venerdì 29 maggio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Vaticano approva le cellule parrocchiali di evangelizzazione - Il decreto pontificio verrà diffuso ufficialmente il 29 maggio
2) Il Papa ai Vescovi italiani: “c’è bisogno di educatori autorevoli” - Nell'Udienza ai partecipanti alla 59ª assemblea generale della CEI
3) La rivincita della preghiera, in un mondo che la vuole mettere al bando - Da Montecassino il papa rilancia il motto di san Benedetto: "Ora et labora". E il cardinale Ruini spiega come il pregare sia la sicura risposta alle moderne crisi di fede. Se ne è discusso anche in un Festival della teologia - di Sandro Magister
4) Per una pastorale del matrimonio indissolubile - Nessuno è escluso dall'amore di Cristo - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 29 maggio 2009
5) L’amore “discriminatorio” di Dio - Pigi Colognesi - venerdì 29 maggio 2009 – ilsussidiario.net
6) SCUOLA/ Il richiamo della Cei al «sacrosanto» diritto alla libertà di educazione - Vincenzo Silvano - venerdì 29 maggio 2009 – ilsussidiario.net
7) S.E. Card. Carlo Caffarra - La crisi dell'etica in Occidente - Roma, Palazzo Colonna, 26 maggio 2009
8) LA PIÙ GRAVE EMERGENZA UMANITARIA - LA SOMALIA DEVASTATA CHIAMA IN AIUTO IL MONDO RESPONSABILE - GIULIO ALBANESE – Avvenire, 29 maggio 2009


Il Vaticano approva le cellule parrocchiali di evangelizzazione - Il decreto pontificio verrà diffuso ufficialmente il 29 maggio
ROMA, giovedì, 28 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il Pontificio Consiglio per i Laici ha deciso di procedere al riconoscimento del sistema delle cellule parrocchiali di evangelizzazione, introdotto in Europa, a Milano, poco più di vent'anni fa (1988) e oggi assai diffuso nel mondo.
Il Consiglio vaticano ha chiesto al sacerdote Pigi Perini, presidente dell'organismo internazionale delle cellule, di assicurare la perennità di questo metodo di evangelizzazione. Il decreto di riconoscimento verrà diffuso ufficialmente il 29 maggio. E' il riconoscimento non di un movimento, ma di un servizio.
Ogni anno da circa venti, viene organizzato a Milano un seminario internazionale di presentazione del sistema delle cellule parrocchiali di evangelizzazione. Quest'anno avrà luogo dal 3 al 7 giugno.
ZENIT ha parlato con padre Arnaud Adrien, responsabile francofono delle cellule, sull'origine di questo metodo.
“C'è un grande impulso evangelizzatore in tutto il mondo che tocca ogni confessione – ha spiegato –. Soprattutto la corrente evangelica, che è estremamente missionaria. In Corea, con un pastore di nome Paul Yonggi Cho, è nata una formula, un metodo di evangelizzazione, le cellule di casa. Un sacerdote statunitense, padre Michael Eivers, in qualche modo ha 'cattolicizzato' il metodo e lo ha importato con successo nella propria parrocchia”.
“Nel 1987 padre Pigi, parroco di Sant'Eustorgio a Milano, è andato a visitare questa parrocchia su consiglio di alcuni amici: ha trovato una parrocchia infiammata e si è subito convertito a quel metodo. Ha organizzato sessioni di formazione che hanno avuto ripercussioni in tutto il mondo. Il Pontificio Consiglio per i Laici si è reso conto che questo metodo era fecondo per le parrocchie dei cinque continenti e ha proposto a padre Pigi di creare un organismo internazionale perché dopo di lui questa grazia possa continuare a servire la Chiesa”.
Padre Adrien attribuisce il successo di queste cellule “alla necessità di avere un metodo per tradurre in fatti questo desiderio di evangelizzazione che Giovanni Paolo II ha impresso alla Chiesa. Partendo dalla Evangelii nuntiandi di Paolo VI, tutta una corrente di evangelizzazione ha irrigato la Chiesa. Per i parroci che non hanno un nuovo movimento a sostenerli, le cellule diventano una possibilità di trasformare la pastorale ordinaria in pastorale missionaria, ed è proprio questo l'aspetto attraente del metodo delle cellule: la possibilità di continuare la pastorale ordinaria facendone una missionaria”.
Padre Adrien spiega in cosa consiste concretamente: “E' un metodo molto semplice che non richiede enormi capacità. Di fatto, il parroco forma la sua parrocchia per l'evangelizzazione. Utilizzando il testo della Evangelii nuntiandi, prendendo tempo per studiare e dando così una coscienza missionaria a tutti. Giovanni Paolo II diceva che ogni comunità cristiana che non è missionaria non è nemmeno una comunità cristiana”.
Per questo, aggiunge il sacerdote, “il parroco deve infondere nello spirito dei suoi parrocchiani questo desiderio di evangelizzazione che fa parte della nostra grazia battesimale. Inviterà ogni parrocchiano a far parte di una piccola fraternità. La chiamerà cellula. Perché? Perché le cellule di un corpo che cresce diventano complesse, si moltiplicano e permettono la crescita del corpo. Inviterà quindi a costituire cellule di una decina di persone. Formerà i leader che formeranno i loro co-leader. Ogni parrocchiano sarà chiamato a servire le persone intorno a lui. In termini tecnici si parla di oïkos, cioè la gente che ci circonda: parenti, amici, colleghi di lavoro. Assumerà rispetto a loro l'atteggiamento di servizio che Gesù ha avuto lavando i piedi ai suoi discepoli. Li inviterà a venire alla cellula e quando questa sarà molto grande si moltiplicherà. E' molto semplice”.
In questo modo, indica padre Adrien, “il corpo della parrocchia può crescere e arrivare ai non praticanti. Perché le cellule sono costituite in realtà dai non praticanti, da quelli che sono lontani dalla Chiesa. E' un metodo molto semplice. Voglio insistere su questo perché ogni sacerdote possa dire: 'E' un buon metodo per la mia parrocchia'”.
Come può aiutare questo metodo a risvegliare le parrocchie, a riempire le chiese? “Restituendo una coscienza missionaria a ogni parrocchiano – sostiene padre Adrien –. Questa è la prima cosa. Non è molto difficile perché oggi i cristiani sentono che bisogna risvegliarsi ed evangelizzare, altrimenti saranno altri a toccare quanti cercano un senso per la propria vita. Quando un parroco si mobilita davvero, i parrocchiani lo seguono volentieri”.
Padre Adrien ha constatato con sorpresa, quando era parroco a Sanary-sur-Mer (Francia), “che la gente veniva di più, iniziava a tornare in chiesa, e la chiesa si riempiva. Ogni settimana c'era un numero crescente di partecipanti alla Messa”.
“Questo metodo permette anche di risolvere certe tensioni molto forti in questo momento nella Chiesa, come ad esempio la questione dei divorziati risposati. Grazie all'esistenza di una comunità fraterna costituita da cellule, vedevo con gioia e sorpresa i divorziati risposati venire a Messa anche durante la settimana, senza comunicarsi a livello sacramentale ma comunicando davvero, in modo diverso”.
Per il sacerdote il riconoscimento della Chiesa avrà un impatto esterno e interno: “esterno perché quanti contestavano la validità di questo metodo per le sue origini evangeliche non potranno più farlo. Di fatto, Roma riconosce il metodo come giusto e gli dà un'etichetta di cattolicità incontestabile. Questo timore quindi si perde. E questo è molto importante”.
“A livello interno, ci aprirà necessariamente al mondo intero – ha aggiunto –. Visto che Roma afferma che è un metodo utile per la Chiesa universale, non ci possiamo occupare solo della nostra parrocchia. Il Concilio Vaticano II, nel Presbyterum ordinis, dice che ogni sacerdote deve avere cura di tutte le Chiese. Non è solo la cura dei Vescovi. Spetta a ogni sacerdote assumere, come Paolo, la cura di tutte le Chiese. E' quindi necessario che ogni parroco comprenda di avere una responsabilità di fronte alle altre parrocchie e agli altri Paesi. Questo riconoscimento della Chiesa ci invia. Riceviamo un mandato per proporre alle Chiese locali che lo desiderano questa forma di evangelizzazione”.
Il riconoscimento del Pontificio Consiglio per i Laici, ricorda un comunicato della parrocchia milanese di Sant'Eustorgio inviato a ZENIT, “avviene al termine di un processo intrapreso spontaneamente dal dicastero vaticano ed esprime la volontà della Chiesa di veder proseguire questo metodo, confermando inoltre la cattolicità e la validità pastorale di una proposta in grado di rinnovare profondamente in senso missionario le comunità parrocchiali”.
“Da gigante addormentato a parrocchia in fiamme”: questa è la promessa del sistema delle cellule, oggi oltre 4.300 in tutto il mondo.


Il Papa ai Vescovi italiani: “c’è bisogno di educatori autorevoli” - Nell'Udienza ai partecipanti alla 59ª assemblea generale della CEI
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 28 maggio 2009 (ZENIT.org).- Nell'udienza di questo giovedì ai Vescovi italiani, in occasione della loro Assemblea generale, Benedetto XVI ha sottolineato il compito urgente e fondamentale dell’educazione per la Chiesa e la società.
“C’è bisogno di educatori autorevoli a cui le nuove generazioni possano guardare con fiducia”, ha detto Benedetto XVI, sottolineando che “un vero educatore mette in gioco in primo luogo la sua persona e sa unire autorità ed esemplarità nel compito di educare coloro che gli sono affidati”.
Precedentemente, nel suo indirizzo di saluto, il Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), aveva ringraziato il Papa per la sua “calda vicinanza” alle popolazioni d’Abruzzo colpite dal terremoto, “che hanno mostrato una singolare dignità e manifestato al mondo un radicamento agli autentici valori umani ed evangelici”.
Parlando poi della sfida educativa al centro dell'Assemblea, il porporato aveva spiegato la scelta di questo tema con l'intenzione di “raccogliere non solo una questione evidente, che non cessa di interpellare anche ampi strati della cultura e della società, ma altresì declinare l’azione evangelizzatrice della Chiesa”.
A questo proposito, il Santo Padre, nel suo discorso ha affermato che quella dell’educazione è “un’esigenza costitutiva e permanente della vita della Chiesa” che oggi tende ad “assumere i tratti dell’urgenza e, perfino, dell’emergenza”.
E’ allora necessario, ha avvertito, riflettere su un progetto educativo “che nasca da una coerente e completa visione dell’uomo” che può “scaturire unicamente” da Gesù Cristo.

“In un tempo in cui è forte il fascino di concezioni relativistiche e nichilistiche della vita – ha spiegato – , e la legittimità stessa dell’educazione è posta in discussione, il primo contributo che possiamo offrire è quello di testimoniare la nostra fiducia nella vita e nell’uomo, nella sua ragione e nella sua capacità di amare”.
Quindi, ricordando che domenica prossima si concluderà il percorso triennale dell’Agorà dei giovani italiani (www.agoradeigiovani.it), volto a promuovere un nuovo impulso della pastorale giovanile e il maggior coinvolgimento delle nuove generazioni nella missione della Chiesa, il Papa ha invitato i presuli a tracciare un bilancio del cammino educativo percorso finora e a realizzare nuovi progetti destinati ai ragazzi.
Tuttavia, ha precisato il Pontefice, l’educazione non può riguardare solo le nuove generazioni, perché “l’opera formativa, infine, si allarga anche all’età adulta, che non è esclusa da una vera e propria responsabilità di educazione permanente”.

Benedetto XVI ha quindi ricordato le drammatiche vicende legate al terremoto che ha scosso l'Abruzzo, che hanno potuto far emergere “quel senso di solidarietà che è profondamente radicato nel cuore di ogni italiano”.

Il Santo Padre ha quindi voluto rinnovare ai Vescovi abruzzesi e, attraverso di loro, alle comunità locali l’assicurazione della sua “costante preghiera” e della “perdurante affettuosa vicinanza”.

A proposito della crisi finanziaria ed economica che ha colpito anche l'Italia, Benedetto XVI ha quindi lodato l’iniziativa promossa dalla CEI, che per domenica 31 maggio ha annunciato una Colletta nazionale il cui ricavato – l'auspicio è di riuscire a raccogliere 30 milioni di euro – alimenterà un fondo di solidarietà denominato “Prestito della Speranza”, destinato a sostenere 30.000 famiglie.
“In un momento di difficoltà, che colpisce in modo particolare quanti hanno perduto il lavoro, ciò diventa un vero atto di culto che nasce dalla carità suscitata dallo Spirito del Risorto nel cuore dei credenti”, ha detto il Papa.
Infine, il Pontefice ha evidenziato l’impegno dei Vescovi italiani nella “promozione di una mentalità a favore della vita in ogni suo aspetto e momento”, lodando in particolare l’appello-manifesto “Liberi per vivere. Amare la vita fino alla fine”, lanciato dall'associazione “Scienza e Vita” e che vede il laicato cattolico impegnato affinché non manchi nel Paese “la coscienza della piena verità sull’uomo”.


La rivincita della preghiera, in un mondo che la vuole mettere al bando - Da Montecassino il papa rilancia il motto di san Benedetto: "Ora et labora". E il cardinale Ruini spiega come il pregare sia la sicura risposta alle moderne crisi di fede. Se ne è discusso anche in un Festival della teologia - di Sandro Magister
ROMA, 29 maggio 2009 – Nella visita che ha compiuto all'abbazia di Montecassino la domenica dell'Ascensione, Benedetto XVI ha rilanciato il celebre motto del santo da cui ha preso il nome: "Ora et labora et lege". Lavora e studia, ma prima di tutto prega.

E ha legato questo motto a quell'altro che il papa ha posto più volte all'origine dell'intera civiltà occidentale: "quaerere Deum", ricercare Dio.

Nella visione di Benedetto XVI, il pregare Dio non è una parte ma il tutto della vocazione dell'uomo. La tesi può apparire audace, in un'epoca in cui la preghiera è spesso declassata, contestata, messa al bando. Ma trova conforto in segnali di rinnovata attenzione a questo atto capitale del vivere cristiano, e non solo.

***

Ad esempio, negli stessi giorni della visita a Montecassino di papa Joseph Ratzinger, più a nord, a Bologna, in una delle città più secolarizzate d'Italia, la festa della Madonna di San Luca ha visto accorrere alla preghiera una folla molto più numerosa che in passato. Così come poche settimane prima, nella stessa città, l'immensa basilica di San Petronio non era bastata a contenere la gran massa dei giovani di una veglia di preghiera, che riempì anche la piazza antistante.

Ancora più a nord, sempre pochi giorni fa, a Piacenza sulle rive del Po, uomini di Chiesa, teologi, filosofi ed artisti, credenti e non credenti, hanno scelto di confrontarsi proprio su questo tema: "Preghiera ed esperienze di Dio".

L'incontro, organizzato come un "Festival della teologia", è iniziato e terminato il 22 e 24 maggio con due "lezioni magistrali": la prima del cardinale Camillo Ruini, la seconda del più celebre dei teologi evangelici tedeschi, Jürgen Moltmann.

Tra gli altri, vi hanno preso la parola Philippe Némo e Mario Botta, PierAngelo Sequeri ed Elmar Salmann, Massimo Cacciari e Guido Ceronetti.

La lezione del cardinale Ruini è riprodotta qui sotto, con sottotitoli redazionali.

Di particolare interesse sono i passaggi nei quali egli analizza le obiezioni che la cultura di oggi mette in opera contro la preghiera e, viceversa, il senso profondo della preghiera come "caso serio" sul quale la fede cristiana sta o cade.



L'orizzonte della preghiera: in cammino verso Dio di Camillo Ruini
Iniziamo da una classica definizione di San Tommaso d'Aquino: "Oratio est proprie religionis actus", la preghiera è propriamente l'atto della religione ("Summa Theologiae" II-II, q. 83, a. 3). Tale definizione viene comunemente riconosciuta anche oggi come universalmente valida nell'ambito della storia delle religioni, in termini paradossalmente più ampi dello stesso riconoscimento del rapporto della religione con un Dio personale [...].

Il buddismo rimane il caso più rilevante di una grande religione che non lascia spazio a un Dio personale ma riconduce tutto alla non distinzione del "Nulla", nella quale si dissolve ogni "io" e ogni "tu", compreso un presunto "Tu" divino.

In questo caso la preghiera cambia, per così dire, la sua natura e diventa una "mistica" (in senso assai diverso dalla mistica cristiana), cioè il cammino che conduce dalla distinzione all’indistinzione e finalmente si presenta come l’esperienza stessa dell’indistinzione, che costituirebbe la realtà suprema e decisiva, l’unica realmente vincolante, nell’ambito del religioso

Nella prospettiva della storia e della fenomenologia delle religioni non sembra però questo l'approccio alla preghiera spontaneo e originario, che è invece quello di rivolgersi al divino come a un "Tu", sia pure radicalmente superiore, misterioso e ineffabile, con il quale comunque possiamo entrare in rapporto – ed esso con noi – per rendercelo propizio ed essere protetti dalle minacce e insidie della vita, ma anche per onorarlo nella sua grandezza e riconoscere il nostro debito radicale verso di lui, ossia per adorarlo.

La funzione della preghiera consiste appunto nel rendere possibile e realizzare questo misterioso rapporto. Il mito, o meglio i miti, anzitutto i miti delle origini, possono essere considerati come il contesto esplicativo e interpretativo nel quale l'umanità ha strutturato e giustificato per molti millenni un tale rapporto con il divino.


LA CRITICA GRECA AL MITO
Già cinque o sei secoli prima di Cristo si è sviluppata però, in Grecia, una critica razionale e filosofica del mito, che tende a sostituirlo con il "logos", il discorso razionale, quanto alla conoscenza della realtà di noi stessi e del mondo, pur lasciandogli uno spazio per guidare la vita di coloro che non sono in grado di avvalersi pienamente del "logos", e anche – in parte – per attingere quelle realtà più alte alle quali il "logos" dell'uomo non può giungere con certezza.

La filosofia greca non è comunque affatto "atea", almeno nelle sue forme prevalenti e più significative. Al contrario, qualifica se stessa anche come "teologia": una teologia però non più mitica ma "fisica", naturale, nel senso che essa coglie razionalmente la vera natura del divino. Sarebbe troppo sbrigativo affermare che questa teologia filosofica sia propriamente monoteista, ma essa concepisce comunque la realtà suprema come unitaria, ossia come l'Uno al vertice della realtà. Il problema è piuttosto che questo Uno o Assoluto come tale non è da noi "interpellabile": proprio per la sua trascendente assolutezza non possiamo entrare in rapporto con lui e quindi la preghiera, atto e atteggiamento fondamentale dell'uomo religioso, non può rivolgersi a lui. Essa può trovare un significato e una giustificazione solo su un piano diverso, in rapporto ai nostri bisogni esistenziali e sociali, rivolgendosi in concreto a quegli Dei che sono in realtà soltanto immagini dell'Assoluto, costruite per noi e in vista del nostro bisogno.

È interessante notare che nella stessa epoca, il VI secolo a.C., in un'area geografica e culturale ben diversa nasceva il buddismo, il quale può anch'esso intendersi come una critica delle precedenti forme di religione mitica e ugualmente non lascia spazio alla preghiera come rapporto personale con un Tu divino.


LA RIVELAZIONE BIBLICA
Ma, sempre nello stesso periodo, una critica altrettanto radicale del politeismo è stata sviluppata dai profeti di Israele, in particolare dal Secondo Isaia (Is 40-55), in rapporto con la fine della monarchia davidica e l'esilio in Babilonia. Si tratta però di una critica profondamente diversa, non basata sulla ragione umana come quella della filosofica greca, e nemmeno sull'esperienza mistica come quella del buddismo, bensì sulla diretta rivelazione dell'unico Dio che tramite il profeta si rivolge al popolo di Israele.

La fede in Jahwè unico vero Dio e il rapporto esclusivo con lui hanno certamente radici molto più antiche, avendo a che fare con l'origine stessa di Israele come popolo, ma proprio la gravissima crisi costituita dall'esilio in Babilonia e dalla fine dell'indipendenza nazionale, che di per sé tendeva a mettere in discussione la potenza del Dio d'Israele – sconfitto, secondo la mentalità di quel tempo, dagli Dei di Babilonia –, è stata invece l'occasione per reagire sviluppando e approfondendo maggiormente la fede in lui come Creatore dell'universo e unico vero Dio di tutte le nazioni.

Possiamo dire inoltre che solo in Israele incontriamo il monoteismo in senso proprio e pieno, la cui essenza consiste non semplicemente nell'affermazione dell'unicità di un Essere supremo ma anche nella sua "interpellabilità", nel poterci rapportare a lui e pregarlo, e nella conseguente esclusione del culto di altre divinità.

Così la rivelazione biblica superava fin dall'inizio quella separazione che ha travagliato la religione nell'antichità classica, riunificando nell'unico Dio che si rivela a noi l'Essere assoluto a cui erano giunti in qualche modo i filosofi e quelle divinità a cui si poteva rendere culto, ma che ormai erano state ridotte dalla critica filosofica a un mito privo di verità e di sostanza.

In una prospettiva storico-religiosa un divorzio per certi aspetti simile sembra essere avvenuto già molti millenni prima: infatti la credenza in un Essere supremo si riscontra praticamente presso tutti i popoli e i miti arcaici, ma progressivamente questo Dio supremo sembra allontanarsi dal mondo e dagli uomini, disinteressarsi di essi e abbandonare il proprio potere a divinità inferiori, divenendo così un "Deus otiosus", un Dio ozioso, come tale sempre meno oggetto di preghiera. La rivelazione biblica si pone dunque come una svolta grandiosa e decisiva nella storia della religione e delle religioni: il Dio supremo ora prende l'iniziativa, irrompe sulla scena del mondo e nella vita dell'uomo, presentandosi come il "Dio geloso", che vuole unicamente per sé la preghiera, il culto e l'adorazione, perché egli soltanto è Dio e tutto il resto è sua creatura.

Nell'Antico Testamento alla base della preghiera sta pertanto l'iniziativa di Dio che parla all'uomo, il quale a sua volta risponde: "Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta", dice il giovane Samuele (1 Sam 3, 9). La preghiera è dunque un presentarsi al cospetto del Dio vivo e la sua ragione fondamentale è l'alleanza che Dio ha concluso con il suo popolo e che richiede la coerenza della vita, il fedele adempimento della legge che Dio ha donato. Le dimensioni etica e comunitaria stanno pertanto in primo piano: quando però, come ho accennato, la comunità nazionale entra in crisi – a causa della sua pervicace infedeltà all'alleanza – assume maggior rilievo il carattere personale della preghiera, come si può vedere in molti salmi.


LA PREGHIERA DI GESÙ
Un'ulteriore svolta nella preghiera, anzi la svolta definitiva, si ha con Gesù di Nazaret e anzitutto con la sua personale preghiera, nella quale si esprime il suo rapporto con Dio Padre: un rapporto unico che ci fa penetrare in qualche modo nel mistero di Dio perché l'uomo Gesù di Nazaret è e sa di essere il Figlio totalmente rivolto verso il Padre, il Figlio il cui cibo è fare la volontà del Padre (Gv 4, 34), il Figlio che è veramente conosciuto soltanto dal Padre e che a sua volta è l'unico a conoscere davvero il Padre (Mt 11, 27), in ultima analisi il Figlio che nell'unità dell'amore reciproco è una cosa sola con il Padre (Gv 10, 30). La Chiesa primitiva ha conservato nella sua forma originale aramaica la parola chiave con cui Gesù si rivolgeva a Dio nella preghiera, "Abbà", che significa Padre con una nota di profonda intimità unita a grande rispetto e dedizione.

Gesù stesso ha introdotto i suoi discepoli nella propria preghiera e nel proprio rapporto con il Padre, fino ad insegnare loro quella preghiera – il "Padre nostro" – che resta per sempre la preghiera fondamentale e caratterizzante del cristiano.

Di essa ci limiteremo ad osservare che le sue prime tre domande riguardano Dio stesso, il riconoscimento e l'adorazione che, come figli, gli dobbiamo, mentre le altre quattro riguardano le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre difficoltà. Nel Nuovo Testamento come nell'Antico la preghiera implica ed esige dunque la coerenza della vita, in concreto l'unità tra l'amore di Dio e l'amore del prossimo, unità che nel Nuovo Testamento viene radicalizzata: "tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l'avete fatto a me" (Mt 25, 40). Come ha scritto Benedetto XVI nel suo "Gesù di Nazaret": "Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l'orientamento verso Dio. Quanto più esso diventa la base portante di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto più saremo in grado di sopportare il dolore, di capire gli altri, e di aprirci a loro" (p. 159).


LA PREGHIERA DELLA CHIESA
Nella storia e nella vita della Chiesa la preghiera ha occupato e occupa un posto di primo piano, che diventa pienamente visibile solo a chi ne fa esperienza personale, o ne studia direttamente i documenti storici.

Questa preghiera si struttura anzitutto come liturgia, preghiera pubblica e comunitaria della Chiesa che unita a Gesù Cristo si rivolge nello Spirito Santo a Dio Padre. Qui emerge in tutta la sua pregnanza il carattere specificamente trinitario della preghiera cristiana, come partecipazione e immissione nel rapporto che Cristo ha con Dio Padre nel vincolo di amore dello Spirito Santo. Siamo immersi, o innalzati, cioè in una vita che non è la nostra di uomini, di creature, ma è la vita di Dio, e il Dio a cui ci rivolgiamo nella liturgia non è un Dio generico, e nemmeno propriamente il Dio uno e trino, ma il Dio Padre di Gesù Cristo e in Cristo Padre di tutti noi.

Nella preghiera cristiana, inoltre, la dimensione pubblica e comunitaria e quella intima e personale rimandano l'una all'altra e crescono insieme: il "noi" della preghiera della Chiesa si accompagna all'ascolto di quel Dio che vede nel segreto e che siamo chiamati ad incontrare nel chiuso della nostra camera e nel segreto del nostro cuore (Mt 6, 5-6). Nel corso dei secoli questo carattere personale della preghiera ha trovato molte espressioni, non di rado sublimi, che restano un tesoro prezioso, come rimangono anche preziose le umili espressioni della pietà popolare.

Un'ulteriore grande caratteristica della preghiera cristiana riguarda la sua dimensione "mistica". Non mi riferisco soltanto alle figure dei grandi mistici di cui il cristianesimo è ricco in maniera eccezionale, ma più radicalmente al carattere specifico della mistica cristiana, come lo possiamo già individuare negli scritti degli apostoli Paolo e Giovanni.

Essa si collega direttamente a quel che abbiamo accennato della preghiera di Gesù e del suo rapporto con Dio Padre. La formula giovannea del reciproco "rimanere in", per cui come il Padre è nel Figlio e il Figlio nel Padre, così anche i credenti sono chiamati a rimanere nel Padre e nel Figlio, mentre il Padre e il Figlio rimangono in loro (Gv 17, 21), esprime in maniera insuperabile quell'unione con Dio che è il cuore di ogni mistica autentica.

Qui però l'unione con Dio è conseguente al dono di sé che Cristo ha compiuto storicamente sulla croce ed esige la concretezza etica dell'amore operoso dei fratelli: "Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi… Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede" (1 Gv 4, 12.20).

Non è dunque una mistica chiusa in se stessa. Al contrario, è calata dentro la storia ed esige la conversione, il cambiamento della vita.


LE OBIEZIONI MODERNE
A questo punto dobbiamo però prendere in considerazione le molteplici difficoltà che a partire dall'epoca moderna ha incontrato la preghiera, specialmente nei paesi di religione cristiana. Alcune di esse hanno a che fare con le idee e le convinzioni e per lungo tempo hanno avuto una minore diffusione a livello popolare. Sono fondamentalmente di tre tipi.

Le prime difficoltà nascono dalla negazione dell'esistenza di Dio, o almeno da una posizione agnostica: si pensi ad esempio al materialismo già presente in alcuni filoni dell'illuminismo settecentesco, poi a Feuerbach e al marxismo. Ma anche le forme di panteismo ripresentatesi già a partire da Spinoza non lasciano un reale spazio alla preghiera.

Il secondo tipo di difficoltà non mette in discussione Dio, cioè il "Tu" a cui la preghiera si rivolge, ma lo considera inaccessibile a un rapporto personale con noi. Ad esempio Kant, che pure conserva in buona parte il concetto cristiano di Dio, considera la preghiera una "illusione superstiziosa" ("La religione nei limiti della sola ragione", a cura di M. M. Olivetti, 1993, p. 217), e con lui parecchi altri, che ritengono vera e autentica soltanto una religione naturale e comune a tutti gli uomini, non una religione rivelata.

Arriviamo così alla terza causa di difficoltà, che consiste nella contestazione del cristianesimo. Dapprima essa ha riguardato piuttosto la Chiesa come istituzione e il suo potere sociale, ma poi si è estesa viepiù a mettere in discussione gli elementi centrali della fede, come la divinità di Cristo e la possibilità stessa di un intervento di Dio nella storia.

Al riguardo pensiamo spontaneamente all'illuminismo, soprattutto francese, ma forse più radicale e più efficace storicamente è stata la critica al cristianesimo condotta in Germania lungo il secolo XIX, come mostra assai bene il libro di K. Löwith "Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX". In particolare questa critica ha coinvolto l'attendibilità storica della figura di Cristo che ci è presentata dai Vangeli.

Si comprende facilmente quanto tutto ciò abbia potuto e possa ostacolare quel rapporto fiducioso e filiale con Gesù Cristo e con Dio Padre che è proprio della preghiera cristiana.


LA SFIDA DELLA SECOLARIZZAZIONE
Le difficoltà che hanno avuto più ampio impatto sulla gente comune dipendono però non da idee e teorie, ma dagli enormi cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi secoli, a un ritmo sempre più incalzante, quanto alle condizioni concrete della nostra vita.

Mi riferisco alla rivoluzione industriale e poi alle grandi trasformazioni successive, che hanno il loro motore nello sviluppo delle scienze moderne e delle tecnologie ad esse collegate. Il mondo che ne deriva e di cui abbiamo esperienza diretta si presenta a noi sempre più come opera dell'uomo e sempre meno come "natura", che rimanda al suo Creatore.

Il processo di cambiamento è anzi ancora più vasto, perché abbraccia progressivamente i rapporti sociali e le istituzioni, le scienze e in genere l'uso pubblico della ragione. Essi vengono ricondotti esclusivamente all'intelligenza e alla libertà dell'uomo, sottraendoli all'influsso di Dio e della religione.

Questo macro-processo, che viene denominato "secolarizzazione", ha trovato la sua espressione classica già nel 1625 con la formula coniata da un grande giurista olandese, personalmente molto credente, Ugo Grozio: "etsi Deus non daretur", anche se Dio non esistesse.

Il senso della formula è che il diritto naturale, e in genere gli ordinamenti del mondo, mantengono la loro validità anche nell'ipotesi – per Grozio assolutamente empia – che Dio non esistesse. La conseguenza pratica è la riduzione tendenziale del rapporto con Dio al solo ambito personale e privato, ciò che oggi viene teorizzato attraverso un'interpretazione restrittiva del concetto di "laicità".

Per essere concreti dobbiamo aggiungere il grande e quasi soffocante influsso negativo che esercitano il frastuono quotidiano, l'idolatria del denaro e del successo, l'ostentazione della sessualità fine a se stessa. Così la preghiera rischia di essere soffocata non solo a livello pubblico ma anche all'interno del nostro cuore.

Nel dinamismo della storia questi diversi fattori necessariamente interagiscono tra loro e a volte confluiscono nel tentativo di eliminare la religione e la preghiera dall'orizzonte dell'umanità. I due maggiori tentativi di questo genere appartengono l'uno ad un passato recente, che però in alcune parti del mondo è ancora fortemente operante, l'altro agli anni che stiamo vivendo.

Il primo è l'ateismo di stato promosso sistematicamente dai regimi comunisti. Si osserva giustamente che questo tentativo è fallito, poiché la fede e la preghiera sono sopravvissute al suo attacco ed anzi, per certi aspetti, mostrano una nuova vitalità nei paesi che sono passati attraverso quell'esperienza. Questa è però soltanto una parte del discorso: i danni e le distruzioni arrecati hanno lasciato infatti conseguenze profonde, quanto alla consistenza umana e morale di tante persone e di intere società ed anche, specificamente, quanto al loro radicamento nel cristianesimo.

Oggi comunque la nostra attenzione deve rivolgersi soprattutto a un fenomeno molto più complesso, sottile ed impalpabile dell'ateismo di stato.

Si tratta del tentativo di presentare la religione e la preghiera da una parte come qualcosa che mancherebbe di fondamento oggettivo, perché Dio non esiste, o comunque non è da noi conoscibile, o quanto meno non ha un carattere personale che lo renda da noi interpellabile. Dall'altra parte, invece, la religione e la preghiera si spiegherebbero assai bene come una nostra funzione psicologica, che si radica in determinate aree del nostro cervello, cerca di compensare i nostri bisogni di protezione e di sicurezza e può forse avere svolto nel passato un ruolo positivo per la sopravvivenza e l'evoluzione della nostra specie.

Noto per inciso che in questo modo si trascura un carattere fondamentale dell'esperienza religiosa, come di quella morale: quando essa è autentica si rapporta all'Assoluto e quindi non può essere totalmente spiegata in funzione di scopi relativi e contingenti senza essere misconosciuta e negata nella sua vera essenza. Altri scopi la preghiera e l'esperienza religiosa effettivamente se li propongono, in modo consapevole o inconsapevole, e possono contribuire a raggiungerli, ma solo secondo la logica del "cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta" (Mt 6, 33).

In concreto, l'influsso della religione e in particolare della fede in un unico Dio oggi viene spesso considerato nefasto.

Un suo ruolo pubblico tenderebbe infatti a comprimere la libertà dei comportamenti e anche a contrapporre tra loro gli uomini e i popoli a seconda delle diverse fedi che professano, fino a diventare matrice di violenza.

Anche sul piano personale la religione sarebbe causa d'infelicità, provocando sensi di colpa e reprimendo la gioia di vivere.


LA PREGHIERA COME CASO SERIO DELLA FEDE
Non è questa la sede per affrontare le molteplici problematiche che ostacolano l'esercizio della preghiera nel nostro tempo. È giusto riconoscere che esse non sono passate senza lasciar traccia e che molte persone, anche in qualche modo credenti, hanno smarrito il senso e il gusto della preghiera, oltre alla sua pratica: anche se poi, a volte, chiedono spontaneamente ad altri di pregare per loro, mostrando così che sono rimasti in loro almeno un piccolo apprezzamento e forse una qualche nostalgia della preghiera.

Non mancano tuttavia le testimonianze di un fenomeno inverso: aumentano le persone, in particolare tra i giovani, che hanno sete di preghiera e prendono decisioni coraggiose per soddisfarla. Una conferma viene dall'aumento, anche in Italia e in Europa, delle vocazioni contemplative, assai significativo in un periodo nel quale le vocazioni sacerdotali e religiose di vita attiva sono invece purtroppo in diminuzione in questi paesi.

In ogni caso, al di là dei numeri delle statistiche, e anche di tutte le difficoltà e i condizionamenti che possono provenire dal contesto socio-culturale, la preghiera, come la fede, è una scelta personale, nella quale l'ultima parola spetta alla nostra libertà. O meglio, in una visione cristiana, nella preghiera e nella fede entrano in gioco due libertà, quella di Dio per prima e subordinatamente quella dell'uomo.

Perciò, pur essendo utile e doveroso dissipare per quanto possibile le nebbie che attualmente rendono l'orizzonte della preghiera poco visibile nella nostra cultura, la cosa più importante è, per ciascuno di noi, la realtà e la qualità della nostra personale preghiera. Su questo piano personale, e quasi confidenziale, vorrei dirvi che nella mia esperienza l'esercizio stesso della preghiera fa crescere il desiderio di essa e rende la fede più forte, più sicura e gioiosa.

Nella sua "Introduzione alla fede", un piccolo libro di quasi quarant'anni fa, il teologo e ora cardinale Walter Kasper ha scritto alcune pagine sulla preghiera che rimangono di grande attualità. Il loro titolo è "La preghiera come caso serio della fede". In essa, infatti, si esprime nella forma più concreta l'essenza dell'atto di fede e convergono anche, come in un punto cruciale, tutti gli odierni motivi di crisi della fede.

Nella preghiera, anzitutto, diciamo del "tu" a Dio: ma ha ancora senso, oggi, intendere Dio come persona? È questa la ragione di fondo per la quale, quaranta o cinquant'anni fa, dei teologi protestanti, e perfino il Vescovo anglicano John A. T. Robinson, nel libro "Honest to God", ritennero che la preghiera intesa in senso proprio dovesse ormai essere sostituita dalla dedizione al nostro prossimo.

In realtà, se c'è qualcosa di evidente in tutta la Bibbia, dalla Genesi all'Apocalisse, è che Dio è sommamente intelligente e libero e prende egli stesso l'iniziativa di rivolgersi personalmente a noi. Non è dunque impersonale ma eminentemente personale, in un modo che certo supera infinitamente il modo umano di essere persona, così come ogni altra categoria può essere applicata a Dio soltanto superando infinitamente le misure dei nostri concetti.

Anzi, il Dio di Gesù Cristo è amore interpersonale, comunione di persone, e proprio così è perfetta unità. Ma anche sul piano razionale negare che Dio sia persona significa ridurlo ad un fondo oscuro e necessario dell'essere, e quindi paradossalmente significa negare la sua trascendenza, che si voleva invece salvaguardare. Per di più, se alla radice dell'essere non vi è un'intelligenza e una libertà, l'universo intero non può che essere cieca necessità e pertanto non può esservi spazio nemmeno per la nostra intelligenza, libertà e personalità.

Possiamo aggiungere, ancora con Walter Kasper, che la personalità di Dio e la sua distinzione dal mondo, costitutive della fede, hanno il loro corrispettivo pratico nella distinzione della preghiera dal resto della vita. Ciò non significa affatto che la preghiera sia indifferente alle nostre situazioni, bisogni ed attese, e nemmeno che tutta la nostra vita non debba essere orientata verso Dio e costituire in tal modo una forma di preghiera, ma che la preghiera stessa, per radicarsi in noi, ha necessità di una sua autonomia rispetto agli altri momenti della vita e ad ogni nostra azione.

Proprio nell'autonomia del suo rapportarsi direttamente a Dio la preghiera ci rende liberi e capaci di accogliere con sguardo purificato tutte le realtà della vita, per affrontarle non in un'ottica egoistica ma nella luce dell'amore misericordioso di Dio Padre. La preghiera è dunque la confutazione vissuta di un pensiero puramente immanente, che non sa più trovare la via verso il Creatore, come anche di un'idolatria dell'azione e dei suoi risultati, che non lascia spazio all'esperienza della gratuità e alla scoperta del lato più bello della vita.

Se da Dio passiamo all'altro polo della preghiera, cioè a noi stessi, il nostro tempo ci appare caratterizzato da una vera e propria esplosione della soggettività: ciascuno di noi vuol essere anzitutto se stesso e decidere da sé le strade della propria vita, anche se poi spesso finisce prigioniero di un ben orchestrato conformismo. La preghiera cristiana richiede l'apertura di questa nostra soggettività, anzitutto verso Dio, l'incontro con il quale allarga all'infinito i nostri orizzonti, risanandoli dal rischio di una falsa assolutizzazione di noi stessi.

Il fatto che Dio si sia rivelato a noi e, in Gesù Cristo, ci abbia mostrato il suo volto – come ha detto Gesù all'apostolo Filippo, "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14, 9) – dà poi alla nostra soggettività un punto di riferimento decisivo, che non può non rappresentare un preciso orientamento per chi al rivelarsi di Dio crede davvero.

Specialmente nella liturgia impariamo ad unire alla nostra soggettività ed interiorità il carattere oggettivo del credo e del culto della Chiesa. In realtà proprio questo è un punto cruciale, nella situazione attuale della fede: in ambito religioso l'esplosione della soggettività diventa infatti molto spesso un eclettismo, che prende indifferentemente dall'una o dall'altra tradizione religiosa e spirituale ciò che gli sembra meglio convenire ai bisogni e ai gusti delle singole persone. In questo modo però trascuriamo il dato fondamentale che Dio stesso, in Israele e poi pienamente in Cristo, si è a noi personalmente rivelato e quindi, magari senza rendercene conto, ci allontaniamo dalla nostra fede. Pregare alla maniera cristiana è dunque essenziale per essere e rimanere cristiani.


VERSO UNA NUOVA SPIRITUALITÀ CRISTIANA
Resta tuttavia davanti a noi, anzi dentro di noi, quella difficoltà fondamentale che nasce non da teorie o contestazioni, ma dal cambiamento della nostra situazione nel mondo, per il quale nelle circostanze normali della vita facciamo esperienza dei prodotti della nostra azione piuttosto che dell'opera di Dio creatore.

L'indicazione fondamentale per trovare in questa nuova situazione il senso e le vie della preghiera ce l'ha già offerta San Tommaso d'Aquino. Con la riscoperta di Aristotele in Occidente egli si era trovato a confrontarsi con l'apporto innovatore e possiamo dire "moderno" del pensiero aristotelico, che proponeva un'interpretazione a suo modo "scientifica" del mondo, cercando di spiegare i fenomeni attraverso cause intramondane e non mediante il riferimento ad influssi superiori e divini, come faceva invece l'interpretazione "religiosa" del mondo che aveva dominato fino ad allora il Medioevo.

San Tommaso accoglie pienamente questo nuovo approccio, ma non lo vede affatto come alternativo al precedente: propone infatti una "media via" ("Q. D. de Veritate", q. 6, a. 2) che individua uno spazio proprio e complementare per ciascuna delle due interpretazioni: i fenomeni del mondo hanno cioè le loro cause immanenti, da ricercare con metodo razionale, ma hanno anche, tutti insieme, la loro radice nell'azione creatrice di Dio, che riguarda non solo l'origine ma tutta l'esistenza e il divenire dell'universo, e dell'uomo in esso.

Oggi il quadro è certamente più complesso e la messa in pratica della "media via" è richiesta non solo ai filosofi, ma all'uomo comune, dato che abbiamo a che fare con ben altra "scienza" rispetto a quella di Aristotele: una scienza capace di trasformare il mondo, e in qualche misura anche noi stessi.

L'indicazione di fondo fornitaci da San Tommaso rimane però valida ed è stata ripresa dal Concilio Vaticano II, in particolare nella "Gaudium et spes", 36. Si tratta dunque di svilupparla e affinarla concettualmente, in rapporto alle realtà e alle scienze di oggi, e soprattutto di interiorizzarla e concretizzarla, facendone una linea guida del nostro personale rapporto con Dio, che in tal modo potrà inserirsi armonicamente nella nostra attuale esperienza di vita. C'è qui un compito assai impegnativo per la comunità ecclesiale che, come ha scritto Giovanni Paolo II nella "Novo millennio ineunte", 33, è chiamata ad essere "scuola di preghiera".

Il Vaticano II ("Gaudium et spes" 37) ci ha offerto però anche un'indicazione ulteriore, che mi sembra particolarmente preziosa per vivere la nostra attuale situazione nel mondo con autentica gioia cristiana.

Da una parte cioè dobbiamo essere ben consapevoli che tutte le attività umane sono messe quotidianamente in pericolo dalla superbia e dall'amore disordinato di noi stessi e quindi hanno bisogno di essere purificate mediante la croce e la risurrezione di Cristo.

Ma dall'altra parte l'uomo redento da Cristo e divenuto per opera dello Spirito Santo "nuova creatura" (Gal 6, 15) può e deve amare le cose che Dio ha creato, guardandole e onorandole come se uscissero ora dalle sue mani. Di esse egli ringrazia il loro Autore e "usando e godendo" delle creature in povertà e in libertà di spirito, viene introdotto nel vero possesso del mondo, quasi niente abbia e tutto possegga (2 Cor 6, 10): "Tutto infatti è vostro, ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio" (1 Cor 3, 22-23).

Il Concilio, per descrivere l'approccio cristiano alle cose del mondo, unisce al verbo "usare", che caratterizzava una spiritualità orientata alla fuga e al disprezzo del mondo, la parola "godere", che apre verso una nuova spiritualità cristiana, che potremmo dire specificamente moderna.

In essa trovano piena legittimità l'impegno nel mondo e la simpatia per il mondo, come via di accoglienza dell'amore di Dio per noi e di esercizio dell'amore verso Dio e verso il prossimo: senza giustificare per questo alcuna invadenza dello spirito del mondo nella Chiesa e nell'anima del cristiano, ma rimanendo sempre ancorati alla croce e risurrezione di Cristo, quindi alla rinuncia a noi stessi per poter fare posto all'amore di Dio e del prossimo.

Cari amici, chiediamo al Signore di poterci inoltrare fiduciosamente per questa strada.


Per una pastorale del matrimonio indissolubile - Nessuno è escluso dall'amore di Cristo - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 29 maggio 2009
L'unità e indissolubilità del matrimonio e il non sposarsi "per il regno di Dio" rappresentano le due inattese e sorprendenti novità del Vangelo. Annunciarle al mondo ebraico e soprattutto a quello pagano - sulla cui condotta abbiamo l'impressionante e realistica descrizione nel primo capitolo della lettera di Paolo ai Romani - significava proporre i principi e le norme che portavano a un rivolgimento inaudito e a un rinnovamento radicale. La Chiesa, fedele alla Parola di Cristo, lo ha fatto dall'inizio, a partire non da un dialogo delle culture, che sarebbero state sorde e non avrebbero capito, ma da tre altre precise persuasioni: la prima, che quelle novità traducevano il disegno di Dio sull'uomo e attuavano una compiuta promozione umana; la seconda, che la trasmissione di quel Vangelo rappresentava un compito permanente e non volubile della predicazione cristiana; terzo, che quelle novità erano accompagnate dalla grazia, che sa toccare e convertire il cuore dell'uomo. Ci soffermiamo qui sull'indissolubilità del matrimonio cristiano di fronte alla prassi del divorzio. L'affermazione di Cristo è perentoria e inequivocabile: il ripudio era stato una condiscendenza alla "durezza del cuore", ma era contrario all'originario disegno di Dio sull'uomo e sulla donna: "All'inizio non fu così" (Matteo, 19, 8). Nel progetto del Creatore l'uomo e la donna nel matrimonio sono destinati a formare "una sola carne", per cui l'uomo non deve dividere quello che Dio ha congiunto. Di conseguenza - dichiara Gesù - "chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un'altra, commette adulterio" (Matteo, 19, 9). E vale sia per l'uomo sia per la donna: "se questa, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio" (Marco, 10, 12). Nelle attuali discussioni, vivaci e non raramente confuse anche all'interno della Chiesa, il primo punto, che importa richiamare senza incertezze, riguarda precisamente questa indissolubilità. Deve, cioè, emergere che il divorzio, cioè il risposarsi, contrasta con la volontà di Gesù e che esso non corrisponde al progetto divino o alla ragione per la quale sono stati creati l'uomo e la donna. In altre parole, un matrimonio dissolubile contraddice e infrange quel disegno "iniziale" al quale Cristo ha inteso ricondurre perentoriamente chi scelga di essere suo discepolo. Certo, uno è libero di non diventare discepolo di Cristo ma, se lo diviene, non può concepire un proprio e differente modello di sponsalità. Ciò che oggi appare più grave e preoccupante non sono, tuttavia, dei comportamenti di infedeltà, ma la pretesa di una professione cristiana che si accompagni con l'annebbiamento o la contestazione relativa al tassativo principio dell'indissolubilità del matrimonio, nella persuasione che un allentamento di tale indissolubilità sia segno da parte della Chiesa di maggiore umanità, rispetto a una concezione - quella stessa di Cristo - che sarebbe troppo severa e immisericordiosa. Certo l'indissolubilità del matrimonio non è compiutamente comprensibile fuori dal Vangelo; essa suscita istintivamente sorpresa e reazione. Del resto, alla sua proposizione da parte di Cristo i discepoli non mancarono di reagire: "Se questa è la situazione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi" (Matteo, 19, 10). Ma non per questo egli corregge il suo progetto. In ogni caso, l'essere "una sola carne" è il suggello che contrassegna l'unione sponsale del cristiano, cioè del credente, il quale la considera secondo il giudizio di Cristo e quindi secondo la sensibilità della fede. Al declinare della fede non stupisce che succeda fatalmente anche il rigetto di questa prerogativa del matrimonio, strettamente connesso con il contenuto del Credo cristiano. La prima pastorale della Chiesa verso i divorziati - ossia i cristiani validamente sposati che hanno contratto un altro vincolo coniugale - e la prima comprensione verso quanti di loro hanno sinceramente a cuore la loro fede cristiana non può consistere in una giustificazione del divorzio, ma, all'opposto, deve richiamare e far comprendere, con una attenzione illuminata, innanzi tutto il valore dell'indissolubilità. Questo non vuol dire indifferenza di fronte a situazioni non di rado estremamente complesse, soprattutto quando al divorzio sia seguita la formazione di altri nuclei familiari, con la presenza di figli, che hanno il diritto di avere e di sentire vicini il padre e la madre. Una sapiente attenzione a tali situazioni saprà sostenere, consigliare e anche confortare, con prudente e delicato discernimento, e con soluzioni variabili a seconda dei casi, lasciando a Dio il giudizio sulle singole responsabilità: una grossolana durezza o uno sbrigativo trattamento non sono mai evangelici, come non lo è l'insensibilità a tante sofferenze che spesso si ritrovano in matrimoni venuti meno. Ma in tutto questo dovrà sempre risaltare senza esitazione il matrimonio indissolubile come il solo conforme al Vangelo, e di conseguenza la scelta e lo stato del divorzio come scelta e stato, dal profilo cristiano ed ecclesiale, anomali, in se stessi affatto difformi dal disegno sponsale voluto da Dio e rivelato da Gesù Cristo. In sintesi, la via irrinunciabile per il risanamento in senso cristiano del matrimonio è di ribadirne l'indissolubilità e di richiamare il Vangelo. Si tratta, infatti, di comprendere che essa non è pura proibizione e costrizione. L'apostolo Paolo insegna che l'"essere una sola carne" dell'"inizio" prefigurava e anticipava il mistero della sponsalità stessa di Cristo nei confronti della Chiesa (Efesini, 5, 31-32). Il matrimonio, nella sua divina progettazione, fu da subito una profezia e un anticipo di questo legame di amore per la Chiesa, che Gesù ha consumato sulla Croce e che è destinato a segnare lo stato sponsale dei suoi discepoli. Anzi, lo stesso matrimonio non cristiano - o naturale, come si dice, che ha la sua validità e il suo valore - è in condizione di incompiutezza, di sofferenza e di obiettiva aspirazione, fin che non si converta e non si risolva nel matrimonio che Cristo ha definito come appartenente alla sua fondazione divina "iniziale". Solo che per questo sono necessarie la fede per accoglierlo e la grazia, che è mediata dal sacramento, per viverlo. Com'è noto, è oggi motivo di animate discussioni la comunione ai divorziati risposati. Ma, per comprendere i termini della questione, importa anzitutto mettere in luce il valore sia della comunione eucaristica sia dell'appartenenza alla Chiesa, ed è proprio quanto ci sembra sia largamente disatteso e assente sia nella considerazione dei fedeli sia anche talora in quella di pastori, che invece per primi dovrebbero farne oggetto di riflessione. La comunione eucaristica non consiste in un semplice conforto religioso, in una specie di gratificazione spirituale, o in una iniziativa lasciata al singolo cristiano, che certamente non cessa, anche se divorziato, di far parte della Chiesa, o in un diritto da lui rivendicabile. Da un lato, la comunione eucaristica rappresenta la più intima unione con il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, la sua assunzione sacramentale (cioè reale), il pieno consenso alla sua volontà, il compimento e la perfezione del rapporto con lui. Dall'altro lato, la condizione del divorziato - da distinguere nettamente dalla colpa dell'infedeltà, che può essere perdonata - come ogni peccato - dice uno stato di evidente contrasto rispetto al piano divino di matrimonio da lui rivelato e voluto per i suoi discepoli e in cui l'indissolubilità è intrinsecamente inclusa. È esattamente questa antinomia tra la condizione del divorziato e il contenuto dell'Eucaristia che dev'essere anzitutto rilevata. Ma anche il valore e il significato dell'appartenenza ecclesiale sono abitualmente trascurati nella questione della comunione ai divorziati. La partecipazione alla mensa eucaristica comporta e manifesta il proprio essere pienamente nel Corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa. Eucaristia e Chiesa si implicano reciprocamente. Vanno, al riguardo, ribadite con chiarezza due cose. La prima: che il divorziato non si trova escluso dalla Chiesa, non solo perché la Chiesa in varie forme lo prende a cuore e prega per lui, ma anche perché lui stesso è chiamato a pregare, anzi a prender parte all'orazione della Chiesa nell'assemblea liturgica. La seconda: che, a motivo del divorzio, per altro oggetto di una sua libera scelta, il divorziato si trova in una situazione ecclesialmente ed eucaristicamente dissonante. Né deve stupire che si affermi, per un verso, che non deve tralasciare l'assemblea eucaristica senza che, per l'altro verso, riceva il Corpo e il Sangue del Signore. La tradizione della Chiesa conosce queste forme ridotte di partecipazione: i catecumeni, per esempio, non partecipavano a tutta la celebrazione; la categoria dei penitenti a sua volta si asteneva, in attesa che, compiuto l'itinerario penitenziale, ricevendo l'Eucaristia rientrassero in piena comunione con la Chiesa. Vi è poi la comunione spirituale, ossia di desiderio, assai fraintesa e quasi resa insignificante, ma a cui san Tommaso riconosceva una grandissima efficacia per il raggiungimento dello stesso frutto ultimo - o della "realtà" (res) - dell'Eucaristia. La non ammissione alla comunione sacramentale tiene viva nella coscienza della Chiesa che il divorzio è in contrasto radicale con l'immagine che Cristo ha del matrimonio; che l'ammorbidirne la radicalità è la via sbagliata per restaurare questa immagine e rinnovare in senso evangelico la famiglia. E, d'altronde, a nessuno, nella misura della sua buona volontà, è lasciata mancare la grazia della misericordia e della salvezza. Non si tratta di essere convenzionali o anticonvenzionali, ma semplicemente di sapere che cos'è per un cristiano l'Eucaristia, la quale non è un bene o una proprietà di cui il sacerdote possa disporre. L'atteggiamento della Chiesa era già enunciato chiaramente dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, in una Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica: i divorziati che si sono risposati civilmente "si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione". "Questa norma non ha affatto un carattere punitivo o comunque discriminatorio verso i divorziati risposati, ma esprime piuttosto una situazione oggettiva che rende di per sé impossibile l'accesso alla Comunione eucaristica: "Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale; se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio" (Familiaris consortio)". "Ricevere la Comunione eucaristica in contrasto con le norme della comunione ecclesiale è quindi una cosa in sé contraddittoria. La comunione sacramentale con Cristo include e presuppone l'osservanza, anche se talvolta difficile, dell'ordinamento della comunione ecclesiale, e non può essere retta e fruttifera se il fedele, volendo accostarsi direttamente a Cristo, non rispetta questo ordinamento". Al clero di Aosta, il 25 luglio 2005, Benedetto XVI diceva: "Partecipare all'Eucaristia senza comunione eucaristica non è uguale a niente, è sempre essere coinvolti nel mistero della Croce e della risurrezione di Cristo. È sempre partecipazione al grande Sacramento nella dimensione spirituale e pneumatica; nella dimensione anche ecclesiale se non strettamente sacramentale". E aggiungeva: "Occorre, dunque, fare capire che anche se purtroppo manca una dimensione fondamentale tuttavia essi non sono esclusi dal grande mistero dell'Eucaristia, dall'amore di Cristo qui presente. Questo mi sembra importante, come è importante che il parroco e la comunità parrocchiale facciano sentire a queste persone che, da una parte, dobbiamo rispettare l'inscindibilità del Sacramento e, dall'altra parte, che amiamo queste persone che soffrono anche per noi. E dobbiamo anche soffrire con loro, perché danno una testimonianza importante, perché sappiamo che nel momento in cui si cede per amore si fa torto al Sacramento stesso e l'indissolubilità appare sempre meno vera". Qualcuno potrebbe notare che queste nostre sono riflessioni troppo impegnative per i fedeli. In verità sono riflessioni semplicemente contenute nel messaggio cristiano, che devono far parte dell'abituale predicazione e catechesi della Chiesa, occupata anzitutto nella pastorale del matrimonio indissolubile.
(©L'Osservatore Romano - 29 maggio 2009)


L’amore “discriminatorio” di Dio - Pigi Colognesi - venerdì 29 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Un aureo libricino dell’antica tradizione cristiana – risale al primo secolo – si intitola Didaché. L’ignoto autore vi espone la «dottrina dei dodici apostoli» e gli insegnamenti necessari per intraprendere e percorrere la «via della vita». Uno di questi insegnamenti mi è stato tante volte proposto, tanto da diventarmi familiare; suona così: «Cercate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi». A proposito di santi, la casa editrice Jaca Book ha recentemente messo in distribuzione un volume di John Henry Newman (1801-1890), in cui sono raccolti quattro historical sketches del grande teologo anglicano, convertitosi al cattolicesimo e divenuto infine cardinale. I saggi riguardano san Giovanni Crisostomo, Teodoreto di Ciro (che non è santo, anzi ha avuto qualche problema di ortodossia), san Benedetto e le Scuole benedettine.
Newman non nasconde, anzi esplicita chiaramente e cerca di giustificare razionalmente, la sua preferenza e grande sintonia con il primo. Non ci fornisce una biografia esauriente del Crisostomo, nato ad Antiochia intorno al 350, elevato alla sede patriarcale di Costatinopoli nel 398, dove la sua focosa parola ha entusiasmato il popolo, ma irritato i potenti, che finirono per esiliarlo e di fatto procurarne la morte, avvenuta nel 407 in uno sperduto paesino sulle rive del mar Nero. Proprio al periodo dell’esilio Newman dedica la sua maggiore attenzione, nel tentativo di immedesimarsi con l’intimità del grande vescovo.
Ed è proprio quando descrive le caratteristiche profonde di Giovanni Crisostomo che Newman trova delle espressioni mirabili. E straordinariamente pertinenti per l’oggi. Scrive ad esempio: «Penso che il fascino di san Giovanni si trovi nella sua profonda solidarietà e comprensione per il mondo intero; non solo nella sua forza, ma nella sua debolezza; nella viva considerazione con cui osserva ogni cosa che gli accade di fronte e la coglie nel concreto». Viene in mente la lezione di Benedetto XVI, grande estimatore di Newman, quando chiede il realismo di una ragione aperta a tutta le realtà e non chiusa nei proprio schemi già saputi.
L’originalità del Crisostomo, scrive ancora Newman «è l’interesse che trova in tutte le cose, non perché fatte da Dio tutte uguali, ma perché Egli le ha create differenti le une dalle altre. Parlo di quell’amore discriminatorio con cui egli accoglie ognuno per ciò che in lui vi è di originale e di diverso da tutti gli altri. Parlo della sua versatilità nel riconoscere gli uomini, uno per uno, in ragione di quella porzione di bene, sia essa grande o piccola, o di maggiore o minor grado, che è stata posta in ognuno di loro». Ci vuole parecchio coraggio a parlare di «amore discriminatorio» in un contesto come quello di allora - e ora diventato legge indiscutibile -, per cui l’uguaglianza (dei diritti, dei doveri, della natura) tende a schiacciare la ricchezza della diversità e, alla fine, contraddirsi in quanto nega la specifica singolarità di ciascuno. Newman ha invece il coraggio di parlare di quella «preferenza» che è perennemente la porta d’ingresso di una amicizia che tende a diventare universale, ma non è mai appiattita.
In un altro brano Newman esprime magistralmente una delle caratteristiche del santo: come egli apprezza la diversità degli altri, così ama tutto il proprio umano: «Per quanto posseduto dal fuoco della divina carità, Giovanni non ha perso una fibra, non manca di alcuna vibrazione del complicato organismo del sentimento e dell’affetto umano; come il miracoloso roveto del deserto che, nonostante la fiamma lo avvolgesse totalmente, non si consumava».
Come mai il santo ha uno sguardo così comprensivo? Perché imita quello «con cui nell’eternità l’amorevole Padre di tutti sorvegliava, anche nei suoi minimi dettagli, quell’universo che aveva deciso di creare»; perché imita «la provvidente sollecitudine con cui Dio ora conserva presso di sé il catalogo degli innumerevoli uccelli del cielo e conta giorno per giorno ogni capello del nostro capo e l’alternarsi del nostro respiro».


SCUOLA/ Il richiamo della Cei al «sacrosanto» diritto alla libertà di educazione - Vincenzo Silvano - venerdì 29 maggio 2009 – ilsussidiario.net
«La questione educativa: il compito urgente dell’educazione». E’ – fra le righe – un vero e proprio segnale alla società e al mondo politico italiano quello che è riecheggiato nell’Aula del Sinodo dei Vescovi in occasione della 59ª Assemblea Generale della CEI, apertasi nel pomeriggio del 25 maggio 2009 a Roma con la prolusione del Card. Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana.
Perché, proprio in questo momento storico di crisi economica e sociale, mettere a tema l’emergenza educativa? Non ci sono forse questioni più urgenti: i bilanci nazionali, le difficoltà delle famiglie, la solidarietà, la disoccupazione, l’immigrazione, la legge 40 e il testamento biologico, ecc..?
Scorrendo il testo della prolusione, infatti, parrebbe proprio così. Invece, al punto 9, ormai a conclusione della sua relazione introduttiva quasi fosse un semplice corollario, ecco invece un deciso affondo del Card. Bagnasco sull’educazione: «L’ambito nel quale più preoccupante appare l’impatto dello spirito del tempo è quello educativo. Infatti si parla, non a caso, di «emergenza», e non per analogia né per retorica: su questo fronte percepiamo effettivamente un allarme serissimo, che va via via dilatandosi».
Non è unasottovalutazione dei numerosi problemi sociali, alcuni dei quali resi oggi più evidenti dalla crisi e che, in effetti, il porporato ha subito toccato nel suo discorso; eppure – ha voluto indicarci il Card. Bagnasco- tra i marosi delle tante questioni drammatiche e improrogabili, occorre individuare il punto cruciale da cui ripartire, la cui assenza sta all’origine di tanti altri problemi: «poiché consideriamo l’emergenza educativa il fattore in grado di mettere a repentaglio l’equilibrio di una società e le possibilità concrete di un suo progresso, il Consiglio Permanente ha deciso di farne il tema centrale di questa Assise».
Occorre, cioè, ripartire dalla persona e da ciò che ne può favorire la realizzazione piena e integrale, perché solo questo è garanzia di una pacifica convivenza civile nonché di un equilibrato e rinnovato sviluppo sociale. Ecco perché il compito “urgente” dell’educazione.
E, parlando di educazione, non poteva mancare un forte richiamo alla questione della parità scolastica, messa ancora più a repentaglio dai venti di crisi e da scelte non sempre lungimiranti dell’attuale governo: “la scuola deve essere l'ultimo settore a cui una società deve togliere le proprie risorse” ha affermato mons. Coletti, responsabile della Conferenza episcopale italiana per l'educazione, tornando anche a rivendicare con forza la necessità che il governo applichi, con il dovuto sostegno economico, il «sacrosanto diritto» alla parità tra scuole statali e non statali.
«Sacrosanto»: non si tratta, cioè, della rivendicazione di un privilegio né di una questione confessionale, ma dell’esigenza ragionevole –vale a dire fondata su dati di realtà- di dar vita finalmente in modo pieno ad un sistema scolastico capace di valorizzare e armonizzare tutte le risorse educative della nostra società, facendole convergere nel contesto di un effettivo servizio pubblico. Esistono infatti aspetti di convenienza economica e civile che particolarmente oggi, in questo tempo di crisi, non possono più essere trascurati: il grande risparmio che le scuole paritarie garantiscono allo Stato e la possibilità di disegnare una concezione più autentica e matura della nostra convivenza civile, perché per educare occorre non solo istruire, bensì – come ha affermato il card. Bagnasco – «investire tutta l’intelligenza e la passione di cui siamo capaci» e questo accade oggi con più facilità nelle scuole paritarie, alla cui origine stanno – quasi sempre – un forte impeto ideale e una autentica passione educativa. Citando il grande pensatore Romano Guardini, il cardinale ha infatti aggiunto: «Che cosa dunque significa educare? […] Educare significa che io do a quest’uomo coraggio verso se stesso […]. Che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria […]. Con quali mezzi? Sicuramente avvalendomi anche di discorsi, esortazioni, stimoli e metodi di ogni genere. Ma ciò non è ancora il fattore originale. La vita viene accesa solo dalla vita».
Insomma, come già in altre occasioni, l’assemblea dei vescovi italiani si è rivelata più laica e pragmatica di tanti benpensanti laicisti, “gettonatissimi” dai mass-media nazionali ma fondamentalmente incapaci di proposte costruttive. Questi, infatti, in nome di una concezione ideologica ormai stantia, continuano a negare alle famiglie una autentica libertà di educazione e pretendono che lo Stato continui a sperperare risorse per un modello di scuola centralistica che, anche a causa di un sistema così configurato, si rivela sempre più incapace di fronteggiare la montante emergenza educativa.
Torna inevitabile l’invito a un vero e proprio patto educativo tra la scuola e la famiglia, con obiettivi condivisi e con reciproci impegni. Ancora più radicalmente torna l’invito a riconoscere nei fatti concreti, e quindi anche a livello economico, una reale libertà di scelta, perché ogni famiglia possa scegliere la scuola alla quale mandare i figli in piena libertà, senza nessun condizionamento e senza nessun aggravio. Lo strumento delle detrazioni fiscali potrebbe, in questo senso, rappresentare un primo passo concreto e di semplice attuazione: un segnale di buona volontà da parte di chi Governa; un gesto di pacificazione nazionale rispetto allo scontro ideologico che fino ad oggi ha impedito l’attuazione della vera libertà di scelta educativa; una indicazione di cammino per giungere, nel tempo, ad un mix di strumenti che realizzi la piena parità economica e renda più efficiente l’intero sistema nazionale di istruzione.


S.E. Card. Carlo Caffarra - La crisi dell'etica in Occidente - Roma, Palazzo Colonna, 26 maggio 2009
Un acuto studioso di etica, R. Poole, ha scritto: "Il mondo moderno non fornisce buone ragioni per credere nei suoi propri principi e valori […]. La modernità ha costruito una concezione della conoscenza che esclude la possibilità di conoscenza morale […]. Date le concezioni dell’agente umano e delle ragioni prevalenti nel mondo moderno, un individuo razionale respingerà le richieste della moralità" [cit. da S. Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale?, LAS, Roma 1996. p. 265].
La condizione dell’etica in Occidente è qui fotografata correttamente. Possiamo rassegnarci a questa situazione? Possiamo fare senza etica? Non possiamo rispondere a queste domande se prima non abbiamo risposto alle seguenti domande: di che cosa parliamo, quando parliamo di etica? La mia riflessione inizia dalla risposta a questa domanda.
1. Certamente parliamo dell’agire umano, di ciò che dipende dall’esercizio della propria libertà: le nostre scelte. È di questo che noi parliamo quando parliamo di etica. Poiché la scelta per sua stessa natura presuppone ed implica un giudizio in base al quale la scelta è di A piuttosto che di B, non possiamo non porci la domanda in base a quali criteri il giustizio di scelta è compiuto.
Queste elementari osservazioni bastano alla formulazione di una domanda di fondo circa la libertà e la sua capacità di scelta: esistono criteri di giudizio, e quindi ragioni per compiere la scelta di A e non di B, validi non solo per chi sta scegliendo ma per ogni persona ragionevole? Non sarà inutile prima di dare risposta a questa domanda, dire quali proprietà dovrebbero avere queste "ragioni per agire", se esistono. Mi sembra che siano almeno cinque.
(1) Sono ragioni che valgono prima di ogni interesse, desiderio, preferenza: valgono per se stesse. (2) Sono ragioni che valgono non perché e non in quanto progettano corsi di azione ritenute capaci di soddisfare i propri desideri. (3) Sono ragioni che devono essere condivise da ogni persona ragionevole: proprie di ciascuno e di tutti. (4) Sono ragioni che possono chiedere di regolare i propri interessi, desideri, preferenze anche rinunciandovi. (5) Sono ragioni che esigono un rispetto incondizionato da parte della libertà, non ammettendo di essere mai violate adducendo come motivo della violazione il proprio interesse, il proprio desiderio, le proprie preferenze o quelle del gruppo sociale cui si appartiene.
L’ipotesi dell’esistenza di tali ragioni ci aiuta comunque ad avere un’intelligenza più profonda dell’homo agens, della persona che agisce.
È un fatto immediato dell’esperienza che ciascuno ha di se stesso quando agisce, l’essere inclinato verso uno scopo da raggiungere colla sua scelta. Chi agisce cioè, agisce sempre per un fine. La forza motiva di ciò che spinge ad agire è che esso, il fine, è ritenuto capace di soddisfare i nostri "desideri". Ogni fine propostoci ha sempre carattere di bene: è capace di [è ritenuto capace di] rispondere al nostro desiderio e di acquietare il nostro movimento od inclinazione.
Tenendo conto di questi dati elementari, dobbiamo chiederci: la logica, il logos intimo delle inclinazioni dell’uomo [e.g. l’inclinazione sessuale; l’inclinazione a vivere in società], è un egoismo radicale? Le inclinazioni sono orientate esclusivamente alla soddisfazione del proprio bene individuale? Hanno in sé solo una logica utilitaristica? Oppure abita dentro alle naturali inclinazioni umane una vocazione ad essere regolate da una ragionevolezza che vi introduca una forma di bontà che non coincide coll’utilità propria? In breve: esistono solo "beni per me" oppure esistono "beni in sé e per sé"?
La nostra riflessione, pur partendo da dati elementari, è arrivata ormai al nodo delle questioni. Esso può essere mostrato in due modi fondamentali. Primo modo: la ragione è solo strumentale, è semplicemente la facoltà che ci è data per progettare e realizzare risposte soddisfacenti ai bisogni dell’individuo oppure è anche la facoltà che è capace di scoprire e proporre corsi di azione che realizzano l’uomo in quanto uomo, corsi di azioni che liberano l’uomo dal proprio "particulare" e lo elevano ad un ordine eterno e dotato di una sua propria bellezza? Secondo modo: esistono solo beni [oggi si preferisce dire: valori] dei singoli individui o esistono anche beni che sono comuni, propri cioè di ogni persona e di tutte le persone?
Le due formulazioni sono in fondo il concavo ed il convesso della stessa figura.
È di questo che noi parliamo quando oggi parliamo di etica. Parliamo cioè di che cosa è il bene dell’uomo. Più precisamente parliamo della misura della nostra ragione; di che cosa in realtà significa vivere ragionevolmente. In una parola parliamo dell’uomo alla ricerca di se stesso, e del suo vero bene.
2. A me è stato chiesto tuttavia di riflettere sulla crisi dell’etica. Si intende della riflessione etica.
Devo dire prima cosa intendo per "crisi". La riflessione etica può trovarsi di fronte a domande difficili ed inedite, e in gravi difficoltà nel trovare una risposta. E può trovarsi in condizioni di conflitto di risposte alle stesse domande.
Questa situazione però può darsi in due contesti radicalmente diversi. Il conflitto delle risposte si dà all’interno dell’accettazione degli stessi presupposti meta-etici, e si configura come discordia argomentativa. Oppure il conflitto si dà all’interno di contrari presupposti meta-etici, e si configura come conflitto fra le premesse dell’argomentazione come tale. Se si passa dalla prima situazione alla seconda, ci si trova in quella che io chiamo la crisi della riflessione etica. La mia tesi è che questa è la condizione in cui versa oggi la riflessione etica in Occidente. Il sintomo più grave è la fatica, oserei dire l’incapacità dell’Occidente di elaborare un’etica pubblica. Ma procediamo con ordine.
Siamo in un conflitto di presupposti, o il che coincide . il conflitto è a livello di fondamenti. In che senso? La riflessione svolta nel primo punto ci ha dato tutti gli strumenti per costruire la risposta a questa domanda.
La crisi, nel senso suddetto, riguarda il concetto di ragione, di libertà, e quindi del rapporto fra verità e libertà. Alla fine, riguarda la visione dell’uomo: è un conflitto di antropologie.
Riguarda la ragione. Più precisamente la ragione pratica. Essa si è autolimitata ad esercitarsi solo come "serva degli interessi dell’individuo", dei desideri dell’individuo. Questo è quanto afferma uno dei padri della modernità: "Noi non andiamo mai di un passo oltre se stessi" [D. Hume, Opere filosofiche I, Trattato della natura umana, Laterza, Bari – Roma 2002, pag. 80]. La riduzione della ragione pratica a ragione utilitaria ha cambiato tutto. Tutto il discorso etico, pur continuando a svolgersi ed articolandosi usando lo stesso vocabolario [libertà, bene, male, coscienza,legge morale], ha cambiato totalmente senso. Sono gli stessi segni sul rigo musicale, ma è cambiata la chiave di lettura: la musica è un’altra.
È l’etica dell’autonomia radicale, intesa come mera affermazione del proprio desiderio, dal quale è assente qualsiasi ragionevolezza che rimandi ad un "passo oltre se stesso".
Riguarda la libertà. Viene affermato il primato assoluto della libertà; la libertà è un primum che trova in se stessa e per se stessa il suo senso. Che possa esistere un bene in sé e per sé a cui la persona è naturalmente inclinata ed orientata, che la scelta libera può accogliere o rifiutare, è negato. La libertà nel suo fondo è pura indifferenza, è pura neutralità.
La conseguenza è che il bene non può assumere il volto che del legale: bonum quia jussum; il male non può presentarsi che col volto del proibito: malum quia prohibitum. E non c’è motivo intrinseco alla libertà di fare il primo ed evitare il secondo. Non esiste un problema di verità/falsità circa la progettazione che la persona fa di se stessa colla propria libertà. Un discorso di etica quindi che voglia esibirsi come discorso universalmente valido, è impossibile; e opposto all’affermazione della libertà. Sono possibili solo tante autobiografie etiche quante sono le persone, stranieri morali le une alle altre.
Vedremo come questo discorso vada ripreso in termini sociali, in termini di etica pubblica.
E siamo alla questione decisiva per cogliere la crisi dell’etica: il rapporto verità-libertà. Partiamo ancora dalla constatazione di ciò che accade in noi quando compiamo una scelta, quando prendiamo una decisione.
La scelta e la decisione non è determinata dall’oggetto scelto, dalla figura dell’azione che ho progettato di fare. La libertà è dipendenza da sé; la libertà è essere determinati da sé: è auto-determinazione. Ma perché questo sia possibile, perché sia semplicemente possibile scegliere e decidere liberamente è necessario che la persona dia un giudizio circa l’oggetto da scegliere, la decisione da prendere. È in forza di questo giudizio sul valore o bontà dell’oggetto, che la volontà non è mossa dall’oggetto stesso, e che la persona muove se stessa. Il riferimento al vero, conosciuto mediante il giudizio, appartiene all’essenza stessa del volere libero.
È in questa luce che si rivela la vera natura del male morale. Esso è il male proprio della libertà, così come l’errore è il male proprio della ragione. E consiste precisamente nel fatto che la libertà nega colla sua scelta ciò che la ragione ha affermato col suo giudizio.
Ma se neghiamo che esista una verità circa il bene [le ragioni di cui parlavo dalle cinque caratteristiche] ed affermiamo che il bene/male è costituito in intima analisi dalla decisione della libertà [qui è secondario, se del singolo o del consenso sociale]; se la scelta e la decisione non contenessero in se stesse il "momento della verità", e non si realizzasse radicandosi nel riferimento alla verità cioè ad un ordine oggettivo dell’essere, la morale nel comune sentire del temine sarebbe semplicemente impensabile. Si continua magari ancora a parlare di morale, ma si parla in realtà di altro totalmente. È la condizione attuale.
"In poche parole: la contrapposizione tra il bene ed il male, così essenziale alla morale, presuppone il fatto che il volere qualunque oggetto nell’azione umana si realizza in base alla verità sul bene che questi oggetti costituiscono" [K. Wojtyla, Persona e atto, Rusconi Libri, Milano 1999, pag. 339].
Se così non fosse l’uomo sarebbe semplicemente un inutile esperimento, e la sua vita, come dice il poeta, una favola senza senso narrata da un idiota.
3. Vorrei ora riflettere un poco su quello che ritengo essere il sintomo più grave, più drammatico della crisi della morale in Occidente: la crescente difficoltà che le società occidentali provano nell’elaborare un’etica pubblica. Intendo per etica pubblica l’insieme delle regole tolte le quali la vita associata non è più possibile. L’etica pubblica non coincide semplicemente con l’etica tout court: il reato è distinto dal peccato.
Passiamo alla domanda fondamentale se il consenso ottenuto mediante l’uso pubblico della ragione pratica, mediante cioè il confronto libero ed aperto a tutti a pari condizioni, sia la fons essendi sufficiente dell’etica pubblica. Se è possibile proporre un’etica pubblica basata esclusivamente sul consenso.
Parto da un testo di Leopardi.
"Se l’idea del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo morale non esiste o non nasce per sé, nell’intelletto degli uomini, niuna legge di niun legislatore può far che un’azione o un’omissione sia giusta né ingiusta, buona né cattiva. Perocchè non vi può esser niuna ragione per la quale sia giusto né ingiusto, buono né cattivo, l’ubbedire a qualsivoglia legge, e niun principio vi può avere sul quale si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a chi che sia" [Zibaldone 3349-3350].
Il testo leopardiano pone la domanda di fondo: esiste qualcosa di ingiusto in sé e per sé e che non potrà mai essere giustificato da nessuna procedura pubblica legittima? In altre parole: esiste una verità circa il bene dell’uomo indipendentemente dai risultati dell’argomentazione, discussione e deliberazione pubblica?
Nel momento in cui affermo che la procedura democratica è l’unica fons essendi della legittimità della norma, delle due l’una. O penso questa procedura come scontro di interessi opposti la cui unica soluzione è l’imposizione del più forte o penso questa procedura come il modo degno dell’uomo per trovare quella soluzione in cui possa riconoscersi la ragionevolezza di ognuno. Nel primo caso nego semplicemente che esista un’uguaglianza di dignità fra gli uomini e la norma è sempre e solo il dominio di uno sull’altro. Nel secondo caso è presupposta ed affermata e la uguale dignità di ogni persona e il possesso da parte di ciascuno della stessa ragionevolezza o natura ragionevole. Questa è l’idea tommasiana di legge e diritto naturale.
Soltanto la costruzione di un consenso che sia orientato alla ricerca della verità circa il bene, costituisce una autorità che non è dominio dell’uomo sull’uomo.
Anche J. Habermas è stato costretto a giungere a queste conclusioni, affermando che la legittimazione di una carta costituzionale da parte del popolo non può limitarsi al computo aritmetico di maggioranze-minoranze. Essa deve fondarsi su una argomentazione ragionevole "dotata di sensibilità alla verità".
Sempre Habermas nella sua opera Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale [Einaudi (originale 2001), Torino 2002] esclude che questioni di genetica umana possono essere risolte con procedure democratiche.
La radice della disgregazione sociale cui assistiamo è una sorta di censura nei confronti di ogni istanza che tenga viva la "sensibilità alla verità". Si pensi al trattamento che riceve il Magistero morale della Chiesa. L’educazione ad un uso completo della ragione è una delle sfide più urgenti per il futuro.
Il progetto di costruire un ordinamento giuridico, e quindi un ethos pubblico, senza verità, mette sulle spalle della legge un peso che non è capace di portare. È il peso di creare una comunità umana, di produrre un’identità. I romani non dicevano ubi jus ibi societas, ma ubi societas ibi jus.
Poiché questa è una progettazione impossibile, essa apre il fianco a due rischi gravissimi. O rendere la legge stessa veicolo di valori imposti: è il rischio del fondamentalismo clericale. O "privatizzare" giuridicamente ogni contenuto del vissuto umano: è il rischio del laicismo escludente.
Si pensa che la categoria dei diritti fondamentali dell’uomo possa fungere da tessuto connettivo del sociale umano.
Tuttavia, negata che esista una verità circa il bene dell’uomo o – il che coincide – che esista una natura umana ragionevole, i diritti fondamentali dell’uomo rischiano di essere pensati e praticati come ciò che il singolo individuo preferisce per sé, et de gustibus non est disputandum.
Ciò ha una conseguenza devastante sull’idea di legge civile e sul compito del legislatore. La nuova idea è che lo Stato e la legge non devono vietare ciò che l’individuo preferisce. E con ciò la coesione sociale è insidiata alla sua origine stessa. La soluzione del problema non è il ricorso al principio "se tu non vuoi, perché io non posso?", col varo cioè di leggi, né impositive né coercitive, ma permissive. Il non volere colmare la lacuna etica, censurare la questione della verità in nome di una supposta tolleranza, sta portando alla disgregazione le nostre società occidentali. L’aver sostituito la ragione pratica colla ragione comunicativa ha incamminato tutto il discorso etico pubblico su una via che non ha uscita.
In conclusione. Non si può seriamente costruire una etica pubblica se si nega che esista una verità circa il bene universalmente valida. Ma è questa negazione oggi ad essere sostenuta, portando il sociale umano ad una lacerazione non sostenibile.
4. Voglio concludere con un pensiero di Eraclito il quale afferma "che per coloro che sono svegli esiste un mondo unico e comune, e che invece ciascuno di coloro che dormono torna nel proprio mondo" [I presocratici, Bompiani, Milano 2006, pag. 326, 89].
È proprio questo che D. Hume ha negato: che l’uomo possa uscire dal proprio mondo, fare uno step beyond ourselves. Chi si è svegliato dal sonno della ragione, gode di una luce che è la stessa per ogni uomo, e che fa vedere il bene come ciò che è comune a tutti. È questa luce che pone il fondamento della comunità umana.


LA PIÙ GRAVE EMERGENZA UMANITARIA - LA SOMALIA DEVASTATA CHIAMA IN AIUTO IL MONDO RESPONSABILE - GIULIO ALBANESE – Avvenire, 29 maggio 2009
La Somalia è allo sfacelo e la comunità in­ternazionale non può rimanere alla fine­stra a guardare. Messa così potrebbe appari­re una considerazione eccessiva, sproporzio­nata rispetto all’impegno profuso dalle can­cellerie di mezzo mondo nella lotta contro la pirateria. Ma a pensarci bene questo feno­meno - quello dei moderni bucanieri che in­festano il Golfo di Aden - non è che uno dei tanti segnali del diffuso clima d’anarchia, mi­seria e violenza che imperversa sulla terra­ferma. Se si pensa che stiamo parlando di un Paese praticamente senza 'Stato' da oltre 18 anni, con un presidente internazionalmente riconosciuto ma ormai alla gogna - lo Sheikh Sharif Sheikh Ahmed - assediato da legioni di ribelli jiahdisti, con la complicità di merce­nari stranieri provenienti dal versante me­diorientale, viene spontaneo chiedersi se vi sia una scappatoia, una via diplomatica per ricondurre sui binari della ragionevolezza gli attori di un conflitto che ha causato un nu­mero indicibile di vittime tra la povera gente. Trovare il bandolo della matassa è un’impre­sa assai ardua, soprattutto se si considera che nel sottosuolo della Somalia vi è una riserva smisurata di idrocarburi, come peraltro anche nei fondali dell’Oceano Indiano, una sorta d’i­nestimabile tesoro nel tempo della globaliz­zazione sul quale s’avventano a dismisura po­tentati più o meno occulti. Non è un dato mar­ginale quanto rivelato da alcune fonti ufficio­se, secondo le quali le bande dei pirati ver­rebbero foraggiate non solo da gruppi sov­versivi, ma anche da misteriose forze inter­nazionali col pretesto di scoraggiare, almeno per ora, le possibili e fortemente remunerati­ve attività off-shore d’estrazione petrolifera tra la sponda yemenita e quella somala. Sì, in­somma quasi si trattas­se di una riserva strate­gica sulla quale nessu­no dovrebbe azzardar­si a mettere le mani.
Questo scenario natu­ralmente preoccupa gli Stati Uniti che vedono nella Somalia la linea di faglia tra Oriente e Oc­cidente in territorio a­fricano. Per intenderci, si tratta dell’anello de­bole della più impor­tante cintura del siste­ma di sicurezza Usa per i prossimi anni, quella sub-sahariana, nel sen­so che il suo controllo garantisce il diritto di accesso alle risorse e ai luoghi strategici da parte delle grandi potenze occidentali. Ed è questo il problema: vi sono anche altri pre­tendenti in questo scacchiere, cinesi in pri­mis, per cui le iniziative di pacificazione sem­brano ridursi ogni volta a bolle di sapone. Ec­co che allora le Nazioni Unite appaiono sem­pre più impotenti, alla prova dei fatti, limi­tandosi a prorogare - attraverso la risoluzio­ne 1872 votata un paio di giorni fa dal Consi­glio di Sicurezza - fino al 31 gennaio 2010 la missione dell’Unione africana in Somalia (A­misom). In effetti si tratta di una fantomatica forza d’interposizione che riesce a garantire a malapena l’incolumità dei propri militari per mancanza di uomini e mezzi.
Da tempo al Palazzo di Vetro si dibatte sulla possibilità di un maggiore impegno dell’Onu in Somalia, possibilmente con il dispiega­mento di caschi blu, ma finora è mancata la volontà politica da parte di molte cancellerie. L’unico segnale costruttivo, stando alla cro­naca, viene dalla prossima riunione dell’ 'In­ternational Contact Group' sulla Somalia che si terrà a Roma il 9 e 10 giugno. Al nostro go­verno, cui va riconosciuto il merito d’essersi fatto interprete e promotore di questa inizia­tiva, il delicato compito di tenere i riflettori puntati su un Paese che alla prova dei fatti rappresenta ancora la prima emergenza u­manitaria del pianeta. È del tutto evidente in­fatti che non si tratta di un percorso agevole: la situazione è ormai deteriorata e occorre di­sinnescare quei meccanismi che determina­no la conflittualità sul campo. Per fare questo è necessario elaborare una 'road map' che serva anche da piattaforma coinvolgendo non solo le opposte fazioni e le grandi potenze, ma tutti coloro che dall’estero, come nel caso dell’Eritrea, foraggiano le bande armate, inco­raggiandoli a elaborare proposte ragionevoli e costruttive. Un cammino comunque tutto in salita.

giovedì 28 maggio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta la figura di San Teodoro Studita - Durante l'Udienza generale del mercoledì
2) Newsletter di Scienza & Vita n° 24 27-5-09 - Perché scommettiamo su questo evento diffuso di popolo - GLI INTELLETTUALI SI INTERROGANO - SUL MANIFESTO “LIBERI PER VIVERE” - di Domenico Delle Foglie
3) CRISI/ Mons. Fisichella: l’autentica questione morale è una proposta vera per le nuove generazioni - INT. Rino Fisichella - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
4) Vittadini: no ai Torquemada, il premier governi - INT. Giorgio Vittadini - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) SPAGNA/ L’aborto come la chirurgia plastica, il nuovo slogan dello zapaterismo - Fernando De Haro - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
6) LETTURE/ Il potere e la gloria, un “dono” di Graham Greene - Edoardo Rialti - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net


Benedetto XVI presenta la figura di San Teodoro Studita - Durante l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 27 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su San Teodoro Studita.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Il Santo che oggi incontriamo, san Teodoro Studita, ci porta in pieno medioevo bizantino, in un periodo dal punto di vista religioso e politico piuttosto turbolento. San Teodoro nacque nel 759 in una famiglia nobile e pia: la madre, Teoctista, e uno zio, Platone, abate del monastero di Sakkudion in Bitinia, sono venerati come santi. Fu proprio lo zio ad orientarlo verso la vita monastica, che egli abbracciò all’età di 22 anni. Fu ordinato sacerdote dal patriarca Tarasio, ma ruppe poi la comunione con lui per la debolezza dimostrata nel caso del matrimonio adulterino dell’imperatore Costantino VI. La conseguenza fu l’esilio di Teodoro, nel 796, a Tessalonica. La riconciliazione con l’autorità imperiale avvenne l’anno successivo sotto l’imperatrice Irene, la cui benevolenza indusse Teodoro e Platone a trasferirsi nel monastero urbano di Studios, insieme alla gran parte della comunità dei monaci di Sakkudion, per evitare le incursioni dei saraceni. Ebbe così inizio l’importante "riforma studita".
La vicenda personale di Teodoro, tuttavia, continuò ad essere movimentata. Con la sua solita energia, divenne il capo della resistenza contro l’iconoclasmo di Leone V l’Armeno, che si oppose di nuovo all’esistenza di immagini e icone nella Chiesa. La processione di icone organizzata dai monaci di Studios scatenò la reazione della polizia. Tra l’815 e l’821, Teodoro fu flagellato, incarcerato ed esiliato in diversi luoghi dell’Asia Minore. Alla fine poté tornare a Costantinopoli, ma non nel proprio monastero. Egli allora si stabilì con i suoi monaci dall’altra parte del Bosforo. Morì, a quanto pare, a Prinkipo, l’11 novembre 826, giorno in cui il calendario bizantino lo ricorda. Teodoro si distinse nella storia della Chiesa come uno dei grandi riformatori della vita monastica e anche come difensore delle sacre immagini durante la seconda fase dell’iconoclasmo, accanto al Patriarca di Costantinopoli, san Niceforo. Teodoro aveva compreso che la questione della venerazione delle icone chiamava in causa la verità stessa dell’Incarnazione. Nei suoi tre libri Antirretikoi (Confutazioni), Teodoro fa un paragone tra i rapporti eterni intratrinitari, dove l’esistenza di ciascuna Persona divina non distrugge l’unità, e i rapporti tra le due nature in Cristo, le quali non compromettono, in Lui, l’unica Persona del Logos. E argomenta: abolire la venerazione dell’icona di Cristo significherebbe cancellare la sua stessa opera redentrice, dal momento che, assumendo la natura umana, l’invisibile Parola eterna è apparsa nella carne visibile umana e in questo modo ha santificato tutto il cosmo visibile. Le icone, santificate dalla benedizione liturgica e dalle preghiere dei fedeli, ci uniscono con la Persona di Cristo, con i suoi santi e, per mezzo di loro, con il Padre celeste e testimoniano l’entrare della realtà divina nel nostro cosmo visibile e materiale.
Teodoro e i suoi monaci, testimoni di coraggio al tempo delle persecuzioni iconoclaste, sono inseparabilmente legati alla riforma della vita cenobitica nel mondo bizantino. La loro importanza già si impone per una circostanza esterna: il numero. Mentre i monasteri del tempo non superavano i trenta o quaranta monaci, dalla Vita di Teodoro sappiamo dell’esistenza complessivamente di più di un migliaio di monaci studiti. Teodoro stesso ci informa della presenza nel suo monastero di circa trecento monaci; vediamo quindi l’entusiasmo della fede che è nato nel contesto di questo uomo realmente informato e formato dalla fede medesima. Tuttavia, più che il numero, si rivelò influente il nuovo spirito impresso dal fondatore alla vita cenobitica. Nei suoi scritti egli insiste sull’urgenza di un ritorno consapevole all’insegnamento dei Padri, soprattutto a san Basilio, primo legislatore della vita monastica e a san Doroteo di Gaza, famoso padre spirituale del deserto palestinese. L’apporto caratteristico di Teodoro consiste nell’insistenza sulla necessità dell’ordine e della sottomissione da parte dei monaci. Durante le persecuzioni questi si erano dispersi, abituandosi a vivere ciascuno secondo il proprio giudizio. Ora che era stato possibile ricostituire la vita comune, bisognava impegnarsi a fondo per tornare a fare del monastero una vera comunità organica, una vera famiglia o, come dice lui, un vero "Corpo di Cristo". In tale comunità si realizza in concreto la realtà della Chiesa nel suo insieme.
Un’altra convinzione di fondo di Teodoro è questa: i monaci, rispetto ai secolari, assumono l’impegno di osservare i doveri cristiani con maggiore rigore ed intensità. Per questo pronunciano una speciale professione, che appartiene agli hagiasmata (consacrazioni), ed è quasi un "nuovo battesimo", di cui la vestizione è il simbolo. Caratteristico dei monaci, invece, rispetto ai secolari, è l’impegno della povertà, della castità e dell’obbedienza. Rivolgendosi ai monaci, Teodoro parla in modo concreto, talvolta quasi pittoresco, della povertà, ma essa nella sequela di Cristo è dagli inizi un elemento essenziale del monachesimo e indica anche una strada per noi tutti. La rinuncia alla proprietà privata, questa libertà dalle cose materiali, come pure la sobrietà e semplicità valgono in forma radicale solo per i monaci, ma lo spirito di tale rinuncia è uguale per tutti. Infatti non dobbiamo dipendere dalla proprietà materiale, dobbiamo invece imparare la rinuncia, la semplicità, l’austerità e la sobrietà. Solo così può crescere una società solidale e può essere superato il grande problema della povertà di questo mondo. Quindi in questo senso il radicale segno dei monaci poveri indica sostanzialmente anche una strada per noi tutti. Quando poi espone le tentazioni contro la castità, Teodoro non nasconde le proprie esperienze e dimostra il cammino di lotta interiore per trovare il dominio di se stessi e così il rispetto del proprio corpo e di quello dell’altro come tempio di Dio.
Ma le rinunce principali sono per lui quelle richieste dall’obbedienza, perché ognuno dei monaci ha il proprio modo di vivere e l’inserimento nella grande comunità di trecento monaci implica realmente una nuova forma di vita, che egli qualifica come il "martirio della sottomissione". Anche qui i monaci danno solo un esempio di quanto sia necessario per noi stessi, perché, dopo il peccato originale, la tendenza dell’uomo è fare la propria volontà, il principio primo è la vita del mondo, tutto il resto va sottomesso alla propria volontà. Ma in questo modo, se ognuno segue solo se stesso, il tessuto sociale non può funzionare. Solo imparando ad inserirsi nella comune libertà, condividere e sottomettersi ad essa, imparare la legalità, cioè la sottomissione e l’obbedienza alle regole del bene comune e della vita comune, può sanare una società come pure l’io stesso dalla superbia di essere al centro del mondo. Così san Teodoro ai suoi monaci e in definitiva anche a noi, con fine introspezione, aiuta a capire la vera vita, a resistere alla tentazione di mettere la propria volontà come somma regola di vita e di conservare la vera identità personale - che è sempre una identità insieme con gli altri - e la pace del cuore.
Per Teodoro Studita una virtù importante al pari dell’obbedienza e dell’umiltà è la philergia, cioè l’amore al lavoro, in cui egli vede un criterio per saggiare la qualità della devozione personale: colui che è fervente negli impegni materiali, che lavora con assiduità, egli argomenta, lo è anche in quelli spirituali. Non ammette perciò che, sotto il pretesto della preghiera e della contemplazione, il monaco si dispensi dal lavoro, anche dal lavoro manuale, che in realtà è, secondo lui e secondo tutta la tradizione monastica, il mezzo per trovare Dio. Teodoro non teme di parlare del lavoro come del "sacrificio del monaco", della sua "liturgia", addirittura di una sorta di Messa attraverso la quale la vita monastica diventa vita angelica. E proprio così il mondo del lavoro va umanizzato e l’uomo attraverso il lavoro diventa più se stesso, più vicino a Dio. Una conseguenza di questa singolare visione merita di essere ricordata: proprio perché frutto di una forma di "liturgia", le ricchezze ricavate dal lavoro comune non devono servire alla comodità dei monaci, ma essere destinate all’aiuto dei poveri. Qui possiamo tutti cogliere la necessità che il frutto del lavoro sia un bene per tutti. Ovviamente, il lavoro degli "studiti" non era soltanto manuale: essi ebbero una grande importanza nello sviluppo religioso-culturale della civiltà bizantina come calligrafi, pittori, poeti, educatori dei giovani, maestri di scuole, bibliotecari.
Pur esercitando un’attività esterna vastissima, Teodoro non si lasciava distrarre da ciò che considerava strettamente attinente alla sua funzione di superiore: essere il padre spirituale dei suoi monaci. Egli sapeva quale influsso decisivo avevano avuto nella sua vita sia la buona madre che il santo zio Platone, da lui qualificato col significativo titolo di "padre". Esercitava perciò nei confronti dei monaci la direzione spirituale. Ogni giorno, riferisce il biografo, dopo la preghiera serale si poneva davanti all’iconostasi per ascoltare le confidenze di tutti. Consigliava pure spiritualmente molte persone fuori dello stesso monastero. Il Testamento spirituale e le Lettere mettono in rilievo questo suo carattere aperto e affettuoso, e mostra come dalla sua paternità sono nate vere amicizie spirituali in ambito monastico e anche fuori.
La Regola, nota con il nome di Hypotyposis, codificata poco dopo la morte di Teodoro, fu adottata, con qualche modifica, sul Monte Athos, quando nel 962 sant’Atanasio Athonita vi fondò la Grande Lavra, e nella Rus’ di Kiev, quando all’inizio del secondo millennio san Teodosio la introdusse nella Lavra delle Grotte. Compresa nel suo significato genuino, la Regola si rivela singolarmente attuale. Vi sono oggi numerose correnti che insidiano l’unità della fede comune e spingono verso una sorta di pericoloso individualismo spirituale e di superbia spirituale. E’ necessario impegnarsi nel difendere e far crescere la perfetta unità del Corpo di Cristo, nella quale possono comporsi in armonia la pace dell’ordine e le sincere relazioni personali nello Spirito.
E’ forse utile riprendere alla fine alcuni degli elementi principali della dottrina spirituale di Teodoro. Amore per il Signore incarnato e per la sua visibilità nella Liturgia e nelle icone. Fedeltà al battesimo e impegno a vivere nella comunione del Corpo di Cristo, intesa anche come comunione dei cristiani fra di loro. Spirito di povertà, di sobrietà, di rinuncia; castità, dominio di sé stessi, umiltà ed obbedienza contro il primato della propria volontà, che distrugge il tessuto sociale e la pace delle anime. Amore per il lavoro materiale e spirituale. Amicizia spirituale nata dalla purificazione della propria coscienza, della propria anima, della propria vita. Cerchiamo di seguire questi insegnamenti che realmente ci mostrano la strada della vera vita.


[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Saluto ora i pellegrini di lingua italiana. In particolare, rivolgo un affettuoso benvenuto ai preti novelli di Verona e di Bergamo, accompagnati dai rispettivi Vescovi, ed auguro loro di saper guardare il mondo con gli occhi di Gesù, per recare ai fratelli la sua parola di salvezza. Saluto i membri della Fondazione San Matteo in memoria del Cardinale Van Thuan, qui convenuti con il Cardinale Renato Raffaele Martino. A ciascuno rivolgo il mio saluto e li ringrazio per l’attività che generosamente svolgono per diffondere la dottrina sociale della Chiesa e soprattutto far sentire la vicinanza della Chiesa a quanti sono poveri materialmente e spiritualmente. Saluto i fedeli della diocesi di Cassano allo Ionio, venuti a Roma con il loro Vescovo Mons. Vincenzo Bertolone e li invito ad attingere dall'Eucarestia l’energia spirituale per essere testimoni del Vangelo della carità, seguendo l'esempio dei Santi che hanno evangelizzato la Calabria.
Rivolgo, infine, il mio saluto ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Chiesa ha ricordato ieri San Filippo Neri, che si distinse per la sua allegria e per la sua dedizione ai poveri e agli ammalati, e specialmente alla gioventù. Cari giovani, imparate da questo Santo a vivere con semplicità evangelica. Cari malati, vi aiuti San Filippo Neri a fare della vostra sofferenza un'offerta al Padre celeste, in unione a Gesù crocifisso. E voi, cari sposi novelli, sorretti dalla sua intercessione, siate costruttori di famiglie illuminate dalla sapienza evangelica.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Newsletter di Scienza & Vita n° 24 27-5-09 - Perché scommettiamo su questo evento diffuso di popolo - GLI INTELLETTUALI SI INTERROGANO - SUL MANIFESTO “LIBERI PER VIVERE” - di Domenico Delle Foglie
L’operazione “Liberi per Vivere” è al centro delle preoccupazioni dell’Associazione. Da questa campagna di coscientizzazione popolare – a partire dal Manifesto valoriale che ha registrato l’adesione di tutto il laicato cattolico organizzato e che gode della simpatia e dell’incoraggiamento dei vescovi italiani – dipende con ogni probabilità la creazione di un ampio sentire comune sul tema del fine della vita. Non solo all’interno della comunità dei credenti, ma anche nell’intera opinione pubblica nazionale.

Dunque, quello per la diffusione dei contenuti del Manifesto valoriale appare come un impegno strategico per quanti hanno a cuore la vita, dal concepimento alla morte naturale.
Sul sito dell’Associazione trovate tutti i testi e i materiali utili all’organizzazione degli incontri, una rassegna stampa dedicata e soprattutto il calendario degli appuntamenti organizzati su tutto il territorio nazionale. A questo riguardo vi segnaliamo l’assoluta necessità che vengano trasmessi alla sede nazionale tutte le date e gli appuntamenti organizzati in ogni angolo d’Italia, dal singolo incontro parrocchiale o di giovani e famiglie, agli eventi pubblici e associativi. Se un evento diffuso di popolo dev’essere, ebbene, in qualche misura dovremo registrarlo. A loro modo lo fanno già, con grande generosità, il quotidiano Avvenire e l’Agenzia Sir. Ma noi dobbiamo fare di più: dobbiamo giorno per giorno aggiornare il nostro calendario, per dimostrare che davvero “Liberi per Vivere” è un’azione di popolo. Non è un grande evento singolo com’è stato ad esempio il Family Day, ma sicuramente può diventare una delle più grandi campagne di informazione e formazione popolare realizzata nel nostro Paese, come è già accaduto in occasione del Referendum sulla legge 40. A condizione che nessuno si tiri indietro. Quando abbiamo parlato, forse con l’ottimismo della volontà, di “mille incontri”, è perché abbiamo scommesso sulla generosità dei nostri compagni di viaggio in quest’avventura.
Ma torniamo alla nostra newsletter e alla sua specificità: qui abbiamo scelto la strategia del confronto e abbiamo chiesto a due intellettuali italiani, il giornalista Luigi Accattoli e lo psichiatra Tonino Cantelmi, di confrontarsi con il Manifesto valoriale e di comunicarci le loro sensazioni e le loro riflessione. Inoltre Paolo Bustaffa, direttore del Sir (Servizio informazione religiosa) ci aiuta a decifrare i silenzi del sistema della comunicazione italiana su un evento di popolo come “Liberi per Vivere”. Buona lettura a tutti.


CRISI/ Mons. Fisichella: l’autentica questione morale è una proposta vera per le nuove generazioni - INT. Rino Fisichella - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
«Responsabilità»: è questo il termine più usato da Monsignor Rino Fisichella per indicare il compito dei cattolici nella società di oggi. Una società, soprattutto quella italiana, segnata da gravi problemi di carattere culturale, morale ed economico.
A Milano per la presentazione del volume di Massimo Camisasca “Don Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio”, il rettore della Pontificia Università Lateranense interviene a tutto campo, in questa intervista a ilsussidiario.net, sui principali temi di attualità che in questi giorni concitati stanno animando il dibattito pubblico nel nostro Paese.
Monsignor Fisichella, uno degli elementi essenziali dell’insegnamento di don Giussani, al centro del volume di Camisasca, era il richiamo a una presenza viva dei cattolici nella società, negli “ambienti” come la scuola e il posto di lavoro. Nella particolare condizione che il nostro Paese sta vivendo, che valore ha ancora oggi questo messaggio?
È, per diversi motivi, un richiamo di grandissima attualità. Stiamo vivendo un periodo di profonda crisi culturale: noi ora pensiamo al termine “crisi” solo in riferimento alla situazione economica, ma mi pare di poter dire che questa sia conseguenza di una più profonda crisi valoriale. Se determinati principi etici e criteri di adesione alla realtà avessero guidato le azioni di chi ha responsabilità pubblica, noi ora non ci troveremmo in questa situazione. Dunque la presenza dei cattolici si fa ancora più impellente: il loro annuncio deve essere quello di una conversione che spinga tutti a porre il problema del senso della vita al centro delle nostre azioni.
Qual è allora la responsabilità anche politica dei cattolici?
In primo luogo dare seguito a ciò a cui Benedetto XVI ha più volte richiamato noi cattolici, vale a dire la necessità della formazione di una nuova classe dirigente. I cattolici sono sempre stati presenti e attivi in questo senso, a tutti i livelli (politico, sociale, accademico, economico-finanziario); oggi, in una situazione di crisi come quella attuale, questo richiamo deve spingere a una presenza ancor più qualificante.
Entrando nel vivo del problema economico, cui già faceva riferimento, si pone in primo piano il tema del lavoro, richiamato in questi giorni anche dal Cardinal Bagnasco. In che modo i cattolici devono porsi di fronte a questo problema così intimamente connesso al concetto stesso di dignità umana?
Il primo compito è quello di prendere coscienza del momento di crisi che stiamo vivendo, e in cui tutti, senza distinzione, siamo coinvolti. Certamente, sul tema del lavoro dobbiamo riconoscere gli sforzi positivi che vengono compiuti da chi nel nostro Paese ha responsabilità pubblica, e in particolare dal ministero competente in materia di welfare. Sappiamo anche che le risorse sono limitate, e che il problema non riguarda solo noi, ma ha una chiara dimensione globale. Questo però non ci distoglie dal dovere di essere coscienza critica, soprattutto perché siamo quotidianamente visitati da situazioni di autentica drammaticità. Quando incontriamo il dramma di chi, magari anche professionista, all’età di 40 o 45 anni, con famiglia, perde il lavoro, comprendiamo chiaramente che il ruolo della Chiesa e dei suoi pastori non può essere solo quello di notificare questa situazione, ma anche di sollecitare chi ha responsabilità pubblica a un’azione efficace per rispondere al problema.
Si parla molto in questi giorni anche di integrazione; e spesso se ne parla come di un processo lontano dal realizzarsi. Tale carenza è secondo lei legata a una nostra immaturità culturale e sociale, o è motivata dal disagio generatosi per i flussi migratori massicci e non adeguatamente regolamentati?
I fenomeni legati all’integrazione non si risolvono in modo automatico nel tempo. Basta guardare quello che accade fuori dall’Italia. Pensiamo, ad esempio, a un Paese di grande tradizione come gli Stati Uniti: conoscendo la società statunitense, rimango perplesso quando si dice che lì si è attuata una vera integrazione. Sono state raggiunte tappe significative, certo: ma parlare di vera integrazione tra popolazioni e razze diverse mi pare che non corrisponda alla realtà. Lo stesso vale per la Gran Bretagna. Io credo, dunque, che non si debba fare dell’integrazione un nuovo mito della società moderna.
Eppure, anche solo da un punto di vista economico e lavorativo, l’immigrazione, e la conseguente esigenza di integrazione, sono elementi irrinunciabili.
C’è sicuramente una naturale ricerca di lavoro, nonché una rincorsa a raggiungere condizioni di vita che diano maggiore soddisfazione. Un desiderio importantissimo, che riguarda la dignità stessa della persona. Ma a questa ricerca di maggior benessere non corrisponde immediatamente il concetto di integrazione: sarebbe una lettura culturalmente superficiale. Perché ci sia integrazione, infatti, è necessario che ci sia da parte nostra un’offerta di valori e di cultura. Integrare significa essere propositivi, avere una forte identità, proporre non solo la conoscenza della lingua ma anche il patrimonio culturale che costituisce il nostro essere italiani. Pensare, in un momento di crisi, alla semplice immigrazione come panacea di tutti i mali mi sembra una visione alquanto riduttiva del problema.
Cambiando argomento, ma rimanendo ancora nella stretta attualità: in questi giorni si parla molto di “questione morale” in seguito al susseguirsi di notizie e pettegolezzi intorno al mondo della politica. Cosa pensa del comportamento dei media nell’affrontare questo tema così delicato?
Io penso che ci sia in Italia una tradizione giornalistica diversa da quella degli altri paesi, meno legata al cosiddetto “gossip” e più votata a una grande capacità critica e di spinta alla riflessione e alla lettura lungimirante degli eventi. Penso che sia bene continuare a rispettare questa tradizione, senza cadere nella trappola di chi rincorre la semplice curiosità della gente.
Però non si tratta solo di un generico “gossip”, ma da parte dei giornali viene proposta ai lettori una vera e propria questione morale che chiama in causa il mondo politico.
Più che “proposta” mi sembra che sia “imposta”. Comunque, non si pone la questione morale sulla base di un pettegolezzo. Col termine di “questione morale” si intende qualcosa di molto serio e profondo, da riservare a spazi coerenti di riflessione. Non la si può mischiare al desiderio, diciamolo pure, un po’ pruriginoso di novità, senza che vi sia alcuna condizione di verifica.
Eccellenza, un’ultima riflessione sull’imminente scadenza delle elezioni europee. Un appuntamento politico, ma anche culturale. Come i cattolici devono affrontare questa particolare circostanza elettorale?
Con grande senso di responsabilità. Non dimentichiamo che l’80% dell’attività parlamentare consiste nel far diventare legge quello che viene deciso in Europa. Questo aumenta la responsabilità di quanti, cattolici e no, hanno a cuore la sorte della nostra società nel prossimo futuro. L’Europa oggi vive un momento di forte contrapposizione valoriale rispetto alla proposta del cristianesimo, che costituisce – piaccia o no – l’identità e la radice dell’Europa stessa. Quindi è inevitabile che i cattolici debbano sentire un forte senso di responsabilità. Innanzitutto come partecipazione; in secondo luogo, per fare in modo che quanti vengono eletti al Parlamento europeo possano essere portatori di quei valori di cui l’Europa deve non solo fare memoria storica, ma che deve anche assumere come fondamento di una capacità propositiva per le nuove generazioni.
(Rossano Salini)


Vittadini: no ai Torquemada, il premier governi - INT. Giorgio Vittadini - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Cominciamo dalla coerenza, professore: se uno sostiene come Berlusconi il Family Day, dal punto di vista cristiano non dovrebbe vivere di conseguenza?
«Vede, io credo molto nel peccato originale e me lo sento addosso. E questo riguarda tutti: chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Si figuri se mi metto a giudicare come fossi un Torquemada il comportamento morale degli altri». Giorgio Vittadini, fondatore della Compagnia delle Opere ed oggi presidente della Fondazione per la sussidiarietà, non si scompone: «Ci sono altri ordini di giudizio, e per fortuna un cristiano lo sa».
Il Pdl e il governo, però, si accreditano come difensori dei valori cattolici. Una parte consistente del mondo cattolico li ha sostenuti. Secondo lei, professore, le polemiche sul caso Noemi e i comportamenti privati del premier cambiano qualcosa nel giudizio sul governo?
«Non possiamo fare una questione politica di fatti specifici, dallo svolgimento dubbio, costruiti attraverso inchieste giornalistiche, quasi si volesse dare loro un valore giudiziario. I fatti da appurare sarebbero infiniti e si ricreerebbe quel tipo di sospetto generalizzato di cui abbiamo sofferto nel dopo Tangentopoli».
Ma la questione morale?
«La questione morale è una tensione al vero, non soltanto una coerenza. In questo senso ricordo che nell’87, ad Assago, Don Giussani spiegò che la questione morale generale nasce dall’appiattimento del desiderio dei giovani e nel cinismo degli adulti. Astenia e mancanza di desiderio: questa è la questione che genera tutte le questioni morali. Hanno ragione i vescovi a porla all’interno dell’emergenza educativa. Se vogliamo parlare di moralità della politica partiamo da qui, dall’emergenza educativa, sennò ci prendiamo in giro».
Va bene, ma qui c’è un caso specifico...
«I vescovi hanno detto che oggi come ieri, in Italia, di questioni morali ce ne sono tante, ed è giusto tenerle vive tutte. Hanno aggiunto "Ognuno ha la propria coscienza, la propria capacità di giudizio". Sono d’accordo E aggiungo che la esprimerà nelle prossime elezioni, se vuole».
In che senso?
«Nel senso che la prossima volta farà quello che vuole. Ma adesso c’è un governo in azione che deve rispondere dei suoi atti, abbiamo problemi gravi da affrontare. E chi ha votato, cattolico o no, ha il diritto di avere un governo che governi, senza altre interferenze».
Berlusconi rischia di essere danneggiato nell’elettorato cattolico?
«Don Giussani affrontò il tema dei cristiani e del governo in un’intervista del ’96: spiegava che l’essenziale è la devozione sincera al bene comune e la competenza reale adeguata. Su questo giudica un cristiano. Io valuto un governo sul fatto che tuteli la dignità della persona, favorisca la sussidiarietà come welfare partecipato dalla gente, sviluppi la libertà di educazione e così via. Se è così, bene. Dopodiché risponderà del suo comportamento davanti a Dio, se ci crede».
Il professor Paolo Prodi diceva: Berlusconi difensore dei valori cattolici? Ci vorrebbe un po’ di pudore...
«Vede, io sono per una visione laica della politica. Non mi pongo il problema Berlusconi e valori cattolici. Mi chiedo: che cosa ha fatto di positivo? E penso tra l’altro al libro bianco, alla politica estera, alla gestione delle emergenze come in Abruzzo, alla tutela della vita. Punto. In questa faccenda ho l’impressione che si voglia riesumare una sorta di clericalismo dal punto di vista degli anticlericali».
(Gian Guido Vecchi)
(Il Corriere della Sera, 28 maggio 2009)


SPAGNA/ L’aborto come la chirurgia plastica, il nuovo slogan dello zapaterismo - Fernando De Haro - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Una ministra del Governo spagnolo (Bibiana Aído), per giustificare il fatto che le ragazze di 16 anni possano abortire senza il consenso dei genitori, compara la morte del bambino che non nascerà con un’operazione di chirurgia estetica. Che abbia utilizzato l’espressione “rifarsi le tette” per chiarire a che tipo di operazione si riferiva è una stupidaggine. La cosa importante è la barbarie.
La ministra, giovane e senza esperienza politica, che è stata messa a capo di un ministero che non esisteva e che è stato creato per fare ideologia sull’uguglianza, sarà inquieta. Già la settimana scorsa aveva creato un problema al Governo dicendo che un feto non è un essere umano: proprio il tipo di discorso in cui l’esecutivo non voleva entrare.
Ora se ne andrà in giro chiedendosi se sia stata un’altra volta imprudente o se sia stata opportuna. Ma questa inquietudine si spazza via presto con menzogne, dando la colpa ad altro. É facile: «Può darsi che abbia esagerato, ma c’è di che provocare. Questo paese ha bisogno di sbarazzarsi dei vecchi pregiudizi della destra, della Chiesa. È necessario liberare le donne, le giovani, dalla schiavitù di una maternità non controllata».
Quel che la ministra non sa è che questo fastidio che ora sperimenta non significa nulla. Ciò che conta è la barbarie. L’importante è che forse un giorno, quando non avrà più un ministero e non sarà più ministra, quando sarà madre, o quando il sole tramonterà su alcune delle spiaggie della sua amata Cadice e la bellezza romperà la bolla dell’ideologia, allora capirà. Forse allora Bibiana capirà di essere stata complice di una inutile barbarie che si estende come un manto nero di iniquità in questo tempo oscuro.
Un tempo così oscuro come quello che descrive Cormac Mc Carthy ne La strada. Non c’è cannibalismo, né pioggia acida, né perenne cielo girigo, né tempeste di cenere come ne La strada. Ma è lo stesso, è peggiore, è la devastazione causata dal negare l’evidenza della vita senza furore, con parole semplici. La cosa più sacra viene disprezzata con parole blasfeme sul silicone.
Allora, in quel momento, Bibiana avrà bisogno, come il protagonista de La strada, di un padre per far fronte al male che non è rimasto fuori, ma che è entrato molto dentro. In realtà è ciò di cui abbiamo tutti bisogno per attraversare questa barbarie: un Padre che ci faccia padri. Non c’è altra risposta possibile.


LETTURE/ Il potere e la gloria, un “dono” di Graham Greene - Edoardo Rialti - giovedì 28 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Nemmeno contro questo peccato gli sembrava di avere da proporre alcun insegnamento valido, a meno che non lo fosse la sua stessa persona che puzzava di acquavite nella stalla.
«La sua stessa persona». È proprio il mistero racchiuso in queste semplici parole a costituire il cuore del grande dramma raccontato ne Il potere e la gloria di Greene, un dramma che riguarda il cammino di ogni cristiano, quale che sia la sua posizione, la sua situazione nella vita del mondo.
Il lettore si trova immerso fin dalla primissime battute della storia in un mondo afoso, soffocante, sotto un sole spietato e nugoli di zanzare, ma il calore, l'afa, lo stordimento si rivelano niente più d'un pallido riflesso del clima umano e spirituale realizzato dalla rivoluzione messicana, che ha bandito la Chiesa e ne ha imprigionato ed ucciso i sacerdoti: privato dello sguardo di Dio, del Suo orizzonte, l'uomo si è ritrovato solo con sé stesso in un “pianeta abbandonato”, preda non solo dei propri peccati ed errori, ma ancor più della propria spietata misura, la quale è capace solo di schiacciare e accusare sempre più, ancora e ancora. Ed ecco, c'è chi si rintana nel compromesso e nella mediocrità, senza però mai sfuggire ad un più o meno esplicito senso d'invincibile oppressione; chi invece, per non provare la minima compassione per la debolezza della carne si aggrappa e dedica con fanatico accanimento alla gelida utopia d'un avvenire radioso, senza più bisogno di perdono e destino, un'utopia che, in nome d'una pace e d'un amore astratti e impersonali, non si fa mai troppo scrupolo al presente di umiliare, torturare ed uccidere; chi continua semplicemente a strappare brandelli di felicità confusa nella violenza del peccato. Dentro tutto questo, nella “crudele mischia degli uomini” l'ultimo prete rimasto senza abiurare si trascina da una parte all'altra dei villaggi più abbandonati, sempre in fuga, braccato senza sosta e senza pietà dai nemici esterni ed interiori: da una parte la polizia, i delatori, la diffidenza della gente, la fame e la sete che lo costringono spesso a contendere pezzi d'osso ai cani selvaggi; dall'altra le macerie della sua indegnità, la sua debolezza di “prete-spugna”, consumato dall'acquavite e capace di dilapidare persino il pochissimo vino faticosamente conservato per la Messa, dilaniato dal peso delle sue gravi incoerenze e debolezze, perennemente sul baratro dell'ultima disperazione, quella di credersi divorato senza scampo dal sue stesso limite, un dannato che depone Dio sulla bocca della gente, eppure sempre capace, ancora e ancora e ancora, laddove tutti sono fuggiti o hanno ceduto, di dire sì al grande compito che ha investito la sua vita: ma era ancora da lui che prendevano Dio, Dio nella loro bocca. Senza di lui sarebbe stato come se Dio, per tutto quel tratto dalle montagne al mare, avesse cessato di esistere.
E così egli porta sé stesso a quella gente stanca, oppressa e spesso cinicamente indifferente, porta sé e tutti propri limiti, offrendosi quasi sempre al dileggio e al disprezzo, ma è così, proprio così che egli può portare loro anche quel Dio che si è legato alla sua persona per sempre nel sacramento della sua povertà offerta, fino al sacrificio più straziante.
Dentro all'unica vera grande rivoluzione che ci sia, quella messa in moto dalla presenza del Suo Signore e Maestro, anch'egli è un segno di contraddizione, per il quale si svelano i pensieri di molti cuori: davanti a questo sacerdote schiacciato dalla propria miseria umana, che continua a sperare che arrivi qualcuno migliore di lui, finalmente quello che ai suoi occhi sarebbe un uomo buono con il fuoco dell'amore, tutti sono chiamati a prendere posizione, ed ecco emergere la piccineria, la codardia, ma anche le impensabili profondità ed il coraggio e soprattutto, sotto mille forme e magari mille camuffamenti, l'insopprimibile anelito d'ogni uomo per un sguardo più grande dell'umana misura, per una presenza capace di strappare dalle sabbie mobili del male. Ed è proprio ciò che si fa strada fino a loro attraverso i gesti e le parole di quell'uomo debole e braccato, ma che sa sempre scorgere e commuoversi per l'immagine di Dio anche nel più degradato dei suoi fratelli.
Questa terribile caccia all'uomo, che è al contempo un doloroso cammino di spoliazione e sacrificio, raccontata con tanta maestria e profondità, è davvero un grande dono: in essa G. Greene, superando come forse solo in “Fine di una storia” la costante tentazione della propria narrativa a ripiegarsi sull'analisi dei suoi dubbi e delle sue lotte, ci ha testimoniato ciò che “porta” la vita stessa del suo protagonista: in fondo, l'unica cosa che possiamo davvero donare agli altri siamo noi stessi cambiati dall'amore che ci ha raggiunti e fatti suoi per sempre.