1) A sei anni dalla morte, il segreto di un Papa di Andrea Tornielli, 01-04-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
2) Cannabis a fin di bene? Un disegno perverso di Chino Pezzoli, 01-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
3) Quanti ex pacifisti a dare lezioni di guerra di Massimo Introvigne, 31-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
4) I malati e l'inguaribile voglia di vivere di Marco Lepore, 01-04-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
5) EDUCAZIONE - SCUOLA/ L’Emilia Romagna penalizza la formazione professionale, ma ora "paga il conto" di Marco Lepore - venerdì 1 aprile 2011
6) CULTURA - LETTURE/ Lewis, Berlicche e quel "falso" cristianesimo che ama la morale ma non la vita di Martino Sartori - venerdì 1 aprile 2011 – il sussidiario.net
7) BIOTECNOLOGIE E SVILUPPO DEI PAESI POVERI - Intervista al professor Drew L. Kershen di Piero Morandini
8) La questione del gender 2 - Uguaglianza e differenza - Autore: Laguri, Innocenza Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 31 marzo 2011 – il sussidiario.net
9) Studio medico: l’aborto selettivo crea danni psicologici e criminalità - 1 aprile, 2011 - http://www.uccronline.it/
10) Il cognitivista Piattelli-Palmarini: «l’evoluzione non è più darwinismo» - 1 aprile, 2011, da http://www.uccronline.it
11) Soap opera pro-eutanasia - Choc in Inghilterra di Lorenzo Schoepflin, Avvenire.it, 1 aprile 2011
A sei anni dalla morte, il segreto di un Papa di Andrea Tornielli, 01-04-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Domani, 2 aprile, saranno trascorsi sei anni dalla scomparsa di Giovanni Paolo II. Questa volta l’anniversario è particolarissimo, dato che fra un mese esatto Benedetto XVI proclamerà beato il suo predecessore. Un evento, quello di un Papa che eleva all’onore degli altari chi l’ha immediatamente preceduto sul trono di Pietro, che non si verificava da più di mille anni.
Molti nelle prossime settimane ricorderanno la sua grande figura, il suo carisma, l’immediata simpatia che suscitava nelle folle, il suo percorrere in lungo e in largo il mondo annunciando il Vangelo per raggiungere coloro che non avrebbero mai potuto permettersi un viaggio a Roma.
Il «segreto» della sua santità non risiedeva però in questo, ma nal suo dialogo quotidiano e profondo con Dio. Più di ogni altra cosa, infatti, colpiva vederlo pregare. Come testimonia un episodio accaduto dientro le quinte del bellissimo pellegrinaggio in Terra Santa compiuto da Papa Wojtyla nell’anno 2000, in occasione del Grande Giubileo. È stato il francescano padre Giovanni Battistelli, allora Custode di Terra santa, a raccontarlo.
«A Gerusalemme Giovanni Paolo II alloggiava presso la sede della delegazione apostolica. C’era un ascensore per poter raggiungere il secondo piano, dov’era stata preparata la sua stanza e quella del suo segretario particolare, monsignor Stanislao Dziwisz». Ma la sera del suo arrivo nella Città Santa, il 21 marzo, Wojtyla decise di fare diversamente, dopo aver dato un’occhiata all’appartamento. Arrivò stanco dopo i primi due giorni di viaggio in Giordania. Venne accolto dalle autorità israeliane all’aeroporto di Tel Aviv, e poi si recò nella sede della delegazione dove sarebbe stato ospitato.
Giovanni Paolo II vide per la prima volta la disposizione delle stanze. La cappella con il Santissimo era al piano inferiore, e per lui, in quelle condizioni, non sarebbe stata facilmente raggiungibile. «Disse al suo segretario – racconta padre Battistelli – di andare a dormire al piano terra, e volle che nella stanza preparata per don Stanislao fosse invece ospitato il Santissimo sacramento, per poter trascorrere del tempo in meditazione e preghiera, inginocchiato davanti all’ostia consacrata anche durante la notte». Così il fedele segretario dovette cedere il posto a Gesù e lasciare che fosse Lui a vegliare sul Papa anziano e malato, permettendo a quest’ultimo di continuare il dialogo incessante con il mistero in quei giorni così importanti, nella Città Santa dove Cristo aveva versato il suo sangue, accettando di farsi crocifiggere per la salvezza degli uomini.
Cannabis a fin di bene? Un disegno perverso di Chino Pezzoli, 01-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Ci mancava solo il campo di canapa per produrre olio di marijuana "a scopo terapeutico". È questa l'ultima trovata del governatore pugliese, Nichi Vendola. Un'iniziativa che segue il progetto della regione Toscana di legalizzare l'uso della cannabis "per fini medici" sulla falsariga di un provvedimento già approvato in Puglia. Ce n'è abbastanza per non scorgere l'ennesimo tentativo di voler sdoganare le impropriamente dette "droghe leggere". Abbiamo chiesto un parere a don Chino Pezzoli, della Fondazione Promozione e Solidarietà Umana, che da anni lavora sul campo per sottrarre i giovani all'abisso della tossicodipendenza.
Le ultime iniziative vogliono di fatto sminuire gli effetti negativi della marijuana. La solità superficialità, le solite sparate! La nostra esperienza di trent'anni ci fa dire che la cannabis fa male. Gli studi scientifici, già da tempo, hanno dimostrato le conseguenze dannose prodotte in chi ne ha fatto uso; così come c’è la consapevolezza che solo l’ideologia sessantottina, cara ad alcuni dei nostri politici, riconosce validità al binomio fumo-innocuità.
Tra la solita disinvoltura dei mezzi di comunicazione si è diffusa, nei più, la convinzione della cosiddetta canna come sostanza inoffensiva. “Fa più male l’alcol quando ci si sbronza”, si dice, come se il problema fosse di scegliere il meno dannoso di due veleni, dimenticando il particolare, non proprio irrisorio, che entrambe le sostanze avvelenano l’esistenza umana. Recentemente gli studi hanno ribadito tutta la nocività della cannabis.
Già nel 2001, Giovanni Battista Cassano, rinomato docente dell’Università di Pisa denunciava che «Questa droga (la marijuana) agisce nelle stesse strutture del cervello interessate dalla cocaina e dalla morfina, e costituisce un gradino, sia per l’assunzione delle droghe “pesanti”, sia come attivatore di patologie psichiatriche […] di tipo paranoide […] o crisi di depersonalizzazione”. Nel 2002 una Relazione Ministeriale sulle Tossicodipendenze in Italia ha confermato gli effetti dannosi sul cervello del tetracannabinolo, il principio attivo presente nella cannabis. Esso provoca: «le paranoie, il risentimento, una sorta di vischiosità del pensiero, una subdola forma di depersonalizzazione, con ostilità ed irritabilità non presenti nei tratti caratteristici del paziente […]».
Un ulteriore lavoro da parte dei medici americani, pubblicato su una rivista specialistica medica, cita che «l’impiego di cannabis è un fattore a rischio per una successiva assunzione di cocaina o di oppiodi». Tutto ciò la direbbe lunga anche sullo scarso rendimento scolastico degli alunni; l’atteggiamento di disimpegno è difatti una delle caratteristiche tipiche del consumatore della canapa indiana. Queste ed altre conseguenze negative risultanti dal consumo della cannabis, sono descritte nel libro di Claudio Risé, dal titolo Cannabis, come perdere la testa e a volte anche la vita. Lo psicanalista con forza afferma di non chiamare più la cannabis droga leggera. La leggerezza sta solo nel considerarla poco pericolosa.
Oggi gli spinelli sono geneticamente modificati e potenziati per avere effetti sempre più micidiali, e causano gravi danni cerebrali. “Di cannabis, oggi, si può anche morire”, dice lo psicanalista. “La cannabis, continua lo psicanalista, è una bomba per il cervello, specie per gli adolescenti in via di sviluppo. Dà problemi di memoria e concentrazione, provoca apatia e demotivazione, disturbi nella capacità di formulare idee e risolvere problemi. Può causare ansia e depressione, allucinazioni, attacchi di panico e paranoia. E gravi malattie mentali, come psicosi e schizofrenia”. Lo skunk è micidiale. Negli ultimi anni si è passati dal 4 al 25 per cento di thc (il principio attivo della cannabis): lo spinello più forte, chiamato skunk, può provocare da solo un’overdose, anche senza l’aggiunta di altre sostanze. Uno solo può causare una crisi psicotica. E l’età in cui si comincia ad assumere cannabis si abbassa sempre più. Attenti quindi alla vita che finisce in fumo.
I genitori, purtroppo che pensano agli spinelli di quando erano giovani, hanno l’obbligo di informarsi. I danni al sistema nervoso e cerebrale ci sono sempre stati. La novità è che ora si può morire rapidamente. Oggi la cannabis può avere gli stessi effetti devastanti del “buco” di 20 anni fa. Come minimo, fa da autostrada per altre droghe: i tossicodipendenti iniziano sempre con “una canna”. Dobbiamo evitare che i nostri figli muoiano o diventino pazzi». Chiediamoci, perché tanto pressapochismo?
I motivi sono diversi. In sostanza, la diminuzione del prezzo, l’aumento della quantità distribuita grazie alla legge del libero mercato, la diffusione sempre più capillare grazie anche a un’imponente crescita degli immigrati, il raddoppio della quantità personale ammessa per legge, disegnano i contorni di un Paese schizofrenico, dove si piangono le morti giovani del sabato sera, ma non ci si interessa mai veramente su cosa le provochi e perché. Dietro questi numeri, o c’è un intero popolo che viene tenuto da politici e media all’oscuro dei pericoli che l’uso di questa sostanza porta con sé. Nessun giornale italiano ha avuto il coraggio di comportarsi come il quotidiano britannico The Independent che, nel marzo scorso, è uscito con in copertina il titolo "Cannabis: an apology", "Cannabis: scusateci", in cui rivedeva le posizioni che, un decennio prima, lo avevano spinto a una campagna per la sua liberalizzazione e il suo declassamento fra le droghe cosiddette leggere e non punibili. Un cambiamento dovuto al fatto che, come ha spiegato Colin Blakemore, responsabile del Medical Research Council, «il legame tra cannabis e psicosi adesso è chiaro, mentre non lo era dieci anni fa».
Di fronte a tutte le droghe occorre essere intolleranti. Il vantaggio certamente è quello di rendere chiaro a tutti, senza confusione e pressappochismo, che qualsiasi tipo di droga fa male. E’ falso ribadire che tale strategia non darà risultati, anche perché, fino adesso, è prevalsa la tesi del permissivismo ed è stata diffusa l’idea che gli “spinelli” non fanno male; anzi qualcuno ha pure sostenuto la tesi, senza un fondamento scientifico, che curano persino determinate malattie. Educhiamo, per favore, i nostri giovani al bene della salute e, finiamola una buona volta per tutte, di far passare una informazione falsa e soprattutto di impartire cattivi esempi. Conosco papà e mamme che passano ai loro figli gli “spinelli” e li fumano insieme. Sono degli irresponsabili. Così pure ci sono insegnanti che sostengono che una “canna” disinibisce e apre le “piste cerebrali”: quelle della pazzia purtroppo.
Quanti ex pacifisti a dare lezioni di guerra di Massimo Introvigne, 31-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
Negli ultimi giorni si è innestato un dibattito (che ha preso i toni della polemica) sulla questione dell'intervento militare in Libia. Da parte di chi ha appoggiato fin dall'inizio l'adesione alla guerra sono arrivati attacchi, anche personali, a chi da subito - e non sono pochi - ha invece espresso forti perplessità su questi interventi. A questi attacchi intende rispondere uno dei principali collaboratori de "La Bussola Quotidiana", di cui pubblichiamo l'opinione, aperti peraltro a un dibattito con altre, eventuali, voci.
Ora basta. Continuiamo a leggere, da parte di ex-pacifisti che hanno indossato l'elmetto e - al consueto grido di "armiamoci e partite" - chiedono guerra dura senza paura contro Gheddafi, quotidiani insulti e sberleffi contro il "pacifismo di destra" che ieri sarebbe stato a favore della guerra in Iraq e oggi è scettico sulla guerra in Libia.
Cari guerrafondai della domenica, anzitutto bisogna dirsi con molta chiarezza che per molti di voi la colpa principale di Gheddafi è di essere amico di Berlusconi e magari di avergli insegnato il bunga bunga. Dal momento che l'antiberlusconismo patologico - da non confondersi con la legittima critica di atteggiamenti molto discutibili del presidente del Consiglio - è una malattia infettiva che porta a considerare buono tutto quello che porta danno a Berlusconi "a prescindere", smettetela di fare il gioco delle tre carte e diteci chiaramente se davvero volete sostenere che è un dovere della comunità internazionale intervenire contro ogni dittatore che spara contro il suo popolo.
Se sì, dove sono gli aerei pronti a partire per la Siria? Per la Corea del Nord? E - premesso che nessuno almeno a La Bussola Quotidiana si è mai entusiasmato per l'esportazione in armi della democrazia - perché eravate contro l'intervento in Iraq? Saddam Hussein non solo sparava sul suo popolo, lo gasava. Il 1 marzo 2010 un tribunale iracheno ha condannato un buon numero di collaboratori di Saddam per l'uso di gas asfissianti contro i suoi oppositori curdi, iracheni anche loro, che ha fatto almeno - la stima è per difetto - cinquemila morti. Armi di distruzione di massa o no, applicando la logica dell'ingerenza umanitaria i massacri dei civili avrebbero giustificato da soli l'azione contro Saddam. Era lui stesso la principale arma di distruzione di massa presente in Iraq.
Sono notoriamente critico rispetto alla pessima gestione statunitense del dopo-Saddam. Ma non mi pento del parere favorevole all'intervento anche per un'altra ragione. Come i talebani afghani, anche Saddam sosteneva attivamente il terrorismo ultrafondamentalista islamico e al-Qa'ida. Ci avete raccontato per anni che non era vero. Ma avevate torto. Prima di morire, il super-terrorista Abu Mussa al-Zarqawi (1966-2006) - che nel 2004 ha reso pubblica la sua affiliazione ad al-Qa'ida, con cui era certamente in contatto anche prima - ha fatto pubblicare un libro-intervista, intitolato "La seconda generazione di al-Qa'ida", da un giornalista di fiducia, il giordano Fuad Hussein. Vi si conferma che Saddam per anni ha ospitato e finanziato al-Zarqawi, lo ha curato nei suoi ospedali, lo ha utilizzato per operazioni contro i curdi e incaricato di preparare una sorta di "Gladio verde" da attivare, come poi è avvenuto, in caso di occupazione americana.
Ho molto rispetto per la posizione profetica del venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005), ostile alla guerra in Iraq come a ogni guerra. Ma i criteri offerti dalla Dottrina Sociale della Chiesa anche in materia di guerra possono generare opzioni politiche e militari legittimamente diverse e la responsabilità di scelte politiche anche difficili e dolorose su come combattere il terrorismo internazionale spetta a chi si occupa di politica nella sua responsabilità di laico.
Nella lettera del giugno 2004, inviata durante la campagna elettorale presidenziale ai vescovi degli Stati Uniti, il cardinale Ratzinger - allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede - propose una chiara distinzione fra i principi non negoziabili in tema di vita e di famiglia, su cui non è ammissibile nessuna discussione tra cattolici, e le decisioni prudenziali su cui i laici hanno un ampio margine di autonomia. "Non tutte le questioni morali - precisava il documento - hanno lo stesso peso morale dell’aborto e dell’eutanasia. Per esempio, se un cattolico fosse in disaccordo col Santo Padre [Giovanni Paolo II] [...] sulla decisione di fare una guerra, egli non sarebbe da considerarsi per questa ragione indegno di presentarsi a ricevere la Santa Comunione. Mentre la Chiesa esorta le autorità civili a perseguire la pace, non la guerra [...] può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore [...]. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra [...], non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia".
Cari nuovi guerrafondai, non uso due pesi e due misure, e penso dunque che la diversità di opinioni tra cattolici sia legittima anche sulla Libia. Siete voi che, con il consueto moralismo, la dichiarate illegittima. Chiunque non compra da Sarkozy o da Bersani l'auto usata della guerra a scatola chiusa per voi diventa complice di Gheddafi.
Vorrei però spiegarvi, con riferimento esclusivamente al mio caso personale, che tra l'essere stati a suo tempo favorevoli alla guerra in Iraq e l'essere oggi perplessi sulla guerra in Libia non vedo incoerenza, ma perfetta continuità. In Iraq si trattava di fare la guerra a un alto protettore di al-Qa'ida: il libro di al-Zarqawi insegna. In Libia al-Qa'ida non ha organizzato la rivolta di Bengasi - nessuno qui lo ha sostenuto - e neppure la guida: la dirigono vecchi arnesi del regime di Gheddafi, che hanno condiviso tutte le nefandezze del colonnello, come quel caro Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil, il quale oggi pontifica sulle nostre televisioni. Al Jeleil fino al 21 febbraio 2011 era il ministro della Giustizia di Gheddafi e nel dicembre 2010 era stato inserito da Amnesty International nella lista dei più efferati responsabili di violazioni di diritti umani nel Nordafrica. Non è meno vero che al-Qa'ida si è subito schierata con gli insorti di Bengasi, evidentemente perché pensa di avere maggiori margini di manovra con la guerra che con la pace.
C'è un punto su cui - lo ho scritto molte volte - ero critico sulla politica statunitense in Iraq. Era giusto (secondo me) liberarsi di Saddam. Era sbagliato non avere le idee chiare su chi mettere al posto di Saddam. Su questo aspetto l'errore stavolta si ripete e si peggiora. Sull'Iraq gli americani sopravvalutavano la componente laica rispetto a quella religiosa dell'opposizione a Saddam, ma almeno avevano sul tavolo una mappa degli oppositori. Stavolta ammettono di non averla. Se ce l'ha Sarkozy, per ragioni sue non la condivide con nessuno. Voi ce l'avete, cari guerrafondai del 2011? Se non ce l'avete, ci dispiace molto: ma da voi non compriamo auto usate senza guardare se c'è dentro almeno il motore.
I malati e l'inguaribile voglia di vivere di Marco Lepore, 01-04-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
In queste ultime settimane il dibattito intorno al fine vita è cresciuto impetuosamente, assumendo talvolta i toni di una vera e propria battaglia; fin qui, comunque, nulla da eccepire, data la drammaticità dell’argomento.
Ciò che preoccupa di più, è la grande quantità di ragionamenti astrusi e teorici sul tema, perlopiù lontani dalla realtà dei fatti concreti delle vite dei disabili e delle loro famiglie; così come per altre questioni, infatti, si finisce sui binari dell’ideologia, e questo non aiuta certo né il giudizio, né l’assunzione di decisioni equilibrate.
Ci si sfida tra fronti contrapposti –anche legittimamente- a suon di riferimenti costituzionali sulla legalità dell’interruzione della somministrazione di cibo e acqua, su cosa è trattamento sanitario e cosa no, così come sulla opportunità o meno di interrompere una vita considerata da tanti “non vita”; il risultato, però, è che le posizioni paiono irrigidirsi sempre di più e il confronto si trasforma in sterile scontro…
Un grande aiuto, per uscire da questa impasse, può venire dalla testimonianza di chi è concretamente impegnato in prima linea con queste problematiche, in qualità di disabile, familiare o medico: per capire se la vita è sempre degna di essere vissuta o no, aiuta di più guardare “i fatti”, e guardarli negli occhi con coraggio e onestà, piuttosto che fare lunghi discorsi o citare l’illuminato parere di scienziati, filosofi o costituzionalisti.
E’ quanto è accaduto, ad esempio, in occasione del convegno “L’inguaribile voglia di vivere - Vivo perché qualcuno mi ama”, organizzato dal Club dell’Inguaribile Voglia di Vivere (associazione che mutua il suo nome dal libro che il giornalista Massimo Pandolfi ha scritto alcuni anni fa) e svoltosi alcuni giorni fa a Salò. Senza tante discussioni o polemiche, che normalmente lasciano solo la bocca ancora più amara, si è dato spazio al racconto di esperienze “vincenti”, di quella positività che nemmeno la morte riesce a eliminare totalmente. Parole esagerate? Sembrerebbe; eppure, basterebbe conoscere Max Tresoldi per rendersi conto che non è così: considerato per dieci anni un tronco morto in stato vegetativo “permanente”, un giorno del 2001, facendo gridare a un mezzo miracolo, si è fatto da solo il segno della croce e poi ha abbracciato la sua mamma. Ora, sulla sua carrozzina, pur fra mille difficoltà, non cessa un attimo di mostrare a tutti la sua gioia di vivere.
Un nodo in gola di misteriosa gioia, analogamente, viene vedendo i sorrisi di Gian Piero Staccato, fatti con l’unico angolo di bocca rimasto mobile in un corpo ormai totalmente paralizzato, oppure ascoltando la lettura delle cose bellissime che scrive sulla vita. Cose bellissime e commoventi raccontate anche da Mirella Marongiu sul marito Carlo, che ha vissuto l’esperienza devastante della malattia (SLA) con una forza e serenità impensabili.
Sono tante, più di quante possiamo immaginarci, le testimonianze eroiche e commoventi dei familiari dei disabili (che costringono quasi a domandarsi: “ma come è possibile?”), insieme a quelle di tanti medici e operatori del settore.
Come quella di Fulvio de Nigris, per esempio, al quale l'immenso dolore per la perdita di un figlio 15enne, entrato imprevedibilmente in coma dopo un intervento chirurgico, ha dato la possibilità di scoprire che un bene è possibile anche là dove sembrava ci fosse solo del male. Già, come si fa a trovare del bene dalla morte di un figlio? Eppure la Casa dei Risvegli di Bologna è nata così, da un male, da un tremendo dolore, che ha fatto nascere una struttura che oggi dà assistenza e speranza a tanti.
Oppure quella di Giovanni Battista Guizzetti, medico e primario del don Orione di Bergamo, che da molti anni, quotidianamente, incrocia lo sguardo pieno di mistero di 24 persone in stato vegetativo; eppure, racconta, proprio questi sguardi hanno cambiato il suo sguardo: su di sé, sul proprio lavoro, sugli altri. E in queste persone fa esperienza, cioè tocca con mano e riconosce, un'umanità unica e irripetibile.
O ancora quella di Marco Maltoni, che secondo i criteri utilitaristici della medicina dovrebbe essere quotidianamente un medico sconfitto, dato che dirige due Hospice in Romagna, unità di cure palliative in cui, nel 99% dei casi, i malati terminali vanno a morire. Eppure Maltoni spiega a tutti come, nel rapporto con loro e con i loro familiari, può sempre nascere qualcosa di bello e grande, che non consente la guarigione, certo, ma dà vita ai giorni (quando tanto spesso i giorni dei sani sono “senza vita”…), dimostrando come la cura di una persona è sempre possibile, anche quando l'esistenza è agli sgoccioli.
E infine (ma se ne potrebbero raccontare tante altre) quella di Mario Melazzini, medico oncologo imprevedibilmente ammalatosi di SLA e altrettanto imprevedibilmente, attraverso la malattia (ma lui dice addirittura “grazie”…),“nato a nuova vita”. Fra mille impegni, pur affaticato e con voce flebile, Mario continua instancabilmente a lavorare per tutti gli ammalati di SLA e ad invitare ognuno affinché queste testimonianze siano portate fra la gente, in famiglia, nei luoghi di lavoro, dove abitualmente si vive e si opera, dove l'esistenza conduce, perché siano i fatti a parlare e non più le idee.
Insomma, in questo tempo drammatico e pur affascinante, in cui il fumo nero del nichilismo, ammantato da buonismo ipocrita, penetra nei cuori di tanti e propone la soluzione “igienica e indolore” dell’eutanasia, sono proprio queste persone a permetterci di riconoscere che la vita vale sempre e vale per essere data. Agli altri.
Perché la ragione, da sola, può comprenderlo astrattamente (ed è già un passo importante), ma per accogliere fino in fondo una sfida così ardua può non bastare: occorre incrociare lo sguardo, la carne sofferente, il sorriso o la misteriosa immobilità di una persona disabile e l’umanità grave eppur lieta dei loro familiari. E allora il cuore può spalancarsi ad una verità più piena.
CULTURA - LETTURE/ Lewis, Berlicche e quel "falso" cristianesimo che ama la morale ma non la vita di Martino Sartori - venerdì 1 aprile 2011 – il sussidiario.net
Ci sono libri che vengono rifilati fin da bambini, fatti ingurgitare a forza tra i banchi o in estati troppo afose. Ne abbiamo un ricordo piatto di inutilità celata. Quasi libri di precetti religiosi e buoni propositi, che finche si è piccini possono essere ancora letti, ma una volta raggiunta l’età della ragione cadono nel dimenticatoio. È il caso delle Lettere di Berlicche di Lewis in cui viene riportato il carteggio fra due diavoli: Malacoda apprendista alle prese con il suo primo paziente,e lo zio Berlicche dispensatore di consigli utili per evitare la conversione dell’uomo in questione.
Lewis abbandonerà la fede all’età di dodici anni intraprendendo una vita da esteta, dedicandosi con successo e senza patemi alla cultura, al successo, alle donne. Ma succederà che “dentro ad ogni esperienza pura” continuerà a percepire “qualcosa che non può essere spiegato”. Dirà nella sua autobiografia di che cosa si tratta: “Quello che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate, ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete aver ingannato voi stessi, ma l’esperienza non sta ingannando voi. L’universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente”.
Con questo pungolo Lewis farà i conti per tutta la vita cercando di metterlo a nudo nelle sue opere, e ci riuscirà nell’ultimo romanzo A viso scoperto dove nelle parole del protagonista sembra di rivedere lo stesso scrittore. “Proprio perché tutto era così bello nasceva dentro di me un desiderio, sempre lo stesso: da qualche parte doveva esserci qualcosa di ancora più bello. Tutto sembrava dirmi, Vieni! Ma io non potevo andare... Mi sentivo come un uccello in gabbia, che vede gli altri uccelli della sua specie volare verso casa”.
Lo scrittore non accetta la visione di cristianesimo che passa nell’occidente liberale dei nostri giorni, in cui Dio è visto come: “il tipo di persona che sta sempre a spiare se uno se la spassa, e poi cerca di impedirglielo”. Anzi rilancia la questione nelle lettere di Berlicche dicendo che si è veramente cristiani in virtù e non nonostante i propri desideri più profondi: “Hai permesso al paziente di leggere un libro che veramente gli piaceva, del quale veramente godeva. In secondo luogo gli hai permesso di fare una passeggiata fino al vecchio mulino e prendervi il tè. Una passeggiata attraverso un paesaggio che veramente gli piaceva e fatta da solo. In altre parole gli hai offerto due veri e positivi piaceri. Sei stato davvero così ignorante da non vederne il pericolo?”.
Lewis non concepisce il cristianesimo come castrazione della personalità ma come una sua esaltazione: “In fondo Egli è un edonista.Tutti quei digiuni, quelle vigilie, come i roghi e le croci, sono facciata. O soltanto come la spuma sul lido del mare. Laggiù in alto mare, nel Suo mare, c’è il piacere, e sempre maggior piacere. Ha riempito tutto il Suo mondo di piaceri. Vi sono cose che gli essere umani possono fare tutto il giorno senza che egli vi badi ne tanto ne poco: dormire, lavarsi, mangiare, bere, fare all’amore, giocare, pregare, lavorare. Ogni cosa deve essere distorta prima che ci serva in qualche modo”.
Per questo vale la pena di rispolverare questo libro, magari leggerlo, da soli, con onestà quasi da bambini. Perché si tratta di inno alla vita e al valore, alla dimensione di ogni piccolo gesto, con gli occhi di chi ha scritto che “incontrare Dio è la cosa più scomoda al mondo, perché egli sta costruendo una casa tutta diversa da quella che avevate in mente voi. Pensavate di costruire una casetta ammodo: ma Lui sta costruendo un palazzo. Intende venirci a vivere Lui stesso”. Buona lettura.
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BIOTECNOLOGIE E SVILUPPO DEI PAESI POVERI - Intervista al professor Drew L. Kershen di Piero Morandini
ROMA, venerdì, 1° aprile 2011 (ZENIT.org).- Drew L. Kershen è professore di Legge (cattedra Conte Sneed Centennial) al Collegio di Giurisprudenza dell’Università dell’Oklahoma, negli Stati Uniti. Ha insegnato giurisprudenza fin dal 1971 tenendo, tra l’altro, corsi di Diritto agrario e di Diritto delle acque e un corso di “Politica e Giurisprudenza delle Biotecnologie Agrarie” fin dal 1999.
Nella sua attività accademica si è concentrato sull’insegnamento e la ricerca degli aspetti legali delle Biotecnologie agrarie, tra cui i diritti della proprietà intellettuale, la regolamentazione, le questioni internazionali e la responsabilità legale.
Il prof. Kershen ha partecipato alla Settimana di studio organizzata nel maggio del 2009 dalla Pontificia Accademia delle Scienze sul tema: “Le piante transgeniche per la sicurezza alimentare nel contesto dello sviluppo”.
Per la sua esperienza in questo settore, ZENIT lo ha intervistato su tematiche di grande interesse per il mondo cattolico e in particolare per gli ambienti missionari.
E’ convinzione diffusa che solo i grandi gruppi multinazionali producano piante transgeniche. Di conseguenza i contadini sarebbero costretti a pagare generose e sempre crescenti royalty a queste ditte. E' uno scenario realistico?
Kershen: Le imprese multinazionali hanno di fatto un ruolo significativo nella creazione e ancora di più nella commercializzazione delle varietà transgeniche. Ma è un mito che le grandi ditte multinazionali siano le sole creatrici e sviluppatrici di tali varietà. Anche gli scienziati del settore pubblico in università e istituzioni di ricerca agraria nazionali contribuiscono in modo significativo allo sviluppo delle varietà moderne, comprese quelle transgeniche. Brasile, Cina, India e le Filippine (giusto per citare quattro nazioni rilevanti) hanno molti scienziati con sostanziali risorse finanziarie e fisiche dedicate al miglioramento genetico di molte specie vegetali. Questi programmi del settore pubblico hanno fatto un lavoro eccellente a beneficio degli agricoltori nei propri paesi e altrove.
Per quanto riguarda la ricerca pubblica, i benefici di queste colture dipenderanno dai rispettivi programmi di formazione agricola di ogni nazione. Le colture prodotte dal settore pubblico sono sviluppate per il bene comune e lo sviluppo agricolo.
Per quanto riguarda le multinazionali, i contadini acquistano le varietà transgeniche perché ne vedono ora i benefici agronomici, sociali, economici ed ambientali nei loro campi. Nel 2010, 15.4 milioni di agricoltori - di cui 14.4 milioni sono contadini poveri - hanno piantato varietà transgeniche. Questi agricoltori lo hanno fatto perché queste colture hanno migliorato il loro modo di coltivare e le loro vite e lo hanno fatto volontariamente perché hanno voluto sementi migliorate. Gli agricoltori calcolano facilmente la convenienza delle sementi migliorate, tenendo conto del prezzo d’acquisto, royalty incluse. Se gli agricoltori pensano di non ottenere benefici da un particolare seme, allora non compreranno quel seme.
I fatti ci dimostrano che gli agricoltori vogliono veramente queste sementi migliorate. Essi hanno piantato 148 milioni di ettari di piante transgeniche nel 2010; fin dal primo lancio sul mercato nel 1996, gli agricoltori hanno piantato più di un miliardo di ettari con piante transgeniche. Questa è stata la più veloce adozione di una tecnologia agricola da parte dei contadini nella storia dell’agricoltura. Gli agricoltori conoscono i loro campi e sanno fare i loro interessi. Gli agricoltori vogliono piantare colture transgeniche.
Qual è il ruolo dei diritti di proprietà intellettuale, e in particolare dei brevetti, nel caso delle piante?
Kershen: I diritti di proprietà intellettuale nelle piante prendono diverse forme legali come: i certificati di varietà vegetali (un concetto sviluppato in Europa negli anni '50 e '60), i marchi e le indicazioni geografiche (più comuni ad esempio nel settore dei vini e dei formaggi, con denominazioni di origine ben antiche), i segreti commerciali (informazioni tenute confidenziali circa le linee parentali usate per fare gli ibridi in voga fin dagli anni '20), i brevetti vegetali sulla riproduzione asessuata (di frutti e piante ornamentali in particolare, inventata negli Stati Uniti negli anni '30) e i brevetti di tipo generale (adottati per la prima volta negli USA nel 1980, ma ora riconosciuti nella legislazione brevettuale di molti paesi nel mondo). Ne concludiamo che i diritti di proprietà intellettuale sulle piante esistono da decenni e sono ben presenti nei sistemi legali. Allo stesso momento è importante ricordare che non esistono diritti di proprietà intellettuale internazionali. I diritti di proprietà intellettuale dipendono da legislazioni specifiche di ciascuna nazione. Per questo, il fatto che una ditta abbia dei diritti di proprietà intellettuale su delle sementi in un certo paese, questo non significa che la ditta abbia dei diritti sugli stessi semi in un altro paese.
Le nazioni si dotano dei sistemi di proprietà intellettuale per incoraggiare invenzioni ed innovazioni. Concedendo dei diritti di proprietà intellettuale al creatore di processi o prodotti che siano nuovi, utili e frutto dell’ingegno umano, i paesi permettono al creatore di recuperare i costi di ricerca e sviluppo e i costi di commercializzazione (che spesso includono i costi per l’approvazione secondo normativa) che sono richiesti per portare il processo o il prodotto sul mercato. I diritti di proprietà intellettuale quindi forniscono un incentivo per la creazione di nuova conoscenza e la sua disseminazione in una nazione e nel mondo.
Quali sono gli effetti diretti della proprietà intellettuale sui contadini poveri? Ricavano anche loro dei benefici dai diritti di proprietà intellettuale?
Kershen: Siccome i diritti di proprietà intellettuale stimolano la ricerca, lo sviluppo e il rilascio commerciale delle sementi migliorate, i contadini poveri traggono beneficio dalla maggior ricerca, sviluppo e commercializzazione. Non va inoltre dimenticato che i contadini poveri spesso vivono in paesi dove non ci sono diritti di proprietà intellettuale sulle piante. Per questo i diritti di proprietà intellettuale risultano irrilevanti per questi agricoltori. Inoltre coloro che detengono i diritti di proprietà intellettuale spesso negoziano dei contratti per uso “umanitario”, così che i contadini poveri possano accedere a sementi migliorate senza restrizioni o ostacoli da parte di chi ha sviluppato la semente.
I diritti di proprietà intellettuale non sono stati per i contadini poveri un ostacolo significativo per l’accesso a sementi migliorate. La barriera più rilevante per l’accesso a tali sementi sono state le normative che impongono richieste discriminatorie, inutili e onerose per l’approvazione delle sementi transgeniche. Per esempio, il Sud Africa ha approvato l’uso di alcune piante transgeniche e i coltivatori di questo paese hanno piantato 2,2 milioni di ettari di piante transgeniche nel 2010. Al contrario, la Tanzania ha una normativa che ha impedito ai suoi agricoltori l’accesso a sementi transgeniche. Nonostante il chiaro esempio di colture transgeniche del Sud Africa, i legislatori della Tanzania negano le piante transgeniche ai loro agricoltori. L’impatto negativo dei diritti di proprietà intellettuale sui coltivatori è minimo; l’impatto negativo delle normative discriminatorie sui coltivatori poveri è enorme ed indifendibile.
Se i contadini poveri nei paesi in via di sviluppo adottassero le sementi migliorate, tra cui anche quelle transgeniche, non perderebbero le loro sementi tradizionali e la loro indipendenza? Tali paesi non perderebbero la loro sovranità alimentare?
Kershen: I contadini poveri hanno adottato le sementi migliorate non appena queste sono diventate disponibili e l’ho fanno già da decenni. Nonostante l’adozione di tali sementi, i contadini poveri non hanno perso le loro varietà tradizionali. Piuttosto i contadini hanno adattato le loro pratiche agricole accogliendo sia le varietà migliorate che quelle tradizionali. I contadini imparano velocemente a sviluppare la coesistenza nei loro campi.
Invece di perdere la sovranità alimentare, i contadini migliorano la loro sicurezza alimentare e quella delle loro comunità adottando sementi che offrono una maggiore resa e caratteri migliorati. Gli agricoltori possono ridurre l’uso di pesticidi (e questo è un bene per la loro salute e per il loro benessere economico a motivo della riduzione dei costi). I contadini possono diminuire la loro fatica (e questo è un bene specialmente per le loro famiglie perché una riduzione nelle necessità di lavoro permette ai bambini di frequentare la scuola invece di arare e strappare le erbacce nei campi nei campi dei loro genitori).
I paesi traggono beneficio dalle sementi migliorate perché lo sviluppo agricolo è la chiave per aumentare gli standard di vita e il benessere in quasi tutte le nazioni in via di sviluppo. Tali paesi hanno bisogno di un’agricoltura produttiva perché questo permette ai contadini di evadere da un’agricoltura di sussistenza e alle comunità urbane di avere una maggiore disponibilità di derrate agricole da acquistare.
Partendo da una prospettiva cristiana e di dottrina sociale cattolica, come considera le sementi transgeniche?
Kershen: Concordo pienamente con la dichiarazione della Settimana di studio organizzata dalla Pontificia Accademia delle Scienze che ha concluso che: "in conformità con le recenti scoperte scientifiche, vi è un imperativo morale ad estendere ai poveri e alle popolazioni vulnerabili che li desiderano i benefici di questa tecnologia su più vasta scala e secondo condizioni che permetteranno loro di elevare il tenore di vita, migliorare la salute e proteggere l’ambiente".
La scienza del miglioramento genetico molecolare (transgenesi) e l’esperienza di 15 anni di coltivazione di piante transgeniche dimostrano che le varietà transgeniche non pongono rischi peculiari rispetto a quelle convenzionali o biologiche. Non ci sono stati effetti negativi sulla salute o l’ambiente da parte delle colture transgeniche sul miliardo di ettari coltivati negli ultimi 15 anni. Al contrario, la scienza e l’esperienza dimostrano che le colture transgeniche hanno dato e daranno benefici significativi dal punto di vista agronomico, sociale, economico e ambientale per la sicurezza alimentare della crescente popolazione mondiale. La scienza e l’esperienza mostrano che i contadini poveri ricevono i maggiori benefici dalla coltivazione delle piante transgeniche. La dottrina sociale cattolica esorta la scienza e la società a compiere scelte a beneficio dei poveri. Le colture transgeniche si sono dimostrate una scelta per i poveri perché attraverso di esse i contadini poveri possono migliorare e hanno migliorato le loro vite, la vita delle loro famiglie e la vita dei loro concittadini nelle comunità allargate.
La questione del gender 2 - Uguaglianza e differenza - Autore: Laguri, Innocenza Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 31 marzo 2011 – il sussidiario.net
Il concetto di uguaglianza sotteso. Un altro modo di pensare l’uguaglianza: riconoscimento della differenza.
Questo modo di intendere l’uguaglianza conduce ad un grave irrealismo; la Scaraffia cita Sylvane Agacinsky: ciò che fonda la parità è l’universale dualità del genere umano. Un’altra autrice citata nell’articolo, Eva Kittay, nota che la parità con il maschio è stata raggiunta dalle donne che non hanno responsabilità di cura, ma questa non è la vera uguaglianza, è invece depauperazione. In altri termini l’uguaglianza sarà sempre formale finchè non sarà riconosciuta la differenza. Molto interessante è il collegamento fatto dalla Kittay tra differenza e dipendenza, infatti la società non è fatta di relazioni uguali, ma di relazioni differenti, tra cui, importanti, le relazioni di dipendenza; pertanto vedere solo l’indipendenza o la parità vuol dire essere ben lontani dalla realtà delle relazioni umane (si pensi all’infanzia, alla vecchiaia, alla malattia, alla disabilità).
Utili per capire che non c’è uguaglianza se non nel riconoscimento della differenza sono le osservazioni di Romani Guardini (Il Signore, Morcelliana) a proposito di giustizia-uguaglianza. Guardini fa un discorso che vale in generale per tutte le relazioni, dunque in esso può anche essere compresa la questione del riconoscimento della differenza sessuale. Realizzare l’uguaglianza coincide con la realizzazione della giustizia, ma, dice Guardini, giustizia vuol dire dare a ciascuno ciò che gli spetta. Ora, per sapere cosa spetti a ciascuno si deve guardare con apertura (Guardini usa il termine amore) a ciò che l’altro è realmente, quindi giustizia non è uguaglianza universale, ma ordine vivo secondo la diversità delle persone. E ricorda il saggio detto dei classici “Summum jus, summa iniuria”.
Studio medico: l’aborto selettivo crea danni psicologici e criminalità - 1 aprile, 2011 - http://www.uccronline.it/
Un’analisi sull‘aborto selettivo in Cina, India e Corea del Sud realizzata dal Dr. Therese Hesketh del UCL Centre for International Health and Development punta ad avere una ripercussione significativa nella società.
Il dr. Hesketh e alcuni ricercatori hanno pubblicato sul Canadian Medical Association Journal i risultati di uno studio intitolato ““The consequences of son preference and sex-selective abortion in China and other Asian countries”. Osservano che con l’avvento degli ultrasuoni che consentono l’aborto selettivo del sesso, il rapporto tra i sessi alla nascita, in alcune città in Corea del Sud, è salito a 125 entro il 1992 e oltre 130 in più province cinesi. «A causa dell’enorme popolazione della Cina, questi rapporti si traducono in un gran numero di maschi in eccesso. Nel 2005 è stato stimato un eccesso di 1,1 milioni di maschi in tutto il Paese, e che il numero di maschi di età inferiore ai 20 anni ha superato il numero di femmine di circa 32 milioni», scrivono gli autori.
In India, Cina e Corea, «se il primo figlio è una femmina, le coppie ricorrono spesso all’aborto selettivo del sesso per garantire la nascita di un maschio nella seconda gravidanza». Il dr. Hesketh ha dimostrato che le implicazioni sociali di una preferenza verso i maschi e il conseguente aborto selettivo del sesso per le femmine significa che una percentuale significativa della popolazione maschile non sarà in grado di sposarsi o di avere figli a causa di una scarsità di donne. «In Cina, il 94% delle persone non sposate di età compresa tra 28-49 è un maschio, il 97% dei quali non ha ultimato la scuola superiore, e l’impossibilità a sposarsi comporta spesso problemi psicologici e conseguentemente l’aumento della violenza e del crimine», hanno rilevato gli autori. «La vulnerabilità psicologica e la frustrazione sessuale possono portare questi uomii all’aggressività e alla violenza».
C’è un buon supporto empirco per queste previsioni. Gli autori sostengono che la stragrande maggioranza dei crimini violenti sono commessi da giovani maschi non sposati. Propongono quindi come soluzione l’istituzione di leggi che proibiscano la determinazione del sesso del feto e l’aborto selettivo.
Il cognitivista Piattelli-Palmarini: «l’evoluzione non è più darwinismo» - 1 aprile, 2011, da http://www.uccronline.it
A un anno dalla pubblicazione del suo interessante volume scientifico, “Gli errori di Darwin” (Feltrinelli 2010), scritto con Jerry Fodor, l’evoluzionista Massimo Piattelli-Palmarini, professore di scienza cognitive all’Università dell’Arizona, ha pubblicato un articolo sul sito web Scienzainrete. Il libro ha creato un vero e proprio trsunami nel mondo biologico poiché è l’ennesimo studio che mette in discussione l’impianto darwinista, mantenendosi però all’interno del campo evoluzionista. Ovviamente le critiche feroci da ambienti atei e razionalisti sono state infinite, sopratutto per questioni filosofiche ed esistenziali. Non ci interessa tanto entrare nel merito della correttezza o meno di una nobile teoria scientifica, ma sottolineamo che il principale e abusato argomento della cultura atea per giustificare la propria scelta esistenziale -cioè il neodarwinismo, il fondamentalismo riduzionista basato sulla selezione naturale-, stia perdendo sempre più credibilità grazie all’avanzamento della biologia evolutiva (e non certo creazionista…).
L’EVOLUZIONE NON E’ PIU’ IL DARWINISMO. «Jerry ed io non ci aspettavamo, e ancor meno ci aspettiamo oggi, che mai, proprio mai, i neo-Darwiniani ammettano, seppur tra anni ed anni, non dico di essersi sbagliati, ma neppure di aver esagerato nella loro difesa a oltranza del credo selezionista», comincia a scrivere Piattelli-Palmarini. «Mano a mano che verranno alla luce nuovi processi evolutivi estranei alla selezione naturale si dirà tranquillamente che il Darwinismo viene “allargato” e si procederà senza sussulti». Invece, secondo lo scienziato, questi meccanismi sono l’inizio della nuova teoria dell’evoluzione. Lo stratagemma retorico, continua, «è di considerare evoluzione e Darwinismo come sinonimi, quindi tutto ciò che è compatibile con, o conferma positivamente, la realtà dell’evoluzione, ipso facto, conferma (a detta loro) la validità della teoria della selezione naturale». Invece, continua lo scienziato, «progressivamente il meccanismo della selezione naturale verrà relegato in posizione sempre più marginale, fino a diventare, sempre di fatto, seppur non di diritto, poco pertinente». Nel libro vengono citati un buon numero di biologi che, pur presentando meccanismi decisamente non darwiniani, si inchinano formalmente di fronte alla selezione naturale, in ossequio a un dogma che è rischiosissimo contraddire. «Ben lo sappiamo, a nostre spese», ironizza. La sua posizione si allinea quindi a quella di tanti altri scienziati e premi Nobel, che in minima parte abbiamo raccolto in quest’archivio.
LA SELEZIONE NATURALE E’ UNA LEGGE VUOTA. La critica si concentra dunque sulla selezione naturale, cardine della teoria darwinista, definita però «una legge vuota perché ammette innumerevoli eccezioni e perché si applica solo episodicamente a tratti specifici, in specie specifiche, integrandola con innumerevoli conoscenze di svariate contingenze (biochimiche, genetiche, di sviluppo, ecologiche e così via). Per ammissione anche di alcuni neo-Darwiniani non spiega la speciazione, nè i grandi cambiamenti morfologici. Spiega, quando ci riesce, solo l’affinamento progressivo di alcuni tratti o comportamenti innati, e fenomeni di sotto-speciazione». Ovviamente, tiene a ribadire, ciò non significa che non ha mai alcun impatto sulle spiegazioni evoluzionistiche, ma si mantiene ad un vaghissimo livello, «poi integrandosi intimamente con svariatissime altre conoscenze contingenti». L’articolo continua addentrandosi in un dicorso molto tecnico, utile a dimostrare l’assunto iniziale. L’accusa generale è che la selezione naturale non può stabilire la differenza tra un tratto biologico che causa maggiore fitness biologica e un tratto che, invece, per caso, lo accompagna, ma non causa alcuna differenza di fitness. Eppure, la differenza c’è ed è massiccia. Per questo -sottolinea Palmarini, la teoria è difettosa. È un errore concettuale, epistemologico e scientifico attribuire a un processo naturale qualcosa che è costituito dalla nostra mente.
Ciò che è veramente interessante non è tanto entrare nel merito della correttezza o meno di una nobile teoria scientifica, ma la dimostrazione che il principale e abusato argomento della cultura atea per giustificare la propria scelta esistenziale -cioè il neodarwinismo, il fondamentalismo riduzionista basato sulla selezione naturale-, vacilla sempre più pericolosamente proprio grazie all’avanzamento della biologia evolutiva (e non certo creazionista…).
Soap opera pro-eutanasia - Choc in Inghilterra di Lorenzo Schoepflin, Avvenire.it, 1 aprile 2011
Si intitola Emmerdale, è una soap opera ambientata nell’omonima cittadina del West Yorkshire in Inghilterra, va in onda dal 1972 ed attualmente viene trasmessa dall’emittente Itv. Fin qui, l’identikit è quello di una serie televisiva come molte altre. Ma Emmerdale è finita recentemente al centro di un dibattito che riguarda il suicidio assistito a causa della storia di uno dei personaggi della soap: Jackson Walsh, giovane ragazzo impersonato dall’attore Marc Silcock, finisce su una sedia a rotelle, a causa di una paralisi conseguente ad un incidente automobilistico.
Anticipazioni attendibili, anche se non ufficialmente confermate, rivelano che Jackson finirà con lo scegliere la strada del suicidio assistito. A quanto pare, nelle prossime puntate, il giovane inizierà a manifestare la propria volontà di morire e tutto si concluderà con la madre e la fidanzata che lo aiuteranno ad ingerire una dose letale di una sostanza sciolta in acqua.
Non deve meravigliare che la serie tv, vista da otto milioni di telespettatori, sia finita nell’occhio del ciclone: la memoria degli inglesi non può che andare a Daniel James, il rugbysta ventitreenne rimasto paralizzato dopo un incidente di gioco ed accompagnato a morire in Svizzera dai genitori nel 2008.
Sull’argomento si è espresso in un recente intervento sul quotidiano Telegraph Peter Stanford, presidente di Aspire (www.aspire.org.uk), un’associazione dedita all’aiuto di tutti coloro rimasti vittime di lesioni spinali. Nell’articolo, Stanford ha ricordato come i progressi della medicina e della tecnologia consentano alle persone paralizzate di condurre una vita piena.
Come accaduto, ad esempio, a Simon Morris, che dopo la lesione spinale subita a 26 anni si è laureato in Matematica ed Informatica. Certo, a detta di tutti i diretti interessati, non mancano i momenti di sconforto, ma viva è la preoccupazione per il messaggio che la soap rischia di comunicare con la storia di Jackson Walsh.
«Probabilmente la mia vita è differente», racconta Matt King, avvocato di ventitré anni, paralizzato da sei, «non è la vita che avrei scelto, ma esco ancora la sera con gli amici. Voglio dire chiaramente che ho una buona vita».