provocare una reazione. Il suono che abbiamo utilizzato per il feto era simile ai rumori statici della radio. Conteneva molte frequenze diverse e, se si innescava un modello accendi-spegni-accendi e spegni-accendi-spegni, per appena 2-3 secondi in tutto, provocava un aumento della frequenza cardiaca e dei movimenti nel neonato. Cercammo diversi livelli di intensità dei suoni e fummo ricompensati dal fatto che i nostri primi studi e quelli degli altri con feti a termine dimostravano che un’esposizione di breve durata a suoni relativamente forti provocavano un aumento della frequenza cardiaca e dei movimenti nel feto simili a quelli osservati nel neonato, che indicavano chiaramente che il feto era in grado di udire.

Successivamente cercammo di sapere quando iniziava a mettersi in atto per la prima volta nei feti la facoltà uditiva. Per scoprirlo, ripetemmo il protocollo sperimentale con feti più giovani. Trovammo che, se avevano un’età gestazionale di circa 29 settimane, cioè circa all’inizio del settimo mese di gravidanza, i feti reagivano significativamente ai nostri suoni con un aumento del battito cardiaco e con movimenti corporei; queste manifestazioni non si verificavano se i feti erano più giovani. Questa osservazione ha permesso di collocare l’inizio della facoltà dell’udito a circa 29 settimane11, risultato simile a quello riscontrato nel 1936 dagli scienziati  che avevano utilizzato un cronometro e uno stetoscopio5. Questa collocazione temporale permette di situare lo sviluppo dell’apparato uditivo a un’età gestazionale compresa tra la ventiseiesima e la ventottesima settimana.



PAPA/ Stefano Alberto: Benedetto porta l’umanità di Cristo davanti ai nostri occhi di INT. Stefano Alberto, martedì 15 marzo 2011, il sussidiario.net

Nel suo nuovo libro dedicato a Gesù di Nazareth, uscito a distanza di quattro anni dal primo, Benedetto XVI affronta i temi chiave della storia della salvezza, dall’ingresso a Gerusalemme fino ai giorni della passione, della morte in croce, della resurrezione e dell’ascesa al cielo di Gesù. Lo fa in un dialogo serrato con l’esegesi storico-critica degli ultimi due secoli, nel rispetto del metodo storico ma andando oltre esso, per presentare al lettore, nel solco della tradizione vivente della Chiesa, il cuore del cristianesimo.
«È un libro che coinvolge alla radice non solo il credente, ma ogni uomo che prenda sul serio le domande ultime della vita. Che cosa vuol dire che siamo salvati? Cosa vuol dire che Cristo si fa carico con la croce di tutto il male del mondo e di ogni uomo? Sono domande alle quali chiunque non abbia già chiuso l’orizzonte del suo cammino, deve prestare ascolto». A dirlo è Stefano Alberto, docente di Introduzione alla teologia nell’Università Cattolica di Milano, che il sussidiario ha incontrato alla vigilia di una conferenza pubblica di presentazione del libro insieme al teologo protestante Reiner Riesner, organizzata dal Centro Culturale di Milano.

Perché il Papa continua ad interrogarsi sulla figura di Cristo?

Questo libro nasce, come il Papa dice esplicitamente, innanzitutto dal suo cuore di uomo e di credente. Non a caso sulla quarta di copertina del primo volume sono riportati i versetti del salmo 27: «Di Te ha detto il mio cuore: “cercate il Suo volto”; il Tuo volto, Signore, io cerco». In questa grande ricerca emerge il profilo del grande professore, del pastore, del Papa.

Una questione di fede, ma anche di prospettiva culturale.

Il Papa lo dice nell’introduzione: duecento anni di interpretazione storico-critica hanno ormai dato ciò che di essenziale avevano da dire. Il fatto è che gli sviluppi di questo metodo esegetico hanno confinato nel passato la figura di Gesù.Quello che si tratta di fare, ora, è riproporre un’ermeneutica della fede: di provare cioè a leggere i testi dell’Antico e del Nuovo testamento relativi a Gesù, dal di dentro di un’ottica di adesione profonda alla fede. Una lettura che comprende, certamente, anche la prospettiva storica.

Ma perché il Gesù della storia deve incontrare il Gesù della fede? Se Cristo per il credente è una presenza reale oggi, cosa importa la fedeltà ai dettagli e alla narrazione storica dei testimoni?
Et incarnatus est, dice il Vangelo: il Verbo si è fatto carne. Ha scelto di entrare nel tempo e nello spazio. In un tempo e in uno spazio preciso, condividendo tutte le circostanze della storia dell’uomo. In questo senso il fatto storico, come già scriveva il Papa nell’introduzione del primo libro, non è un mero simbolo, ma è costitutivo dell’evento cristiano. Non a caso, nell’introduzione al volume appena uscito, Benedetto XVI nota che i presupposti razionalistici del metodo storico-critico restituiscono una figura di Cristo troppo relegata al passato per rendere possibile un rapporto personale con Lui. Qui comincia il lavoro del Papa: comunicare non una figura evanescente, da ultimo inincidente nella vicenda umana, ma il Gesù vivo, reale, presente oggi.

Qual è stato il grande errore culturale che ha pregiudicato il lavoro dell’esegesi moderna?

Pretendere di applicare i presupposti kantiani, quelli di una “religione nell’ambito della semplice ragione” e dunque di una ragione concepita come misura del testo sacro, alla Scrittura, dimenticando che essa va compresa «alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta», come ha spiegato il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum, la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione .

Ha trattato quindi la Scrittura alla pari di un qualsiasi reperto storico...

Sì. Col risultato di rompere l’unità della Scrittura, di spazzare via la tradizione viva con cui la Scrittura è stata letta nei secoli dalla Chiesa, e di dimenticare il principio dell’analogia della fede. Ha commesso l’errore di ridurre a priori quell’oggetto, trattandolo per quello che non è. Il caso più clamoroso è forse proprio quello di Rudolf Bultmann e del suo progetto di demitizzazione: l’approccio al testo sacro come mito. Ci si è dimenticati che la Sacra scrittura è cresciuta e cresce nel e dal soggetto vivo del popolo di Dio, in cammino nella storia.

Cosa ci insegna questo libro che non sappiamo o che abbiamo dimenticato?

Le rispondo con un piccolo episodio significativo. Il giorno della presentazione il giornale radio ne ha parlato dicendo, tra l’altro, che «il cristianesimo è l’incontro con Cristo vivo e presente». Proprio così! Una verità che sentita alla radio mi è apparsa spiazzante, inattesa, perché di solito, quando i media parlano del cristianesimo, vanno subito alle conseguenze morali e sociali. Lo sguardo del Papa è capace di questo, di far emergere la persona di Gesù in tutta la sua forza, come realtà viva e presente nella storia del mondo e nelle vicende dell’uomo, suscitando un senso profondo di gratitudine e ammirazione.

Il libro parla degli eventi decisivi della storia della salvezza, dall’ingresso di Gesù in Gerusalemme fino all’ascesa al cielo. Qual è il metodo di Benedetto XVI?
Una grande cura nel precisare e nel correggere, dove occorre, i risultati dell’esegesi, avendo sempre davanti la natura storica degli avvenimenti descritti, a partire da quello centrale della Resurrezione. Tutto ruota intorno ad essa, perché senza l’evento assolutamente unico e originale della Resurrezione non c’è il cristianesimo. Colpisce soprattutto la potente e organica unità della figura di Cristo, vero Dio e vero uomo. Sono commoventi le pagine dove questa umanità di Cristo e questo suo essere Figlio del Padre vengono portate con grande partecipazione davanti ai nostri occhi, davanti alla nostra ragione e alla nostra libertà.

La lettura di un libro come questo serve più alla fede o all’intelligenza?

Serve alla ragionevolezza della fede. La fede in Cristo non è un sentimento né uno sforzo volontaristico, ma è la grazia dell’incontro con una Presenza viva, il riconoscimento di una Presenza reale. In questo lavoro il Papa condensa secondo me in maniera mirabile la prima preoccupazione del suo pontificato: il fatto che la fede illumina la ragione e la ragione dà fondamento storico e reale alla fede. In moltissime pagine è un libro che coinvolge alla radice non solo il credente, ma ogni uomo che prenda sul serio le domande ultime della vita. Che cosa vuol dire che siamo salvati? Cosa vuol dire che Cristo si fa carico con la croce di tutto il male del mondo e di ogni uomo? Sono domande che chiunque non abbia già chiuso l’orizzonte del suo cammino, deve ascoltare. In questo senso la lettura richiede la «cordialità» di immedesimarsi nel percorso che il Papa propone, passo dopo passo.

Lei questa sera presenterà il libro insieme a Rainer Riesner, esegeta protestante della Scuola di Tubinga. Può anticipare qualcosa?

C’è un aspetto mi ha colpito fin dalla prima lettura. È un punto che Benedetto XVI aveva già richiamato programmaticamente nell’introduzione del primo volume, e sul quale anche Luigi Giussani insisteva molto: la necessità di guardare la persona di Cristo a partire dalla sua comunione col Padre. L’esplicitarsi di questa obbedienza fino al sacrificio supremo, fino alla resurrezione e all’ascensione dove Cristo siede alla destra del Padre, cioè al senso e alla radice ultima della realtà, mi pare di poter dire che sia il filo rosso che attraversa tutta l’opera.

Se dovesse segnalare, tra le tante possibili, le pagine che per la loro bellezza l’hanno colpita di più?

La parte sulla Resurrezione: è semplicemente straordinaria.


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Avvenire.it, 15 marzo 2011, BIOETICA E POLITICA, Elefante: «Legge indispensabile dopo la morte di Eluana» di Lucia Bellaspiga

Una legge, quella sulle Dat, di cui non si sentiva la mancanza, «perché già la Costituzione e l’intero impianto legislativo bastano a tutelare la vita di un soggetto incapace, dunque giuridicamente protetto». Eppure una legge resa «indispensabile» dal fatto che «il caso Englaro dimostra come, aggirando le norme, si è applicata l’eutanasia in Italia, dove l’eutanasia è reato». Così l’avvocato Rosaria Elefante, presidente dell’Associazione nazionale biogiuristi italiani, consulente giuridico dell’European Task Force che raccoglie i massimi specialisti in stato vegetativo, nonché legale di 34 associazioni di familiari di persone disabili.

Com’è stato possibile in Italia provocare la morte di una persona disabile sana, non in stato terminale e non attaccata a macchine?
Fare delle leggi sull’onda emozionale di un dibattito che nasce attorno a una persona simbolo com’era Eluana è sempre pericoloso. Mi riferisco al decreto della Corte d’Appello di Milano del luglio 2008, quello che ha autorizzato Englaro a togliere nutrizione e idratazione a Eluana, e che ha completamente disatteso le richieste della Cassazione. Il fatto è lampante. La sentenza della Cassazione autorizzava i giudici di Milano a disattivare il sondino solo in presenza di due presupposti: se lo stato vegetativo di Eluana fosse risultato "irreversibile in base a un rigoroso apprezzamento clinico, e non vi fosse alcun fondamento medico secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale che lasci supporre la benché minima possibilità di un recupero anche flebile della coscienza"; e poi che la sua volontà di morire, non avendo lei lasciato scritto nulla, potesse essere ricostruita "in base a elementi di prova chiari, univoci e convincenti che delineassero la sua personalità".

Sarebbe bastato che uno dei due presupposti cadesse perché Eluana si salvasse?
Sarebbe bastato. Ma i giudici non hanno eseguito quanto dovevano. Nell’acclarare il suo stato di salute, la Corte d’Appello di Milano non ha nominato un medico, anzi, ha preso come proprio specialista il medico di parte di Englaro, dottor Defanti, cosa che non si fa nemmeno per un banale incidente d’auto, figuriamoci per decidere della vita di una persona. Addirittura si è affidata alla certificazione di stato vegetativo stilata da Defanti nel 2002 e l’ha considerata "passata in giudicato", quindi "inappellabile". Non solo: anziché rifarsi agli standard scientifici internazionali, i giudici milanesi hanno citato la letteratura medica ferma al 1994: in medicina e soprattutto nelle conoscenze sugli stati vegetativi è preistoria.

Essendo giudici e non medici, forse non lo sapevano.
Insieme alle 34 associazioni ho rivolto un appello al Procuratore generale, cioè a colui che tutela i deboli purché "la questione sia di interesse comune"... ma nonostante l’appello fosse firmato da migliaia di familiari, la vita di una persona, per di più disabile e indifesa, è stata ritenuta dalla Corte Costituzionale "questione privata". Allora ho fatto personalmente un esposto alla Procura di Milano, dimostrando l’inesistenza dei due presupposti richiesti dalla Cassazione e chiedendo che su Eluana si svolgessero veri accertamenti, soprattutto considerati i mutamenti indiscutibili avvenuti nella sua persona, come la ricomparsa delle mestruazioni dopo 14 anni di amenorrea, o evidenti segnali di coscienza testimoniati da molti indizi.

Torniamo all’altro requisito che la Cassazione ha imposto ai giudici milanesi di appurare: la volontà di Eluana.
Anche qui gravi inadempienze: anziché indagare in modo reale, la curatrice speciale, avvocato Alessi, fin dall’inizio si è appiattita ufficialmente sulle posizioni di Englaro, limitandosi a risentire le tre testimoni portate da lui in giudizio illo tempore.

Stesso errore, dunque: fonti vecchie e nessun approfondimento.
È il gennaio 2009 - Eluana è ancora viva - quando io personalmente a Lecco raccolgo una marea di testimonianze che raccontano un’Eluana diversa da quella descritta da Englaro, ma guarda caso tutte quelle voci, e pure una lettera molto importante, non vengono prese in considerazione dai giudici. Tra l’altro queste indagini erano compito non mio ma dei giudici milanesi, che invece non hanno svolto l’attività imposta loro dalla Cassazione. Allora ho fatto un esposto alla Procura di Milano, ricordando che la volontà di Eluana non era stata affatto ricostruita, e che nessuno specialista era stato chiamato ad appurare se in lei ci fosse "un qualche sia pur flebile recupero della coscienza" nonostante ormai esistessero tecniche incontrovertibili come la Risonanza magnetica funzionale, che avrebbe tagliato la testa al toro.

Che cosa avrebbe potuto evidenziare?
Se il suo era uno stato vegetativo, cosa che non possono certo dire un avvocato, un giurista o il signor Englaro. Per 4 anni io ho visitato Eluana e, avendo seguito per 15 anni i casi di stato vegetativo, assicuro che lei aveva una sua coscienza. Ma io non sono uno specialista e la mia parola vale quanto la loro: ripeto, era un dovere procedere con una diagnostica strumentale avanzata.

La risposta della Procura?
Mi è arrivata il 6 marzo 2009... quando Eluana era morta da quasi un mese: "Quello che fanno i giudici non si può sindacare". Un obbrobrio giuridico senza precedenti. La mia non è una impostazione cattolica, guai se il diritto fosse condizionato dalla religione, ma alla luce di tutto questo non si può non auspicare una nuova legge che ribadisca l’intero impianto del nostro ordinamento giuridico. Secondo la Costituzione, articolo 32, ognuno è libero di rifiutare le cure e lasciarsi morire, ma della propria patologia, ed Eluana non è certo morta di stato vegetativo. E dov’è finito il Codice Penale, che impone al cittadino di soccorrere qualsiasi persona non più capace di provvedere a se stessa, pena la reclusione? Lì c’era una disabile e moriva di sete e di inedia. Davanti a un’équipe di medici e infermieri.


Il crocifisso non lede la libertà religiosa - Laicità in pericolo? La Cassazione dice no - Resi noti i motivi per cui la Suprema corte ha confermato la rimozione del giudice Tosti, che si rifiutava di tenere udienze in presenza della croce - DA MILANO DAVIDE RE, Avvenire, 15 marzo 2011

L’ esposizione del crocifis­so nelle aule dei tribuna­li, e negli uffici pubblici, non può essere avvertita come un pericolo per la libertà religiosa.

Lo ha stabilito la Cassazione, nel­le motivazioni della sentenza con la quale ha confermato la rimo­zione dalla Magistratura del giu­dice di Camerino Luigi Tosti, che si rifiutava di tenere udienze in aule nelle quali era presente ap­punto il crocifisso o in alternati­va alla rimozione, chiedeva di po­ter esporre anche la Menorah, sim­bolo della fede e­braica.

Il dispositivo deci­so dalla Suprema corte è però più ar­ticolato. Per i giu­dici infatti per e­sporre negli uffici pubblici, tra i qua­li rientrano le aule di giustizia, nuovi simboli religiosi diversi dal crocifis­so «è necessaria u­na scelta discrezionale del legi­slatore, che allo stato non sussi­ste ». Non solo, dopo aver respin­to la pretesa di Tosti per quanto riguarda la richiesta di esporre il simbolo ebraico accanto al croci­fisso, la Cassazione rileva che una simile scelta potrebbe anche es­sere fatta dal legislatore, valutan­do però anche il rischio di “possi­bili conflitti” che potrebbero na­scere dall’esposizione di simboli di identità religiose diverse. In pratica, il crocifisso è l’unico sim­bolo religioso ammesso all’inter­no degli spazi pubblici.

«È vero che sul piano teorico il principio di laicità – scrive anco­ra la Cassazione – è compatibile sia con un modello di equipara­zione verso l’alto (laicità per ad­dizione) che consenta ad ogni soggetto di vedere rappresentati nei luoghi pubblici i simboli del­la propria religione, sia con un modello di equiparazione verso il basso (laicità per sottrazione)». Tale scelta legislativa, però, pre­suppone, spiega ancora la Cassa­zione, «che siano valutati una plu­ralità di profili, primi tra tutti la praticabilità concreta e il bilan­ciamento tra l’esercizio della li­bertà religiosa da parte degli u­tenti di un luogo pubblico con l’a­nalogo esercizio della libertà reli­giosa negativa da parte dell’ateo o del non credente, nonché il bi­lanciamento tra garanzia del plu­ralismo e possibili conflitti tra una pluralità di iden­tità religiose tra lo­ro incompatibili».

«Quindi la presen­za di un crocifisso – ribadiscono defi­nitivamente i giu­dici della Suprema corte – non può costituire necessa­riamente minaccia ai propri diritti di libertà religiosa per tutti quelli che frequentano un’aula di giustizia per i più svariati motivi e non so­lo necessariamente per essere ta­li utenti dei cristiani». Con la con­seguenza che il giudice Tosti non poteva «rifiutare la propria pre­stazione professionale solo per­ché in altre aule di giustizia (ri­spetto a quella in cui egli opera­va) era presente il crocifisso».

Secondo Tosti, invece, la presen­za del simbolo della cristianità violava i diritti di libertà religiosa e di coscienza degli utenti di quel­le aule. A Tosti, tuttavia, era stata messa a disposizione un’aula sen­za alcun simbolo ma lui, aveva u­gualmente rifiutato di tenere u­dienza, chiedendo la rimozione della croce da tutti i tribunali ita­liani e aprendo così il contenzio­so giuridico, che ieri appunto la Cassazione ha risolto.