Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa e il metodo di Dio di Andrea Tornielli, 10-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
2) "Gesù, re del mondo e della storia" di Massimo Introvigne, 10-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
3) Su facebook un gioco per le ultime volontà di Raffaella Frullone, 10-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
4) La quaresima è tempo di studio e preghiera di Massimo Introvigne, 09-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
5) SULLA DIAGNOSI GENETICA PREIMPIANTO LA GERMANIA SI DIVIDE - Metà del Consiglio Etico tedesco è favorevole a una sua pratica limitata di Paul De Maeyer
6) Libertà maltrattata – Redazione - giovedì 10 marzo 2011, il sussidiario.net
7) SCUOLA/ Maestro-alunno, un'occasione per scoprire insieme le domande "sepolte" di Onorato Grassi, giovedì 10 marzo 2011, il sussidiario.net
8) FINE VITA/ Ecco perché dopo Eluana serve una legge di Gabriele Toccafondi, giovedì 10 marzo 2011, il sussidiario.net
9) LA RESURREZIONE, UN EVENTO REALE CHE SUPERA OGNI ESPERIENZA E IMMAGINAZIONE di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, http://www.labussolaquotidiana.it
10) Avvenire.it, 10 marzo 2011 - Così si conferma, senza tradirlo, lo statuto del medico - La legge serve per tutelare l’alleanza di cura col paziente di Massimo Gandolfini
11) Altre voci - Sulla legge un esame per i pro-life, Avvenire, 10 marzo 2011
12) Argomenti - Strafalcioni d’autore, c’è una replica per tutti di Alberto Gambino, Avvenire, 10 marzo 2011
13) Una «legge» c’è già: l’hanno scritta le sentenze - dati di fatto - di Ilaria Nava, Avvenire, 10 marzo 2011
Il Papa e il metodo di Dio di Andrea Tornielli, 10-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Oggi La Bussola propone in anteprima ai suoi lettori un brano del nuovo libro del Papa dedicato alla resurrezione e una sintesi generale dei contenuti del volume scritta da Massimo Introvigne. Ovviamente il consiglio è di leggere tutto il libro: non si capisce soltanto di più la figura del Nazareno. Si esce anche confortati nella propria fede da queste pagine di Joseph Ratzinger. Per noi della Bussola è poi un grande onore il fatto che proprio il nostro direttore editoriale, Vittorio Messori, sia tra gli autori citati dal Pontefice, come peraltro già accaduto nel precedente volume.
C’è un altro brano bellissimo del volume di Benedetto XVI sul quale vorrei soffermarmi. Lo si trova nella parte finale e parla del «metodo di Dio». Del metodo che Dio ha scelto per rivelarsi, per redimere l’umanità ferita dal peccato originale, per farsi conoscere in Gesù, per diffondere poco a poco la sua presenza attraverso l’annuncio dei primi testimoni della resurrezione. Il Papa propone ai lettori delle domande che tante volte sono risuonate nella storia dell’umanità, anche dalle labbra dei credenti, magari vittime di persecuzioni.
«Perché non ti sei opposto con potenza ai tuoi nemici che ti hanno portato sulla croce? – così vorremmo domandare. Perché non hai con vigore inconfutabile dimostrato loro che tu sei il Vivente, il Signore della vita e della morte? Perché ti sei mostrato solo a un piccolo gruppo di discepoli della cui testimonianza noi dobbiamo ora fidarci? La domanda riguarda, però, non soltanto la risurrezione, ma l’intero modo in cui Dio si rivela al mondo».
«Perché – continua il Papa – solo ad Abramo – perché non ai potenti del mondo? Perché solo a Israele e non in modo indiscutibile a tutti i popoli della terra?». La risposta di Benedetto XVI arriva subito dopo. «È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Solo pian piano Egli costruisce nella grande storia dell’umanità la sua storia. Diventa uomo ma in modo da poter essere ignorato dai contemporanei, dalle forze autorevoli della storia. Patisce e muore e, come Risorto, vuole arrivare all’umanità soltanto attraverso la fede dei suoi ai quali si manifesta. Di continuo Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di “vedere”. E tuttavia – non è forse proprio questo lo stile divino? Non sopraffare con la potenza esteriore, ma dare libertà, donare e suscitare amore».
Continua Ratzinger: «E ciò che apparentemente è così piccolo non è forse – pensandoci bene – la cosa veramente grande? Non emana forse da Gesù un raggio di luce che cresce lungo i secoli, un raggio che non poteva provenire da nessun semplice essere umano, un raggio mediante il quale entra veramente nel mondo lo splendore della luce di Dio? Avrebbe potuto, l’annuncio degli apostoli, trovar fede ed edificare una comunità universale, se non avesse operato in esso la forza della verità? Se ascoltiamo i testimoni col cuore attento e ci apriamo ai segni con cui il Signore accredita sempre di nuovo loro e se stesso, allora sappiamo: Egli è veramente risorto. Egli è il Vivente».
In un mondo dove sembra contare solo il protagonismo della forza, dove i potenti sono ancora saldi nei loro troni, dove gli umili vengono perseguitati e calpestati, questa consapevolezza del metodo di Dio, un metodo letteralmente dell’altro mondo così diverso dalle nostre umane aspettative, rappresenta uno squarcio di speranza. E noi possiamo confidare nella forza invincibile della debolezza di Cristo, il Figlio fatto uomo e morto in croce, nel modo più infamante. Per permettere a «molti», anzi a tutti, essere abbracciati, purificati e salvati.
"Gesù, re del mondo e della storia" di Massimo Introvigne, 10-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Anche solo un cenno a tutti i molteplici temi di Gesù di Nazaret. Seconda Parte di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011) è impossibile. Rimandando per un esame più dettagliato a una mia recensione più lunga, che sarà anticipata dal sito del CESNUR, mi limito qui a mettere in luce un aspetto di metodo e tre temi essenziali dell’opera, che costituiscono il cuore del suo messaggio.
Anzitutto, il metodo. Benché il libro sia stato completato prima dell’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, del 30 settembre 2010, tra questo documento del Magistero e il libro – che del Magistero, come il Papa aveva precisato in occasione del primo volume, a rigore non fa parte – intercorre un rapporto molto stretto. La Verbum Domini è, in larga parte, una spiegazione e un’interpretazione della Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum del Concilio Ecumenico Vaticano II, e in particolare del suo numero 12, richiamato anche in Gesù di Nazaret. Seconda Parte. L’esortazione, interpretando il documento conciliare, chiarisce che l’esegesi cosiddetta storico-critica può dare contributi validi purché non pretenda di essere l’unica o l’ultima chiave di lettura del testo biblico, che va sempre letto nel contesto della fede della Chiesa la cui individuazione ultima spetta al Magistero. La Verbum Domini afferma che – se si rispettano queste premesse – congiungere un’ermeneutica «scientifica» e una «della fede» è possibile, e corrisponde alle vere intenzioni del Concilio Ecumenico Vaticano II, purtroppo – come scrive il Papa in Gesù di Nazaret. Seconda parte – «quasi per nulla» rispettate nella crisi postconciliare. Nel libro Benedetto XVI ribadisce la stessa prospettiva, ma insieme fa qualcosa di più: mostra e prova come quella che chiama la «congiunzione delle due ermeneutiche» – «scientifica» e «della fede» – sia in concreto possibile.
Tre elementi costituiscono il messaggio fondamentale dell’opera. La prima è la verità storica, fattuale degli eventi narrati dei Vangeli, che un’esegesi razionalista costantemente criticata vorrebbe ridurre a meri simboli. Saranno sufficienti due esempi. Il primo riguarda l’istituzione dell’Eucarestia nell’Ultima Cena. Un’analisi molto dettagliata dei testi che la riguardano offre al Papa l’occasione per una rivendicazione «della reale storicità degli avvenimenti essenziali. Il messaggio neotestamentario non è soltanto un’idea; per esso è determinante proprio l’essere accaduto nella storia reale di questo mondo: la fede biblica non racconta storie come simboli di verità meta-storiche, ma si fonda sulla storia che è accaduta sulla superficie di questa terra». «Se Gesù – scrive Benedetto XVI – non ha dato ai discepoli pane e vino come suo corpo e suo sangue, allora la Celebrazione eucaristica è vuota – una devota finzione, non una realtà che fonda la comunione con Dio e degli uomini tra loro». Utilizzando invece il metodo proposto nel volume della congiunzione delle due ermeneutiche, possiamo essere certi che l’Ultima Cena è un evento storico realmente accaduto, e «guardare tranquillamente le ipotesi esegetiche che, da parte loro, troppo spesso si presentano con un pathos di certezza che viene confutato già dal fatto che posizioni contrarie vengono proposte continuamente con lo stesso atteggiamento di certezza scientifica».
Del resto, la stessa singolarità dell’Eucarestia è un argomento, spiega il Papa, che consente di considerare le tesi razionaliste secondo cui l’Eucarestia sarebbe un’invenzione dei primi cristiani come semplicemente assurde. Chi mai avrebbe potuto pensare d’inventare una cosa del genere? «L’idea del formarsi dell’Eucaristia nell’ambito della “comunità” è anche dal punto di vista storico assolutamente assurda. Chi avrebbe potuto permettersi di concepire un tale pensiero, di creare una tale realtà?».
Il secondo esempio è la Risurrezione. I giochi di parole di una certa teologia progressista secondo cui Cristo è sì risorto ma solo nella mente o nel cuore dei discepoli, sono criticati come derive che portano fuori del cristianesimo propriamente detto. Per quanto qualitativamente superiore alla storia, la Risurrezione avviene nella storia. Il sepolcro è veramente vuoto. «L’essere cristiani significa essenzialmente la fede nel Risorto». «Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente – ciò dipende dalla risurrezione. Nel “sì” o “no” a questo interrogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale». Credere che la Risurrezione sia avvenuta è quell’elemento cruciale che consente di rispondere con certezza alla domanda se qualcuno è cristiano o non lo è. «La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, […] ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita».
Le obiezioni secondo cui il racconto della Risurrezione è maldestro – se è proprio lui il Risorto, perché i discepoli fanno fatica a riconoscerlo? – si risolvono in realtà in elementi a sostegno dell’autenticità dei resoconti. «La dialettica che fa parte dell’essenza del Risorto è presentata nei racconti – scrive senza mezzi termini il Papa – in modo veramente poco abile, e proprio così emerge la sua veridicità. Se si fosse dovuta inventare la risurrezione, tutta l’insistenza si sarebbe concentrata sulla piena corporeità, sull’immediata riconoscibilità e in più si sarebbe forse ideato un potere particolare come segno distintivo del Risorto. Ma nella contraddittorietà dello sperimentato che caratterizza tutti i testi, nel misterioso insieme di alterità e identità si rispecchia un nuovo modo dell’incontro, che apologeticamente appare piuttosto sconcertante, ma che proprio per questo si rivela anche maggiormente come autentica descrizione dell’esperienza fatta». Se gli evangelisti avessero voluto inventare la storia della Risurrezione, l’avrebbero inventata meglio. Le incertezze sono invece una prova dell’autenticità del racconto.
Il secondo grande tema del libro è il passaggio con Gesù Cristo a un’era qualitativamente nuova nella storia del mondo e della salvezza. Questo passaggio è mostrato dall’abbandono dei sacrifici del tempio, l’elemento che stava al centro della religione degli Ebrei, e dalla fine del tempio stesso, sostituito dalla persona stessa di Gesù Cristo. La cacciata dei mercanti dal tempio sarà imputata a Gesù nel processo, e sarà decisiva per la sua condanna, anche se secondo Benedetto XVI «è giusta la tesi, motivata minuziosamente soprattutto da Vittorio Messori, secondo cui Gesù nella purificazione del tempio agiva in sintonia con la legge impedendo un abuso nei confronti del tempio». Ai lettori de La Bussola Quotidiana farà piacere che, tra tanti professori universitari di teologia, il Papa citi e a approvi proprio un testo di Messori. Gesù, dunque, sarà condannato non per le sue azioni nel tempio – di per sé non illecite – ma per la giustificazione che ne dà, dove rivendica nella sostanza se stesso come nuovo tempio. L’avvento del Signore Gesù comporta la fine del vecchio sistema religioso incentrato sul tempio: «Dio se ne va. Il tempio non è più il luogo dove Egli ha posto il suo nome. Sarà vuoto».
Non è dunque un caso che quando Gesù muore in croce si squarci il velo del tempio. L’episodio conferma che un’epoca della storia si è conclusa: «da una parte, diventa evidente che l’epoca del vecchio tempio e dei suoi sacrifici è finita; al posto dei simboli e dei riti, che rimandavano al futuro, subentra ora la realtà stessa, il Gesù crocifisso che riconcilia tutti noi col Padre. Ma al contempo, lo squarciarsi del velo del tempio significa che ora è aperto l’accesso a Dio. Fino a quel momento il volto di Dio era stato velato. Solo mediante segni e una volta all’anno il sommo sacerdote poteva comparire davanti a Lui. Ora Dio stesso ha tolto il velo, nel Crocifisso si è manifestato come Colui che ama fino alla morte. L’accesso a Dio è libero».
Questo tema è connesso con il terzo nucleo del volume, che sta al cuore della lezione del Papa. Cristo è re, ma la natura della sua regalità – che ha anche una dimensione sociale – non è stata capita dai suoi contemporanei e talora non è compresa neppure da noi. Questo tema emerge in tutti i capitoli del libro, ma ha il suo centro nel processo di Gesù. A proposito di tale processo si dice spesso che i capi d’Israele – da non confondere con l’intero popolo ebraico, che non ha responsabilità collettive nella morte del Signore, un tema che ha molto appassionato i lettori di anticipazioni del volume ma che non occupa nel testo più di tre pagine, né dice cose che non siano già ovvie nel Magistero recente nella Chiesa – si mossero per evitare che Gesù mettesse in discussione l’unità di politica e religione che dava fondamento al loro potere. Ma il Papa ci invita a trattare questa problematica con grande cautela.
La «smania di potere del gruppo dominante» non va confusa con una «preoccupazione» di non separare la politica dal suo fondamento nella religione, che sarebbe in sé «legittima». Bisogna guardarsi, afferma il Papa, dal trarre argomento dal processo di Gesù per sostenere la tesi secondo cui solo un’assoluta separazione tra religione e politica sarebbe conforme al messaggio cristiano e al regno del Signore. Al contrario, la regalità di Gesù Cristo – che pure è tanto diversa da quella del mondo – si estende alla società e, in questo senso, al mondo, anche se talora «mondo» è usato nei Vangeli come sinonimo di una sfera del peccato che, quella sì, rimane estranea al regno. Gesù non veniva a negare un modello in cui ultimamente «Dio domina nel mondo», ma a portare un «modo nuovo» di questo dominio, che i suoi avversari non comprendevano.
In effetti, «Gesù ha creato un concetto assolutamente nuovo di regalità e di regno mettendo Pilato, il rappresentante del classico potere terreno, di fronte ad esso». Siamo qui davvero nel cuore del libro del Papa, e siamo arrivati a una questione che riguarda noi uomini del secolo XXI e non solo Pilato. «Che cosa deve pensare Pilato, che cosa dobbiamo pensare noi di tale concetto di regno e di regalità? È una cosa irreale, una fantasticheria della quale ci si può disinteressare? O forse in qualche modo ci riguarda?». Nel dialogo con il funzionario romano scopriamo un dato decisivo: Gesù «basa il suo concetto di regalità e di regno sulla verità come categoria fondamentale». La domanda di Pilato, «Che cos’è la verità?», non è solo di Pilato. È «la domanda che pone anche la moderna dottrina dello Stato: può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura? O deve lasciare la verità, come dimensione inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a stabilire la pace e la giustizia con gli strumenti disponibili nell’ambito del potere? […] Ma, dall’altra parte – che cosa succede se la verità non conta nulla? Quale giustizia allora sarà possibile? Non devono forse esserci criteri comuni che garantiscano veramente la giustizia per tutti – criteri sottratti all’arbitrarietà delle opinioni mutevoli ed alle concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità poté portare la liberazione?».
Qui – ci avverte il Papa – non solo si gioca il significato ultimo della politica, ma addirittura «è in gioco il destino dell’umanità». Delle due l’una: o si accetta come terreno comune per gli uomini un diritto naturale che è «il diritto della verità», oppure «la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella non-decifrabilità della creazione, nella non-riconoscibilità della verità, una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei forti diventi il dio di questo mondo».
Ma ci rendiamo conto qui anche di qualcosa che Benedetto XVI nel suo Magistero ha spesso ricordato. La ragione può riconoscere l’esistenza della verità – e di molte verità – a prescindere dalla fede, e questo fonda il diritto naturale come insieme di verità che s’impongono anche ai non credenti. Ma in pratica, a causa del peccato, riconoscere queste verità prescindendo totalmente da Dio è difficile. «Il mondo è “vero” nella misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è scaturito. E diventa tanto più vero quanto più si avvicina a Dio. L’uomo diventa vero, diventa se stesso se diventa conforme a Dio. […] In questo senso, la verità è il vero “re” che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza».
Verità e regalità sono strettamente connesse. Gesù è egli stesso la verità, e Gesù è il re. Si supera così l’artificiosa contrapposizione creata da alcuni esegeti fra l’annuncio del regno in Galilea e la passione e morte a Gerusalemme. «Proprio nel colloquio di Gesù con Pilato – scrive il Papa – si rende evidente che non esiste alcuna rottura tra l’annuncio di Gesù in Galilea – il regno di Dio – e i suoi discorsi in Gerusalemme. Il centro del messaggio fino alla croce – fino all’iscrizione sulla croce – è il regno di Dio, la nuova regalità che Gesù rappresenta. Il centro di ciò è, però, la verità». Gesù ha regnato dalla croce, che il Papa chiama il suo «trono», e la prova del carattere divino di questo regno è il fatto della Risurrezione. Questo regno – in quanto regno della verità – non ha origine politica ma, come fondamento del diritto naturale, si estende anche sulla politica, sulla società, sul diritto, sull’ordine temporale che dev’essere instaurato cristianamente e reso conforme alla verità e alla giustizia. È la dottrina antica e sempre nuova della regalità sociale di Nostro Signore Gesù Cristo, il re del mondo e della storia.
La Resurrezione, così reale così indescrivibile
di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI10-03-2011
Pubblichiamo un ampio stralcio del nuovo libro di Benedetto XVI su Gesù, dedicato alla passione, morte e resurrezione del Nazareno. Il volume, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso a Gerusalemme alla resurrezione, edito dalla Libreria Editrice Vaticana (348 pp., 20 euro), è in libreria a partire da oggi.
LA RESURREZIONE, UN EVENTO REALE CHE SUPERA OGNI ESPERIENZA E IMMAGINAZIONE di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, http://www.labussolaquotidiana.it
«Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra
fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che
egli ha risuscitato il Cristo » (1 Cor 15,14s). Con queste parole san Paolo pone drasticamente in risalto quale importanza abbia per il messaggio cristiano nel suo insieme la fede nella risurrezione di Gesù Cristo: ne è il fondamento.
La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere – una sorta di concezione religiosa del mondo –, ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita; una personalità che nonostante il suo fallimento rimane grande e può imporsi alla nostra riflessione, ma rimane in una dimensione puramente umana e la sua autorità è valida nella misura in cui il suo messaggio ci convince. Egli non è più il criterio di misura; criterio è allora soltanto la nostra valutazione personale che sceglie dal suo patrimonio ciò che sembra utile. E questo significa che siamo abbandonati a noi stessi. La nostra valutazione personale è l’ultima istanza.
Solo se Gesù è risorto, è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell’uomo. Allora Egli, Gesù, diventa il criterio, del quale ci possiamo fidare. Poiché allora Dio si è veramente manifestato. Per questo, nella nostra ricerca sulla figura di Gesù, la risurrezione è il punto decisivo. Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente – ciò dipende dalla risurrezione. Nel «sì» o «no» a questo interrogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale. È perciò necessario ascoltare con particolare attenzione la testimonianza sulla risurrezione offerta nel Nuovo Testamento. Ma dobbiamo allora, come prima cosa, constatare che questa testimonianza, considerata dal punto di vista storico, si presenta a noi in una forma particolarmente complessa, così da sollevare molte domande. Che cosa è lì successo? Ciò chiaramente, per i testimoni che avevano incontrato il Risorto, non era facile da esprimere. Si erano trovati davanti ad un fenomeno per essi stessi totalmente nuovo, poiché oltrepassava l’orizzonte delle loro esperienze.
Per quanto la realtà dell’accaduto li sconvolgesse fortemente e li spingesse a darne testimonianza
– essa tuttavia era totalmente inusuale. San Marco ci racconta che i discepoli, scendendo dal monte della trasfigurazione, riflettevano preoccupati sulla parola di Gesù secondo cui il Figlio
dell’uomo sarebbe «risorto dai morti». E si domandavano l’un l’altro che cosa volesse dire
«risorgere dai morti» (9,9s). E di fatto: in che cosa ciò consiste? I discepoli non lo sapevano e dovevano impararlo solo dall’incontro con la realtà. Chi si avvicina ai racconti della risurrezione con l’idea di sapere che cosa sia la risurrezione dai morti, non può che interpretare tali racconti in modo sbagliato e deve poi accantonarli come cosa insensata.
Alla fede nella risurrezione Rudolf Bultmann ha obiettato che, anche se Gesù fosse tornato dal sepolcro, si dovrebbe tuttavia dire che «un tale miracoloso evento della natura come la rianimazione di un morto» non ci aiuterebbe per nulla e, dal punto di vista esistenziale, sarebbe irrilevante (cfr Neues Testament und Mythologie, p. 19).
Ebbene, di fatto: se nella risurrezione di Gesù si fosse trattato soltanto del miracolo di un cadavere
rianimato, essa ultimamente non ci interesserebbe affatto. Non sarebbe infatti più importante della
rianimazione, grazie all’abilità dei medici, di persone clinicamente morte. Per il mondo come tale e
per la nostra esistenza non sarebbe cambiato nulla. Il miracolo di un cadavere rianimato significherebbe che la risurrezione di Gesù era la stessa cosa che la risurrezione del giovane di Nain (cfr Lc 7,11-17), della figlia del Giàiro (cfr Mc 5,22-24.35- 43 e par.) o di Lazzaro (cfr Gv 11,1-44). Di fatto, dopo un tempo più o meno breve, questi ritornarono nella loro vita di prima per poi più tardi, a un certo punto, morire definitivamente.
Le testimonianze neotestamentarie non lasciano alcun dubbio che nella «risurrezione del Figlio dell’uomo» sia avvenuto qualcosa di totalmente diverso. La risurrezione di Gesù è stata l’evasione verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire, ma posta al di là di ciò – una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell’essere uomini. Per questo la risurrezione di Gesù non è un avvenimento singolare, che noi potremmo trascurare e che apparterrebbe soltanto al passato, ma è una sorta di «mutazione decisiva » (per usare analogicamente questa parola, pur equivoca), un salto di qualità.
Nella risurrezione di Gesù è stata raggiunta una nuova possibilità di essere uomo, una possibilità che interessa tutti e apre un futuro, un nuovo genere di futuro per gli uomini. Con ragione, quindi, Paolo ha inscindibilmente connesso la risurrezione dei cristiani e la risurrezione di Gesù: «Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto … Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1 Cor 15,16.20). La risurrezione di Cristo o è un avvenimento universale o non è, ci dice Paolo. E solo se la intendiamo come avvenimento universale, come inaugurazione di una nuova dimensione dell’esistenza umana, siamo sulla strada di una giusta interpretazione della testimonianza sulla risurrezione presente nel Nuovo Testamento. Da qui si capisce la peculiarità di tale testimonianza neotestamentaria.
Gesù non è tornato in una normale vita umana di questo mondo, come era successo a Lazzaro e agli altri morti risuscitati da Gesù. Egli è uscito verso una vita diversa, nuova – verso la vastità di Dio e, partendo da lì, Egli si manifesta ai suoi. Ciò era anche per i discepoli una cosa del tutto inaspettata, di fronte alla quale ebbero bisogno di tempo per orientarsi. È vero che la fede giudaica conosceva la risurrezione dei morti alla fine dei tempi. La vita nuova era collegata con l’inizio di un mondo nuovo e in tale prospettiva era anche ben comprensibile: se c’è un mondo nuovo, allora lì esiste anche un modo nuovo di vita. Ma una risurrezione verso una condizione definitiva e differente, nel bel mezzo del mondo vecchio che continua ad esistere – questo non era previsto e pertanto inizialmente neanche comprensibile. Per questo la promessa della risurrezione era in un primo tempo rimasta inafferrabile per i discepoli. Il processo del divenire credenti si sviluppa in modo analogo a quanto è avvenuto nei confronti della croce. Nessuno aveva pensato ad un Messia crocifisso. Ora il «fatto» era lì, e in base a tale fatto occorreva leggere la Scrittura in modo nuovo.
Nel capitolo precedente abbiamo visto come partendo dall’inatteso la Scrittura si sia dischiusa in
modo nuovo e così anche il fatto abbia acquistato un suo senso. La nuova lettura della Scrittura, ovviamente, poteva cominciare soltanto dopo la risurrezione, perché soltanto in virtù di essa Gesù
era stato accreditato come inviato di Dio. Ora si dovevano individuare ambedue gli eventi – croce
e risurrezione – nella Scrittura, comprenderli in modo nuovo e così giungere alla fede in Gesù come
Figlio di Dio. Questo, peraltro, presuppone che per i discepoli la risurrezione fosse reale come la croce. Presuppone che essi fossero semplicemente sopraffatti dalla realtà; che dopo tutta la titubanza e la meraviglia iniziali non potessero più opporsi alla realtà: è veramente Lui; Egli vive e ci ha parlato, ci ha concesso di toccarlo, anche se non appartiene più al mondo di ciò che normalmente è toccabile.
Il paradosso era indescrivibile: che Egli fosse del tutto diverso, non un cadavere rianimato, ma
uno che in virtù di Dio viveva in modo nuovo e per sempre; e che al tempo stesso, in quanto tale,
pur non appartenendo più al nostro mondo, fosse presente in modo reale proprio Lui, nella sua piena identità. Si trattava di un’esperienza assolutamente unica, che andava al di là degli usuali orizzonti dell’esperienza e, tuttavia, restava per i discepoli del tutto incontestabile. A partire da ciò si
spiega la peculiarità delle testimonianze sulla risurrezione: parlano di una cosa paradossale, di
qualcosa che supera ogni esperienza e che tuttavia è presente in modo assolutamente reale.
Su facebook un gioco per le ultime volontà di Raffaella Frullone, 10-03-2011,
Leggiamo la notizia dal Corriere della Sera “Da oggi è possibile fare testamento biologico, anche se solo simbolicamente, in rete. Grazie ad una applicazione di Facebook promossa dall’associazione Luca Coscioni e realizzata dalle agenzie Ninja LAB e Mikamai. L’applicazione si chiama The Last Wish (ovvero l’ultimo desiderio)”. Ora, siccome noi sappiamol’Associazione Luca Coscioni è sempre feconda quando si parla di genialate, decidiamo di capire di che cosa si tratta, e accediamo all’applicazione.
Ecco cosa appare“The Last Wish è l'ultimo grido in fatto di Personal Branding e Social Media Marketing per la persona”. Bene, invitante. “Hai sempre curato la tua immagine al meglio?” Certamente sì, sono una fashion victim “Casa, giardino, auto?” (Bè lasciamo stare la macchina, per il resto direi che ci siamo). “Quello che ti circonda ha sempre comunicato la tua personalità ricca di stile ed eleganza?”. Ça va sans dire! “Allora non puoi andartene senza curare ogni dettaglio, come si addice a un uomo moderno che conosce l'importanza della propria identità digitale. The Last Wish è un servizio che ti permette di gestire al meglio il tuo profilo Facebook in caso tu sia impossibilitato a farlo per gravi motivi”. Cavoli, e chi ci aveva mai pensato che adesso per essere stilée bisognasse occuparsi anche della morte! Io che per sentirmi glamour ho sempre curato fino all’ultimo dettaglio, mi ero scordata il dettaglio veramente ultimo, quello dopo il quale si passa la palla all’Onnipotente. Quanto sono indietro, per fortuna è arrivata l’associazione Luca Coscioni! Andiamo avanti a leggere “Insomma - facendo le corna! - se vai all'altro mondo almeno sulla tua bacheca rimarrà la citazione del tuo poeta preferito, invece delle foto che ti ritraggono ubriaco” Be’ ragazzi, mi trovo di fronte ad un’opportunità unica, anzi direi salvifica! Penso al dramma che si consumerebbe qualora andassi all’altro mondo (tra l’altro, da quando per l’Associazione Luca Coscioni esiste un altro mondo?) e amici e parenti, nella più totale anarchia, postassero qualunque cosa sulla mia bacheca? Solo l’idea mi fa rabbrividire, e se l’astemia mi mette al riparo da eventuali fotografie ubriaca, qualcuno potrebbe addirittura tirar fuori una foto di quelle con gli amici al mare, altro che cura della immagine, c’è il rischio che si veda la cellulite, non sia mai. Oppure che so, morire all’improvviso e trovare scritto sulla bacheca dei banali messaggi tipo “ci mancherai”, “ti vogliamo bene”, o ancora peggio “sono sempre i migliori che se ne vanno”. No no, è davvero out. Ma andando avanti scopro un’altra imperdibile possibilità “Potrai anche inviare dei messaggi personalizzati alle persone a cui vuoi più bene, ma soprattutto sfancularti quelle che hai sempre odiato”. Ma che eleganza ragazzi! E che accuratezza, proprio nulla viene lasciato al caso”.
La prima cosa da fare è nominare due esecutori testamentari, ovvero stabilire chi in caso di decesso (sempre “facendo le corna”) avrà l’onere e l’onore di avviare le pratiche di pubblicazione ed esecuzione delle mie ultime volontà. Leggiamo: “Seleziona i due tuoi esecutori testamentari. Saranno loro ad avviare la procedura quando sarà il momento (facciamo le corna!)”
Mentre compilo il form iniziano ad arrivarmi dei messaggi di amici preoccupati (evidentemente sulla mia bacheca già appare la mia adesione). Mi scrive Marco su Skype: “Ma cos’è sto The last wish, non porterà un tantinello sfiga?”, “No – gli rispondo – ho fatto le corna come indicato”. La scelta degli esecutori testamentari si presenta subito ardua, chi scegliere? Amici, parenti colleghi? E poi in base a quali criteri? La scelta cade suo mio papà perché mi sa che sarebbe l’unico che oltre a eseguire le mie ultime volontà sarebbe disposto a estinguere miei eventuali debiti, e credo di essere fortunata perché mica tutti possono contare su un papà così avanti da essere su facebook, qualcuno sarà stato costretto a scegliere il compagno di banco delle elementari o l’ex conosciuto in vacanza a Formentera nel ‘95. L’applicazione mi dice che posso anche lasciargli un messaggio, procedo “Ciao papi, sto pensando di lasciare una traccia digitale delle mie ultime volontà e ti nomino esecutore testamentario, sei contento? Non fare gli scongiuri perché ti vedo”. Pochi minuti e rifletto, certo, mio papà è affidabile per le scelte che contano, ma proprio non risponde a quello che dice il messaggio pubblicitario in fatto di immagine: “Quello che ti circonda ha sempre comunicato la tua personalità ricca di stile ed eleganza? Allora non puoi andartene senza curare ogni dettaglio”. Per mio padre il dettaglio non esiste, si confonde il rosa con l’arancione e l’eleganza per lui è il nome uno dei vizi capitali (che per comodità ha sostituito con il meno simpatico “gola”). Decido di bilanciare subito nominando come secondo esecutore testamentario la mia amica Laura che in fatto di stile è seconda solo a Carry Bradshow, anche a lei scrivo “Ciao amica, ho pensato di nominarti esecutrice testamentaria, in caso di morte ti va? Oltre alle mie ultime volontà puoi anche tenerti tutte le mie scarpe, non sono il tuo numero ma so che per te non è un problema. Mi raccomando il Rosario nella bara, non quello di Assisi in legno, ma quello blu che ho preso a San Giovanni Rotondo, fa più luce”. Segue telefonata “The last wish? Ma non potevi giocare a Farmville, come fanno tutti?” No – rispondo- devo pensare all’ultimo dettaglio in caso di partenza anticipata l’altro mondo. “Ok, ma sappi che io non ti stacco niente. Ti porto a Lecco dalle suore che si sono prese cura di Eluana”. Ovviamente sapevo di mettermi in mani sicure anche in questo caso.
Step successivo. “Scrivi ora il tuo Last Wish, che sarà pubblicato sul tuo profilo Facebook come ultimo tuo messaggio in caso di decesso (facciamo le corna!)”. Preciso per chi legge che tutti questi “facciamo le corna” non me li sto inventando io per sbeffeggiare l’applicazione, ci sono davvero. Comunque più che un ultimo desiderio, qui posso scrivere un ultimo messaggio da lasciare in bacheca sempre in caso di partenza improvvisa. Così, dopo una lunga e tormentata riflessione ( Metto un pezzo dei Queen? Una frase di sex and the city? Il motto della mia amica Jessy? ) opto per “Dio mio perdonami”, nell’eventualità in cui, a furia di curare l’ultimo dettaglio, mi sfugga prorpio quello principale.Visto che scripta manent, mi verrà buono al mio incontro con San Pietro.
E se fino a qui la cosa poteva suonare divertente, da qui in poi non c’è niente da ridere. A questo punto infatti si apre un documento word dal titolo “Testamento biologico ovvero direttive o dichiarazioni anticipate di trattamento o qualsivoglia altro appellativo per il medesimo contenuto”, un documento da brivido che in poche pagine ci dimostra come anche quello che ci vogliono presentare come gioco innocuo, non sia altro che l’ennesimo tentativo di diffondere una cultura eutanasica, stavolta utilizzando un social netword.
Eccone alcuni estratti “Considero prive di valore e lesive della mia dignità di persona tutte le situazioni in cui non fossi capace di un'esistenza razionale e/o fossi impossibilitato da una malattia irreversibile a condurre una vita di relazioni; e quindi considero non dignitose tutte le situazioni in cui le cure mediche non avessero altro scopo che quello di un mero prolungamento della vita vegetativa. Perciò, dato che in tali circostanze la vita sarebbe per me molto peggiore della morte, voglio che tutti i trattamenti destinati a protrarla siano sospesi o cessati. Considero egualmente non accettabili, in quanto anch'esse peggiori della morte e in contrasto con il mio concetto di valore della vita e dignità della persona umana, situazioni in cui malattie senza prospettive di guarigione siano inutilmente prolungate attraverso cure e metodi artificiali”
Ed ecco le disposizioni vere e proprie “Dispongo che interventi oggi comunemente definiti "provvedimenti di sostegno vitale" e che consistono in misure urgenti quali, ad esempio, la rianimazione cardiopolmonare, la ventilazione assistita, la dialisi, la chirurgia d'urgenza, le trasfusioni di sangue, l'alimentazione artificiale, terapie antibiotiche, non siano messi in atto, qualora il loro risultato fosse, a giudizio di due medici, dei quali uno specialista: il prolungamento del mio morire, il mantenimento di uno stato d'incoscienza permanente, il mantenimento di uno stato di demenza, totale paralisi con incapacità a comunicare. In particolare, nel caso io fossi affetto/a da una malattia allo stadio terminale, da una malattia o una lesione cerebrale invalidante e irreversibile, da una malattia implicante l'utilizzo permanente di macchine o altri sistemi artificiali, incluso ogni forma di alimentazione artificiale, e tale da impedirmi una normale vita di relazione, rifiuto qualsiasi forma di rianimazione o continuazione dell'esistenza dipendente da macchine e non voglio più essere sottoposto/a ad alcun trattamento terapeutico. Chiedo inoltre formalmente che nel caso fossi affetto/a da una delle malattie sopra indicate siano intrapresi tutti i provvedimenti atti ad alleviare le mie sofferenze, compreso in particolare l'uso di farmaci oppiacei, anche se essi rischiassero di anticipare la fine della mia vita”.
E poi dulcis in fundo, della serie finalmente si parla chiaro: “Nella prospettiva, inoltre, di un'auspicata depenalizzazione, anche nel nostro paese, dell'eutanasia, nel caso in cui anche la sospensione di ogni trattamento terapeutico non determini la morte, chiedo che mi sia praticato il trattamento eutanasico, nel modo che sarà ritenuto più opportuno per la conclusione serena della mia esistenza”.
Il percorso con ThebestWish finisce con questo messaggio “Nonostante la legge italiana non abbia ancora sancito la validità di questo documento, fai valere le tue volontà”, mentre sulla mia bacheca facebook appare: “Raffaella Frullone ha utilizzato The Last Wish, il servizio innovativo di Personal Branding per il dopo vita. Non essere da meno. Se ci tieni alla tua immagine su facebook, vieni su The last Wish e attiva il servizio gratuitamente”.
Io invece, che ci tengo non solo all’immagine, ma come insegna Carla Gozzi, anche al buon gusto, e soprattutto alla reputazione, vado subito a cancellarmi dal gruppo, non vorrei che la prossima volta che scrivo in bacheca “Ho un mal di testa da morire”, mi arrivi un messaggio promozionale per la vendita del kit eutanastico fai da te oppure, facciamo le corna, mi prendano per una che attende con ansia "un'auspicata depenalizzazione dell'eutanasia nel nostro paese".
La quaresima è tempo di studio e preghiera di Massimo Introvigne, 09-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
La catechesi di Benedetto XVI per la giornata del 9 marzo ha interrotto il ciclo dedicato ai santi del secolo XVII per ricordare come «oggi, segnati dall’austero simbolo delle Ceneri, entriamo nel Tempo di Quaresima, iniziando un itinerario spirituale che ci prepara a celebrare degnamente i misteri pasquali». Non si tratta, naturalmente, di semplice folklore. «La cenere benedetta imposta sul nostro capo è un segno che ci ricorda la nostra condizione di creature, ci invita alla penitenza e ad intensificare l’impegno di conversione per seguire sempre di più il Signore».
Che cos’è la Quaresima? Si tratta, ha detto il Papa, essenzialmente di un cammino di penitenza di studio e di preghiera. Tutti siamo chiamati giorno per giorno ad «accompagnare Gesù che sale a Gerusalemme, luogo del compimento del suo mistero di passione, morte e risurrezione». In questo senso la Quaresima è un compendio di tutto il cristianesimo. In effetti, «la vita cristiana è una “via” da percorrere, consistente non tanto in una legge da osservare, ma nella persona stessa di Cristo, da incontrare, da accogliere, da seguire. Gesù, infatti, ci dice: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23)».
La pietà cristiana ha sempre parlato della piccola «croce di ogni giorno» che dobbiamo assumere con rassegnazione e per amore di Gesù. Il Papa invita a rileggere «una bella pagina dell’Imitazione di Cristo: “Prendi, dunque, la tua croce e segui Gesù; così entrerai nella vita eterna. Ti ha preceduto lui stesso, portando la sua croce (Gv 19,17) ed è morto per te, affinché anche tu portassi la tua croce e desiderassi di essere anche tu crocifisso. Infatti, se sarai morto con lui, con lui e come lui vivrai. Se gli sarai stato compagno nella sofferenza, gli sarai compagno anche nella gloria” (L. 2, c. 12, n. 2)».
La Quaresima, però, dovrebbe essere anche un tempo di studio, di maggiore conoscenza del mistero del Signore. Nella Colletta della Messa della prima Domenica di Quaresima ci apprestiamo a pregare così: «O Dio nostro Padre, con la celebrazione di questa Quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi ai tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita». La condotta di vita presuppone la conoscenza. Questa passa anche per i libri, ma non si limita ai libri. Anzi, «è soprattutto nella Liturgia, nella partecipazione ai santi misteri, che noi siamo condotti a percorrere questo cammino con il Signore; è un metterci alla scuola di Gesù, ripercorrere gli eventi che ci hanno portato la salvezza, ma non come una semplice commemorazione, un ricordo di fatti passati».
La liturgia ha un vero valore formativo, e – per chi sappia mettersi alla sua scuola – offre un costante insegnamento, non solo teorico ma pratico. «Nelle azioni liturgiche – ha detto il Papa – Cristo si rende presente attraverso l’opera dello Spirito Santo, quegli avvenimenti salvifici diventano attuali. C’è una parola-chiave che ricorre spesso nella Liturgia per indicare questo: la parola “oggi”; ed essa va intesa in senso originario e concreto, non metaforico. Oggi Dio rivela la sua legge e a noi è dato di scegliere oggi tra il bene e il male, tra la vita e la morte (cfr Dt 30,19); oggi “il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15); oggi Cristo è morto sul Calvario ed è risuscitato dai morti; è salito al cielo e siede alla destra del Padre; oggi ci è dato lo Spirito Santo; oggi è tempo favorevole. Partecipare alla Liturgia significa allora immergere la propria vita nel mistero di Cristo, nella sua permanente presenza, percorrere un cammino in cui entriamo nella sua morte e risurrezione per avere la vita».
Come il Papa ha ricordato nel suo Messaggio per la Quaresima che La Bussola Quotidiana ha a suo tempo commentato, reso pubblico il 22 febbraio e richiamato in questa udienza, la Quaresima – proprio attraverso le sue liturgie – ha una stretta relazione con il Battesimo. Nel tempo di Quaresima tutti «siamo introdotti a vivere un itinerario battesimale, quasi a ripercorrere il cammino dei catecumeni, di coloro che si preparano a ricevere il Battesimo, per ravvivare in noi questo dono e per far in modo che la nostra vita recuperi le esigenze e gli impegni di questo Sacramento, che è alla base della nostra vita cristiana».
In effetti, ha aggiunto il Papa, «le Letture che ascolteremo nelle prossime domeniche e alle quali vi invito a prestare speciale attenzione, sono riprese proprio dalla tradizione antica, che accompagnava il catecumeno nella scoperta del Battesimo: sono il grande annuncio di ciò che Dio opera in questo Sacramento, una stupenda catechesi battesimale rivolta a ciascuno di noi». Riassumendo il Messaggio per la Quaresima 2011, il Papa ha richiamato le letture delle cinque domeniche che ci attendono, augurandosi che siano occasione di studio dei misteri del cammino quaresimale che è allo stesso tempo cammino battesimale.
«La Prima Domenica, chiamata Domenica della tentazione, perché presenta le tentazioni di Gesù nel deserto, ci invita a rinnovare la nostra decisione definitiva per Dio e ad affrontare con coraggio la lotta che ci attende per rimanergli fedeli». «La Seconda Domenica è detta di Abramo e della Trasfigurazione. Il Battesimo è il sacramento della fede e della figliolanza divina; come Abramo, padre dei credenti, anche noi siamo invitati a partire, ad uscire dalla nostra terra, a lasciare le sicurezze che ci siamo costruite, per riporre la nostra fiducia in Dio; la meta si intravede nella trasfigurazione di Cristo, il Figlio amato, nel quale anche noi diventiamo “figli di Dio”». La Terza Domenica «ci fa incontrare la Samaritana (cfr Gv 4,5-42). Come Israele nell’Esodo, anche noi nel Battesimo abbiamo ricevuto l’acqua che salva; Gesù, come dice alla Samaritana, ha un’acqua di vita, che estingue ogni sete; e quest’acqua è il suo stesso Spirito». La Quarta Domenica «ci fa riflettere sull’esperienza del “cieco nato” (cfr Gv 9,1-41). Nel Battesimo veniamo liberati dalle tenebre del male e riceviamo la luce di Cristo per vivere da figli della luce». Infine, la Quinta Domenica «ci presenta la risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11,1-45). Nel Battesimo noi siamo passati dalla morte alla vita e siamo resi capaci di piacere a Dio, di far morire l’uomo vecchio per vivere dello Spirito del Risorto». I catecumeni che si preparano al Battesimo ripercorrono nelle domeniche di Quaresima, ciascuna segnata da specifici gesti liturgici, proprio questo itinerario.
La Chiesa ci propone anche tre pratiche di Quaresima: il digiuno, l’elemosina e la preghiera. Il digiuno «significa l’astinenza dal cibo, ma comprende altre forme di privazione per una vita più sobria. Tutto questo però non è ancora la realtà piena del digiuno: è il segno esterno di una realtà interiore, del nostro impegno, con l’aiuto di Dio, di astenerci dal male e di vivere del Vangelo. Non digiuna veramente chi non sa nutrirsi della Parola di Dio».
Sull’elemosina il Papa richiama le parole di san Leone Magno (390-461): «“Quanto ciascun cristiano è tenuto a fare in ogni tempo, deve ora praticarlo con maggiore sollecitudine e devozione, perché si adempia la norma apostolica del digiuno quaresimale consistente nell’astinenza non solo dai cibi, ma anche e soprattutto dai peccati. A questi doverosi e santi digiuni, poi, nessuna opera si può associare più utilmente dell’elemosina, la quale sotto il nome unico di ‘misericordia’ abbraccia molte opere buone. Immenso è il campo delle opere di misericordia. Non solo i ricchi e i facoltosi possono beneficare gli altri con l’elemosina, ma anche quelli di condizione modesta e povera. Così, disuguali nei beni di fortuna, tutti possono essere pari nei sentimenti di pietà dell’anima” (Discorso 6 sulla Quaresima, 2: PL 54, 286)».
La Quaresima, inoltre, «è un tempo privilegiato per la preghiera. Sant’Agostino [354-430] dice che il digiuno e l’elemosina sono “le due ali della preghiera”, che le permettono di prendere più facilmente il suo slancio e di giungere sino a Dio. Egli afferma: “In tal modo la nostra preghiera, fatta in umiltà e carità, nel digiuno e nell’elemosina, nella temperanza e nel perdono delle offese, dando cose buone e non restituendo quelle cattive, allontanandosi dal male e facendo il bene, cerca la pace e la consegue. Con le ali di queste virtù la nostra preghiera vola sicura e più facilmente viene portata fino al cielo, dove Cristo nostra pace ci ha preceduto” (Sermone 206, 3 sulla Quaresima: PL 38,1042)».
Ma – si potrebbe chiedere – non è forse vero che bisogna pregare sempre e non solo in Quaresima? «La Chiesa – risponde il Papa – sa che, per la nostra debolezza, è faticoso fare silenzio per mettersi davanti a Dio, e prendere consapevolezza della nostra condizione di creature che dipendono da Lui e di peccatori bisognosi del suo amore». Pregare, soprattutto oggi, non è facile. La Quaresima, se sappiamo viverla in un clima di sobrietà segnato dal digiuno e dall’elemosina, può essere un tempo privilegiato per riscoprire il posto adeguato che nella nostra vita dobbiamo dare alla preghiera.
SULLA DIAGNOSI GENETICA PREIMPIANTO LA GERMANIA SI DIVIDE - Metà del Consiglio Etico tedesco è favorevole a una sua pratica limitata di Paul De Maeyer
ROMA, mercoledì, 9 marzo 2011 (ZENIT.org).- A circa una settimana dall'inizio del dibattito sulla diagnosi preimpianto (PID o "Preimplantation Diagnosis", chiamata anche PDG o "Preimplantation Genetic Diagnosis") nel Bundestag (Camera bassa), il Consiglio Etico della Germania (Deutsche Ethikrat) ha reso pubblico martedì 8 marzo a Berlino un parere sulla pratica, che riflette una profonda spaccatura all'interno dell'organismo consultivo indipendente.
Mentre 13 membri dell'Ethikrat – cioè esattamente la metà - si esprimono a favore di un'autorizzazione limitata ai test genetici su embrioni concepiti in vitro, 11 membri respingono la PID e chiedono un divieto totale. C'è stato anche un parere particolare, quello di Eckhard. L'esperto in Etica medica, che è direttore medico della Clinica universitaria di Essen e insegna all'Università di Bayreuth, ha presentato un elenco vincolante di malformazioni e patologie in cui la PID dovrebbe essere autorizzata. Un solo membro dell'Ethikrat si è astenuto: Weyma Lübbe, ordinaria di Filosofia pratica presso l'Università di Ratisbona.
Secondo i sostenitori di una parziale legalizzazione, fra cui il presidente dell'Ethikrat, cioè l'ex ministro federale della Giustizia, Edzard Schmidt-Jortzig, e anche l'ex presidente del Sinodo della Chiesa Evangelica tedesca (EKD), Jürgen Schmude, la PID andrebbe autorizzata quando esiste un "alto rischio medico" che l'embrione sia portatore di un handicap ereditario o di una grave malattia genetica. Inoltre, la diagnosi genetica preimpianto dovrebbe essere consentita quando c'è la possibilità di anomalie cromosomiche ereditarie che mettono a rischio la sopravvivenza del bambino al di fuori dell'utero materno. Mentre la PID per la selezione del sesso dovrebbe rimanere proibita (tranne nei casi di determinate malattie legate al sesso del nascituro), i sostenitori respingono l'idea di un catalogo delle anomalie che necessitano di diagnosi genetica. Escludono inoltre il ricorso alla tecnica e alla selezione embrionale per creare un bambino compatibile come donatore o per scoprire la presenza di anomalie cromosomiche legate all'età della madre (ad esempio la sindrome di Down o trisomia 21).
Secondo l'opinione degli oppositori alla PID in seno all'Ethikrat, tra cui monsignor Anton Losinger, vescovo ausiliare di Augusta, e il teologo cattolico Eberhard Schockenhoff, professore di Teologia morale a Friburgo in Bresgovia, autorizzare la tecnica significa invece respingere la vita umana sulla base di caratteristiche indesiderate. La PID comporta inoltre la creazione di una elevata quantità di embrioni "soprannumerari". Da temere è anche una "rottura della diga", con uno slittamento verso la creazione di bambini detti "su misura". Contro una parziale legalizzazione della diagnosi genetica si sono espressi anche i due vescovi emeriti della EKD che siedono nell'organismo consultivo, Wolfgang Huber e Christoph Kähler.
È stata la seconda volta che in Germania un organismo consultivo si esprime sulla PID. La prima volta, nel 2003, una maggioranza di due terzi dell'allora Consiglio Nazionale di Etica (Nationale Ethikrat) - una creazione della coalizione "rosso-verde" del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder – si era detta favorevole ad una parziale legalizzazione.
Gli oppositori alla diagnosi preimpianto non nascondono la loro delusione per il parere dell'Ethikrat, definito da alcuni un "Jein", cioè un "nì". "La selezione di embrioni concepiti fuori dal corpo (materno) è una massiccia violazione della lettera e dello spirito della Costituzione e della legge sulla protezione degli embrioni", ha detto ieri mons. Losinger, secondo quanto riferito dal sito della Conferenza Episcopale tedesca (DBK). Il rifiuto di un embrione sulla base di certe caratteristiche cromosomiche viola secondo il presule non solo la dignità umana e il diritto fondamentale alla vita ma anche il divieto di discriminazione fondata sull'handicap, stabilito dalla Costituzione tedesca. "Qui si ottiene una rottura etica della diga, perché l'embrione umano è un uomo allo stadio embrionale sin dall'unione tra la cellula uovo e la cellula spermatica. Come uomo allo stadio embrionale ha dignità e diritto alla vita", ha continuato Losinger.
In un'intervista all'agenzia KNA (8 marzo), il teologo Schockenhoff si è dichiarato "sorpreso" per il parere dell'organismo. Secondo Schockenhoff, l'obiezione principale contro la PID è che seleziona la vita e fa una "distinzione tra vita degna di essere vissuta e vita indegna di essere vissuta". Per il teologo, si trasmette alle persone handicappate il messaggio che se fossero state concepite ai tempi della PID non sarebbero mai nate. Inoltre si deve temere – così continua - che gli sforzi per curare certe anomalie ereditarie diminuiranno, come succede già negli USA. Non va dimenticato neppure che la PID ha dei limiti. La sua efficacia "viene grottescamente sopravvalutata", sostiene Schockenhoff.
A riaccendere il dibattito sulla PID in Germania è stata una sentenza emessa nel luglio scorso dalla Corte Federale di Cassazione (BGH o Bundesgerichtshof). Il tribunale con sede a Lipsia aveva assolto il 6 luglio 2010 il ginecologo Matthias Bloechle e stabilito che non si può vietare il ricorso alla diagnosi genetica preimpianto né impedire a genitori con una disposizione a gravi difetti ereditari di scegliere la strada della selezione embrionale. Bloechle aveva eseguito una PID nel 2005 e 2006 nel suo "Kinderwunschzentrum" di Berlino a tre coppie predisposte a patologie genetiche (una delle coppie in questione aveva già una figlia handicappata) e trasferito in utero solo embrioni "sani".
Anche se la sentenza del 6 luglio scorso non è vincolante per il legislatore e vale solo per il caso concreto del dottor Bloechle, si teme che presto altri tribunali seguiranno la logica del Bundesgerichtshof, un elemento che costringe il parlamento tedesco ad intervenire e colmare l'attuale "zona grigia" nella legislazione. La settimana prossima, giovedì 17 marzo, il Bundestag inizierà l'esame di tre diversi progetti di legge presentati da altrettanti gruppi trasversali di deputati. Mentre il voto finale è previsto per il mese di giugno o luglio - cioè prima della pausa estiva -, quello che accomuna le tre proposte è che mantengono in linea di massima il divieto della PID. Due delle tre prevedono però delle deroghe.
Ad appoggiare il disegno di legge che respinge il ricorso alla tecnica sono tra gli altri la cancelliera democristiana Angela Merkel (CDU), il capo gruppo della frazione dell'Unione (CDU-CSU) nel Bundestag, Volker Kauder, l'ex ministro socialdemocratico della Sanità, Ulla Schmidt, e il vice presidente del Bundestag, Katrin Göring-Eckardt (Verdi).
Un secondo progetto è sostenuto da Ulrike Flach, vice capo gruppo della FDP (liberali), Peter Hintze (CDU), sottosegretario all'Economia, Carola Reimann, esperta in temi di sanità della SPD, e Petra Sitte, vice capo gruppo della Linke (La sinistra). Mantiene il divieto della PID ma prevede varie eccezioni, come nel caso di una predisposizione dei genitori, la possibilità di un aborto o che il bambino nasca morto. Decisiva è la gravità della malattia o malformazione ereditaria e il criterio della probabilità. Per evitare abusi, la proposta prevede una consulenza specialistica obbligatoria, il via libera da parte di una commissione etica e il consenso scritto della donna. E la PID potrà essere realizzata solo presso centri autorizzati.
Il terzo progetto di legge, che ha l'appoggio dei deputati René Röspel (SPD), Priska Hinz (Verdi) e Patrick Meinhardt (FDP), conferma a sua volta il divieto ma permette la diagnosi genetica in condizioni molto circoscritte, in particolare quando la sopravvivenza del feto non è garantita o quando il nascituro non supererebbe il primo anno di vita, come nel caso di bambini affetti dalla trisomia 13 (la sindrome di Patau). Il criterio decisivo qui non è la gravità della patologia trasmessa ma la previsione di sopravvivenza.
L'esito del dibattito si preannuncia incerto. Le pressioni a favore di un'autorizzazione della PID "con paletti" sono forti. Nel corso delle ultime settimane, varie rinomate accademie scientifiche si sono espresse a favore della tecnica, fra cui l'Accademia Nazionale delle Scienze Leopoldina. A fine febbraio anche una commissione scientifica dell'Ordine dei Medici Tedeschi (Bundesärztekammer o BÄK) aveva auspicato in un "memorandum" ampie deroghe alla proibizione della PID.
Un'insolita iniziativa contro la PID è stata lanciato invece di recente da due esponenti delle grandi Chiese. In una lettera congiunta inviata a tutti i ministri federali e a molti deputati dell'Assia, il vescovo di Fulda, monsignor Heinz Josef Algermissen, e il vescovo della Chiesa evangelica del Kurhessen-Waldeck, Martin Hein, hanno preso le difese degli embrioni concepiti in vitro. Ciò che turba profondamente i due vescovi è che "l'embrione che presenta dei danni genetici deve morire" (Die Tagespost, 4 marzo).
Libertà maltrattata – Redazione - giovedì 10 marzo 2011, il sussidiario.net
Che cos’è la libertà, oggi? A cosa l’abbiamo ridotta? Non c’è dibattito politico o culturale, in tv o sui giornali, che non presupponga - magari senza che se ne parli apertamente - una certa idea della libertà, che io rifiuto completamente perché si fonda su un ricatto morale.
Per esempio, un intellettuale o un giornalista che oggi si dichiarino a favore di Berlusconi suscitano nel mondo culturale un moto di odio o, peggio, di compassione perché ritenuti non liberi. Essere dalla parte del Cavaliere significa, ipso facto, non essere uomini liberi. Con uno così, è il pensiero di molti, si può stare solo se si è pagati.
Viceversa, chi è antiberlusconiano è, ipso facto, un uomo libero. Il perché non è chiaro, ma è così. Non è certo l’opposizione al potere. Infatti un vero oppositore del potere dovrebbe continuare a esserlo anche quando gli antiberlusconiani vincessero. Ma gente fatta così non ce n’è molta. I più, da una parte come dall’altra, sono uomini di regime.
Io non ho nessun disprezzo per gli uomini di regime. Ogni regime - quello che c’è, quello che c’era e quello che ci sarà - ha i suoi uomini, dignitosi e rispettabili come tutti.
Mio papà, a Milano, durante la guerra fu imprigionato perché antifascista. Aveva diciott’anni, e altri ragazzi della sua età - soldati fascisti - lo fecero scappare. Nonostante i tempi grami, c’era, tra quei ragazzi, una considerazione della dignità umana maggiore di quella che incontriamo nei luoghi dove si fa cultura oggi.
Quello che non è sopportabile è che prevalga, nella nostra società, un’idea di libertà meschina e triste. Dire che la libertà è “essere liberi da” è peggio dell’odio, perché a differenza dell’odio (che non sarebbe possibile senza una certa considerazione del fattore umano) lascia fuori l’uomo, non ne tiene conto, lo dimentica. Così nessuna discussione, nessun dibattito - o quasi - è “alla pari”, perché un giudizio emesso a priori stabilisce in partenza chi è libero e chi non lo è.
Per fortuna la gente comune non si è ancora adeguata a questo modello così cupamente astratto. Ma il tempo stringe, ed è indispensabile chiedersi: da cosa si originano i nostri giudizi sulla cultura, sulla politica, sugli uomini? E’ necessario imparare di nuovo a piegarsi sulle cose umili e concrete, altrimenti saremo schiacciati tutti dai pregiudizi, anche e soprattutto chi dice di combatterli.
Eppure la nostra storia, i nostri centocinquant’anni, che celebriamo quest’anno in mille modi, ci ha insegnato altre cose. Cos’era la libertà per i ragazzi che andavano a morire in trincea durante la Grande Guerra? Cos’è stata per i prigionieri nei lager nazisti, nei deportati in Siberia? E’ dalla loro testimonianza che abbiamo imparato il senso di questa parola. Se Primo Levi avesse pensato che la libertà consisteva solo nell’uscire dal lager non ci avrebbe mai regalato quel capolavoro immortale che è Se questo è un uomo.
Quella libertà che un uomo conquista a fatica, con un grande lavoro su di sé, vivendo quel che gli tocca vivere, e che la grande letteratura - nata dalla prova della storia, che spesso vuol dire fame o guerra - ci testimonia attraverso racconti pieni di dolore e di difficoltà, sembra svanita dai discorsi di chi dirige il pensiero generale. Sembra fuori discussione il fatto che, se un uomo si trova - magari per vicende contorte - dalla parte “sbagliata”, sia perciò stesso un venduto.
Qualche tempo fa avrei detto: smettiamola con la politica, smettiamola di puntellare il potere, torniamo a fare come fece il monachesimo dopo la caduta dell’Impero Romano, ricostruendo pezzo per pezzo quella civiltà, quella cultura quella stima per l’uomo che vanno dissolvendosi ogni giorno di più.
Ma forse è tardi anche per questo. Oggi si tratta di trattenere, ciascuno dentro la sua trincea, quell’eredità secolare, cementata dal cristianesimo, che ci ha insegnato non soltanto il senso di parole-chiave come “libertà”, “democrazia”, “dignità”, “diritti”, ma anche il modo - si chiama “educazione” - di farle nostre, perché nulla di ciò che abbiamo ricevuto dai nostri padri può diventare nostro se a nostra volta non lo paghiamo.
Il guaio è che, anche se celebriamo (di malavoglia) i Padri della Patria, oggi non ci sono quasi più padri, che la trasmissione del senso delle cose avviene con difficoltà, che i nostri figli e i nostri nipoti rischiano di crescere come eterni bambini isterici. Perciò, con urgenza, dobbiamo moltiplicare l’impegno educativo.
Un tempo pensavo che l’educazione fosse compito di chi aveva a che fare con persone giovani: genitori, nonni, insegnanti. Non è così. Educazione e persona umana sono la stessa cosa. La questione educativa ci riguarda quando stiamo con i nostri figli ma anche quando lavoriamo, quando facciamo la spesa, quando cuciniamo, quando camminiamo per strada, quando andiamo al cinema, perché è nel modo di affrontare tutte le cose che si decide la libertà. Quella di cui non si sente più parlare.
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SCUOLA/ Maestro-alunno, un'occasione per scoprire insieme le domande "sepolte" di Onorato Grassi, giovedì 10 marzo 2011, il sussidiario.net
Mi è stato affidato il compito di tracciare le linee conclusive del Convegno, in modo tale che possano aiutare la continuazione e lo sviluppo di quanto è stato proposto oggi. Ne vorrei indicare quattro, senza alcuna pretesa di offrire una sintesi completa degli interventi, per i quali rimando alle relazioni scritte, che saranno fra poco a disposizione di tutti.
1. La domanda di conoscenza e il futuro della scuola
Il dato da cui partire - e gli interventi iniziali lo hanno messo bene in evidenza - è la domanda di conoscenza che, con sempre maggior frequenza e maggiore intensità, si registra nella scuola, da parte, anzitutto, degli studenti, ma anche, in forma diversa, degli stessi insegnanti. Le nuove generazioni sembrano meno disposte che in passato a rinunciare a questa essenziale dimensione dell’essere umano, carattere peculiare della sua dignità, e chiedono, a volte in modo ancora confuso e implicito, altre volte invece in modo chiaro, di non sprecare tempo e di utilizzare le proprie energie in un impegno concreto e serio, che permetta loro di crescere e affrontare, da protagonisti, la vita di domani. Un’analoga richiesta viene dalla stessa società, che vede nell’ignoranza, nell’approssimazione, nelle scorciatoie dei furbi una delle cause del suo degrado e del suo impoverimento, non solo spirituale, ma anche materiale. Anche le istituzioni scolastiche e accademiche condividono, in gran parte, questa esigenza, non più disposte a ricoprire un ruolo compensatorio, quali ammortizzatori sociali degli adulti e aree di parcheggio dei giovani, che scelte politiche del passato hanno loro attribuito.
Queste esigenze e richieste si scontrano però, per altro verso, con una tendenza negativa verso l’impoverimento linguistico, scientifico, artistico e, in genere, culturale. Sebbene l’Italia vanti una tradizione scolastica di tutto rispetto, che, ancora conservandosi, permette di evitare pericoli e disagi gravi, come quelli che si registrano in altri paesi occidentali, il fenomeno riguarda anche noi. Non sono mancati, a questo proposito, nelle ultime settimane, interventi accorati di autorevoli esponenti della cultura che, sulle pagine di quotidiani nazionali, hanno voluto esprimere le loro preoccupazioni.
Fra i tanti, riprendiamo un brano di un articolo comparso in prima pagina del Corriere della Sera del 24 gennaio scorso: “Visitando a Roma il Giardino del Lago, col bel tempietto dedicato (in lettere greche) ad Asclepio Salvatore, nessuno si sarebbe domandato: chi era costui? Oggi, dopo generazioni di egualitarismo, che ha pericolosamente ravvicinato l’asino al sapiente, la qualità culturale si è straordinariamente abbassata (…), anche se il bisogno di cultura si è invece esteso”.
Ci troviamo dunque di fronte ad un paradosso dalle dimensioni impreviste: da una parte cresce l’esigenza di conoscenza, dall’altra ci si scontra con l’incapacità di darvi risposta, addirittura per una certa facilità di andare nella direzione opposta.
All’origine di questa situazione paradossale vi sono cause remote, come le scelte politiche e istituzionali fatte sulla scuola negli ultimi decenni, cause prossime, come l’impreparazione e l’inadeguatezza dei formatori, cause formali, come la pedagogia dominante nella scuola italiana e nel ministero dell’Istruzione - si pensi, ad esempio, alla forte riduzione dell’educazione a training -, cause materiali, come la mancanza di risorse e l’inefficienza organizzativa. Senza una corretta soluzione di questo paradosso, nessuna riforma della scuola potrà produrre benefici apprezzabili e potrebbe non solo perpetuare il disagio attuale, ma addirittura aggravarlo.
Fra le tante cose da fare, due sembrano particolarmente urgenti: ridare un’anima alla scuola e ritornare alle sue funzioni specifiche, che essa deve continuare ad esercitare, pur in un contesto sociale nel quale le fonti di informazione e di formazione si sono notevolmente moltiplicate e il suo ruolo esclusivo è messo in discussione.
Per la prima urgenza, l’impegno personale e quello collettivo dovranno essere ampi e articolati; essi saranno tanto più concreti e innovativi quanto più sapranno rivalutare e rivivere quel fattore cruciale di ogni scuola che è il rapporto fra maestro e discepolo, incontro umano di esperienza e di libertà, che spalanca alla realtà. E’ stato più volte ricordato, nelle relazioni di oggi, che l’insegnamento è strettamente collegato alla crescita dell’alunno e, nella rigorosità del metodo e nella padronanza dei contenuti, è sempre qualcosa che accade. Ciò richiede che esso non sia un mero trasferimento di nozioni, ripetute meccanicamente, ma incontro umano in cui siano condivise e approfondite l’esperienza e la conoscenza della realtà. Proprio questa conoscenza deve “contare” nella scuola di oggi, in un quadro di riferimento valoriale improntato alla formazione della persona umana, e dunque alla crescita dell’intera società, per impedire l’appiattimento dell’intero sistema educativo e formativo e per promuoverne, invece, il rilancio (1).
Per la seconda urgenza, occorrerà privilegiare, fra le funzioni plurime che la società chiede alla scuola, quelle sue proprie, ossia quelle legate a istruire, insegnare ed educare (2). Funzioni che la scuola deve riprendere con decisione, superando false ed equivoche contrapposizioni - ad esempio: apprendimento vs. insegnamento oppure competenze vs. conoscenze - e recuperando così il ruolo specifico di “centro di cultura” e “luogo di conoscenza”, ruolo che le compete per diritto in una società e per assolvere il quale essa deve essere adeguatamente sostenuta e finanziata.
2. Il valore della conoscenza
Sostenere che la scuola è “luogo di conoscenza” è però solo un passo, cui devono seguirne altri per completare il cammino. Infatti, di quale conoscenza si intende parlare ?
Già l’uso del singolare, invece del plurale, indica una prospettiva diversa da quella normalmente in auge. Un lessico pedagogico in cui alla “conoscenza” siano stati sostituiti termini quali “conoscenze” e “saperi” denota l’accettazione della divisione e frammentazione del conoscere, e, all’interno di questa divisione, altre distinzioni non validamente fondate - quali ad esempio la distinzione fra saperi utili e saperi non utili, fra saperi prescrittivi e saperi speculativi, fra conoscenza concreta e conoscenza astratta. L’uso del termine al singolare colloca la riflessione al di là di queste divisioni e chiede, dunque, di discuterle e di motivarle, ed eventualmente di respingerle.
Una seconda osservazione riguarda la natura del conoscere e le attuali concezioni, di carattere generale - filosofico e scientifico -, che possono riversarsi nell’ambiente scolastico e nell’attività di insegnamento. E’ compito dell’insegnante rendersi conto della concezione di sapere che, anche attraverso normali pratiche scolastiche, viene sostenuta e diffusa e, in base alle proprie convinzioni, prendere posizione di fronte ad essa, senza subirla ingenuamente. Delle varie visioni della conoscenza, due soprattutto sembrano diffuse e incidenti nella scuola: la conoscenza come costruzione sociale e l’enciclopedismo.
a) Conoscenza come costruzione sociale
La prima, che spesso è associata all’idea di scuola attiva, nella quale i saperi non sono imposti dall’alto, ma, opportunamente decostruiti, vengono inventati o reinterpretati individualmente e collettivamente, si fonda sul principio che il mondo, la realtà, l’oggetto - di cui nelle precedenti relazioni si è ampiamente parlato come di referenti dell’atto di conoscenza - esistono solo in quanto frutto di una descrizione e di una costruzione, socialmente condivisa in un determinato tempo e in una definita regione. Il mondo non è ciò che si incontra e si scopre, ma la costruzione che deriva da una interpretazione o teoria. Come sostengono autorevoli esponenti di questa posizione, «costruiamo mondi costruendone versioni» (Nelson Goodman), giacché «persone [come noi] pensano che non esiste un modo di essere del mondo indipendente da ogni descrizione, un modo di essere in base a nessuna descrizione» e «ogni fatto esiste solo perché noi esseri umani lo abbiamo costruito in modo tale da riflettere i nostri bisogni e interessi contingenti» (3).
Le versioni “scolastiche” di queste dottrine - che presentano elementi di indubbio interesse, seppur criticabili - sono assai varie, dalle più rigide alle più edulcorate, ma presentano alcuni elementi comuni, quali ad esempio: la sostituzione del giudizio con l’opinione, la mancanza di capacità argomentativa, lo spaesamento e la frammentazione (l’“ingiusta sofferenza” inflitta agli studenti, secondo Lucien Lafforgue), e, infine, una vera e propria paura di conoscere, come ha sostenuto Paul Boghossian, ex allievo di Richard Rorty allontanatosi dal maestro.
b) Enciclopedismo
La seconda versione della conoscenza è data dall’idea di sapere inteso come bagaglio di nozioni e informazioni che è necessario possedere per vivere in società ed esercitare un proprio ruolo positivo. La mole di informazioni che oggi sono messe a disposizione dalla rete e che sono prodotte e trasmesse da enti e soggetti, per numero e qualifica, assai differente che nel passato, accredita facilmente la convinzione che la conoscenza sia costituita dall’insieme delle notizie che è possibile acquisire intorno a fatti, personaggi e fenomeni. Poco conta se la “memoria” di tali nozioni non sia più posta nel soggetto umano, ma affidata alla rete; ciò che risulta importante è la disponibilità delle informazioni e la possibilità di attingere ad esse nel momento opportuno. Separate dal contesto e dall’ambito in cui sono collocate, le nozioni si pongono tutte sullo stesso piano - eliminando ogni distinzione di metodo e di ambito disciplinare - e costituiscono un insieme “indifferenziato”, utile, per lo più, all’atto pratico per svolgere determinate operazioni.
Se alla prima versione - dopo aver notato che il solo porre la domanda di conoscenza comporta la discussione di metodi e di prospettive pedagogiche e didattiche a volte introdotte acriticamente nella scuola - si può rinfacciare l’assunto controintuitivo - se esistono solo versioni, intorno a che cosa esse vengono formulate e che cosa determina la preferenza dell’una piuttosto che dell’altra? - e l’inapplicabilità pratica - alla fine si finisce per parlare ancora di cose, di fatti, di realtà -, alla seconda si può rispondere con alcuni brani di un discorso pronunciato, più di un secolo e mezzo fa, da John Henry Newman, nel quale si sottolinea il limite di una conoscenza ridotta a semplice informazione e la necessità, per l’intelligenza umana, di operare nessi fra le nozioni e i fatti, in modo da formulare giudizi e comprendere il senso di ciò che si conosce. Scrive appunto Newman nel XIV Sermone Universitario: “Vi sono uomini che contemplano le cose, sia nel loro insieme sia singolarmente, ma senza porle in correlazione, che accumulano fatti senza formare dei giudizi, che sono soddisfatti di una profonda erudizione o di una vasta informazione”. Analogamente, “studenti che si imbottiscono di letteratura e di scienza così abbondantemente da non lasciare alcuno spazio per determinare le reciproche relazioni che esistono tra le singole acquisizioni, appesantiscono la loro mente piuttosto che allargarla”. Tale allargamento o arricchimento consiste infatti “nel paragone reciproco degli oggetti della conoscenza. Noi sentiamo di spaziare liberamente quando non ci limitiamo ad apprendere qualcosa, ma quando lo riferiamo a ciò che sapevamo prima. L’arricchimento non consiste in una mera aggiunta alla nostra conoscenza, ma nel mutamento di luogo, nel movimento in avanti di quel centro morale attorno al quale gravita ciò che sappiamo e ciò che abbiamo acquisito, l’intera massa della nostra conoscenza” (4). La conoscenza, in altri termini, è l’esercizio della ragione su ciò che apprendiamo, ed è perciò una cosa non morta e statica, ma dinamica e vivente.
La critica alle due posizioni esaminate sopra rimanda a quanto è stato così bene detto stamane sul rapporto conoscitivo con la realtà, sulla dimensione argomentativa della conoscenza, sul dare le ragioni di ciò che si insegna e si apprende, sulla relazione fra maestro e alunno, nell’avventura della scoperta del mondo, e, in positivo, rende impellente la riproposizione del “realismo” metodologico e della dinamica conoscitiva, descritta ne Il rischio educativo, che fa perno sulla tradizione come ipotesi di lavoro e sulla verifica come costruzione del giudizio critico (5).
3) La centralità dell’insegnante
L’insegnante è la vera risorsa della scuola. Da impiegato burocrate (che trasmette e continua un’azione dello Stato) esso deve divenire, come è stato detto, soggetto che rischia in prima persona - la sua faccia, le sue idee, le sue energie - nel rapporto con gli allievi e nel complesso della convivenza umana.
L’insegnante è perciò a) portatore di un’esperienza della realtà e di un’ipotesi per conoscerla, b) terminale, nel presente, di una tradizione vivente ed è capace di comunicarla e di farla rivivere, c) funzione di coerenza ideale.
Le esperienze e le testimonianze di questa mattina hanno chiaramente mostrato questa fisionomia dell’insegnante e fanno ben sperare che nella scuola italiana si possa superare la delusione e la rassegnazione, il disorientamento e la confusione che non di rado impediscono di offrire proposte utili e attraenti alle giovani generazioni. Ma anche, tali testimonianze e riflessioni, hanno richiamato, ancora una volta, la necessità di una adeguata formazione degli insegnanti, sia all’inizio della loro carriera sia durante il loro servizio. Una formazione che tenga anzitutto vivo l’ideale per cui essi hanno scelto questa professione e che, nel tempo, consenta loro di acquisire capacità e mezzi che li rendano sempre più protagonisti della vita scolastica e dello sviluppo culturale e scientifico del nostro paese. E’ questo l’impegno che l’Associazione “Il rischio educativo” ha cercato di assolvere in questi anni e che ora, insieme alla Fondazione per la Sussidiarietà, si cercherà di realizzare in modo sempre più robusto e ampio.
4) Gli studenti
Infine, in un Convegno di insegnanti, è bene ricordare che tutto quello che si fa nella scuola e che una scuola è chiamata a fare ha una finalità precisa: la crescita degli allievi. L’istruzione, l’insegnamento, l’educazione hanno come test del loro valore e della loro efficacia la crescita, umana e intellettuale, dei giovani. Se ciò non avvenisse, la scuola sarebbe solo una grande organizzazione, completa e perfetta come spesso la dipingono i progetti di riforma, senza più ricordare lo scopo per cui è stata istituita. Nel racconto Il pappagallo Tagore, ironicamente e tragicamente, descrive come facilmente la scuola possa diventare autoreferenziale e dimenticarsi, nel perfetto funzionamento delle sue parti, di colui per cui è stata fatta, il quale, nella novella, non solo non canta più, ma è addirittura morto senza che nessuno se ne sia accorto.
Avere sempre presenti gli studenti, accorgersi delle loro esigenze, valorizzare le loro capacità e doti, aiutarli nei disagi che provano, e che non sempre riescono a manifestare, condividere con loro il bisogno di superare la frammentazione del sapere, spesso imposta dalla divisione rigida delle materie, cercare di scoprire il senso delle cose che si studiano e si insegnano, formare in essi una vera coscienza critica, frutto di successive sintesi personali, tutto questo significa riportare la conoscenza nella scuola.
Significa alzare il velo sulle domande, incarnate nello studente, alle quali dare o cercare di dare insieme una risposta. E’ stato prima detto che l’insegnante ha il suo miglior alleato nell’io dello studente. E’ a questo “io” che occorre guardare e rispondere. Ed è per dare questa risposta che vale la pena costruire, non un apparato o un’organizzazione, ma una scuola vivente, sorretta dal rapporto vivo, vero, quotidiano, fra maestri, insegnanti e alunni.
1 Si veda, a questo proposito, La conoscenza conta, a cura di F. Valenti, Annuario dell’Associazione “Il rischio educativo” 2009-10, Milano 2011. Per un approfondimento dell’aspetto didattico del tema della conoscenza nella scuola, interessanti contributi si possono trovare nei precedenti annuari: Che cosa ‘fa testo’ nella scuola, a cura di A. Casetta e F.Valenti, Milano 2010; Che cosa accade in un’ora di scuola, a cura di A. Casetta e F.Valenti, Milano 2009.
2 Sull’importanza di recuperare le originario funzioni della scuola, si veda: La disfatta della scuola. Una tragedia annunciata, a cura di L. Lafforgue e L. Lurçat, Marietti 1820, Milano-Genova 2009.
3 Cfr. P. Boghossian, Paura di conoscere, Carocci, Roma 2006, p. 43.
4 J. H. Newman, Sermoni Universitari XIV, in Il cuore del mondo, Rizzoli, Milano 1994, pp. 40-41.
5 Cfr. L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, pp. 68-83, 87-93.
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FINE VITA/ Ecco perché dopo Eluana serve una legge di Gabriele Toccafondi, giovedì 10 marzo 2011, il sussidiario.net
Alla Camera ha preso il via la discussione sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat). Colpisce che la legge sia poco conosciuta soprattutto dagli stessi parlamentari, ma ancor di più sorprende che da angolature e convincimenti opposti in molti affermano: meglio nessuna legge che questa legge.
Sorprende perché forse non si comprende che questa legge è quasi obbligata dopo la sentenza definitiva del caso Englaro e dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale in merito ai ricorsi, una sentenza che ha creato una strada verso una forma di eutanasia che altri possono agevolmente percorrere. Sorprende perché senza una “regola”, che in qualche modo parta dalle dichiarazioni di volontà del paziente, la stessa legge sarebbe praticamente nulla, perché le sentenze e il pronunciamento della Corte Costituzionale obbligano il legislatore a partire proprio dal rispetto delle dichiarazioni di volontà. Sorprende, infine, perché l’alternativa sarebbe l’anarchia delle sentenze di singoli tribunali. È un dovere fare una legge tenendo conto dei paletti imposti dal caso Eluana, questa è la realtà: tutto il resto è immaginato e idealizzato, ma non corrisponde alla realtà.
Forse è il caso di ripercorrere quanto accaduto negli ultimi tre anni nel nostro Paese, perché una cosa è chiara: nessuno voleva fare una legge su questo tema, ma dopo il caso Englaro è divenuto doveroso. Con il caso di Eluana, si è messa in pratica anche in Italia una forma di eutanasia, si è deciso che la libertà possa significare “libertà di morire”, si è sentenziato che si possa intraprendere un percorso che porti a un verdetto sulla vita e soprattutto su una vita definita imperfetta, attestando per legge o sentenza quale possa essere il livello non più dignitoso per una vita.
Attualmente, in Italia sono circa 3000 le persone in stato vegetativo, sono decine i casi pronti a fare il percorso nei tribunali italiani e sono migliaia le dichiarazioni di volontà depositate da notai, comuni ed enti locali, documenti che qualche associazione è già pronta a portare in tribunale. Con la sentenza Englaro si è creato un precedente secondo il quale le proprie volontà possono essere ricostruite o desunte addirittura dallo “stile di vita”. Il rischio è quello di un’anarchia giudiziaria e non a caso chi parla di eutanasia sta chiedendo a gran voce di non fare questa legge.
Questo testo di legge è chiaramente un argine al ripetersi di casi come quello di Eluana. Ripeto: è un argine, con la consapevolezza che la violenza dell’acqua può prevalere. Ma per questo si fanno gli argini È una legge che dice chiaramente “no” all’eutanasia e “no” all’accanimento terapeutico (art. 1 e art. 7). È una legge che prevede un’alleanza e un rapporto di fiducia tra medico e paziente (art. 2) e in questo vuole intendere chiaramente che nessun soggetto esterno potrà interpretare le volontà del paziente rispetto alle cure, che valuterà insieme al proprio medico.
Sulla scia della sentenza, e del precedente Englaro, sono previste delle Dat che contengono alcuni punti fermi (art. 3 e art. 4): la Dichiarazione assume rilievo quando è certa, scritta, firmata, non è quindi più possibile ricostruire o immaginare le dichiarazioni di volontà. Assume rilievo quando viene accertato che il paziente non sia più capace di comprendere, quindi se è certa l’incapacità. Ha validità di 5 anni, e quindi la volontà deve essere espressa e confermata. Deve essere inserita nella cartella clinica. Alimentazione e idratazione non sono oggetto di Dichiarazioni e non possono essere equiparate a terapie mediche, tranne il caso in cui non risultino più efficaci nel fornire fattori nutrizionali.
In condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la Dichiarazione non si applica (art. 4), il medico applica il principio di inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo principi di precauzione, proporzionalità e prudenza (art. 7). Il medico curante ha un ruolo centrale sia nella fase di informazione costante al paziente cosciente, sia in seguito, quando lo stesso si trova nell’incapacità permanete di comprendere e quindi subentra la Dichiarazione di trattamento. In questo caso al paziente subentra il fiduciario da lui nominato (art. 6), che sarà l’unica persona autorizzata a interagire con il medico. In caso di controversia tra medico curante e fiduciario, la questione viene sottoposta a un collegio di medici (art. 7).
L’alternativa è l’anarchia delle sentenze di qualche tribunale che più che “accompagnare alla morte” determina la morte per legge, togliendo acqua e cibo a chi non aveva mai detto di voler morire ed era amorevolmente accudito. Che società è quella che chiama la vita “un inferno” e la morte “una liberazione”? La sospensione dell’alimentazione di Eluana è stata un omicidio, così come è omicidio quello che qualche associazione e qualche deputato dichiarano nella loro volontà di aprire all’eutanasia. La questione è poi aggravata dal fatto che si è voluto impedire l’esercizio della carità, perché c’è chi si stava prendendo cura di Eluana e, come dichiarato pubblicamente, avrebbe continuato gratuitamente a farlo. Una disponibilità che vale anche per tanti altri casi.
La storia del nostro popolo è un’altra. La storia della medicina è progredita quando si è cominciato ad assistere gli “inguaribili”, che prima venivano espulsi dalla comunità degli uomini “sani”, lasciati morire fuori dalle mura della città o eliminati. Chi cominciò a prendersi cura degli inguaribili lo fece per una ragione che era più potente della vita stessa: una passione per il destino dell’altro uomo. La stessa storia degli ospedali nasce da questo. Una storia che adesso fa una brusca inversione.
Il caso Eluana, e il dibattito su questa legge, ci mette davanti alla prima evidenza che emerge nella nostra vita: non ci facciamo da soli. Siamo voluti da un Altro. «Persino i capelli del vostro capo sono contati». Rifiutare questa evidenza vuol dire rifiutare la realtà e chi rifiuta la realtà rifiuta di vivere.
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Avvenire.it, 10 marzo 2011 - Così si conferma, senza tradirlo, lo statuto del medico - La legge serve per tutelare l’alleanza di cura col paziente di Massimo Gandolfini
«Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale». Così recita oggi il giuramento professionale che ogni medico pronuncia all’inizio della propria attività. La stessa formula viene ripresa nell’articolo 3 del Codice deontologico, con la specificazione, ancora più vincolante, che tutto ciò costituisce "dovere del medico".
Esercito la professione medica quale specialista in neurochirurgia da 35 anni, e da 15 dirigo un dipartimento di neuroscienze (neurologia e neurochirurgia) a Brescia. Proprio in forza della mia specializzazione, sono migliaia le persone in condizioni cliniche "estreme" che ho soccorso e curato: dai traumi craniocerebrali all’ictus, dalla sclerosi multipla alla Sla, dagli stati vegetativi alle demenze, e ancora molto altro. Da qualche tempo molti di questi stati patologici sono entrati nel linguaggio comune, diffuso dai media nell’affrontare le questioni bioetiche che riguardano il cosiddetto "fine vita".
Eutanasia, accanimento terapeutico, sospensione delle cure, malato terminale, autodeterminazione sono diventati argomenti di dibattito pubblico, spesso – purtroppo – affrontati con scarsissima o addirittura errata conoscenza scientifica. Non si può certo imputarne la colpa all’"uomo della strada". La responsabilità va ricercata in altre agenzie culturali. E poiché sono medico, vorrei limitarmi a guardare dentro "casa mia".
Quella dell’arte medica è storia di cura e di servizio che conosce episodi di vera "alleanza di cura" con il paziente e i suoi familiari, sempre nella speranza di vincere insieme, o almeno di percorrere insieme il tunnel del dolore e del disagio. Non sempre è stato così, ma va detto chiaramente che quando ciò è accaduto è perché si è tradito e violato palesemente lo statuto fondativo della nostra professione. Sono state scritte pagine tragiche quando i medici si sono asserviti a ideologie contrarie al rispetto della vita e della dignità di ogni persona umana, abdicando al loro dovere sociale, professionale, deontologico ed etico.
Mi chiedo come possa esserci spazio per scelte eutanasiche o di abbandono di cura nella mia professione. Dobbiamo studiare ogni giorno per conoscere le malattie, contrastarle e vincerle, se possibile. Non esiste un solo rigo nei nostri testi in cui la "dolce morte" venga menzionata fra le opzioni terapeutiche. La nostra formazione tecnica e culturale non prevede che diventiamo attori di morte o di rassegnato abbandono.
Certamente laddove, per contro, operiamo accanimento commettiamo un grave errore, ma né più né meno di quando dovessimo scegliere di porre fine ad una vita che ci è affidata. Neppure la richiesta, implicita o esplicita, del paziente può costituire una deroga a questo dovere, come lo definisce il nostro codice deontologico. L’alleanza medico-paziente è "terapeutica", e non c’è spazio per eutanasia, suicidio assistito o sospensione di alimentazione e idratazione, che conduce – come ben sappiamo – a morte per inanizione.
A proposito della nutrizione, ritengo tecnicamente inaccettabile un parallelo fra la dichiarazione anticipata e lo "sciopero della fame", dato che questo può essere revocato dal soggetto in tempo reale mentre sta concretamente provando che cosa significhi "morire di sete e fame". Non così la dichiarazione "ora per allora". Ritengo che – visto il clima culturale che corre – sia necessaria una legge che tuteli davvero l’alleanza di cura in termini di rispetto e aiuto fra medico e paziente. È un’opportunità anche per confermare lo statuto della professione medica, educando medici, pazienti e l’intera società alla "medicina buona", votata alla salute e alla vita.
Altre voci - Sulla legge un esame per i pro-life, Avvenire, 10 marzo 2011
Legiferare sul fine vita oppure no? E se sì, come? Le opinioni e le posizioni emerse dal mondo pro-vita in questi mesi non sono univoche. Contrari a una legge e comunque al disegno di legge attualmente in discussione nell’aula della Camera è il Comitato Verità e Vita. «Il nostro ordinamento continua ad avere un presidio molto solido contro l’eutanasia e l’abbandono terapeutico nelle norme del codice penale regolarmente in vigore, soprattutto gli articoli sull’omicidio del consenziente e sull’istigazione al suicidio» hanno scritto su Il Foglio due degli animatori di Verità e Vita, Mario Palmaro e Alessandro Gnocchi. «Alcuni giudici, per altro civili e non penali, hanno assunto provvedimenti che ignorano questo profilo – sostengono i due – Ma allora era precisamente sul terreno giudiziario e dei poteri della magistratura che si doveva condurre la battaglia, contrastando le 'sentenze creative' e censurando le forzature togate». «Anche ammettendo che il testo sulle Dat in discussione non venga stravolto – continuano sempre Palmaro e Gnocchi – esso comporta il riconoscimento solenne da parte della legge della efficacia e validità del testamento biologico. E contiene ulteriori 'zone grigie' che andranno ben oltre il principio di autonomia del paziente. Se una legge proprio si voleva votare, ne bastava una fatta di un unico articolo, che vietasse la sospensione di alimentazione e idratazione ai soggetti incapaci ».
Sul quotidiano online La Bussola Quotidiana risponde monsignor Giampaolo Crepaldi, vescovo di Trieste. Che pur riconoscendo come i critici mettano in evidenza una serie di punti delicati inerenti alla legge sul fine vita («La legge per la prima volta fissa la possibilità di scrivere e firmare una dichiarazione anticipata di trattamento. Questo è un fatto nuovo che, in futuro, potrebbe permettere interpretazioni estensive e iniziative volte ad allargare la possibilità della autodeterminazione»), ricorda che «purtroppo è stata una sentenza della Cassazione a dare il via alla sospensione della idratazione e dell’alimentazione ad Eluana Englaro...Anche il medico che ha ucciso tramite eutanasia il signor Welby è stato alla fine prosciolto. Questo ci dice che sarà ancora possibile in futuro una 'eutanasia giudiziaria'. È vero che la si può combattere sul piano giudiziario e non necessariamente su quello legislativo, ma la recente esperienza mette in evidenza le difficoltà di una simile impresa, anche a causa della 'interpretabilità' delle leggi attualmente in vigore». Ragion per cui, chiosa Crepaldi, «il passaggio alla legge, anche se pericoloso, era ed è obbligato».
Secca la presa di posizione del Movimento Cristiano Lavoratori, per bocca del suo presidente Carlo Costalli: «Quella in discussione in questi giorni alla Camera dei Deputati è una legge 'di buon senso': rappresenta un modo concreto per governare la realtà e non lasciarla in balia di sentenze che possano, a propria discrezione, emettere un verdetto di vita o di morte ». Per Costalli «lo scontro ideologico che fin dall’inizio ha accompagnato il dibattito sul fine vita ha portato ad una scorretta rappresentazione, se non ad un travisamento, di concetti quali l’autodeterminazione e l’accanimento terapeutico ». Ragion per cuiè proprio questa «l’ora delle scelte, dell’onestà intellettuale e della coerenza, soprattutto per i parlamentari cattolici (ovunque eletti)». (A.G.)
Argomenti - Strafalcioni d’autore, c’è una replica per tutti di Alberto Gambino, Avvenire, 10 marzo 2011
Una legge «illiberale» che ci «espropria» del diritto di decidere sulla nostra vita e impedisce di vedere eseguite le proprie volontà costringendo a una «vita artificiale». Una norma dettata dalla caccia ai «consensi» perduti, che infligge l’alimentazione «forzata»...
Dibattito virtuale con intellettuali e politici che si sono espressi aspramente su un provvedimento che avversano
Si susseguono in questi giorni le prese di posizione di voci autorevoli sulla legge che dovrà normare il «fine vita». Ecco alcune tra le numerosissime frasi che incalzano la nostra capacità di analisi e di giudizio, con altrettante risposte.
1.
«Se questa legge venisse approvata, ciascuno di noi perderebbe il diritto fondamentale ad autodeterminarsi, verrebbe espropriato del potere di governare liberamente la propria vita» (Stefano Rodotà, 21 febbraio). Il cosiddetto diritto all’autodeterminazione non si rinviene in alcuna legge dello Stato italiano, né tantomeno nella nostra Carta costituzionale. Si tratta piuttosto di una creazione giurisprudenziale, confortata da una parte della nostra dottrina costituzionalistica, che ha fatto propri principi di alcuni ordinamenti giuridici stranieri di common law , cioè fondati sull’elaborazione delle decisioni giudiziali e, dunque, su una casistica sempre diversa. Il sistema giuridico italiano garantisce la libertà di governare la propria vita, ma trattandosi appunto di una libertà non è automatico che il diritto positivo (cioè regole giuridiche idonee a darne esecuzione) debba sempre assecondarla. In particolare, ove una scelta individuale contrasti con i valori costituzionali della tutela della salute e della vita umana, l’ordinamento legislativo non offre strumenti di attuazione, ma anzi sanziona chi volesse aiutare altri a portare a termine i propri intenti autolesionistici: è il caso dei reati di suicidio assistito e omicidio del consenziente. Quindi ha il sapore di uno slogan affermare che la legge sul fine vita esproprierebbe i cittadini del «diritto fondamentale ad autodeterminarsi», in quanto già oggi tale diritto, in Italia, opera entro i limiti indicati.
2.
«È in sé pasticciata e contraddittoria una legge in cui si dice al cittadino: fa’ pure testamento, ma sappi che non sarà vincolante, e che su due punti cruciali come l’idratazione e la nutrizione artificiale di persone in stato vegetativo, la tua volontà non può essere ascoltata» (Giuliano Ferrara, 22 febbraio). Non si tratta di fare 'testamento', in quanto il nostro ordinamento non considera la salute e il corpo umano come se fossero 'cose' (essendo tra l’altro espressamente vietato dall’articolo 5 del Codice civile italiano). Proprio perché non si tratta di cose ma della propria vita e della propria salute, va lasciata l’ultima parola a chi, come il medico, ha gli strumenti per valutare la percorribilità di una terapia. Per questo motivo le direttive anticipate non possono essere vincolanti, altrimenti trasformerebbero il medico in mero esecutore di volontà altrui. È, invece, proprio la decisione medica in scienza e coscienza a garantire la migliore protezione della vita e della salute del paziente, il quale – occorre sempre ricordarlo – è il soggetto psicologicamente e fisiologicamente più debole di tutta la vicenda.
3.
«La legge in discussione di fronte al tremore di una scelta tragica, invece di assumerne la gravosa responsabilità (continuare o sospendere nutrizione e idratazione artificiali), decide di estromettere la volontà del soggetto. E di affidare la scelta, conseguentemente, all’apparato biotecnologico» (Luigi Manconi, 1 marzo). L’«apparato biotecnologico» di cui parla Manconi è un sondino che veicola liquidi per sostentare il paziente. La scelta tragica è se introdurre in Italia l’eutanasia o meno: questo significa sospendere nutrizione e idratazione operate con il distacco del sondino. Dal momento che la linea della legge è di escludere forme di eutanasia, si ha come logica conseguenza la preclusione di introdurre disposizioni eutanasiche nelle Dat, come sarebbe l’indicazione al medico di sospendere nutrizione e idratazione parenterali.
4.
«È una legge anticostituzionale che vuole costringere le persone alla vita artificiale» (Umberto Veronesi, 2 marzo). Ogniqualvolta una legge non corrisponde alla propria impostazione, si sostiene che è 'anticostituzionale'. Gli organi deputati a vagliare la costituzionalità di una legge sono, preventivamente, il Parlamento (e anche il partito con il quale è stato eletto Veronesi, il Pd, ha escluso di sollevare eccezioni di incostituzionalità della legge sulle Dat) e il Capo dello Stato. Poi, a legge approvata, sarà la Corte costituzionale, ove fosse investita del problema, a stabilirne la conformità alla Costituzione italiana. Poiché, peraltro, questa legge non innova rispetto a quanto già previsto nel nostro ordinamento, se essa fosse incostituzionale dovrebbero già esserlo oggi tutte la pratiche e i protocolli sanitari che prevedono che il medico non possa assecondare le volontà eutanasiche del paziente.
5.
«Avendo perso consensi per aver troppo sporcamente giocato col corpo delle donne giovani belle e disponibili, cercano di recuperarlo giocando coi cori pi 'in stato vegetativo', maschili e femminili, giovani o vecchi che siano» (Federico Orlando, 2 marzo).
È una frase a effetto tipica di un liberale sarcastico com’è Orlando, che comunque ci richiama all’etica dei comportamenti e a condurre con trasparenza le nostre iniziative per la tutela della vita e della salute delle persone. Temi non riducibili dentro schieramenti partitici.
6.
«Se attraverso un intervento chirurgico si inserisce un tubo di plastica nell’intestino del paziente per alimentarlo forzatamente, quella non è alimentazione, è una cura» (Ignazio Marino, 5 marzo). No, perché quel tubo non fa altro che consentire il passaggio di liquidi vitali. Se il paziente fosse cosciente potrebbe rifiutarlo. Ma la libertà di rifiutare alimentazione e idratazione e, dunque, di lasciarsi morire non si può trasporre su un documento scritto delegandone l’attuazione a un medico, che fungerebbe da esecutore e dunque da compartecipe della scelta eutanasica. Il tema della rinunzia espressa in un documento scritto all’alimentazione e all’idratazione non è altro che una declinazione del paradigma dell’autodeterminazione. Chi reclama l’assolutezza dell’autodeterminazione è ovvio che ritenga legittima anche la richiesta di eutanasia, dove l’interruzione del sostentamento parenterale ne rappresenta una tecnica (peraltro più logorante dell’eutanasia attiva). Meno coerente è la posizione di chi – in fondo per non parlare esplicitamente di eutanasia – individua nell’interruzione dell’idratazione un caso di liberazione da un presunto accanimento terapeutico (quando, tra l’altro, medici e giudici così non lo hanno qualificato proprio nel caso Englaro).
7.
«Mi pare che ci sia un mezzo assai semplice per tagliare la testa al toro: stabilire per legge che le Dat stesse non possano contenere alcuna disposizione in positivo, e cioè a fare checchessia, ma solo in negativo, a non fare» (Ernesto Galli della Loggia, 6 marzo). È davvero un bel sofisma dire che i problemi si risolvono consentendo che nelle Dat ci siano soltanto indicazioni di non fare. Non fare cosa? Una gradazione degli interventi più o meno invasivi e, dunque, proporzionati è necessaria, altrimenti entrerebbero nelle Dat vicende, come detto, di eutanasia passiva. Ma a questo punto chi può davvero dirci se quell’intervento è adeguato e proporzionato, se non il medico in scienza e coscienza? In conclusione, facciamo molta attenzione che dietro all’ideologia autodeterministica non si nascondano in realtà ciniche esigenze di ordine economicistico, finalizzate a trovare una via d’uscita ai costi degli stati vegetativi e, in generale, delle malattie incurabili, che ogni anno pesano – oltreché sugli affetti familiari – anche sulle casse della finanza pubblica.
Una «legge» c’è già: l’hanno scritta le sentenze - dati di fatto - di Ilaria Nava, Avvenire, 10 marzo 2011
Nel nostro ordinamento la Costituzione e il Codice penale vietano il suicidio assistito. Ma con questo quadro normativo si è ugualmente arrivati al verdetto Englaro. Una decisione «creativa» che afferma princìpi capaci di aggirare le norme più garantiste e di interpretare in modo errato quelle a favore della giusta libertà di cura. Ecco perché si deve disciplinare la materia in modo chiaro
I
Si dice che la legge sulle «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento» in questi giorni in dirittura d’arrivo alla Camera non è necessaria perché per evitare l’eutanasia e l’abbandono terapeutico nel nostro ordinamento ci sono già delle disposizioni giuridiche. Secondo i sostenitori di questa teoria, infatti, una legge sul fine vita avrebbe come unica conseguenza quella di aprire a una deriva eutanasica il nostro sistema normativo. Inoltre – si dice – la legge, una volta approvata, renderebbe giuridicamente regolabile l’ambito del fine vita e potrebbe essere soggetta, in futuro, a modifiche in senso peggiorativo. È vero, nel nostro ordinamento esistono norme giuridiche che finora hanno regolato il consenso informato, la possibilità di rifiutare o interrompere una terapia, le richieste di eutanasia o suicidio assistito e la gestione dei pazienti non più in grado di esprimere il proprio consenso. Si tratta innanzitutto dell’articolo 32 della Costuzione, che afferma che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Poi c’è l’articolo del codice penale sull’omicidio del consenziente: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni»; quella sui suicidio assistito che punisce «chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione». l problema è che la sentenza Englaro è stata emessa con questo quadro giuridico di riferimento. Un insieme di norme che, forse, oggi richiedono un’esplicitazione, un chiarimento, una delimitazione di confini in modo chiaro e inequivoco. Si sono nel frattempo affermati altri principi nel nostro ordinamento, che aggirano le norme garantiste e interpretano quelle a favore della giusta libertà di cura e dell’autodeterminazione in senso eutanasico. Anche se il precedente ha un valore relativo, in assenza di legge i principi attualmente più significativi sono quelli stabiliti dalla Corte di Cassazione, che ha autorizzato l’interruzione delle cure «quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno» e contemporaneamente «che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona» (Cassazione, sentenza 21748/07) Non sembra fuori luogo, allora, che il Parlamento, più volte accusato da destra e sinistra di inerzia, abbia deciso di dare una risposta chiara attraverso la legge. Nel caso Englaro si sono accavallati i ruoli delle istituzioni, provocando inutili intrecci di competenze. Ad esempio, la Regione Lombardia il 3 settembre 2008 aveva emesso un atto di indirizzo per evitare che il personale sanitario «venisse meno ai propri obblighi professionali e di servizio» se avesse dato esecuzione al decreto che autorizzava il distacco di Eluana.
Davanti a questo tentativo della Regione di arginare la sentenza «creativa» della Corte d’appello, il Tar della Lombardia ha risposto annullando il provvedimento e affermando tra le altre cose che «l’alimentazione e l’idratazione artificiali con sondino nasogastrico integrano prestazioni poste in essere da medici, che sottendono un sapere scientifico e che consistono nella somministrazione di preparati implicanti procedure tecnologiche. Esse, quindi, costituiscono un trattamento sanitario, la cui sospensione non configura un’ipotesi di eutanasia omissiva, ma può essere legittimamente richiesta nell’interesse dell’incapace» (Tar Lombardia, sentenza 214/09). La stessa Corte d’appello aveva affermato nel decreto del 8 luglio 2008 che «in situazioni ove sono in gioco il diritto alla salute o il diritto alla vita, o più in generale assume rilievo critico il rapporto tra medico e paziente, il fondamento di ogni soluzione giuridica transita attraverso il riconoscimento di una regola (…) che colloca al primo posto la libertà di autodeterminazione terapeutica». Anche il ricorso presentato dalla Procura di Milano contro il decreto della Corte d’appello è stato giudicato inammissibile dalla Cassazione sezioni unite perché il caso non riguarda un «interesse generale e pubblico ma una tutela soggettiva e individuale» di Eluana.
conclusione della vicenda, la denuncia per omicidio dei Amedici che hanno proceduto al distacco del sondino di Eluana, è sfociata nella chiusura del caso in quanto, come affermato dal gip di Udine, i 14 indagati per la morte di Eluana Englaro avrebbero agito per «esercizio di un diritto» in quanto «l’ordinamento giudiziario non può da una parte attribuire un diritto e, dall’altra, incriminarne l’esercizio». Il magistrato ha dichiarato che «tutti gli indagati risultano non punibili per aver indubbiamente agito nell’ambito delle previsione legislativa dell’esercizio di un diritto».