1) Il compito del medico? Lo indica il codice penale di Tommaso Scandroglio, 30-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
2) Libia, anche la Cei chiede lo stop alle armi di Riccardo Cascioli, 28-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3) L'accoglienza ha dei criteri di Luigi Negri e Riccardo Cascioli, 31-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
4) Sant'Alfonso, modello di nuova evangelizzazione di Massimo Introvigne, 30-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
5) EDITORIALE - Grossman vs. Saviano di Pigi Colognesi, giovedì 31 marzo 2011, il sussidiario.net
6) Il "Cortile" di Parigi. Un bilancio - Il cardinale Ravasi e l'agnostica Julia Kristeva a confronto. E con loro decine di altri studiosi credenti e non credenti. A Chicago, nel Quebec, a Stoccolma le prossime tappe del dialogo voluto da Benedetto XVI di Sandro Magister
7) J’ACCUSE/ Quel supermercato della genetica dove si vende il feto "perfetto" - Carlo Bellieni - giovedì 31 marzo 2011 – il sussidiario.net
8) Avvenire.it, 31 marzo 2011 - Fine vita: dire sì alla normativa sulle Dat - Per una legge che sia utile di Domenico Delle Foglie
9) La norma? Nel segno del dialogo - di Claudio Sartea - l’osservatorio – Una «giusta» soluzione giuridica deve far incontrare la volontà del paziente con l’etica clinica del medico. E il consenso non può essere finalizzato a richieste letali - Avvenire, 31 marzo 2011
10) «L’eutanasia sfascia le radici laiche della società» di Andrea Galli - Manfred Lütz, psichiatra tedesco, autorevole voce della Pontificia Accademia per la Vita, espone i motivi razionali che impediscono di considerare «disponibile» l’integrità della persona «Se per legge si indica ad anziani e disabili la via d’uscita a disgregarsi è il nostro senso di umanità» - Avvenire, 31 marzo 2011
11) «Decido io». Ma i capricci non dettano legge– Dalla 194 sull’aborto all’ipotesi di eutanasia legalizzata: così un’interpretazione deformata del principio di autodeterminazione ha influito sull’opinione pubblica. E ha distorto la lettura del dettato costituzionale sull’assistenza medica di Tommaso Scandroglio - Avvenire, 31 marzo 2011
12) morte in culla - «Nella vita prenatale è nascosta la risposta a molte malattie» di Daniela Pozzoli, Avvenire, 31 marzo 2011
Il compito del medico? Lo indica il codice penale di Tommaso Scandroglio, 30-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Intorno alla querelle molto attuale del rapporto medico-paziente spesso si insiste giustamente che il primo debba operare in scienza e coscienza. A questo riguardo però è opportuno ricordare che l’operato del medico non è svincolato da qualsiasi regola: agire secondo scienza e coscienza significa rivolgersi alla cura dei pazienti all’interno di un perimetro normativo disegnato dal Codice di deontologia medica e prima ancora previsto dal nostro ordinamento giuridico. In merito a quest’ultimo vi sono alcune norme, di carattere penale e non, che interessano da vicino la professione medica. Vediamone qualcuna.
Non impedire uguale a provocare.
L’art. 40 del Codice Penale recita: Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Il medico ha come responsabilità giuridica di impedire la morte del paziente o la lesione della sua salute. Se non si adopera con tutti i mezzi possibili e necessari per scongiurare eventi dannosi per il paziente incorre nel reato sopra citato. Ovviamente questo non significa che se il malato non guarisce o peggio muore il medico si trovi nei guai. I problemi di ordine penale ci saranno solo se il medico non si sia attivato diligentemente, non se i risultati dei suoi sforzi andranno a buon fine. L’onere di prestare le cure in punta di diritto non sussiste, e quindi non si applica l’art. 40, se il paziente cosciente rifiuta le cure stesse. Il rifiuto dei trattamenti sanitari deve avvenire però senza collaborazione attiva del medico. La signora Maria, la donna che nel 2004 morì a seguito del rifiuto dell’amputazione del piede, fece tutto da sé: non c’è stata collaborazione dei medici i quali si sono fermati di fronte al suo rifiuto tutelato dalla legge. Fu lei a sottrarsi alle cure, non furono i medici a sottrarle le terapie. Nel caso di Welby invece ci sono state condotte positive e collaborative da parte del dott. Riccio al fine di provocarne la morte – sedazione e stacco del respiratore – ed è per questo motivo che il GIP La Viola configurò il reato di omicidio del consenziente. Questo è l’aspetto importante: la rinuncia dei trattamenti deve quindi avvenire senza l’apporto positivo del medico.
Immunità penale?
Leggiamo un altro articolo del Codice Penale, il 50: “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne.” Qualcuno applicando questa disposizione sui temi di fine vita potrebbe tradurre il suo contenuto così: se io medico stacco la spina con il consenso dell’avente diritto, cioè del paziente, non posso essere incriminato per omicidio del consenziente. Questa interpretazione è erronea perché l’articolo in oggetto fa esplicitamente riferimento a quei diritti di cui il titolare può validamente disporre. La vita è bene indisponibile ex artt. 579, 580 cp e 5 cc e dunque questo articolo non si può applicare nel caso in cui il medico con l’assenso del moribondo provoca la sua morte. Se lo fa si configura il reato di omicidio del consenziente.
La legittima difesa.
L’art. 52 cp concerne la legittima difesa: “Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta”. C’è una dottrina che sostiene questa interpretazione assai interessante e suggestiva: anche di fronte al rifiuto cosciente del paziente in merito alla somministrazione di terapie salvavita il medico può legittimamente intervenire applicando le stesse appellandosi all’istituto della legittima difesa. Io medico difendo il bene vita del paziente contro l’aggressione ingiusta che proviene dal titolare del bene medesimo, cioè il paziente, proprio perché la vita è un bene indisponibile, bene quindi che non è soggetto alla disponibilità assoluta di nessuno, nemmeno del malato terminale.
Le cinture di sicurezza.
La qualificazione della vita come “bene indisponibile” poi motiva altre scelte normative che hanno carattere coattivo. La legge 78/833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale vieta trattamenti sanitari contro la volontà del paziente salvi i casi di necessità. C’è da chiedersi se un “caso di necessità” non sia proprio una situazione in cui si paventi un serio pericolo di morte. In questo frangente quindi il medico potrebbe sottoporre a trattamenti salva vita il paziente stante il suo dissenso. La stessa ratio giuridica la ritroviamo ad esempio nella disciplina normativa che regola i parametri di sicurezza sui luoghi di lavoro e nelle disposizioni sulla circolazione stradale: obbligo di mettere le cinture di sicurezza, limiti di velocità, distanze di sicurezza etc. Tutti comportamenti da assumere coattivamente anche contro la volontà del lavoratore o del guidatore proprio al fine di tutelare la sua salute e la sua vita. Allora il parallelo è quasi scontato: se vi è un obbligo di prevenzione in capo al lavoratore e al guidatore per evitare possibili, ma non certi, rischi alla sua salute-vita, a maggior ragione sarà legittimo imporre cure salvavita laddove con certezza il paziente versi in stato di pericolo di morte. Detto in altri termini se sono legittime le misure coattive per tutelare anche il solo bene “salute” da possibili danni futuri, a fortiori saranno ancor più legittime quelle misure coattive mediche per tutelare il bene “vita”, più importante del bene “salute”, da un pericolo attuale e letale. Questa conclusione logica però cozza con l’art. 32 della Costituzione e la disciplina del consenso informato che permettono di non sottoporsi a trattamenti non voluti. La contraddizione rimane evidente e per ora insanabile.
Argomenti indigesti.
Certo, questi sono argomenti duri da mandar giù per la nostra sensibilità ultra libertaria dove l’individuo è padrone assoluto della sua vita. Sapere che qualcuno può metterci le mani addosso contro la nostra volontà ci infastidisce non poco. Però occorre domandarsi, e sta qui il punto, se la nostra volontà coincide con il nostro bene oggettivo.
Libia, anche la Cei chiede lo stop alle armi di Riccardo Cascioli, 28-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
«L’invocato e improvviso intervento internazionale (in Libia, ndr) – ideato sotto l’egida dell’Onu e condotto con il coinvolgimento della Nato – ha fatto sorgere interrogativi e tensioni. (…) Ad intervento ampiamente avviato, auspichiamo che si fermino le armi, e che venga preservata soprattutto l’incolumità e la sicurezza dei cittadini garantendo l’accesso agli indispensabili soccorsi umanitari, in un quadro di giustizia». Così il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Angelo Bagnasco, ha parlato il 28 marzo nella prolusione che ha aperto il Consiglio Permanente della Cei unendosi a quanto già espresso dal Papa nell’Angelus del 27 marzo.
«Noi crediamo – ha proseguito Bagnasco – che la strada della diplomazia sia la via giusta e possibile, forse tuttora desiderata dalle parti in causa, premessa e condizione per individuare una “via africana” verso il futuro invocato soprattutto dai giovani. Ma anche per evitare possibili spinte estremiste che avrebbero esiti imprevedibili e gravi».
Si tratta di una novità importante perché solo otto giorni fa, il 20 marzo, il presidente della Cei, se non proprio entusiasta dell’intervento militare, si era mostrato comunque aperto facendo notare ai giornalisti che «il Vangelo ci indica il dovere di intervenire per salvare chi è in difficoltà. Se qualcuno aggredisce mia mamma che è in carrozzella io ho il dovere di intervenire». Di mezzo c’è però una settimana di bombardamenti che sono andati ben oltre l’obiettivo di difendere i civili, anzi: hanno aggiunto ulteriori sofferenze alla popolazione libica, provocando nuove vittime e la fuga di parte degli abitanti che cercando di trovare riparo fuori dalle città colpite.
Il presidente della Cei pare inoltre preoccuparsi di quello che verrà dopo un’eventuale sconfitta del leader libico Gheddafi, seppure il raìs non è mai nominato nel suo intervento. «Esiti imprevedibili e gravi» che verrebbero da «spinte estremiste» sono infatti da scongiurare, per questo è fondamentale non gettarsi in avventure belliche che hanno già dimostrato di essere controproducenti. Bagnasco ha quindi sottolineato di avere «personalmente» espresso al vicario apostolico di Tripoli, monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, «la vicinanza dell’Episcopato italiano e delle nostre comunità» attraverso la preghiera per tutto il popolo libico.
Un ulteriore motivo di preoccupazione nasce dal fatto che la questione della Libia è poi, per Bagnasco, da inserirsi nei più vasti «rivolgimenti» che attraversano tutto il Nordafrica e il Medio Oriente, di fronte ai quali deve essere ammesso «un evidente deficit di conoscenza circa la situazione interna ai vari Paesi». Un’ignoranza, aggiunge il presidente dei vescovi, dovuta al fatto che si è tenuto lo sguardo rivolto «più sull’immobilità dei regimi» che non «sulla vitalità dei popoli». E comunque si è rivelata «un’illusione» la speranza che «il mutamento potesse compiersi al riparo dalla violenza».
L'accoglienza ha dei criteri di Luigi Negri e Riccardo Cascioli, 31-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
In questi giorni drammatici per il continuo arrivo di barconi di immigrati a Lampedusa, si sono sentiti e letti molti discorsi anche contrastanti sull'accoglienza e sul dovere di solidarietà, soprattutto riferiti al compito dei cattolici. Noi pensiamo sia il caso anzitutto di confrontarsi con quanto dice su questo tema il Catechismo della Chiesa cattolica, cercando di capirne le implicazioni. Per questo proponiamo un passaggio del capitolo dedicato all'immigrazione tratto dal libro scritto da monsignor Luigi Negri e Riccardo Cascioli, "Perché la Chiesa ha ragione", Lindau 2010 (pp.151-156).
Mentre le singole soluzioni politiche possono essere opinabili, il magistero della Chiesa indica chiaramente i criteri con cui affrontare i vari problemi legati alla questione della migrazione. E non è corretto insistere su uno dimenticando gli altri. Troviamo una sintesi importante del magistero nel Catechismo della Chiesa cattolica (Ccc) al paragrafo 2241 che fissa tre criteri fondamentali.
Il primo è il dovere delle nazioni ricche ad accogliere lo straniero «alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita». Di fronte al povero e al sofferente non è lecito per nessuno girare la testa altrove o lasciarlo morire in nome di principi astratti. È dunque importante, ad esempio, garantire adeguate strutture di prima accoglienza, magari favorendo – in base al principio di sussidiarietà – quelle organizzazioni della società civile impegnate su questo fronte che dimostrano competenza ed efficienza in materia. Non c’è dubbio che questo sia l’ambito proprio per l’azione delle organizzazioni ecclesiali e di volontariato. E allo Stato è lecito chiedere di non ostacolare questa azione di carità.
È giustizia anche la rapidità nelle procedure di «screening» per stabilire chi abbia il diritto, e chi non, di rimanere sul suolo del Paesi di accoglienza. E per chi diventa regolare non si possono creare artificiosamente altre difficoltà alla permanenza, o intralci burocratici che lo trattano sempre e comunque da intruso. D’altra parte, chi non ha il diritto di rimanere deve essere rimpatriato, sempre in condizioni di sicurezza ma senza ambiguità e tentennamenti. La politica del chiudere un occhio, o il foglio di via senza controllo, favoriscono oggettivamente clandestinità e criminalità danneggiando anche gli immigrati regolari. Anche la certezza del diritto è un modo per rispettare i diritti umani.
In ogni caso, restando all’articolo del catechismo, il fondamentale diritto di accoglienza incontra due limiti.
Il primo è definito dall’inciso che segue il dovere di accoglienza, ovvero «nella misura del possibile». Vale a dire che l’ingresso di immigrati non può essere a briglie sciolte, anzi è dovere dello Stato regolare il flusso migratorio secondo le possibilità del Paese di accoglienza. Si stabilisce qui un’importante distinzione tra la persona del migrante – nei confronti del quale va sempre rispettato il «diritto naturale» e va protetto – e la politica migratoria che, nel regolare i flussi, deve stabilire un limite alla permanenza di stranieri in un determinato Paese. Di più: le politiche migratorie devono tenere conto della situazione e dei bisogni dei Paesi di accoglienza quanto di quelle dei Paesi di origine dei migranti.
Nel caso dei barconi che arrivano sulle coste siciliane, ad esempio, un conto è il dovere di soccorrere delle persone in mare, altra cosa è il garantirne la permanenza in Italia, che va invece regolata in base ai flussi decisi dal governo e da altre norme di diritto internazionale, quali quella sull’asilo politico.
Su questo punto ci si deve giustamente chiedere quali siano però i criteri con cui stabilire la «misura del possibile». Ci soccorre in questo il Compendio della Dottrina Sociale (Cds) che, al n. 298, parla di flussi migratori da regolare «secondo criteri di equità ed equilibrio» in modo che «gli inserimenti
avvengano con le garanzie richieste dalla dignità della persona umana». L’obiettivo è quello di facilitare l’integrazione dell’immigrato «nella vita sociale» del Paese che lo accoglie, nell’orizzonte del bene comune. Il Cds fa riferimento esplicito al Messaggio di Giovanni Paolo Il per la Giornata Mondiale della Pace 2001, secondo cui si tratta di «coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti» (n. 13).
Le politiche migratorie, dice ancora il Catechismo, vanno definite «in vista del bene comune». Quest’ultimo concetto, «il bene comune», non va ristretto alle questioni implicate nell’accoglienza o meno di un immigrato, ma deve avere un orizzonte ampio, che consideri tutti i fattori legati alle persone e alle società coinvolte. Dobbiamo aver chiaro, infatti, che il problema dell’immigrazione si pone in quanto un precedente diritto fondamentale è stato violato. Quello di poter vivere nella propria terra. Non stiamo ovviamente parlando di chi «sceglie» di andare all’estero per cogliere migliori opportunità professionali, ma di chi è «costretto» ad abbandonare il proprio Paese spinto dalla fame. A questo aspetto si deve dedicare maggiore attenzione, tenendo anche conto che
la migrazione priva i paesi di origine di una importante forza lavoro, in genere delle migliori energie e professionalità. Un fenomeno che tende a rendere questi paesi ancora più poveri e fragili, come ha chiaramente detto il demografo e rettore dell’Università della Sorbona di Parigi, Gérard- François Dumont, in risposta a chi vede l’immigrazione come una risposta al calo demografico dei paesi europei: «Se l’Europa attira forza lavoro dai Paesi in via di sviluppo, questo significa anche che da quei Paesi attira le forze migliori, impedendo di fatto lo sviluppo di quei Paesi. Pensare perciò di risolvere i nostri problemi con l’immigrazione è un metodo molto egoista: se si vuole davvero aiutare lo sviluppo del Terzo Mondo, si deve anche trovare il modo di non danneggiarlo»
Non a caso il già citato articolo del Compendio invita esplicitamente a «favorire tutte quelle condizioni che consentono accresciute possibilità di lavoro nelle proprie zone di origine». Se è vero che la migrazione è un fenomeno naturale – tanto più in questa epoca di globalizzazione – ciò non toglie che parte integrante di una politica migratoria debba essere quella di eliminare o ridurre le cause che stanno all’origine della migrazione: siano esse cause di sottosviluppo o di atteggiamenti criminali di singoli governi o tutte e due le cose insieme (ricordiamo quando Turchia e Albania
incoraggiavano l’afflusso di clandestini sulle coste italiane).
Parte di una seria politica migratoria è dunque anche la revisione dei meccanismi della cooperazione internazionale – italiana ed europea – e dell’economia mondiale in modo da promuovere un vero sviluppo dei Paesi poveri.
Un secondo limite posto dal Catechismo attiene ai doveri dell’immigrato che «è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, a obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri». L’accoglienza non è dunque una strada a senso unico e lo Stato ha il dovere di vigilare sull’osservanza di questa indicazione. La difficoltà o addirittura l’aperto rifiuto a integrarsi nella nostra cultura, proprio di alcuni gruppi, costituisce dunque un problema oggettivo alla permanenza in Italia e, più in generale, in Europa. Integrarsi non vuoi dire ovviamente omologarsi, assumere in tutto e per tutto la nostra cultura, ma conoscerla e rispettarla. Imparare la lingua italiana, ad esempio, è il primo passo in questo senso. L’integrazione nella scuola italiana, per i bambini, è altrettanto essenziale e a questo non contribuiscono certo classi della scuola pubblica dove i bambini italiani sono in minoranza.
Ma questo impone che il Paese di accoglienza sia chiaro nella propria identità o la riscopra, facendo rispettare con decisione i valori – culturali, spirituali, sociali e giuridici – che lo fondano. Come ha spiegato nel 2000 l’allora arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, in una nota pastorale:
"I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solamente economici e previdenziali (che pure hanno il loro peso). Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l’identità propria della nazione. L’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un’inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto. In vista di una pacifica e fruttuosa convivenza, se non di una possibile e auspicabile integrazione, le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono ugualmente propizie. E le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione. In ogni caso, occorre che chi intende risiedere stabilmente da noi sia facilitato e concretamente sollecitato a conoscere al meglio le tradizioni e l’identità della peculiare umanità della quale egli chiede di far parte".
Lo Stato ha il dovere quindi di far rispettare le sue leggi, che nascono da una ben precisa cultura: non ci può essere spazio per la poligamia, per l’applicazione della sharìa (la legge coranica) anche se limitata ad alcuni casi, per il burkha laddove la legge vieta di circolare con il volto coperto, men che meno per la rimozione dei crocifissi dai luoghi pubblici o per il reclutamento di terroristi.
Sant'Alfonso, modello di nuova evangelizzazione di Massimo Introvigne, 30-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Proseguendo nel ciclo di catechesi sui santi del XVII e XVIII secolo, Benedetto XVI ha presentato il 30 marzo la figura di sant'Alfonso Maria de' Liguori (1696-1787), un santo di rara completezza che fu insieme grande teologo moralista, predicatore e vescovo, evangelizzatore delle persone più semplici nel Meridione d'Italia e sacerdote molto attento alla forza evangelizzatrice della cultura popolare, tanto che - come il Papa ha ricordato - «è l'autore delle parole e della musica di uno dei canti natalizi più popolari in Italia e non solo: Tu scendi dalle stelle».
Di nobile famiglia napoletana, dotatissimo per gli studi, a soli sedici anni era già laudari in diritto civile e canonico. «Era l’avvocato più brillante del foro di Napoli: per otto anni vinse tutte le cause che difese». Ma - già allora - non era tutto oro quello che sembrava luccicare nei tribunali. «Nel 1723, indignato per la corruzione e l’ingiustizia che viziavano l’ambiente forense, abbandonò la sua professione - e con essa la ricchezza e il successo - e decise di diventare sacerdote, nonostante l’opposizione del padre».
Con lo stesso zelo con cui aveva studiato il diritto, studiò tutti i campi della teologia, della storia della Chiesa, della spiritualità. Nel 1726 fu ordinato sacerdote. Nell'ambito della Congregazione diocesana delle Missioni Apostoliche, scelse di evangelizzare «gli strati più umili della società napoletana, a cui amava predicare, e che istruiva sulle verità basilari della fede. Non poche di queste persone, povere e modeste, a cui egli si rivolgeva, molto spesso erano dedite ai vizi e compivano azioni criminali. Con pazienza insegnava loro a pregare, incoraggiandole a migliorare il loro modo di vivere».
Il risultato fu a dir poco straordinario: «nei quartieri più miseri della città si moltiplicavano gruppi di persone che, alla sera, si riunivano nelle case private e nelle botteghe, per pregare e per meditare la Parola di Dio, sotto la guida di alcuni catechisti formati da Alfonso e da altri sacerdoti, che visitavano regolarmente questi gruppi di fedeli. Quando, per desiderio dell’arcivescovo di Napoli, queste riunioni vennero tenute nelle cappelle della città, presero il nome di "cappelle serotine". Esse furono una vera e propria fonte di educazione morale, di risanamento sociale, di aiuto reciproco tra i poveri: furti, duelli, prostituzione finirono quasi per scomparire».
Questa azione del giovane sant'Alfonso, ha detto il Papa, ha molto da insegnarci: è un modello per l'attuale progetto della nuova evangelizzazione. «Anche se il contesto sociale e religioso dell’epoca di sant’Alfonso era ben diverso dal nostro, le "cappelle serotine" appaiono un modello di azione missionaria a cui possiamo ispirarci anche oggi per una "nuova evangelizzazione", particolarmente dei più poveri, e per costruire una convivenza umana più giusta, fraterna e solidale». E nel santo napoletano è assente ogni clericalismo. Aveva ben chiaro che «ai sacerdoti è affidato un compito di ministero spirituale, mentre laici ben formati possono essere efficaci animatori cristiani, autentico lievito evangelico in seno alla società».
Da questo giovanile periodo napoletano il santo apprende l'arte di evangelizzare, che pensa però di applicare in altri ambiti. «Dopo aver pensato di partire per evangelizzare i popoli pagani, Alfonso, all’età di 35 anni, entrò in contatto con i contadini e i pastori delle regioni interne del Regno di Napoli e, colpito dalla loro ignoranza religiosa e dallo stato di abbandono in cui versavano, decise di lasciare la capitale e di dedicarsi a queste persone, che erano povere spiritualmente e materialmente», per i cui bisogni nel 1732 fondò la Congregazione religiosa del Santissimo Redentore, i Redentoristi.
Nel 1762 fu nominato Vescovo di Sant’Agata dei Goti, ministero che, in seguito alle malattie che lo tormentavano, lasciò nel 1775, per concessione del Papa Pio VI (1717-1799). «Lo stesso Pontefice, nel 1787, apprendendo la notizia della sua morte, avvenuta dopo molte sofferenze, esclamò: "Era un santo!". E non si sbagliava».
Sant'Alfonso de' Liguori è anzitutto uno dei più grandi teologi morali, se non il più grande, della storia della Chiesa, il cui ricchissimo insegnamento - ha detto il Papa - «esprime adeguatamente la dottrina cattolica, al punto che fu proclamato dal Papa Pio XII [1876-1958] "Patrono di tutti i confessori e i moralisti"».
La teologia morale di sant'Alfonso si precisa nella lunga controversia con il rigorismo dei giansenisti. «Ai suoi tempi - spiega il Papa - si era diffusa un’interpretazione molto rigorista della vita morale anche a motivo della mentalità giansenista che, anziché alimentare la fiducia e la speranza nella misericordia di Dio, fomentava la paura e presentava un volto di Dio arcigno e severo, ben lontano da quello rivelatoci da Gesù. Sant’Alfonso, soprattutto nella sua opera principale intitolata "Teologia Morale", propone una sintesi equilibrata e convincente tra le esigenze della legge di Dio, scolpita nei nostri cuori, rivelata pienamente da Cristo e interpretata autorevolmente dalla Chiesa, e i dinamismi della coscienza e della libertà dell’uomo, che proprio nell’adesione alla verità e al bene permettono la maturazione e la realizzazione della persona».
Questo insegnamento teorico diventa subito suggerimento pratico. «Ai pastori d’anime e ai confessori Alfonso raccomandava di essere fedeli alla dottrina morale cattolica, assumendo, nel contempo, un atteggiamento caritatevole, comprensivo, dolce perché i penitenti potessero sentirsi accompagnati, sostenuti, incoraggiati nel loro cammino di fede e di vita cristiana. Sant’Alfonso non si stancava mai di ripetere che i sacerdoti sono un segno visibile dell’infinita misericordia di Dio, che perdona e illumina la mente e il cuore del peccatore affinché si converta e cambi vita».
Non si tratta di problemi solo del Settecento. «Nella nostra epoca, in cui vi sono chiari segni di smarrimento della coscienza morale e – occorre riconoscerlo – di una certa mancanza di stima verso il Sacramento della Confessione, l’insegnamento di sant’Alfonso è ancora di grande attualità».
Ma sant'Alfonso, Dottore della Chiesa, non è stato solo eminente teologo. I suoi sussidi per la preghiera, molto semplici e gradevoli, «hanno contribuito a plasmare la spiritualità popolare degli ultimi due secoli. Alcune di esse sono testi da leggere con grande profitto ancor oggi, come "Le Massime eterne", "Le glorie di Maria", "La pratica d’amare Gesù Cristo", opera – quest’ultima – che rappresenta la sintesi del suo pensiero e il suo capolavoro».
Come tutti gli altri santi presentati nelle catechesi del Papa, che non si stanca di tornare sempre sul punto, sant'Alfonso «insiste molto sulla necessità della preghiera, che consente di aprirsi alla Grazia divina per compiere quotidianamente la volontà di Dio e conseguire la propria santificazione. Riguardo alla preghiera egli scrive: "Dio non nega ad alcuno la grazia della preghiera, con la quale si ottiene l’aiuto a vincere ogni concupiscenza e ogni tentazione. E dico, e replico e replicherò sempre, sino a che avrò vita, che tutta la nostra salvezza sta nel pregare". Di qui il suo famoso assioma: "Chi prega si salva" ("Del gran mezzo della preghiera e opuscoli affini. Opere ascetiche II", Roma 1962, p. 171)».
Non si può trascurare, ha detto il Papa, di ricordare il ruolo privilegiato che per sant'Alfonso ha l'adorazione eucaristica. «Tra le forme di preghiera consigliate fervidamente da sant’Alfonso spicca la visita al Santissimo Sacramento o, come diremmo oggi, l’adorazione, breve o prolungata, personale o comunitaria, dinanzi all’Eucaristia. "Certamente – scrive Alfonso – fra tutte le devozioni questa di adorare Gesù sacramentato è la prima dopo i sacramenti, la più cara a Dio e la più utile a noi... Oh, che bella delizia starsene avanti ad un altare con fede... e presentargli i propri bisogni, come fa un amico a un altro amico con cui si abbia tutta la confidenza!" ("Visite al SS. Sacramento ed a Maria SS. per ciascun giorno del mese. Introduzione")».
Il Signore e la Madonna sono al centro della spiritualità raccomandata da sant'Alfonso. «La spiritualità alfonsiana è infatti eminentemente cristologica, centrata su Cristo e il Suo Vangelo. La meditazione del mistero dell’Incarnazione e della Passione del Signore sono frequentemente oggetto della sua predicazione. In questi eventi, infatti, la Redenzione viene offerta a tutti gli uomini "copiosamente". E proprio perché cristologica, la pietà alfonsiana è anche squisitamente mariana. Devotissimo di Maria, egli ne illustra il ruolo nella storia della salvezza: socia della Redenzione e Mediatrice di grazia, Madre, Avvocata e Regina. Inoltre, sant’Alfonso afferma che la devozione a Maria ci sarà di grande conforto nel momento della nostra morte. Egli era convinto che la meditazione sul nostro destino eterno, sulla nostra chiamata a partecipare per sempre alla beatitudine di Dio, come pure sulla tragica possibilità della dannazione, contribuisce a vivere con serenità ed impegno, e ad affrontare la realtà della morte conservando sempre piena fiducia nella bontà di Dio».
Un ultimo aspetto che il Papa ha voluto sottolineare è che il santo «analogamente a san Francesco di Sales [1567-1622] – di cui ho parlato qualche settimana fa – insiste nel dire che la santità è accessibile ad ogni cristiano: "Il religioso da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercante da mercante, il soldato da soldato, e così parlando d’ogni altro stato" ("Pratica di amare Gesù Cristo. Opere ascetiche I", Roma 1933, p. 79)». Questa convergenza fra il savoiardo Francesco di Sales e il napoletano sant'Alfonso non può sorprendere. Infatti il Signore «suscita santi e dottori in luoghi e tempi diversi, che parlano lo stesso linguaggio per invitarci a crescere nella fede e a vivere con amore e con gioia il nostro essere cristiani nelle semplici azioni di ogni giorno, per camminare sulla strada della santità, sulla strada strada verso Dio e verso la vera gioia».
EDITORIALE - Grossman vs. Saviano di Pigi Colognesi, giovedì 31 marzo 2011, il sussidiario.net
Roberto Saviano ha chiesto ai suoi lettori di elencare «dieci motivi per cui vale la pena vivere». L’obiettivo è quello di fare una fotografia del nostro Paese in presa diretta. Lo scrittore sta ora pubblicando le liste che gli sembrano più significative, accompagnandole con qualche osservazione.
La cosa di gran lunga più “votata” è l’amore; che si tratti di quello per la propria donna o il proprio uomo, di quello per i figli, i genitori e anche di quella speciale forma di affetto che è l’amicizia. Subito dopo vengono i piccoli e grandi piaceri che danno un po’ di gusto all’esistenza: il cibo preferito (lo stesso Saviano, nella sua lista, mette al primo posto la mozzarella di bufala aversana), la canzone carica di ricordi, un paesaggio amato.
Quello che mi colpisce in questi elenchi è la mancanza di proporzione tra la domanda posta - qual è la ragione per cui vale la pena vivere - e le risposte date. Detto in altri termini, impressiona la mancanza ormai tranquillamente accettata della dimensione del permanente, del duraturo, dell’eterno. È sostanzialmente dato per scontato, anche se sottaciuto, che l’orizzonte della vita, per cui individuare delle ragioni, è quello esclusivamente temporale, finito, determinato. Come se ci fossimo rassegnati al fatto che, nell’assenza dell’infinito, l’unica cosa da cercare è la soddisfazione del momento passeggero. La caducità delle cose elencate non sembra più porre domande. Ma se ciò per cui vale la pena vivere è qualcosa che finisce, è davvero una ragione adeguata?
Nel grande romanzo Vita e destino di Vasilij Grossman c’è un capitolo spettacolare. È la lettera che la madre di uno dei personaggi principali scrive a suo figlio dal ghetto in cui, come ebrea, è stata rinchiusa. Si è resa conto che i nazisti hanno ormai deciso di applicare la soluzione finale; molti ebrei vengono quotidianamente caricati su carri, portati fuori dal ghetto, senza più farvi ritorno: sono fucilati ai bordi di grandi fosse comuni.
Scrivendo al figlio, Anna Semënovna Štrum, racconta dei suoi ultimi giorni di vita. L’incombenza della catastrofe finale non ha distrutto, anzi ha accresciuto, la sua voglia di vivere. Continua persino a dare lezioni di francese a un piccolo ebreo di cui conosce il tragico destino; gli dà i compiti per il giorno successivo, anche se quel giorno potrebbe essere quello in cui lui - o lei - verrà caricato sul carro e avviato ai bordi della fossa. Poi Anna cerca di spiegare al figlio Viktor ciò che la sua vita è stata, gli chiede perdono per gli errori commessi, gli indica dove potrà trovare il suo corpo.
Non sa come concludere la lettera; chi può trovare parole adeguate nel momento in cui ci si deve definitivamente congedare dalla persona più amata? Poi scrive così: «Caro Viktor, queste sono le ultime parole dell’ultima lettera di tua madre: Vivi, vivi, vivi per sempre». Non semplicemente «Vivi», ma «Vivi per sempre». In questo «per sempre» c’è tutta la lealtà del pur ateo Grossman rispetto alla domanda sulle «ragioni per cui vale la pena vivere», c’è la consapevolezza che solo la prospettiva dell’eterno è proporzionata alla acutezza della nostra esigenza. Gabriel Marcel scriveva infatti: «Ama chi dice all’altro: tu non puoi morire».
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Il "Cortile" di Parigi. Un bilancio - Il cardinale Ravasi e l'agnostica Julia Kristeva a confronto. E con loro decine di altri studiosi credenti e non credenti. A Chicago, nel Quebec, a Stoccolma le prossime tappe del dialogo voluto da Benedetto XVI di Sandro Magister
ROMA, 29 marzo 2011 – L'idea è stata di Benedetto XVI in persona. E anche il nome: Cortile dei gentili. "Al dialogo con le religioni – disse porgendo gli auguri natalizi alla curia romana, il 21 dicembre 2009 – deve oggi aggiungersi il dialogo con coloro ai quali Dio è sconosciuto".
E l'idea ha camminato. Dopo un prologo il 12 febbraio a Bologna, in quella che fu la prima grande università d'Europa, il Cortile dei gentili ha tenuto il suo primo incontro il 24 e 25 marzo a Parigi, nella "Ville Lumière", nella città simbolo dell'Illuminismo moderno.
Quei "gentili" che a Gerusalemme accedevano al tempio nello spazio che a loro, non ebrei, era riservato, oggi sono i lontani da Dio, i non credenti.
Ma il loro non è un cortile chiuso, come già Paolo disse scrivendo ai cristiani di Efeso. Perché Cristo ha abbattuto proprio quel muro di separazione che divideva ebrei e gentili, "per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, riconciliando tutti e due in un solo corpo".
A Parigi, questo si è voluto. Voci credenti ed agnostiche si sono confrontate amichevolmente. Su un terreno di frontiera. Ciascuno con i piedi piantati nel proprio spazio, ma pronto ad ascoltare le ragioni dell'altro.
Anche le sedi dell'incontro hanno avuto un significato simbolico. L'UNESCO, l'Institut de France, la Sorbona sono luoghi laici per eccellenza. Mentre il Collège des Bernardins è antico cenacolo di cultura cattolica. E la cattedrale di Notre-Dame è stata l'uno e l'altro insieme: il sagrato per tutti gli uomini di buona volontà e l'interno della cattedrale per la preghiera guidata dalla comunità di Taizé, a porte aperte.
Il programma delle due giornate, con i luoghi d'incontro e i profili degli oratori, sono in un sito in lingua francese creato per l'occasione, a cura del pontificio consiglio della cultura e dell'Institut Catholique de Paris:
> Parvis des gentils, 24-25 mars 2011
Il messaggio di Benedetto XVI ai partecipanti all'incontro, videotrasmesso su uno schermo sul sagrato di Notre-Dame, la sera del 25 marzo, è in questa pagina di www.chiesa:
> "Su questo sagrato del Dio Ignoto..."
Ma per meglio capire la visione che in Benedetto XVI sta dietro il Cortile dei gentili, occorre rileggere la parte finale del discorso che egli tenne il 12 settembre 2008 a Parigi, in quello stesso Collège des Bernardins che è stato teatro di uno degli incontri dei giorni scorsi:
"Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano 'verso l’esterno' – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago [...]: 'Ho trovato presso di voi un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio' (At 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere; che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui.
"La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. 'Verbum caro factum est' (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.
"La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. 'Quaerere Deum', cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura".
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Dopo l'esordio di Parigi il Cortile dei gentili, sotto la guida del cardinale Gianfranco Ravasi, ha già in cantiere altri appuntamenti in diversi luoghi del mondo: a Tirana, a Stoccolma, negli Stati Uniti, in Canada e anche in Asia, dove è meno diffuso un ateismo di marca occidentale ma sono presenti forme di religiosità non meno lontane dal Dio cristiano.
Qui di seguito, ecco un primo bilancio dell'incontro di Parigi, da parte del cardinale Ravasi, e un colloquio con una intellettuale francese, d'origine bulgara, Julia Kristeva, che è stata una delle partecipanti più convinte al Cortile.
Entrambe le interviste sono state raccolte da Lorenzo Fazzini per il quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire".
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RAVASI: "IL DIFFICILE SARÀ DIALOGARE CON GLI INDIFFERENTI"
D. – Eminenza, il primo Cortile si è chiuso. Un suo bilancio?
R. – Molto positivo, su più livelli. Anzitutto quello tematico, che è risultato molto creativo. Speriamo di raccogliere tutti gli interventi perché permettono di dare indicazioni per i futuri Cortili. In seconda battuta, si è avuta la massima espansione nell’espressione culturale, dal genere socio-politico all’Unesco, a quello intellettuale alla Sorbona, infine a quello tematico al Collège des Bernardins. In futuro pensiamo di affrontare temi più settoriali, ad esempio fede e scienza oppure fede e arte.
D. – Quale reazione ha intravisto nella cultura e società francese, sul tema del confronto tra atei e cattolici?
R. – Ieri il filosofo agnostico Jean Luc Ferry mi ha chiesto udienza in nunziatura, perché vuole a tutti i costi scrivere un libro assieme a me sul Vangelo di Giovanni. Una cosa impensabile tempo fa! Questo è un episodio emblematico perché da parte laica si desidera non solo interloquire, ma anche elaborare una riflessione comune con i credenti. Ferry è una delle figure più rilevanti della cultura francese. E lo stesso rettore della Sorbona mi ha interpellato sul tema della "laicité" chiedendomi cosa abbiamo da dire noi cattolici su tale argomento. L’ambiente laico francese si è rivelato molto più disponibile di quanto pensavamo al tema religioso, all’elaborazione teologica.
D. – Nessun timore da parte degli atei che la Chiesa tenti una sorta di evangelizzazione nascosta?
R. – No. Questa preoccupazione l’ho trovata solo nei media. Non ho trovato nessun timore da parte dei nostri interlocutori. D’altra parte tutta l’iniziativa del Cortile è stata presentata come un momento strettamente culturale.
D. – Come pensa di affrontare i "nuovi atei"?
R. – Da un lato esiste un ateismo ironico e sarcastico, ormai un elemento rilevante: Michel Onfray ne fa parte, ma ha scritto a un mio collaboratore per farci sapere che vuole dimostrare come la sua proposta non faccia parte di tale visione. Studieremo dunque anche queste forme di ateismo, "minori" da un punto di vista intellettuale, ma "maggiori" in termini di diffusione. Ma esiste poi il campo dell’indifferenza, a mio avviso più grave e importante. Interrogarsi sulle domande degli "umanisti" – come fa ad esempio Julia Kristeva –, per gli indifferenti rappresenta l’ultimo dei problemi. Su questo fronte non abbiamo nessun vero interlocutore. Disponiamo di pochi studi sul tema, a parte i lavori sociologici di Charles Taylor, per verificare le strutture profonde che stanno alla base di questo atteggiamento. Questo sarà il lavoro più difficile da fare per il futuro.
D. – Quale futuro per il Cortile?
R. – Modulare la proposta a seconda delle situazioni. Per esempio: in Québec o a Chicago, dove andremo prossimamente, dovremo restare sul versante della tecnologia e della scienza, e non con proposte così "alte" come quelle fatte qui a Parigi. Resta il problema della continuità: una proposta come il Cortile dovrebbe essere uno spazio normale nell’attività pastorale di ogni diocesi.
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KRISTEVA: "AMICI LAICI, NON ABBIATE PAURA DELLA RELIGIONE"
D. – Nel suo libro "Il bisogno di credere" lei scrive che l'umanesimo "non è contrario alle religioni e nemmeno d’accordo con esse". Può spiegare perché?
R. – Ci troviamo in un periodo in cui il dialogo tra cristiani e umanisti è molto importante. Niente facilita tale confronto: entrambe queste comunità sono in crisi di identità, risultano vulnerabili e hanno difficoltà con i propri interlocutori. Per me questo scambio è assolutamente necessario per far fronte alla crisi economica e politica attuale. Ma anzitutto va capito cosa intendo per umanesimo. Mi riferisco a qualcosa di separato dalla religione, che nasce nel Rinascimento con Erasmo, attraversa l’Illuminismo con Rousseau e arriva fino a noi, ad esempio nella psicoanalisi. Rappresenta quello che Hannah Arendt e Alexis de Tocqueville chiamavano "il filo interrotto della tradizione". Questo processo è irreversibile e oggi si confronta con il rischio della libertà, dell’individualità estrema e delle passioni liberate fino in fondo. Ma ci porta alla necessità di rileggere la nostra tradizione "interrotta", perché qualcosa è andato perso.
D. – Dunque anche l’umanesimo senza fede ha bisogno della religione?
R. – L’umanesimo deve trovare una ricchezza propria più profonda e un rapporto nuovo con i sistemi morali. Personalmente, questo significa un confronto con il cattolicesimo, con cui è possibile rifondare il mio stesso Illuminismo. I nuovi fenomeni moderni della questione femminile, dell’infanzia, dei giovani, pongono il problema di un nuovo rapporto con l’esperienza religiosa, ad esempio nella preghiera. Questo incontro non deve portare ad una semplice "grande fraternità" tra umanesimo e religioni, bensì alla rifondazione di tutta una tradizione. Di qui la necessità che anche le fedi, di solito dogmatiche, siano capaci di mettersi in gioco.
D. – In una conferenza nella cattedrale di Notre-Dame lei ha affermato che il cristianesimo ha praticato una rivoluzione nei confronti della sofferenza. Alla religione cristiana si rimprovera spesso un dolorismo anti-umano…
R. – Penso che il cristianesimo, soprattutto nella sua pratica, sia stato un’innovazione nella storia della comprensione verso il dolore. Secondo il cristiano la sofferenza non costituisce una sconfitta dell’uomo né causa un’esclusione dalla società del sofferente. Il dolore non costituisce una diminuzione dell’uomo né lo rende meno uomo. Anzi: diventa la strada per arrivare a Dio. Cristo, soffrendo, manifesta Dio stesso. L’essere umano che patisce diventa degno di accompagnamento e rispetto. Di qui si aprono due strade. Da un lato un certo dolorismo che porta ad eccessi (Nietzsche lo ha chiamato "vittimistico", oggi vien definito "cristianesimo bionegativo"). Dall’altro troviamo il cristianesimo trionfante che davanti al dolore fa scattare la compassione verso l’altro: è l’accompagnamento della carità. Succede nella vicinanza al povero, all’emarginato, al disabile. E di fronte alla deregulation morale del mondo degli show e del capitalismo, che legge tutto in senso produttivo, rischiamo di perdere il senso della vulnerabilità della persona. Abbiamo bisogno della tenerezza cristiana e dobbiamo far leva sul cristianesimo per sconfiggere quel mondo che vuole negare il dolore.
D. – Quali esempi vede di questa "tenerezza" cristiana?
R. – Penso a certe organizzazioni cristiane e cattoliche, che vengono in aiuto agli ultimi dove lo Stato non arriva. Oggi la figura che più mi sembra significativa è Jean Vanier. Per un anno ho intrattenuto con lui una corrispondenza sulla nostra esperienza del dolore, in particolare dell’handicap, a tutti i livelli: politico, sociale, intellettuale ed esistenziale. Jean Vanier è un esempio unico: ha fondato 140 comunità della sua "Arche". Prolunga quello che San Francesco aveva fatto secoli fa in Italia.
D. – Come valuta il "Cortile dei gentili"?
R. – È un'iniziativa molto bella, sebbene non conosca a quali risultati porterà. Si tratta di qualcosa di sorprendente, un inizio di quel dialogo che mi pare necessario, ma verso cui molti hanno timori. Sia i credenti che i non credenti camminano in punta dei piedi per paura di perdere. Mi viene in mente l’appello di Giovanni Paolo II, che incontrai in Bulgaria. Tutti ricordiamo il suo "Non abbiate paura". Egli si rivolgeva ai cattolici in riferimento al comunismo. E i risultati si son visti: nacque Solidarnosc e il Muro di Berlino cadde. Voglio dirlo ai miei amici laici: "Non abbiate paura della religione". Voi avete i modi per pensare il bisogno religioso senza la paura di essere inghiottiti dall’oscurantismo. Possiamo far meglio di Voltaire, superando gli abusi della religione e guardando il positivo del credere.
D. – "Rendere Dio presente nel mondo" è il manifesto dell’attuale papato. Vede un pericolo in questa prospettiva di Benedetto XVI?
R. – Quando parla di "rendere Dio presente nel mondo", il papa fa il suo mestiere: sarebbe bizzarro che non lo facesse! Del resto va sottolineato come solo il cristianesimo, tra i monoteismi, ha promosso l’idea dell’universalità. La politica di questo papa mi sembra vada in questa direzione. Le religioni monoteistiche sono esposte al rischio di imporsi come verità, anche violenta, ma al contempo propongono dentro di sé il tema della pluralità, il germe della diversità e dello straniero. Il mio augurio è che, dal confronto del Cortile, ci si possa avviare verso questa strada di universalità.
J’ACCUSE/ Quel supermercato della genetica dove si vende il feto "perfetto" - Carlo Bellieni - giovedì 31 marzo 2011 – il sussidiario.net
La rivista Nature del 20 gennaio 2011 lancia un grido d’allarme: “Siamo pronti per la inondazione di test genetici?”. Infatti, tra pochi anni sarà disponibile sul mercato un nuovo metodo per eseguire la diagnosi prenatale genetica: non più quella indiretta con valore probabilistico, che si fa con le ecografie e il rilievo di alcuni parametri nel sangue materno - il cosiddetto “triplo-test” o il “quadri-test; neppure andrà più tanto l’amniocentesi, che conta i cromosomi del feto andandoli a prendere dal feto stesso proprio nel pancione materno. Basterà fare un’analisi del sangue della mamma, per sapere non la “probabilità” della malattia fetale, ma la certezza, con l’analisi delle tracce dei cromosomi fetali nel sangue materno.
Ora ci troviamo di fronte a un paradosso: gli stessi media che mai o davvero di rado hanno ammesso che l’amniocentesi porta dei gravi rischi (dieci feti ogni mille amniocentesi muoiono come effetto collaterale, scusate se è poco!), adesso sono lì a raccontarli perché non vedono l’ora di aprire a questa innovazione. Temevano forse che la gente avrebbe pensato che il gioco non valeva la candela?
E c’è un altro paradosso: la diagnosi prenatale genetica finisce per essere uno screening, cioè non una diretta richiesta dell’interessata, ma routine, quasi automatica: chi tra le donne italiane non l’ha fatta nella forma del triplo test, o della misurazione della plica nucale o dell’amniocentesi? E questo è strano, perché uno screening si fa a tutta la popolazione quando c’è una convenienza economica o sociale, cioè una convenienza per lo Stato; ma che convenienza per lo Stato c’è nell’individuare i bambini Down prima della nascita, dato che non c’è terapia e che la maggior parte finisce in aborti?
La rivista Nature lancia un allarme: quando non sarà più così evidente per la complicatezza delle manovre - ad esempio, come nell’amniocentesi -, che si sta facendo un’operazione eticamente delicata, cioè da discutere approfonditamente, che marea di richieste verrà, e quali malattie verranno screenate, cioè ricercate a tappeto, con quello che qualcuno chiama “effetto retata”(Social Science and Medicine, novembre 2005)?
Il problema basilare si era posto anni fa, ma nessuno gli aveva dato importanza: la privacy del feto. Già, perché se di un bambino possiamo conoscere tutti i segreti genetici prima che nasca, un esito può essere che venga abortito; l’altro, che nasca e non abbia più segreti genetici, suo malgrado, cioè che il suo DNA sia pubblico, almeno ai genitori, senza che lui lo abbia richiesto. E i suoi genitori sapranno di cosa si ammalerà, e magari quali saranno le sue predisposizioni, dato che alcune sono legate proprio a tratti genetici. Vi sembra un’intromissione di poco conto, si domandano vari studiosi?
Ma anche fermandosi alle malattie, quali verranno ricercate con questo sistema? Solo quelle gravissime? E chi decide quali sono? E non pensate a come si sentiranno i malati di quelle malattie che vedono che esiste un decreto che impone di andare a cercare “quelli come loro” per non farli nascere, facendoli sentire come degli “sbagli della natura” o almeno come delle “imprudenze dei loro genitori”, comunque facendoli sentire “indesiderati”, fuori posto, dei “clandestini genetici”? Ma se invece si lascia carta bianca, dobbiamo sapere che si apre al supermercato della genetica, in cui chiunque potrà testare (ed eliminare) il figlio per ogni banale affezione, magari senza significato clinico.
Che società è quella che trasforma le donne, violentemente loro malgrado, in “sceriffi genetici”, in guardacoste che vigilano sull’accesso alla vita postnatale, respingendo gli indesiderati? Solo perché (la società) non vuole prendersi la bega di operare un’eugenetica esplicita? Nature spiega che questo sistema di diagnosi genetica può servire “a ridurre la sofferenza”, ma anche essere “un passo verso una regressione eugenetica”. Ma questo è il futuro. Già oggi il ricorso massiccio alla diagnosi genetica prenatale, che non serve a curare, ma a entrare nei segreti del DNA, e che finisce in aborto nella maggior parte dei casi di riscontro di anomalie, è un problema etico di non poco peso: sia per il diritto alla vita, ma anche perché quasi surclassa il diritto delle donne a scegliere, spingendole forzosamente dentro un meccanismo più forte di loro.
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Avvenire.it, 31 marzo 2011 - Fine vita: dire sì alla normativa sulle Dat - Per una legge che sia utile di Domenico Delle Foglie
Sì, questa è la stagione in cui per i cattolici è ancor più importante rendere visibile e tangibile la "cultura della vita". Una cultura che come cittadini italiani sappiamo di condividere con tanti non credenti, dentro e fuori le aule del Parlamento, nelle corsie degli ospedali come nelle aule scolastiche, nelle stanze dei tribunali e delle università, nelle famiglie come nelle associazioni e nei movimenti, nelle parrocchie e negli oratori come nei circoli, nei media tradizionali come nella rete, nei gruppi di amici e nelle più diverse articolazioni di questa nostra società complessa e postmoderna.
Una "cultura della vita" che può e deve ispirare – e accompagnare – i passi decisivi della legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) all’esame del Parlamento italiano. Una legge «necessaria e urgente» come ci ha ricordato il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco. Una legge che si rende «necessaria» se, da cittadini consapevoli, ci lasciamo guidare da quel sano principio di realtà che non dimentica quanto è accaduto solo due anni fa in questo Paese: a una persona indifesa furono sottratti acqua e cibo, in forza della sentenza creativa e intrusiva costruita da taluni magistrati. Dimenticare questa drammatica circostanza, o considerarla secondaria, questo sì che sarebbe colpevole agli occhi dei cittadini più avvertiti del valore di ogni singola vita, della sua insostituibilità e non replicabilità.
Ecco perché, nel considerare «urgente» una legge che ponga dei limiti a ogni tipo di scorciatoia eutanasica, il pensiero va allo stesso significato del concetto di democrazia, come strumento dei "moderni" per rappresentare tutti e garantire e tutelare i più deboli. Quando si fa osservare che ai credenti questa legge non aggiunge nulla, perché i credenti difficilmente farebbero ricorso allo strumento delle Dat, se non in funzione positiva, si dimentica che ciascun cittadino ha una responsabilità che travalica il proprio particolare. È questa responsabilità che spinge i credenti anche a servirsi di una legge che "cattolica" non è, per tutelare gli interessi dei più deboli che a tutti debbono stare sommamente a cuore.
Questa legge, infatti, risponde a un forte principio solidaristico, anche nella prospettiva di uno sviluppo sociale che vedrà crescere, a dismisura, la popolazione degli anziani. Uomini e donne che sempre più spesso si troveranno purtroppo a dover affrontare il "transito" in solitudine, a causa dell’espandersi delle famiglie mononucleari e dell’assottigliarsi e indebolirsi dei vincoli parentali. Per loro, forte sarà il rischio sia dell’abbandono terapeutico sia dell’accanimento. Di tutto questo un legislatore accorto può e deve farsi carico, proprio nello spirito dell’«alleanza di cura» che si fa espressione tangibile della scelta solidaristica scolpita a chiare lettere nella nostra Costituzione repubblicana.
Una legge "buona e giusta" quella sulle Dat? Si è lavorato al Senato e si sta lavorando alla Camera perché sia così. Ricordiamoci, però, che ogni legge è sottoposta al vaglio delle maggioranze – a volte trasversali, come in questo caso, e comunque transitorie in un regime di alternanza politica. E per tutte le maggioranze, presenti e future, dovrebbe valere il criterio di garantire, a ogni singola legge, una volta approvata, un periodo di rodaggio. È civile e necessario, insomma, che a queste disposizioni non venga riservato il trattamento ostile e la propaganda deformante già riservati, ad esempio, alla legge 40 sulla fecondazione artificiale, altra normativa "non cattolica" ma accettata dai credenti per chiudere l’era di "provetta selvaggia". Abbiamo già visto una parte dell’opinione pubblica, più ideologizzata e meno disponibile ad accettare il voto (trasversale, torniamo a ricordarlo) di un libero Parlamento, allearsi con una frazione della magistratura per tentare di demolire o, comunque, manomettere la legge sin dal giorno seguente la sua entrata in vigore.
Chi come noi alimenta con la ragione e le opere la "cultura della vita", sa di dover innanzitutto agire nella società per diffonderla in modo credibile e convincente. E questo facciamo, senza progettare scorciatoie ed elitarie manovre di potere e di (dis)informazione per far prevalere il nostro punto di vista. Parliamo chiaro e accettiamo il confronto a viso aperto nello spazio pubblico, forti delle nostre ragioni e della richiesta di non cancellare le voci nostre e di malati e disabili. Magari, per qualcuno, politicamente scorrette e scomode.
La norma? Nel segno del dialogo - di Claudio Sartea - l’osservatorio – Una «giusta» soluzione giuridica deve far incontrare la volontà del paziente con l’etica clinica del medico. E il consenso non può essere finalizzato a richieste letali - Avvenire, 31 marzo 2011
Anche il pudore ha una sua rilevanza civica. Nel dibattito che sta accompagnando da più di due anni l’elaborazione della normativa sul cosiddetto fine vita, anche gli autori più favorevoli al permissivismo avevano fino a poco tempo fa preferito non sbilanciarsi tanto da parlare apertamente di eutanasia. In tal modo, poteva vantare qualche ragione chi accusava di precipitazione quanti sostenevano, in realtà a buon diritto, che una certa concezione del testamento biologico equivaleva all’introduzione legale dell’eutanasia in Italia. Ora però il ventre del cavallo di Troia si è spalancato e vengono allo scoperto molti fautori espliciti dell’eutanasia. Una sincerità sconcertante dilaga: non si tratta già di dare dignità legale alle anteriori volontà del morente incosciente, ma di imporre a chicchessia, con la forza di un diritto sanzionato legalmente, una richiesta di morte.
Qui però viene fuori un dilemma, che affonda le proprie radici nel senso stesso del diritto e della norma giuridica. È difficile negare che l’orizzonte giuridico sia caratterizzato dal consenso: secondo alcuni, più attenti alla sostanza delle cose, un consenso sulla natura dell’uomo, che ne fonda e garantisce le giuste relazioni; secondo altri, più formalisti, un consenso su regole condivise che tutti s’impegnano ad accettare. In entrambi i casi, il consenso mira a un qualche bene: un bene comune che alimenti l’umana fioritura, nel primo caso, o nel secondo caso più superficialmente un contesto ove sia possibile coltivare in pace il proprio interesse individuale. Siccome sembra difficile convincersi che in generale il porre fine volontariamente a una vita possa essere considerato un bene, ha qualche significato pensare a un consenso mirante a essa? In altri termini: ha senso ipotizzare una norma legale che costringa qualcuno a subire un’altrui volontà ritenuta ingiusta?
Chiaramente, casi di accordo tra paziente (e familiari) e medico si possono sempre dare: sia nel senso «fisiologico», della richiesta/promessa di cura, sia in quello, che possiamo definire «patologico», della richiesta/promessa di morte. È agevole tuttavia supporre che non siano questi i casi bisognosi di disciplina legale, o tali da sollevare contenzioso giudiziario. La regola giuridica, se mai, viene invocata quando tale accordo manca: solo che l’orientamento eutanasico per natura propria spinge all’estremo la tensione derivante dal dissenso. Da una parte c’è il paziente, che indica le condizioni alle quali intende essere soppresso; dall’altra c’è il medico, che deve e vuole fare i conti con la sua scienza e la sua coscienza, e di conseguenza sa di non poter assecondare richieste letali.
Sergio Cotta anni fa aveva già spiegato che tale situazione di tensione non può conoscere una «giusta» soluzione giuridica: una norma legale o attribuisce potere al paziente, così togliendo libertà (e responsabilità deontologica) al medico, o attribuisce potere al medico, ridicolizzando l’autonomia del paziente e lasciandolo alla mercé del sistema sanitario. Anche da questo punto di vista la legge ha una sua plausibilità: nel riconoscere diversi princìpi dell’etica clinica più avanzata (consenso informato, alleanza terapeutica, autonomia del paziente e dell’operatore, e così via), stabilisce un vincolo di legittimità sui contenuti dell’azione medica e della richiesta di cura, mediante il divieto di sospendere la nutrizione artificiale, che ha il preciso scopo di sconfortare i guerrieri che scendono a frotte dal cavallo di Troia.
«L’eutanasia sfascia le radici laiche della società» di Andrea Galli - Manfred Lütz, psichiatra tedesco, autorevole voce della Pontificia Accademia per la Vita, espone i motivi razionali che impediscono di considerare «disponibile» l’integrità della persona «Se per legge si indica ad anziani e disabili la via d’uscita a disgregarsi è il nostro senso di umanità» - Avvenire, 31 marzo 2011
Pensate che nella secolarizzata e multiconfessionale Germania non c’è più spazio per la saggistica cattolica di successo? Manfred Lütz è la prova che così non è. I suoi ultimi due libri, scritti con humour e la capacità di parlare al grande pubblico – Dio, una piccola storia del più grande
e Matti: curiamo quelli sbagliati, il nostro problema sono i normali – sono stati autentici casi editoriali. Psichiatra, membro della Pontificia accademia per la vita e del Pontificio consiglio per i laici, Lütz è anche tra i curatori di YouCath , catechismo per i giovani che sarà pubblicato a breve in 13 lingue, con una premessa del Papa, in previsione della Gmg 2011. Con lui parliamo del vero tema che aleggia sul dibattito attorno al fine vita: l’eutanasia.
La Chiesa nella sua opposizione all’eutanasia viene accusata da alcuni di «biologismo», di abbracciare una difesa della vita nella sua pura materialità. Cosa ne pensa?
«Chi non si occupa da vicino del problema può pensare che sia così. Non è lo spirito, l’intelligenza, non è la facoltà intellettiva dell’uomo a renderlo veramente tale? Quando sembrano rimanere solo funzioni 'vegetative', non vuol dire che è già avvenuta la morte dello spirito? Questa domanda apparentemente semplice ha a che fare non solo con le radici cristiane e occidentali della nostra idea di uomo, ma anche con le fondamenta delle nostre società laiche. Se noi definiamo l’uomo in base alle sue facoltà mentali in atto, allora probabilmente il malato di Alzheimer in stato avanzato o colui che è affetto da un grave handicap mentale non sarebbero considerati più uomini, o comunque non sarebbero degni di protezione più di un abile scimpanzé, come sostiene non un tizio qualunque ma il famoso filosofo australiano Peter Singer. All’opposto, un altro filosofo, Robert Spaemann, sostiene che ogni uomo vivente è in quanto tale una persona, che pensi oppure no, che sia lucido o privo di coscienza, che sia in grado di aiutare gli altri o sia lui ad avere bisogno di aiuto. Per questo non ci sono nell’uomo funzioni 'vegetative', nel senso delle piante. Tutto ciò che nell’uomo può ricordare la pianta o l’animale resta pur sempre umano. Il materialista è colui che considera l’uomo a partire dalla sua produttività, mentre il cristianesimo ha insegnato che proprio la compassione nei confronti del più debole – ciò che non conoscevano i pagani – è l’atteggiamento che ha Dio nei confronti dell’uomo. Il progresso scientifico tende sempre ad avanzare, ma questo non vale per il progresso dell’umano. Per quest’ultimo dobbiamo sempre impegnarci. E se non lo facciamo rischiamo sempre di ricadere nella barbarie, mostrando ai deboli e ai malati una via di uscita che dovrebbero loro stessi cortesemente scegliere affinché non dobbiamo farcene carico noi. Sarebbe il tramonto del senso di umanità, peggio del tramonto dell’umanità stessa».
La società occidentale ha lottato per allungare l’aspettativa di vita della popolazione, siamo tutti ossessionati dalla salute, dalla possibilità di curarci per vivere più a lungo. E ora cresce la domanda di poter scegliere di morire, accorciando questa stessa vita. È contraddittorio?
«No. Per quella che è oggi la pervasiva e dominante religione della salute la morte è certamente il nemico numero uno, che si cerca di sconfiggere sudando in palestra e con un’ascetica rinuncia all’alimentazione scorretta. Ma questo ha serie conseguenze sulla visione dell’uomo in generale. Perché se l’uomo autentico è quello sano, allora il malato, soprattutto quello per cui non c’è speranza di guarigione, sarà un uomo di seconda classe. Chieda a qualcuno a caso se è giusto che la società investa la stessa quantità di denaro per una persona che non può più guarire e per una che invece può tornare in salute. Riceverà risposte che contraddicono quel che è scritto nella Costituzione italiana. Chi vuole essere una persona di serie B ed essere un peso per i propri cari...? La 'società della salute' non ha misericordia».
Se l’eutanasia trovasse piena legalizzazione in Europa, cosa cambierebbe nel volto della società? C’è chi sostiene che in fondo il fenomeno riguarderebbe una parte minima della popolazione.
«Il governo olandese ha realizzato un’inchiesta sull’applicazione della legge sull’eutanasia da cui è emerso un dato agghiacciante: ogni anno 250 persone vengono uccise con un’iniezione – dopo la decisione dell’apposita commissione – nonostante siano in piena coscienza e non abbiano dato il proprio assenso. Ciò è contrario alla legge ed è venuto alla luce solamente perché le risposte ai quesiti erano protette dall’anonimato. La prova di come, una volta rotta la diga, non ci sia più nulla che tenga. Le case di riposo tedesche vicine al confine con l’Olanda registrano un crescente afflusso di anziani olandesi. Le cure palliative in Olanda scontano un pesante ritardo a livello scientifico, perché c’è già una 'soluzione'... Se si introduce l’eutanasia nella legislazione cambia l’atmosfera in cui tutti vivono, quand’anche la suddetta legge non venisse mai applicata, perché ogni anziano o malato si sentirà in dovere di giustificare il perché sia ancora al mondo a pesare sugli altri. E ci si dovrebbe abituare a telefonate come quella che mi è stata riferita recentemente da una donna olandese: una sua cara amica l’ha chiamata dicendole 'ah, tra l’altro, mio marito muore mercoledì prossimo e viene seppellito sabao, volevo solo informarti'. Bisogna farci l’abitudine? Non è fantascienza. Telefonate come questa avvengono, mentre lei fa questa intervista, a poche centinaia di chilometri da dove si trova...
«Il diritto alla vita fonda il nostro ordinamento» - C’è un presupposto sul quale si reggono tutti i diritti, compreso quello alla salute: è il «favor vitae» che ispira la Costituzione e l’intera struttura giuridica del nostro Paese Lo ricorda Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, che sottolinea come «il consenso informato non è una dichiarazione di sovranità assoluta del paziente rispetto alle competenze del medico» di Ilaria Nava – Avvenire, 31 marzo 2011
E’ il consenso informato il cuore della proposta di legge su «Dichiarazioni anticipate di trattamento, consenso informato e alleanza terapeutica» che tornerà in aula alla Camera a fine aprile per il voto finale. Ne è convinto Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale.
Partiamo dai princìpi del nostro ordinamento. È vero che a fondamento di essi c’è il «favor vitae»?
E di cosa si tratta?
«Nel nostro ordinamento esiste un diritto alla vita garantito dalla Costituzione e che costituisce il presupposto rispetto a tutti gli altri diritti, compreso quello alla salute.
Il diritto alla vita è tutelato anche da convenzioni internazionali, come la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; lì il diritto alla vita è posto a fondamento dei diritti umani.
Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proteggendo il diritto all’integrità fisica e psichica, protegge in sostanza il diritto alla vita.
Qual è la corretta interpretazione dell’articolo 32 della Costituzione, che riguarda il diritto alla salute?
La salute, intesa come condizione di benessere fisico e psichico, è considerata un bene dell’individuo e della collettività, La seconda parte dell’articolo 32 vieta che i trattamenti sanitari siano forniti senza il consenso del paziente.
Questo articolo nasce per assicurare una protezione alla persona che in passato è stata oggetto di sperimentazioni e interventi sanitari che ne minavano in qualche modo la dignità, sebbene ritenuti all’epoca positivi.
Penso alla lobotomia, che riduce la persona nell’assoluta incapacità di autodeterminarsi. Gli interventi sanitari non possono, quindi, ledere la dignità della persona neppure a motivo di un interesse generale; anche in presenza di un interesse generale, l’intervento non è legittimo se c’è un sicuro danno per la persona: pensiamo, ad esempio, ad alcuni tipi di vaccinazione. Al centro di questo articolo c’è il consenso informato, un diritto affermato anche dalla deontologia e dalla Convenzione di Oviedo sulla biomedicina.
Come definiamo il consenso informato e cosa comporta la sua centralità nel nostro ordinamento?
Innanzitutto tengo a chiarire che è qualcosa di diverso dall’autodeterminazione terapeutica. Il consenso informato, infatti, ha un contenuto e una logica relazionale, che si fonda sul rapporto tra medico e paziente. È una manifestazione di volontà che deve essere attuale, non può essere puramente ipotetico, né astratto né programmatico; esige una valutazione della persona in riferimento alla sua condizione concreta e richiede anche un rapporto di fiducia con il medico.
Non è corretto, quindi, affermare che il consenso informato dia luogo a una situazione in cui il paziente abbia la sovranità assoluta di decidere e il medico sia ridotto a strumento di attuazione della sua volontà.
Ritiene che la proposta di legge sulle Dat rispetti questi principi?
Mi pare che nel dibattito attuale si sottolineino soltanto alcuni aspetti, trascurandone altri fondamentali. Il nucleo della proposta è l’impegno del legislatore a fornire il sostegno e garantire il diritto alle terapie anche nella fase terminale della vita. Inoltre la legge assicura che i trattamenti vengano forniti in base a un’espressione della volontà della persona e non siano rimessi a presunzioni o valutazioni generiche. La partecipazione del medico nella valutazione assicura l’effettività di questa garanzia.
Anche la Convenzione di Oviedo stabilisce che i desideri espressi su un trattamento medico in riferimento a quando la persona non sarò più in grado di comunicare «saranno tenuti in considerazione»; le indicazioni del paziente per il futuro non sono vanificate ma non sono neppure di per sé decisive; questo perché non sono contestualizzate, manca il rapporto immediato tra medico e paziente, manca un consenso attuale. La legge prescrive una serie di garanzie: non è obbligatorio redigere le Dat, hanno una valenza di 5 anni, e anche dal un punto di vista terminologico mi sembra più corretto parlare di dichiarazioni anticipate anziché di testamento biologico, che allude al fatto che le dichiarazioni assumeranno valore quando la persona sarà già morta.
Questa deriva terminologica nasconde un crinale molto pericoloso perché ci invita a distinguere tra vita degna e vita indegna, andando a contraddire il diritto alla vita di cui parlavamo all’inizio.
Alcuni sostengono che non abbia senso dare la possibilità di scrivere una Dat se poi il medico può agire diversamente. Cosa ne pensa?
È vero che il medico può agire diversamente, ma non può fare quello che vuole perché la sua azione non può essere arbitraria.
La legge, infatti, da una parte segna il limite del divieto di accanimento e di interventi che non siano fruttuosi alla persona, dall’altro impedisce l’abbandono dell’assistenza alla persona. In questo spazio d’azione non rende irrilevante la volontà del paziente.
È vero che essa non è di per sé determinante quando è decontestualizzata e non ha come fondamento un consenso attuale e informato. Neppure il fiduciario nominato con la Dat può sostituire la volontà della persona. L’attualità e la concretezza sono elementi che caratterizzano il consenso informato e che sono stati affermati dalla giurisprudenza della Cassazione anche in sentenze di segno diverso rispetto alla sentenza Englaro. Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto lecite trasfusioni eseguite sebbene la persona avesse lasciato scritto di non volerne. Le ha ritenute legittime perché il consenso della persona non era attuale. La Cassazione ha specificato che il dissenso alle trasfusioni avrebbe dovuto essere manifestato in modo espresso, attuale, inequivoco e informato.
«Decido io». Ma i capricci non dettano legge– Dalla 194 sull’aborto all’ipotesi di eutanasia legalizzata: così un’interpretazione deformata del principio di autodeterminazione ha influito sull’opinione pubblica. E ha distorto la lettura del dettato costituzionale sull’assistenza medica di Tommaso Scandroglio - Avvenire, 31 marzo 2011
Un erroneo concetto di autodeterminazione è il minimo comun denominatore di alcuni fenomeni sociali che fanno a pugni con i «principi non negoziabili». Nell’aborto lo slogan «l’utero è mio e decido io» sarà pur vecchio di quaranta anni ma è ancora alla base dell’interpretazione corrente della legge 194. Legge nata dalla pressione ideologica per «tutelare» simile esigenza. Se invece madre natura non dona il bebè tanto desiderato, si pretende di averlo per vie artificiali e inoltre si esige che sia perfetto e che la legge accondiscenda a tutto ciò. Non acconsentire a simili richieste sarebbe ledere la libertà della persona. Oggi infine tocca all’eutanasia: la vita è mia e determino io la soglia minima di apprezzabilità della stessa, i requisiti minimi di sopportabilità per determinare se è degna di essere vissuta. Come negli esempi precedenti si pretende una legge che dia tutela a questa autonomia e che la sacralizzi. Ovvio che in tale prospettiva le Dat non possono che essere vincolanti per il medico perché espressione di un libero volere che non deve conoscere limiti. Tale interpretazione del principio di autodeterminazione però non è proprio condivisibile alla luce della ragione e del diritto vigente. La libertà non può essere intesa in senso assoluto, cioè sciolta da qualsiasi legame. Bensì la nostra libertà è relativa, è agire in relazione a ciò che mi detta la natura umana la quale pretende che si conservi la vita e la salute, mia («no» all’eutanasia) e degli altri («no» all’aborto e alla fecondazione artificiale). Un’autodeterminazione vincolata dunque. Intendere in modo diverso il principio di autonomia significa comprimere e quindi svilire il naturale anelito al bene dell’uomo e non aver compreso la sua intima essenza, così come ricordò Benedetto XVI nell’ottobre del 2008 in occasione del Congresso nazionale della Società italiana di chirurgia: «L’esaltazione individualistica dell’autonomia finisce per portare ad una lettura non realistica, e certamente impoverita, della realtà umana».
Da ciò discende che le leggi dello Stato devono essere certamente al servizio dell’uomo, ma al servizio del suo vero bene, non delle sue vogliuzze, dei suoi capricci, dei suoi impulsi autolesionisti. Da parte del legislatore ci deve essere perciò un riconoscimento oggettivo delle esigenze naturali dell’uomo: la vita, la salute, la libertà, etc. E un rigetto di tutte quelle condotte che seppur volute dall’interessato stesso vanno a ledere questi suoi diritti indisponibili. Qualcuno potrebbe obiettare: «Ma l’articolo 32 della Costituzione sancisce il diritto al rifiuto delle cure». Non è così. Il rifiuto di trattamenti sanitari è una mera facoltà di fatto, non un diritto. Vi sono almeno due ragioni a sostegno di ciò. In primo luogo l’articolo 32 della Costituzione non sancisce un diritto alla non cura, ma impone un limite alla cure coattive prestate dallo Stato. È una differenza non da poco: porre un «alt» al dovere di cura da parte dei medici non significa corrispettivamente riconoscere un diritto soggettivo a rifiutare le terapie. In secondo luogo la salute è qualificata dall’articolo 32 come «diritto fondamentale».
Di conserva discende il fatto che non può esistere un diritto diametralmente opposto a questo, cioè il «diritto fondamentale» alla malattia, alla mancanza di salute. E quindi non ci può essere il diritto ad evitare quelle cure che potrebbero farmi recuperare il mio stato di salute intaccato da una patologia. Se dunque non si può predicare un diritto alla non cura, non esiste parallelamente nessun obbligo giuridico in capo al medico nell’interrompere le cure rifiutate dal paziente. Infatti laddove si predica un diritto ci deve essere un dovere in capo a qualcuno di soddisfare questo diritto. In buona sostanza la persona ha la facoltà di sottrarsi alle cure, ma non pretenda che il medico collabori con lui in questo intento. Puoi buttarti da un cornicione, ma non venire a chiedere che qualcuno ti dia una spinta. A questo punto però viene da domandarsi: il principio di autodeterminazione che fine fa? Il suo ambito di applicazione in realtà è assai esteso. Di fronte a una patologia il medico illustrerà tutte le possibili soluzioni e i rischi connessi. Starà poi al paziente, sostenuto dai familiari, decidere quale strada terapeutica intraprendere, conscio che l’unico limite impostogli è il rifiuto di cure salvavita.
morte in culla - «Nella vita prenatale è nascosta la risposta a molte malattie» di Daniela Pozzoli, Avvenire, 31 marzo 2011
E’ nello «scrigno» della vita prenatale che si trovano le risposte a molte patologie dell’età adulta. Così, trovando una soluzione alle «morti in culla», prima causa di decesso nei Paesi sviluppati nei primo anno di vita del bambino, si svelano anche meccanismi che avranno conseguenze gravi nel corso della vita. Dopo trent’anni all’Istituto di anatomia patologica dell’Università degli studi di Milano, il professor Luigi Matturri si emoziona ancora quando parla dei corpicini stesi lì, sul tavolo autoptico, senza spiegazioni per la loro fine. Improvvise e apparentemente senza un perché. Messi a dormire nella culla dai genitori qualche ora prima e ritrovati senza vita. Oppure partoriti e subito deceduti. «Mi inviavano i primi casi e non mi spiegavo cosa potesse avere provocato quella fine – dice il luminare della Sids o 'morte in culla' –, ma negli anni la casistica a livello internazionale è aumentata e ha permesso di vederci meglio».
Un’urgenza di avere risposte certe che ha spinto Matturri a sostenere la Legge 31 che disciplina il «riscontro diagnostico sulle vittime da sindrome della morte improvvisa del lattante (Sids) e di morte inaspettata del feto». La legge del 2006 chiede a Regioni e Province autonome il compito di sviluppare la ricerca, la prevenzione, l’aggiornamento professionale, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e il sostegno psicologico delle famiglie colpite. «Nei Paesi sviluppati – riprende Matturri, presidente onorario del Centro di ricerca 'Lino Rossi' – una gravidanza ogni 150 si conclude con la morte improvvisa del feto, spesso inspiegabile anche dopo l’autopsia di routine. Una cifra 6-7 volte superiore a quella delle 'morti in culla' che è di un neonato morto ogni mille nati. Ciò significa che ogni 150 gravidanze, una si conclude con un evento luttuoso».
Studi scientifici hanno messo in evidenza che «entrambi i processi condividono alterazioni comuni. Anomalie congenite sia del sistema nervoso autonomo o vegetativo, centrale o periferico, che modulano l’attività respiratoria, cardiaca, del risveglio e delle prime vie digestive che della centralina elettrica del cuore, anch’essa sotto il controllo del sistema nervoso autonomo». I fattori che moltiplicano questo «errore» della natura sono il fumo di sigaretta nelle donne incinte, come anche il consumo di alcol e l’inquinamento ambientale. «Incommensurabili le ricadute scientifiche – riprende il patologo – che derivano dalle conoscenze di queste patologie in un periodo talvolta oscuro, quello prenatale, ma che ancora racchiude molte risposte preventive a patologie dell’adulto e dell’anziano. Un esempio su tutti: le prime fasi del processo aterosclerotico, causa di malattie cardio-vascolari, si trovano già nelle arterie del feto e sono provocate dal fumo materno».