martedì 19 maggio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Mario Mauro in visita a Casale Monferrato sabato 23 maggio 2009: programma della visita
2) EUROPEE/ Giannino: facciamo gli Stati Uniti d’Europa - Oscar Giannino - martedì 19 maggio 2009 – ilsussidiario.net
3) Verso le ELEZIONI EUROPEE 2009 mettiamo al centro FAMIGLIA, VITA UMANA, BIOETICA, EDUCAZIONE – Osservatorio per un voto consapevole dall’Associazione Nuove Onde al sito:
4) Quando c’è del bene anche nella pareti grigie… - di Carlo Bellieni* - ROMA, lunedì, 18 maggio 2009 (ZENIT.org).- Un difetto frequente è pensare che messaggi eticamente buoni debbano essere confezionati in carta patinata ed espressi da persone al di sopra di ogni critica, che magari usano un linguaggio ineccepibile e danno pubbliche professioni di religiosità.
5) L'Eurabia ha una capitale: Rotterdam - Qui interi quartieri sembrano Medio Oriente, le donne camminano velate, il sindaco è musulmano, nei tribunali e nei teatri si applica la sharia. Un grande reportage dalla città più islamizzata d'Europa - di Sandro Magister
6) Oltre 13.500 persone hanno aderito all'iniziativa - La campagna negli Stati Uniti contro la ricerca sulle staminali – L’Osservatore Romano, 19 maggio 2009
7) LIBRO BIANCO/ Vittadini: il welfare delle opportunità - Giorgio Vittadini - martedì 19 maggio 2009 – ilsussidiario.net
8) LA STORIA/ A l’Aquila un container per ufficio: così si fa impresa a un mese dal sisma - Redazione - martedì 19 maggio 2009 – ilsussidiario.net
9) CRISTIANESIMO/ Dai nazisti ai comunisti: Josef Beran, il cardinale testimone della libertà - Angelo Bonaguro - martedì 19 maggio 2009 – ilsussidiario.net
10) OBAMA E LA REALTÀ DEI FATTI - DAVVERO L’ABORTO DECISIONE CHE SPEZZA IL CUORE? - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 19 maggio 2009
11) POLITICA E VALORI - Le parole del presidente della Camera suscitano un’ondata di repliche nel mondo politico «La Chiesa – osserva il vescovo Sgreccia – non impone, ma non tacerà mai sui diritti umani» Bioetica, Fini fraintende «No a leggi orientate da precetti religiosi» - Casini: in Italia mai varate norme di quel tipo Roccella: sono stati i giudici a farsi authority etica - DA ROMA GIANNI SANTAMARIA – Avvenire, 19 maggio 2009


PROGRAMMA per la visita di Mario a Casale:
Data: sabato 23 maggio 2009

Orario: arrivo alle h 9:45 in piazza Castello (Bar Livin) angolo con via Trevigi
Attendono: Nicola Sirchia - Consigliere Provinciale e Coordinatore Cittadino PdL / Giorgio Demezzi - Candidato Sindaco
ore 10:00 Visita c/o Scuola Media "Trevigi" di via Trevigi in Casale Monferrato
Accompagna: Prof.ssa Rossana Gianella - Preside (che è anche candidato al Consiglio Comunale nelle Liste del PdL).
La Scuola "Trevigi " è tradizionalmente una Scuola molto considerata a Casale, ma ha storiche difficoltà dovute ad una sede storica e prestigiosa, ma sfortemente ammalorata, sulla quale l'attuale amministrazione comunale (sinistra-centro) ha ben poco fatto.

ore 10:20 passeggiata via Trevigi /via Roma (circa 300/400 metri) con breve sosta presso il Punto Elettorale del Candidato Sindaco Giorgio Demezzi, in via Roma 141

ore 10:45 partenza per la Scuola delle Suore Salesiane (v.le Ottavio Marchino - ca. 5 minuti d'auto) per la "Festa del Grazie", con la presenza delle famiglie degli alunni, delle autorità e di Mons. Alceste Catella - Vescovo di Casale Monferrato.
L'Istituto è l'unica Scuola privata cattolica rimasta a Casale Monferrato e vanta una lunga tradizione educativa.

ore 11:15/11.20 partenza per la successiva destinazione.
Vi invito ad avvisare tutti gli amici, affinché partecipino numerosi.


EUROPEE/ Giannino: facciamo gli Stati Uniti d’Europa - Oscar Giannino - martedì 19 maggio 2009 – ilsussidiario.net
L'Europa di cui abbiamo bisogno in economia non deve solo essere capace di riflettere su quanto ci sta rivelando la più grave crisi economica quanto meno dal secondo dopoguerra. Deve anche essere capace di agire, dopo la riflessione.
Chi qui scrive non è affatto d'accordo con le tesi consolatorie espresse recentemente dal professor Mario Monti sul Corriere della Sera. No, purtroppo il modello di economia sociale europea non sta affatto diventando l'elemento di riferimento mondiale, a cominciare dai paesi anglosassoni. La ragione è almeno triplice.
Nella finanza, laddove cioè la crisi si è generata, la parte d'Europa più intossicata sta reagendo con persino meno decisione di quanto avvenga negli Usa. Sto naturalmente parlando della Germania, i cui vertici politici e istituzionali compresa la Bundesbank mantengono un miope comportamento di occultamento dei radicali interventi che sono ancora necessari negli attivi patrimoniali bancari.
Nel resto dell'economia reale, è un fatto che il rallentamento delle attività produttive è assai più forte in Europa, a cominciare dalla Germania, che negli Usa o nel Regno Unito.
Nella moneta, paghiamo tributo ai troppi anni trascorsi illudendoci che l'euro potesse divenire valuta di riserva mondiale mordendo il ruolo del dollaro, o tallone monetario almeno concorrente nei mercati delle commodities. L'amara realtà è che la ripresa del commercio mondiale è ancora appesa al tasso di cambio tra dollaro e renminbi, e che attraverso questa strettoia potrebbe riversarsi innanzitutto sull’Europa e soprattutto sui più esportatori e importatori tra i paesi europei - quali noi siamo - il più dell'ingente inflazione potenziale che la Fed alimenta per il futuro, con le sue inondazioni di liquidità monetaria.
Per il punto uno - che non è affatto una questione “tecnica” da riservare ai banchieri centrali - occorre che al Parlamento europeo e nella Commissione siedano italiani capaci di esercitare su tedeschi e francesi un'interlocuzione anche dura e incalzante, quando necessario, ma volta al bene comune e senza stupide polemiche nazionalistiche. Che attualmente in Italia le imprese debbano pagare il credito bancario in media 80 punti più che in Germania e 134 più che in Francia, anche per il fatto che da noi le banche non hanno avuto bisogno di salvataggi di Stato e dunque pagano a propria volta più caro il proprio funding, è una stortura dalla quale non si esce con atteggiamenti di subordinata passività.
Per il punto due, vasti segmenti dell'attività manifatturiera e dei servizi richiedono una logica e una dimensione realmente e definitivamente continentale, capace di superare la miope e illusoria dimensione del mercato nazionale di riferimento. Il tentativo Fiat, rivolto ai tedeschi per consolidare le attività europee di Gm sommandole a quelle sudamericane della stessa casa e a Chrysler negli Usa, è un test validissimo perché la politica comprenda che le garanzie e gli aiuti pubblici che oggi servono a rendere meno aspro l'impatto sociale delle ristrutturazioni, possono e devono essere volti ad agevolare la nascita di grandi gruppi integrati europei: gruppi privati, poiché i casi Eads e Airbus provano da soli che il controllo pubblico non è stato efficiente.
L'Est europeo della cui solidità finanziaria da mesi tremiamo, va interpretato come parte integrante e bacino di produttività aggiuntiva di cui continueremo ad avere gran bisogno, invece che come area di delocalizzazione privilegiata dei soli germanici. Analogo approccio continentale va applicato a una grande questione oggi apparentemente in sordina, per via dei floridi bilanci delle aziende energetiche: quella della diversificazione e dell'efficienza delle direttrici di approvvigionamento energetico, equilibrando la spinta nordeuropea animata dai tedeschi per esempio sul progetto Nabucco attraverso il South Stream appena rilanciato a Mosca da Eni e Berlusconi.
Quanto alla moneta, la creazione di un debito pubblico davvero europeo attraverso gli Eurobond non è un modo per aggirare i tetti di Maastricht al debito pubblico nazionale, ora che per la crisi esso s'innalza dovunque. È il modo per far nascere l'Europa politica che manca. Così fece Alexander Hamilton, creando nel 1791 il debito pubblico federale e la prima vera banca centrale, la First Bank of the United States: senza di esse non ci sarebbero gli Stati Uniti, ma solo una confederazione esattamente come ancor oggi, divisa e debole, resta l'Unione europea.


Quando c’è del bene anche nella pareti grigie… - di Carlo Bellieni* - ROMA, lunedì, 18 maggio 2009 (ZENIT.org).- Un difetto frequente è pensare che messaggi eticamente buoni debbano essere confezionati in carta patinata ed espressi da persone al di sopra di ogni critica, che magari usano un linguaggio ineccepibile e danno pubbliche professioni di religiosità.
E’ quanto abbiamo visto succedere in questi giorni nei confronti di Mel Gibson, criticato perché si separa dalla moglie, a quanto si sa: evidentemente non si accetta che chi predica bene sia un povero Cristo anche lui e non andiamo lontano se pensiamo che qualcuno non aspettava altro che trovare una pecca a questo combattente cristiano. Non è un caso isolato, ma è un tarlo da cui dobbiamo epurarci, perché invece ritroviamo proprio nei meandri più inaspettati delle belle sorprese. Vediamo ad esempio degli spunti nel cinema più semplice e non “colto” e nelle semplici canzonette di San Remo dei messaggi che ci stupiscono positivamente e che sono da additare ad esempio.
Il primo spunto viene dal semplice e allegro film di Giovanni e Giacomo “Il Cosmo sul Comò” in cui ritroviamo raccontata con semplicità la storia di una coppia che si affanna a ricercare con tutti i mezzi tecnici un figlio, per poi arrendersi agli insuccessi della medicina… e finire col miracolo di passare una sera tardi vicino ad un cassonetto dell’immondizia e trovare lì, nella tragedia dell’abbandono uno, anzi due bambini che il nostro protagonista salva da morte e adotta.
In realtà il finale è di una comicità estrema, e anche privo di moralismo (il personaggio oscilla tra il cinismo di prendere uno solo dei bambini, ma poi capisce che li deve amare e salvare entrambi): chi l’ha detto che le cose buone non devono destare allegria? San Tommaso Moro scriveva: “Dammi, o Signore, il senso dell'umorismo”. Già: proprio quando l’adozione sta passando ad essere una genitorialità di “seconda scelta” ecco che dei comici rimettono ordine là dove tanti teorici non ci sono riusciti.
Al contempo, dal festival di San Remo arriva la famosissima Arisa, con la cantatissima canzone “Sincerità” che ha sbancato i botteghini e che si permette di dire in una canzone d’amore la parola che dalle canzonette d’amore è stata semplicemente espunta negli ultimi anni: “Eternità”. Ed è la parola-chiave della canzone: la ripete dodici volte:
“Sincerità
Un elemento imprescindibile
Per una relazione stabile
Che punti all’eternità…”
Certo, è una parola apparentemente inoffensiva, ma come non pensare che non sia finita lì per caso? Qualche “purista” potrebbe storcere il naso dato che non si parla di matrimonio e si parla di “fare e rifare l’amore”; la parola Eternità chiarisce tutto, rischiara tutto, illumina tutto.
Così come la canzone del rap più duro, “Vivi per miracolo” dei Gemelli Diversi, anch’essi prodigio di San remo 2009, che risulta una specie di preghiera, ma non una sciapa preghiera laica fatta di buoni sentimenti fashion, e lo capiamo dal fatto che dice qualcosa di “fuori posto”: parla di aborto col dolore e la riprovazione che vorremmo sentir più spesso:
“Per ogni madre ancora troppo immatura
che ha avuto troppa paura
Per ogni vita finita in un sacco della spazzatura”
E la canzone si fa davvero preghiera:
“Ce l’hai un attimo per me? Perché c’è troppo bisogno di aiuto, di aiuto, di aiuto..”
“Ti imploro veglia e prega
Per chi è sul baratro però
guarda in basso e dice no” (un coraggioso no al suicidio –assistito o no-, così di moda oggi).
Certo anche qui si può obiettare che il testo è ambiguo, ma intanto certe parole sono state dette… e non sono parole inoffensive: “dai speranza”, “veglia e prega”. E l’ambiguità dolce è proprio il segno di una generazione che vuole pregare ma ha disimparato l’ABC, ha perso la dimestichezza a come si parla con Dio.
Ultimo, in ordine non di valore, è la serie tanto osteggiata da alcuni: “I Simpson”, personaggi squallidi, dal colorito giallo-squallore, che vivono in una città all’ombra di una centrale nucleare tossica, che si fanno dispetti e sgarberie, che scappano di fronte alle responsabilità… ma che tornano sempre indietro; indietro alla loro famiglia che, affogata nello squallore, non si sfascia mai, resta piena di amore e questo li salva.
I Simpson passano per essere un inno al dissesto, talvolta quasi un inno cinico, viste le scomposte reazioni dei personaggi: ma cosa vi aspettate che faccia la generazione di oggi affogata in un mare di perdita di senso, intossicata nell’animo e nel corpo se non diventare squallida e vile… salvo riprendersi sul punto estremo, grazie ad un’ancora che per grazia talora affiora: la famiglia Simpson quest’ancora l’ha trovata, resta aggregata, non si separa, non si sfascia.
La puntata-simbolo di questa ri-lettura (titolo inglese: “Don’t fear the roofer”, stagione 16) narra una storia meravigliosa… “alla Simpson”: Homer, il capo-famiglia non riesce ad aggiustare il tetto, se ne va di casa, arriva nel bar del quartiere e lì viene sbeffeggiato. Cambia bar disperato… e lì trova “Rio”, uno sconosciuto che si rivela come la persona ideale per lui: è un artigiano che aggiusta i tetti, e lo rincuora, gli offre da mangiare, scherza con lui, diventa in breve il suo migliore amico. E con lui la vita cambia, arriva l’allegria, le cose si aggiustano.
Il problema, paradosso del cartone animato, è che nessuno dei familiari e amici vede Rio; e nessuno crede che esista davvero. E Homer grida “Rio esiste: io l’ho visto!”, ma non gli credono (“Rio è una tua immaginazione!”), lo ricoverano, gli fanno l’elettroshock… finché Rio non appare di nuovo a tutti; e si capisce perché amici e parenti non lo vedevano: perché uno era cieco da un occhio, un altro aveva un camion che gli occupava la vista ecc… La conclusione è che “Rio” c’è: siamo noi che non lo vediamo. Insomma, è chiaro che “Rio” altri non è altri che… fate voi.
Credo che la chiave per scoprire una trasmissione (TV, radio, musica) davvero religiosa, tra tanto ciarpame, sia il seguente: trovare un segnale-chiave politicamente scorretto, “fuori posto”, piuttosto che tante parole affastellate su “generici problemi religiosi” (cfr . Mt 7,21). Ma cos’è “politicamente scorretto” oggi? La manina del feto che accarezza il dito del dr House (cui di recente abbiamo dedicato un libro), il neonato adottato invece di essere concepito in vitro, una famiglia che regge e non si sfascia tra lo squallore, “puntare all’Eternità” invece che il banale “senza di te non vivo”, l’immagine della donna che “abortisce perché si arrende”: questo è davvero politicamente scorretto. E ritrovarlo “fuori posto” (in una canzonetta, in un TG) non è casuale ed è molto più forte che un telefilm su un santo, trasmesso in orario protetto, ad un pubblico già preparato a ciò che vedrà. Perché in un’epoca di censura di tutto quello che è davvero religioso, questi segnali non sono messi per caso dai loro autori, che rischiano davvero per questo.
Trovare delle “figurine di santi” vicine a quelle dei calciatori in edicola è un bel “fuori posto”; vedere un bambino Down che sorride durante il TG è “fuori posto”, un calciatore che si fa il segno della croce quando entra in campo (anche se dopo farà tutti i fallaci del mondo e si riempirà la bocca di parolacce) è “fuori posto”; Mel Gibson che forse non è perfetto ma fa film sul vero amore è “fuori posto”. E proprio perché questi bei “fuori posto” ci suonano veri, capiamo che invece quello – cioè il quotidiano – è davvero il “loro posto”.
Probabilmente è anche da esempi come questi che deve ripartire un’educazione all’etica, per un pubblico che non vuole istruzioni per l’uso, ma immagini belle. Certo, spesso i termini che circondano queste immagini possono essere sgarbati, rudi, e volgari… come siamo un po’ tutti. Già, perché il cristianesimo non è una religione per persone buone (essere buoni è Grazia), ma per peccatori (cfr. Mt 9,9-13). Talvolta ce ne dimentichiamo.

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*Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.

[I lettori sono invitati a porre domande sui vari temi di bioetica scrivendo all'indirizzo: bioetica@zenit.org. I diversi esperti che collaborano con ZENIT provvederanno a rispondere ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]


L'Eurabia ha una capitale: Rotterdam - Qui interi quartieri sembrano Medio Oriente, le donne camminano velate, il sindaco è musulmano, nei tribunali e nei teatri si applica la sharia. Un grande reportage dalla città più islamizzata d'Europa - di Sandro Magister
ROMA, 19 maggio 2009 – Uno dei frutti più incontestabili del viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa è stato il migliorato rapporto con l'islam. I tre giorni passati in Giordania e poi la visita alla Cupola della Roccia a Gerusalemme hanno fatto circolare anche tra il grande pubblico musulmano – per la prima volta in misura così diffusa – l'immagine di un papa amico, attorniato da leader islamici visibilmente felici di accoglierlo e di collaborare con lui per il bene della famiglia umana.

Ma altrettanto incontestabile è la distanza tra questa immagine e la cruda realtà dei fatti. Non solo nei paesi a dominio musulmano, ma anche là dove i seguaci di Maometto sono minoranza, ad esempio in Europa.

Nel 2002 Bat Ye'or, una studiosa nata in Egitto e di nazionalità britannica, specialista della storia e della condizione delle minoranze cristiane ed ebraiche – dette "dhimmi" – nei paesi musulmani, coniò il termine "Eurabia" per definire il destino verso il quale vede incamminata l'Europa. Un destino di sottomissione all'islam, di "dhimmitudine".

Oriana Fallaci riprese nei suoi scritti la parola "Eurabia" e diede ad essa una risonanza mondiale. Il 1 agosto 2005 Benedetto XVI ricevette la Fallaci in udienza privata, a Castel Gandolfo. Lei rifiutava il dialogo con l'islam, lui lo voleva e lo vuole. Ma si trovarono d'accordo – come poi riferì la Fallaci – nel riconoscere "l'odio di sé" che l'Europa mostra, il suo vuoto spirituale, la sua perdita d'identità, proprio mentre aumentano in essa gli immigrati di fede islamica.

L'Olanda è un test di verifica straordinario. È il paese in cui l'arbitrio individuale è più legittimato ed esteso – fino al punto di consentire l'eutanasia sui bambini –, in cui l'identità cristiana si è più dissolta, in cui la presenza musulmana cresce più spavalda.

Qui il multiculturalismo è la regola. Ma drammatici sono anche i contraccolpi: dall'uccisione del leader politico anti-islamista Pim Fortuyn alla persecuzione della dissidente somala Ayaan Hirsi Ali, all'assassinio del regista Theo Van Gogh, condannato a morte per il film "Submission" di denuncia dei crimini della teocrazia musulmana. Il successore di Fortuyn, Geert Wilders, vive da sei anni protetto minuto per minuto dalla polizia.

In Olanda c'è una metropoli dove questa nuova realtà si vede a occhio nudo, più che altrove. Qui interi quartieri sono pezzi di Medio Oriente, qui sorge la più grande moschea d'Europa, qui nei tribunali e nei teatri si applica la legge islamica, la sharia, qui molte donne camminano velate, qui il sindaco è musulmano, figlio di un imam.

Questa metropoli è Rotterdam, la seconda città d'Olanda per popolazione, il primo porto d'Europa per volume di traffico.

Quello che segue è un reportage da Rotterdam uscito sul quotidiano italiano "il Foglio" il 14 maggio 2009, seconda di sette puntate di una grande inchiesta riguardante l'Olanda.

L'autore, Giulio Meotti, scrive anche per il "Wall Street Journal". Nel prossimo settembre uscirà un suo libro-inchiesta su Israele.

La foto sopra ha per titolo: "Musulmane a Rotterdam". È ripresa da una mostra del 2008 dei due fotografi olandesi Ari Versluis ed Ellie Uyttenbroek.


Nella casbah di Rotterdam di Giulio Meotti
A Feyenoord si vedono ovunque donne velate che sfrecciano come lampi per le strade del quartiere. Evitano ogni contatto, soprattutto con gli uomini, perfino il contatto visivo. Feyenoord ha le dimensioni di una città e vi convivono settanta nazionalità. È una zona che vive di sussidi e di edilizia popolare, è qui che si capisce di più come l'Olanda – con tutte le sue norme antidiscriminazione e con tutta la sua indignazione morale – è una società completamente segregata. Rotterdam è nuova, venne bombardata due volte nella seconda guerra mondiale dalla Luftwaffe. Come Amsterdam è sotto il livello del mare, ma a differenza della capitale non ha fascino libertino. A Rotterdam sono i venditori arabi di cibo halal a dominare l'estetica urbana, non i neon delle prostitute. Ovunque si vedono casbah-caffè, agenzie di viaggio che offrono voli per Rabat e Casablanca, poster di solidarietà con Hamas e lezioni di olandese a buon prezzo.

È la seconda città del paese, una città povera, ma è anche il motore dell'economia con il suo grande porto, il più importante d'Europa. È una città a maggioranza immigrata, con la più alta e imponente moschea di tutta Europa. Il sessanta per cento degli stranieri che arrivano in Olanda vengono ad abitare qui. La cosa che più colpisce giungendo in città con il treno sono queste enormi affascinanti moschee su un paesaggio verdissimo, lussurreggiante, boschivo, acquoso, come corpi alieni rispetto al resto. La chiamano "Eurabia". È imponente la moschea Mevlana dei turchi. Ha i minareti più alti d'Europa, più alti persino dello stadio della squadra di calcio Feyenoord.

Rotterdam è una città che ha molti quartieri sequestrati dall'islamismo più cupo e violento. La casa di Pim Fortuyn spicca come una perla in un mare di chador e niqab. Si trova al numero 11 di Burgerplein, dietro la stazione. Di tanto in tanto qualcuno viene a portare fiori davanti alla casa del professore assassinato ad Amsterdam il 6 maggio del 2002. Altri lasciano un biglietto: "In Olanda si tollera tutto, tranne la verità". È stato un milionario di nome Chris Tummesen ad acquistare la casa di Pim Fortuyn perché rimanesse intatta. La sera prima dell'omicidio Pim era nervoso, lo aveva detto in televisione che si era creato un clima di demonizzazione contro di lui e le sue idee. E così avvenne, con quei cinque colpi alla testa sparati da Volkert van der Graaf, un militante della sinistra animalista, un ragazzotto mingherlino, calvinista, capelli rasati, occhi cupi, vestito da ecologista puro, maglia lavorata a mano, sandali e calze di lana caprina, vegetariano assoluto, "un ragazzo impaziente di cambiare il mondo", dicono gli amici.

Nel centro di Rotterdam non molto tempo fa sono apparse foto mortuarie di Geert Wilders, poste sotto un albero, con una candela a lumeggiarne la morte prossima ventura. Oggi Wilders è il politico più popolare in città. È lui l'erede di Fortuyn, il professore omosessuale, cattolico, ex marxista che aveva lanciato un partito per salvare il paese dall'islamizzazione. Al suo funerale mancava soltanto la regina Beatrice, perché l'addio al "divino Pim" diventasse un funerale da re. Prima lo hanno mostrificato (un ministro olandese lo chiamò "untermensch", subuomo alla nazista), poi lo hanno idolatrato. Le prostitute di Amsterdam deposero una corona di fiori all'obelisco dei caduti in piazza Dam.

"The Economist", settimanale lontano dalle tesi antislamiche di Wilders, tre mesi fa parlava di Rotterdam come di un "incubo eurabico". Per gran parte degli olandesi che ci vivono l'islamismo è oggi un pericolo più grande del Delta Plan, il complicato sistema di dighe che previene l'inondazione dal mare, come quella che nel 1953 fece duemila morti. La pittoresca cittadina di Schiedam, attaccata a Rotterdam, è sempre stata un gioiello nell'immaginazione olandese. Poi l'alone fiabesco è svanito, quando sui quotidiani tre anni fa è diventata la città di Farid A., l'islamista che minacciava di morte Wilders e la dissidente somala Ayaan Hirsi Ali. Da sei anni Wilders vive 24 ore su 24 sotto la protezione della polizia.

A Rotterdam gli avvocati musulmani vogliono cambiare anche le regole del diritto, chiedendo di poter restare seduti quando entra il giudice. Riconoscono soltanto Allah. L'avvocato Mohammed Enait si è appena rifiutato di alzarsi in piedi quando in aula sono entrati i magistrati, ha detto che "l'islam insegna che tutti gli uomini sono uguali". La corte di Rotterdam ha riconosciuto il diritto di Enait di rimanere seduto: "Non esiste alcun obbligo giuridico che imponga agli avvocati musulmani di alzarsi in piedi di fronte alla corte, in quanto tale gesto è in contrasto con i dettami della fede islamica". Enait, a capo dello studio legale Jairam Advocaten, ha spiegato che "considera tutti gli uomini pari e non ammette alcuna forma di ossequio nei confronti di alcuno". Tutti gli uomini ma non tutte le donne. Enait è noto per il suo rifiuto di stringere la mano alle donne, che più volte ha dichiarato di preferire con il burqa. E di burqa se ne vedono tanti a Rotterdam.

Che l'Eurabia abiti ormai a Rotterdam lo ha dimostrato un caso avvenuto in aprile allo Zuidplein Theatre, uno dei più prestigiosi in città, un teatro modernista, fiero di "rappresentare la diversità culturale di Rotterdam". Sorge nella parte meridionale della città e riceve fondi del comune, guidato dal musulmano e figlio di imam Ahmed Aboutaleb. Tre settimane fa lo Zuidplein ha consentito di riservare un'intera balconata alle sole donne, in nome della sharia. Non accade in Pakistan o in Arabia saudita, ma nella città da cui sono partiti per gli Stati Uniti i Padri Fondatori. Qui i pellegrini puritani sbarcarono con la Speedwell, che poi scambiarono con la Mayflower. Qui è iniziata l'avventura americana. Oggi c'è la sharia legalizzata.

In occasione dello spettacolo del musulmano Salaheddine Benchikhi, lo Zuidplein Theatre ha accolto la sua richiesta di riservare alle sole donne le prime cinque file. Salaheddine, editorialista del sito Morokko.nl, è noto per la sua opposizione all'integrazione dei musulmani. Il consiglio municipale lo ha approvato: "Secondo i nostri valori occidentali la libertà di vivere la propria vita in funzione delle proprie convinzioni è un bene prezioso". Anche un portavoce del teatro ha difeso il regista: "I musulmani sono un gruppo difficile da far venire in teatro, per questo siamo pronti ad adattarci".

Un altro che è stato pronto ad adattarsi è il regista Gerrit Timmers. Le sue parole sono abbastanza sintomatiche di quella che Wilders chiama "autoislamizzazione". Il primo caso di autocensura avvenne proprio a Rotterdam, nel dicembre 2000. Timmers, direttore del gruppo teatrale Onafhankelijk Toneel, voleva mettere in scena la vita della moglie di Maometto, Aisha. Ma l'opera venne boicottata dagli attori musulmani della compagnia quando fu evidente che sarebbero stati un bersaglio degli islamisti. "Siamo entusiasti dell'opera, ma la paura regna", gli dissero gli attori. Il compositore, Najib Cherradi, comunicò che si sarebbe ritirato "per il bene di mia figlia". Il quotidiano "Handelsblad" titolò così: "Teheran sulla Mosa", il dolce fiume che bagna Rotterdam. "Avevo già fatto tre lavori sui marocchini e per questo volevo avere degli attori e cantanti musulmani", ci racconta Timmers. "Poi mi dissero che era un tema pericoloso e che non potevano partecipare perché avevano ricevuto delle minacce di morte. A Rabat uscì un articolo in cui si disse che avremmo fatto la fine di Salman Rushdie. Per me era più importante continuare il dialogo con i marocchini piuttosto che provocarli. Per questo non vedo alcun problema se i musulmani vogliono separare gli uomini dalle donne in un teatro".

Incontriamo il regista che ha portato la sharia nei teatri olandesi, Salaheddine Benchikhi. È giovane, moderno, orgoglioso, parla un inglese perfetto. "Io difendo la scelta di separare gli uomini dalle donne perché qui vige libertà d'espressione e di organizzazione. Se le persone non possono sedersi dove vogliono è discriminazione. Ci sono due milioni di musulmani in Olanda e vogliono che la nostra tradizione diventi pubblica, tutto si evolve. Il sindaco Aboutaleb mi ha sostenuto".

Un anno fa la città entrò in fibrillazione quando i giornali resero nota una lettera di Bouchra Ismaili, consigliere del comune di Rotterdam: "Ascoltate bene, pazzi freak, siamo qui per restarci. Siete voi gli stranieri qui, con Allah dalla mia parte non temo niente, lasciatevi dare un consiglio: convertitevi all'islam e trovate la pace". Basta un giro per le strade della città per capire che in molti quartieri non siamo più in Olanda. È un pezzo di Medio Oriente. In alcune scuole c'è una "stanza del silenzio" dove gli alunni musulmani, in maggioranza, possono pregare cinque volte al giorno, con un poster della Mecca, il Corano e un bagno rituale prima della preghiera. Un altro consigliere musulmano del comune, Brahim Bourzik, vuol far disegnare in diversi punti della città segnali in cui inginocchiarsi in direzione della Mecca.

Sylvain Ephimenco è un giornalista franco-olandese che vive a Rotterdam da dodici anni. È stato per vent'anni corrispondente di "Libération" dall'Olanda ed è fiero delle sue credenziali di sinistra. "Anche se ormai non ci credo più", dice accogliendoci nella sua casa che si affaccia su un piccolo canale di Rotterdam. Non lontano da qui si trova la moschea al Nasr dell'imam Khalil al Moumni, che in occasione della legalizzazione del matrimonio gay definì gli omosessuali "malati peggio dei maiali". Da fuori si vede che la moschea ha più di vent'anni, costruita dai primi immigrati marocchini. Moumni ha scritto un libercolo che gira nelle moschee olandesi, "Il cammino del musulmano", in cui spiega che agli omosessuali si deve staccare la testa e "farla penzolare dall'edificio più alto della città". Accanto alla moschea al Nasr ci sediamo in un caffè per soli uomini. Davanti a noi c'è un mattatoio halal, islamico. Ephimenco è autore di tre saggi sull'Olanda e l'islam, e oggi è un famoso columnist del quotidiano cristiano di sinistra "Trouw". Ha la miglior prospettiva per capire una città che, forse anche più di Amsterdam, incarna la tragedia olandese.

"Non è affatto vero che Wilders raccoglie voti delle periferie, lo sanno tutti anche se non lo dicono", ci dice. "Oggi Wilders viene votato da gente colta, anche se all'inizio era l'Olanda bassa dei tatuaggi. Sono tanti accademici e gente di sinistra a votarlo. Il problema sono tutti questi veli islamici. Dietro casa mia c'è un supermercato. Quando arrivai non c'era un solo velo. Oggi alla cassa ci sono soltanto donne musulmane col chador. Wilders non è Haider. Ha una posizione di destra ma anche di sinistra, è un tipico olandese. Qui ci sono anche ore in piscina per sole donne musulmane. È questa l'origine del voto per Wilders. Si deve fermare l'islamizzazione, la follia del teatro. A Utrecht c'è una moschea dove si danno servizi municipali separati per uomini e donne. Gli olandesi hanno paura. Wilders è contro il Frankenstein del multiculturalismo. Io che ero di sinistra, ma che oggi non sono più niente, dico che abbiamo raggiunto il limite. Ho sentito traditi gli ideali dell'illuminismo con questo apartheid volontario, nel mio cuore sento morti gli ideali d'eguaglianza di uomo e donna e la libertà d'espressione. Qui c'è una sinistra conformista e la destra ha una migliore risposta al pazzo multiculturalismo".

Alla Erasmus University di Rotterdam insegna Tariq Ramadan, il celebre islamista svizzero che è anche consulente speciale del comune. A scovare dichiarazioni di Ramadan critiche sugli omosessuali è stata la più celebre rivista gay d'Olanda, "Gay Krant", diretta da un loquace giornalista di nome Henk Krol. In una videocassetta, Ramadan definisce l'omosessualità "una malattia, un disordine, uno squilibrio". Nel nastro Ramadan ne ha anche per le donne, "devono tenere lo sguardo fisso a terra per strada". Il partito di Wilders ha chiesto lo scioglimento della giunta municipale e la cacciata dell'islamista ginevrino, che invece si è visto raddoppiare l'ingaggio per altri due anni. Questo accadeva mentre al di là dell'oceano l'amministrazione Obama confermava il divieto d'ingresso a Ramadan nel territorio degli Stati Uniti. Fra i nastri in possesso di Krol ve ne è uno in cui Ramadan dice alle donne: "Allah ha una regola importante: se cerchi di attrarre l'attenzione attraverso l'uso del profumo, attraverso il tuo aspetto o i tuoi gesti, non sei nella direzione spirituale corretta".

"Quando venne ucciso Pim Fortuyn fu uno shock per tutti, perché un uomo venne assassinato per quello che diceva", ci dice Krol. "Non era più il mio paese quello. Sto ancora pensando di lasciare l'Olanda, ma dove potrei andare? Qui siamo stati critici di tutto, della Chiesa cattolica come di quella protestante. Ma quando abbiamo mosso critiche all'islam ci hanno risposto: State creando nuovi nemici!". Secondo Ephimenco, è la strada il segreto del successo di Wilders: "A Rotterdam ci sono tre moschee enormi, una è la più grande d'Europa. Ci sono sempre più veli islamici e un impulso islamista che viene dalle moschee. Conosco tanti che hanno lasciato il centro città e vanno nella periferia ricca e bianca. Il mio quartiere è povero e nero. È una questione di identità, nelle strade non si parla più olandese, ma arabo e turco".

Incontriamo l'uomo che ha ereditato la rubrica di Fortuyn sul quotidiano "Elsevier", si chiama Bart Jan Spruyt, è un giovane e aitante intellettuale protestante, fondatore della Edmund Burke Society, ma soprattutto autore della "Dichiarazione di indipendenza" di Wilders, di cui è stato collaboratore dall'inizio. "Qui un immigrato non ha bisogno di lottare, studiare, lavorare, può vivere a spese dello Stato", ci dice Spruyt. "Abbiamo finito per creare una società parallela. I musulmani sono maggioranza in molti quartieri e chiedono la sharia. Non è più Olanda. Il nostro uso della libertà ha finito per ripercuotersi contro di noi, è un processo di autoislamizzazione".

Spruyt era grande amico di Fortuyn. "Pim disse ciò che la gente sapeva da decenni. Attaccò l'establishment e i giornalisti. Ci fu un grande sollievo popolare quando scese in politica, lo chiamavano il ‘cavaliere bianco'. L'ultima volta che parlai con lui, una settimana prima che fosse ucciso, mi disse di avere una missione. La sua uccisione non fu il gesto di un folle solitario. Nel febbraio 2001 Pim annunciò che avrebbe voluto cambiare il primo articolo della costituzione olandese sulla discriminazione perché a suo dire, e aveva ragione, uccide la libertà di espressione. Il giorno dopo nelle chiese olandesi, perlopiù vuote e usate per incontri pubblici, venne letto il diario di Anna Frank come monito contro Fortuyn. Pim era veramente cattolico, più di quanto noi pensiamo, nei suoi libri parlava contro l'attuale società senza padre, senza valori, vuota, nichilista".

Chris Ripke è un'artista noto in città. Il suo studio è vicino a una moschea in Insuindestraat. Scioccato nel 2004 dall'omicidio del regista Theo Van Gogh per mano di un islamista olandese, Chris decise di dipingere un angelo sul muro del suo studio e il comandamento biblico "Gij zult niet doden", non uccidere. I vicini nella moschea trovarono il testo "offensivo" e chiamarono l'allora sindaco di Rotterdam, il liberale Ivo Opstelten. Il sindaco ordinò alla polizia di cancellare il dipinto perché "razzista". Wim Nottroth, un giornalista televisivo, si piazzò di fronte in segno di protesta. La polizia lo arrestò e il filmato venne distrutto. Ephimenco fece lo stesso nella sua finestra: "Ci misi un grande telo bianco con il comandamento biblico. Vennero i fotografi e la radio. Se non si può più scrivere ‘non uccidere' in questo paese, allora vuol dire che siamo tutti in prigione. È come l'apartheid, i bianchi vivono con i bianchi e i neri con i neri. C'è un grande freddo. L'islamismo vuole cambiare la struttura del paese". Per Ephimenco parte del problema è la decristianizzazione della società. "Quando arrivai qui, negli anni Sessanta, la religione stava morendo, un fatto unico in Europa, una collettiva decristianizzazione. Poi i musulmani hanno riportato la religione al centro della vita sociale. Aiutati dall'élite anticristiana".

Usciamo per un giro fra i quartieri islamizzati. A Oude Westen si vedono soltanto arabi, donne velate da capo a piedi, negozi di alimentari etnici, ristoranti islamici e shopping center di musica araba. "Dieci anni fa non c'erano tutti questi veli", dice Ephimenco. Dietro casa sua, una verdeggiante zona borghese con case a due piani, c'è un quartiere islamizzato. Ovunque insegne musulmane. "Guarda quante bandiere turche, lì c'è una chiesa importante, ma è vuota, non ci va più nessuno". Al centro di una piazza sorge una moschea con scritte in arabo. "Era una chiesa prima". Non lontano da qui c'è il più bel monumento di Rotterdam. È una piccola statua in granito di Pim Fortuyn. Sotto la testa lucente in bronzo, la bocca che accenna l'ultimo discorso a favore della libertà di parola, c'è scritto in latino: "Loquendi libertatem custodiamus", custodiamo la libertà di parlare. Ogni giorno qualcuno depone dei fiori.

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Il quotidiano che ha pubblicato l'inchiesta:

> Il Foglio

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Oltre 13.500 persone hanno aderito all'iniziativa - La campagna negli Stati Uniti contro la ricerca sulle staminali – L’Osservatore Romano, 19 maggio 2009
Washington, 18. Mentre i National Institutes of Health (Nih) degli Stati Uniti continuano a raccogliere osservazioni sul progetto che permetterebbe finanziamenti federali per la ricerca sulle cellule staminali embrionali, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti (Usccb) ha lanciato una nuova campagna per gli utenti a contattare via internet il congresso Usa e il Nih per esprimere il proprio disappunto sulle linee guida del progetto. Il termine ultimo per eventuali osservazioni sul progetto, che permetterà l'utilizzo di fondi federali per la ricerca sulle cellule staminali su embrioni creati a fini riproduttivi con fecondazioni in vitro e successivamente scartati, è fissato per il prossimo 26 maggio. Donald M. Raibovsky, portavoce dei National Institutes of Health, ha reso noto alla stampa che fino alla settimana scorsa erano giunte oltre tredicimilacinquecento osservazioni in merito alla nuova disciplina sulle cellule staminali. La home page della Conferenza episcopale degli Stati Uniti spiega perché le linee guida sono considerate inaccettabili e fornisce link utili in inglese e in spagnolo sulla ricerca sulle cellule staminali. Il cardinale Justin Francis Rigali, arcivescovo di Philadelphia e presidente della commissione Pro-Vita della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, ha dichiarato che i vescovi americani scriveranno al congresso e all'amministrazione guidata dal presidente Barack Obama sulla necessità di ripristinare le norme orientate a evitare gli abusi e i maltrattamenti della vita umana in nome della scienza. Nello stesso sito web si afferma che secondo le nuove linee guida, dopo che il presidente Barack Obama ha ribaltato la decisione del governo Bush sul divieto di ricerca sulle cellule staminali, per la prima volta le tasse dei contribuenti verranno utilizzate per uccidere essere umani in stato embrionale per ricavarne cellule staminali. "Questo - spiega il sito web - segna un nuovo capitolo di divisione fra la ricerca biomedica e il suo necessario fondamento etico, cioè il rispetto della vita umana in tutte le sue fasi. Anche se un embrione rischia di essere abbandonato dai genitori in una clinica per la fertilità questo non autorizza il Governo e i ricercatori a uccidere l'essere umano, tanto meno ha il diritto di costringerci a finanziare questo progetto distruttivo". La campagna di sensibilizzazione inoltre sottolinea i progressi compiuti dai ricercatori sulle cellule staminali che non comporta l'uso di embrioni. Alle cellule staminali embrionali - hanno concluso i vescovi americani - è stata data molta importanza, ma in realtà sono le cellule adulte che hanno un ruolo più importante ai fini della ricerca". Intanto, secondo l'arcivescovo di Denver, monsignor Charles Joseph Chaput, le convinzioni religiose devono svolgere un ruolo determinante nel dibattito pubblico e ha ribadito che gli Stati Uniti devono rimanere fedeli ai princìpi fondatori. L'arcivescovo di Denver sostiene che "la vita pubblica americana non può funzionare se conserviamo nell'armadio il nostro credo religioso. L'America non ha bisogno necessariamente di essere un Paese cristiano, ma non può sopravvivere se non è predisposta all'accoglienza, alla solidarietà e alla fede". Infine, monsignor Chaput ha esternato la sua perplessità sul discorso inaugurale alla Casa Bianca fatto dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nel giorno del suo insediamento, circa il ruolo della scienza nella società. "La scienza - ha concluso l'arcivescovo di Denver - deve essere al servizio della dignità umana, ma non potrà mai stare al di sopra o fuori del giudizio morale di Dio. Ebrei, protestanti, cattolici e altri credi religiosi hanno una cosa preziosa da tutelare: la fede in Dio e dobbiamo difenderla con il rispetto reciproco e senza alibi o scuse o conflitti".
(©L'Osservatore Romano - 18-19 maggio 2009)


LIBRO BIANCO/ Vittadini: il welfare delle opportunità - Giorgio Vittadini - martedì 19 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Per capire la portata delle indicazioni contenute nel Libro Bianco sul futuro del modello sociale (“La vita buona della società attiva”), approvato dal consiglio dei Ministri lo scorso 6 maggio, occorre tornare a ciò che suggeriva quattro secoli fa Althusio (Politica, 1603): “Le famiglie, le città e le provincie sono esistite prima degli Stati, i quali da esse sono derivati. La proprietà del regno appartiene al popolo, mentre al re spetta l’amministrazione di esso”.
Ancora oggi l’Italia è disseminata di realtà “di popolo”, come fondazioni, opere di carità, case di cura e assistenza, capaci di rispondere “dal basso” ai bisogni della gente, molto spesso di gran lunga preesistenti al costituirsi dello Stato. Purtroppo uno statalismo duro a morire continua a ritenere che l’unico modo per attuare uguaglianza di opportunità e promozione delle fasce deboli sia una forma di welfare state assistenzialistico. E molti pensano che l’unica forma alternativa sia un mercato libero e senza regole esteso al mondo del welfare.
In questo senso il Libro Bianco mette in guardia dal rischio di vedere solo due alternative e antitetiche visioni: o ridurre l’intervento pubblico dello Stato, creando in questo modo nuove aree di povertà; o cercare di mantenere comunque in vita il tradizionale modello di welfare state, chiudendo gli occhi di fronte alla sua inefficacia e insostenibilità finanziaria. Il vero punto di snodo sta, invece, nell’idea antica eppure così moderna, che riconosce come primo fattore di costruzione sociale la responsabilità umana, coinvolta in un ambiente. Si tratta di una prospettiva che parte da un punto di vista positivo e non negativo, non definito innanzitutto dal sospetto circa l’egoismo umano, ma piuttosto dalla valorizzazione della sua natura più profonda, che è tensione costruttiva.
Nella prefazione del Libro Bianco, il ministro Sacconi parla di “un Welfare delle opportunità e delle responsabilità, che si rivolge alla persona nella sua integralità […]. Un Welfare che […] sa stimolare comportamenti e stili di vita responsabili e, per questo, utili a sé e agli altri. Un modello sociale così definito si realizza non solo attraverso le funzioni pubbliche, ma anche riconoscendo, in sussidiarietà, il valore della famiglia, della impresa profittevole e non, come di tutti i corpi intermedi che concorrono a fare comunità”.
Contrapponendosi idealmente alla visione negativa di Hobbes, che interpretava lo Stato come luogo privilegiato della moralità (pubblica), contrapposta all’immoralità privata, la sussidiarietà suggerisce di vedere, ascoltare, valorizzare ciò che esiste originariamente e che liberamente si sviluppa come risposta “dal basso” ai bisogni dei singoli e della collettività.
Solo alcune regioni, nel nostro Paese, si sono dimostrate capaci di uscire da quella mortale antinomia, sviluppando forme sussidiarie e innovative di intervento sociale. Si pensi ai sistemi integrati pubblico-privato nella sanità, all’introduzione nel sistema dei voucher che hanno messo al centro la libertà di scelta dell’utente (in settori che vanno dall’assistenza all’istruzione), allo sviluppo di politiche fondate sulla promozione della famiglia.
Mancava e manca un intervento a livello nazionale che valorizzi queste novità, finora solo regionali, al di là del diverso colore dei governi succedutisi negli ultimi anni.
L’evoluzione necessaria del modello di welfare non può che avvenire attraverso la valorizzazione della straordinaria risorsa che è il protagonismo sociale. Per questo è importante che i principi enunciati nel Libro Bianco vengano messi in pratica.
(Pubblicato su Il Riformista del 16 Maggio 2009)


LA STORIA/ A l’Aquila un container per ufficio: così si fa impresa a un mese dal sisma - Redazione - martedì 19 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Caro direttore,
Ci siamo lasciati a due giorni di distanza dall’evento, quando ilsussidiario.net pubblicò una mia intervista. Le squadre di soccorso erano ancora alla ricerca di vite da salvare e stavano approntando i primi campi per sfollati, mentre noi cittadini facevamo ancora un frenetico giro di contatti alla ricerca di notizie su parenti e amici. Sono tanti e forti i ricordi di quei momenti, la confusione, la solidarietà, i continui shock per le notizie negative ed il contrasto con quelle positive di cui non riuscire a gioire.
È un’esperienza dura, una di quelle che non auguri a nessuno ma che capisci essere enorme. Se non comportasse lutti, direi, con un po’ di cinismo, che ci vorrebbe una volta nella vita di ognuno di noi. Gli insegnamenti da trarre sono molti, i primi indubbiamente relativi all’umanità che ci circonda. Siamo infatti abituati ad un mondo in cui ci si esprime in una maniera mediata da interessi, ipocrisia o semplicemente educazione ma quando le barriere cadono, come in questa occasione, ti ritrovi di fronte alla vera natura delle persone, quella di chi mette a disposizione degli altri i suoi beni e le sue energie con trasparenza e comunione e quella di chi continua ad approfittare e prevaricare. Siamo tutti imprenditori di qualcosa, io lo sono per la famiglia e per l’azienda, ed il nostro primo dovere è guardare avanti, impostare la ripartenza immediata, trasmettere ottimismo concreto.
Nei primi tre giorni abbiamo incontrato tutti i collaboratori, primo vero asset di una azienda di consulenze quale la nostra, per capire quale fosse la situazione di ognuno. Poi abbiamo inviato un primo comunicato a tutti i clienti e fornitori, per far avere informazioni sul nostro stato di salute e dar le prime istruzioni operative. E infine, appena i vigili del fuoco ce lo hanno permesso, abbiamo fatto il punto sui danni riportati dalle strutture e dagli strumenti di lavoro.
Fin dalla prima riunione abbiamo condiviso la sfida di non far pesare sui clienti la nostra situazione. Abbiamo immediatamente ripristinato le principali funzionalità di assistenza telematica, realizzando una rete di pc in un garage “agibile” di una abitazione privata e avendo come sala server il baule di un fuoristrada, come linee internet una “Alice” domestica e come centralino telefonico un mix di cellulari, voip e skype. Nel giro poi di un’altra settimana ci siamo spostati in un container, anch’esso provvisorio, ed abbiamo ripristinato tutte le tipologie di servizi ai clienti per i quali la differenza rispetto a prima è ormai impercettibile. Ovviamente abbiamo dovuto chiedere loro di rimodulare tutti gli impegni presi, spostandoli avanti nel tempo, concordando di nuovo metodi e priorità ma siamo riusciti a farlo senza creare disservizi non gestiti. E le posso dire francamente che ne siamo orgogliosi.
Tutto ciò è stato gestito in momenti complicati, contando solo sulle forze nostre, sulla rete di amici e parenti, dei volontari del posto e di fuori. Era giusto così, c’era l’emergenza umanitaria, non si poteva chiedere altro.
Ora siamo nella fase che più mi fa paura, quella in cui contano l’organizzazione, il sistema amministrativo, la pianificazione, la “vision” di una collettività che dovrebbe essere raccolta e rappresentata dalle istituzioni, ma che a distanza di 45 giorni dall’evento è ancora scadente.
Sento ancora forte la confusione e la mancanza di direttive certe che lamentavo nei primi giorni, che porta ancora i cittadini ad essere rimbalzati tra Com, Vigili del fuoco, Caritas, protezione civile, gruppi vari di volontariato a fare e rifare domande, compilare schede, lasciare dati che troppo spesso vengono persi. Beninteso, ogni gruppo è ben organizzato nei suoi ambiti e sa dare risposte per le cose di cui si occupa, nulla da ridire su professionalità ed impegno a riguardo. Ma quando la richiesta riguarda competenze trasversali, e questo sia per privati che imprese, ci si impantana nell’assenza di coordinamento di cui sopra.
Noi per il momento stiamo giocoforza sperimentando il vero ufficio “delocalizzato”, con alcuni nostri collaboratori distaccati in sedi di fortuna nelle città in cui si sono trasferiti con le loro famiglie e stiamo cercando di formare “consorzi” di imprese locali, con l’obiettivo di mettere a fattor comune esperienze diverse per ottenere commesse che altrimenti sarebbero irraggiungibili. Continuiamo certamente ad investire tutto quanto nelle nostre possibilità, lo dobbiamo ai nostri collaboratori ed alla nostra città ma certo c’è bisogno di una forma di aiuto temporaneo, un contributo che non sia regalia né falsare le regole di concorrenza, da restituire in tempi congrui. Se così non sarà, credo che molte Pmi della zona non ne verranno fuori.
Marco Salomone


CRISTIANESIMO/ Dai nazisti ai comunisti: Josef Beran, il cardinale testimone della libertà - Angelo Bonaguro - martedì 19 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Verso la fine di maggio del 1945 un'auto si fermò ai cancelli del seminario di Praga, attirando la curiosità degli studenti che passeggiavano nel parco. Ne scese un ometto che indossava l'uniforme delle SS - quelle che gli americani distribuivano ai prigionieri del lager nazista di Dachau appena liberati, - ma con il tricolore cecoslovacco appuntato sul petto. L'ometto era Josef Beran (1888-1969), già rettore del seminario e, di lì a poco, nuovo arcivescovo di Praga e protagonista della resistenza della Chiesa contro la persecuzione antireligiosa.
Dopo il colpo di Stato del febbraio ’48, il governo comunista guidato da Gottwald fece di tutto per creare divisioni all'interno della Chiesa cecoslovacca, per separarla dal papa e dalla società: «Dobbiamo isolare la gerarchia ecclesiastica - disse Gottwald - e preparare così il terreno per poterle infliggere il colpo mortale. La nostra tattica non prevede di arrestare né i vescovi né i singoli religiosi: faremo saltare le loro giunture [...]. Servirà una campagna condotta tramite i media [...]. Bisogna usare la calma, essere prudenti, evitare diffamazioni».
Beran non era un tipo malleabile, e se inizialmente parve ricercare un compromesso col regime in modo da contribuire alla ricostruzione pacifica del Paese, presto cominciò ad alzare ripetutamente la voce in difesa della libertà religiosa.
L'escalation antireligiosa culminò nel giugno 1949, quando il regime fondò un’Azione Cattolica “statale” formata da preti e laici “progressisti”, debitamente scomunicata dal Vaticano e condannata dai vescovi locali, i quali risposero con la lettera pastorale “Nell'ora della grande prova”, da leggersi in tutte le chiese in occasione del Corpus Domini nonostante il divieto statale. Nella lettera si difendevano l'autorità del papa, il diritto dei genitori all'educazione dei figli, la libertà d'azione della Chiesa nell'ambito educativo e culturale, e l'importanza del sostegno finanziario statale alle opere pie che svolgevano attività sociale e caritativa. Giunse il fatidico 19 giugno. A Praga la polizia bloccò l'accesso della cattedrale di San Vito, dove avrebbe celebrato Beran, e la riempì di provocatori in borghese che disturbarono la messa cercando persino di intonare l'Internazionale. Beran fu scortato nel palazzo arcivescovile e cominciò per lui un internamento coatto, lì e in altre località di provincia, durato fino al 1965. Cancellato dalla storia, separato dal suo popolo, assistito da poche suore e sorvegliato dalla polizia, Beran rimase fedele al suo motto episcopale, “Eucaristia e lavoro”: adorazione quotidiana, studio dei santi patroni cechi e taglio della legna per l’inverno. Un poliziotto si convertì osservando come viveva le sue giornate.
Nel 1962 fu “pensionato” ma rimase una spina nel fianco per il regime, che in quegli anni preferiva assecondare la linea morbida dell’Ostpolitik vaticana, finché nel febbraio ’65 al Comitato centrale del Partito, a Praga, qualcuno disse: «Che se lo prendano pure, qui da noi è pericoloso». Due settimane dopo iniziò il suo esilio a Roma, frutto di compromesso, e da allora operò incessantemente per il bene della sua patria, condannando senza mezzi termini la mancanza di libertà religiosa nel blocco comunista: se la persecuzione nazista era stata più brutale – osservò – quella comunista era solo più raffinata, e perciò più pericolosa. Al Concilio Vaticano II intervenne sulla libertà religiosa, auspicando la riabilitazione di Jan Hus. Creato cardinale da Paolo VI, morì il 17 maggio 1969.
Da un’informativa della polizia politica, desecretata ed esposta nella mostra allestita in questi giorni presso la Facoltà teologica di Praga, emergono le preoccupazioni del regime che non volle ospitare la salma di Beran in patria perché temeva che questo gesto di pietà si potesse trasformare in una manifestazione antigovernativa: la ferita del sacrificio di Palach, consumatosi pochi mesi prima, era ancora aperta. Paolo VI dispose allora che Beran riposasse - privilegio eccezionale - nelle grotte vaticane, fra i papi.
Nel 1998 è stato aperto il processo di beatificazione.
Nell’introduzione alla biografia di Beran uscita recentemente in Repubblica ceca, il suo ex-segretario a Roma, monsignor Skarvada, scrive: «Gli tolsero la libertà e la patria, ma il Tabernacolo rimase per lui fonte di conforto e di gioia… Sapeva che la preghiera, che nessuno avrebbe potuto togliergli, è più forte della malvagità della polizia politica e del regime comunista». Il cardinal Vlk, attuale arcivescovo di Praga, l’ha definito «simbolo della resistenza contro tutti i totalitarismi a cui non bisogna cedere mercanteggiando la verità o scendendo a compromessi».
Il prossimo novembre, mese in cui culminerà il ventesimo anniversario della “rivoluzione di velluto”, verrà inaugurato a Praga un monumento a Beran, e presso il monastero di Strahov è prevista una grande mostra sulla Chiesa perseguitata.


OBAMA E LA REALTÀ DEI FATTI - DAVVERO L’ABORTO DECISIONE CHE SPEZZA IL CUORE? - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 19 maggio 2009
« F orse non saremo d’accordo sull’a­borto, ma possiamo esserlo sul fatto che è una decisione che spezza il cuore a ogni donna, sia per la sua di­mensione morale, che per la sua dimen­sione spirituale»: così Barack Obama nel discorso che ha pronunciato nell’Uni­versità di Notre Dame (Indiana) in occa­sione del conferimento di una laurea ho­noris causa in diritto. Ma è vero che l’aborto è decisione che spezza il cuore 'a ogni donna'? No, non è vero, o almeno non lo è del tutto. Lo è solo per alcune donne, che meritano tut­ta la nostra compassione e al limite la no­stra comprensione. Ma temo non lo sia per coloro che ricorrono all’aborto pre­coce, usandolo di fatto come mezzo per la limitazione delle nascite, o che maga­ri trovano più comodo usare la pillola del giorno dopo anziché sottoporre la loro vita sessuale a forme sia pur elementari di controllo: per queste donne l’aborto può anche essere un problema, ma cer­tamente non di quelli che 'spezzano il cuore'.
Dobbiamo essere intellettualmente one­sti: anche se non tutte concorderebbero con la Shulamite Firestone e con la sua pretesa che abortire sia qualcosa di es­senzialmente simile a «to shit a pumpkin», cioè a 'espellere una zucca' (la traduzione è volutamente edulcora­ta), la maggior parte delle donne favore­voli all’aborto è certamente convinta che abortire, essendo un diritto insindacabi­le delle donne, per ciò stesso non crei al­cun problema morale. Dà da pensare il fatto che i filo-abortisti di questo non vo­gliano rendersi conto e come continuino, per giustificare la legalizzazione dell’a­borto, ad usare argomenti patetici, come appunto quelli cui è ricorso Obama, ar­gomenti che, ripeto, se hanno oggi un fondamento, l’hanno solo in alcuni casi. Ciò che separa abortisti e antiabortisti, prima ancora che la valutazione 'mora­le' dell’aborto, è il giudizio 'storico' che si deve dare, oggi, sull’interruzione vo­lontaria di gravidanza come pratica so­ciale. Contrariamente a come vengono spesso dipinti, gli antiabortisti non sono coloro che vogliono mandare a tutti i co­sti in galera le donne che abbiano abor­tito o in tribunale i medici che le abbia­no aiutate a farlo; sono piuttosto coloro che sono convinti che sia indispensabile non solo per ragioni morali, ma anche per ragioni sociali che la vita umana, an­che e soprattutto la vita prenatale, venga riconosciuta nel suo valore intrinseco e di conseguenza rispettata e tutelata.
Gli abortisti, che giustamente ci esorta­no a non chiudere gli occhi davanti alle tante situazioni drammatiche che pos­sono indurre le donne a interrompere la gravidanza, non si rendono conto che, difendendo in modo generico e apriori­stico l’aborto come 'diritto', sono dive­nuti incapaci di percepire che quello del­la tutela della vita è diventato nella mo­dernità un problema antropologico ter­ribilmente inquietante, anzi forse il più inquietante, proprio perché oramai pres­soché non percepito come tale.
Torniamo al discorso di Obama: «Lavo­riamo insieme – ha detto – per ridurre il numero di donne che abortiscono, ren­dendo più facili le adozioni e dando aiu­to alle donne che vogliono tenere il pro­prio figlio». Come non essere assoluta­mente d’accordo? Su questo programma dobbiamo impegnarci tutti. Ma perché l’impegno in tal senso sia autentico e non verbale, è indispensabile che tutti, abor­tisti e antiabortisti, riconoscano che la le­galizzazione dell’aborto ha fortemente attenuato, soprattutto nei Paesi avanza­ti, il rispetto della vita umana prenatale. Solo se si parte da questa consapevolez­za, è possibile rendere credibile qualsia­si programma volto a ridurre il numero delle donne che abortiscono. Prima di es­sere un problema giuridico (si può esse­re d’accordo o no con la depenalizzazio­ne dell’aborto volontario), quello dell’a­borto è un problema antropologico: ciò su cui dovremmo davvero essere tutti d’accordo è che abortire significa ucci­dere una vita umana.


POLITICA E VALORI - Le parole del presidente della Camera suscitano un’ondata di repliche nel mondo politico «La Chiesa – osserva il vescovo Sgreccia – non impone, ma non tacerà mai sui diritti umani» Bioetica, Fini fraintende «No a leggi orientate da precetti religiosi» - Casini: in Italia mai varate norme di quel tipo Roccella: sono stati i giudici a farsi authority etica - DA ROMA GIANNI SANTAMARIA – Avvenire, 19 maggio 2009
Gianfranco Fini ancora al­l’attacco sulla laicità. Un duello a distanza tra pre­sidente della Camera, per il qua­le in tema di bioetica «il Parla­mento deve fare leggi non o­rientate da precetti religiosi», ed esponenti di maggioranza e op­posizione, che coinvolge anche esponenti della Chiesa cattoli­ca e di altre religioni. Mentre il segretario del Pd Dario France­schini non entra direttamente nell’agone, ma fa sapere di non sopportare «coloro che su alcu­ni temi gridano all’interferenza della Chiesa e il giorno dopo ap­plaudono quando la Chiesa prende posizione, come per e­sempio sull’immigrazione».
L’affondo di Fini parte da Mo­nopoli (Bari), dove la terza cari­ca dello Stato incontra degli stu­denti in un tour sulla Costitu­zione che tocca anche Matera. Il numero uno di Montecitorio di­ce la sua su immigrazione, fe­deralismo, riforme. E ci infila pure una considerazione pe­sante sul dibattito bioetico, ap­punto, che è « complesso » e va «affrontato senza gli eccessi pro­pagandistici che ci sono stati da entrambe le parti», perché «so­no questioni nelle quali il dub­bio prevale sulle certezze». Im­mediata la replica del suo pre­decessore sullo scranno più al­to della Camera, il leader del­l’Udc Pier Ferdinando Casini. «Il Parlamento italiano non ha mai fatto leggi tenendo conto dei precetti religiosi» e Fini «ha det­to una cosa ovvia » . Nel Parla­mento, però, sottolinea ancora Casini, « per fortuna c’è ancora qualcuno che fa battaglie su va­lori e principi che ormai non hanno diritto di cittadinanza in politica » . Gaetano Quagliariel­lo, vicepresidente dei senatori Pdl, per il quale le parole di Fi­ni «possono indurre a equivoci se riferite alla realtà dei fatti » , distingue tra Stato etico, «in cui si pretende di governare per leg­ge ogni aspetto della libertà del­la persona» e stato teocratico «in cui la legge è subordinata ai pre­cetti religiosi » . Ma « è evidente che paventare un pericolo del genere in Italia esporrebbe al ri­dicolo chiunque lo facesse».
La Chiesa non ha mai pensato di imporre al Parlamento italiano « precetti religiosi » , è il com­mento del presidente emerito della Pontificia Accademia per la vita, monsignor Elio Sgreccia. Ma essa, prosegue, «non tacerà sui temi di bioetica, che riguar­dano i diritti umani, i dettami costituzionali, la stessa raziona­lità umana e il bene comune». Il fatto che tali argomenti «venga­no portati avanti dal clero o da organismi cattolici non deve consentire a nessuno di consi­derarli come prodotto di una ra­zionalità minore » , conclude il vescovo. Per Mario Scialoja, e­sponente della Lega musulma­na mondiale, il Parlamento è sì libero di legiferare, ma « alcuni precetti fondamentali, come la sacralità della vita, devono es­sere tenuti in considerazione anche da uno Stato laico».
Tra lo stupito e l’indignato gli al­tri commenti politici. A partire da due vicepresidenti dell’assi­se guidata da Fini: Rocco Butti­glione e Maurizio Lupi. Per il pri­mo «non si può chiedere al par­lamentare credente di mettere da parte la fede». Il secondo rin­faccia a Fini di porsi «su un pia­no di scontro ideologico molto lontano dalla laicità positiva da lui stesso evocata » . Più duro l’udc Luca Volontè che definisce le parole dell’ex leader di An «il peggiore attacco laicista della storia repubblicana» e una «ver­gognosa e inaccettabile discri­minazione dei credenti».
La presa di posizione di Fini, che da tempo si sta smarcando dal­la sua area sui temi eticamente sensibili, suona invece musica alle orecchie di chi osteggia provvedimenti in questo cam­po. Come il didl Calabrò sul fi­ne vita. Per non parlare della leg­ge 40. Ad esse si appiglia Massi­mo Donadi, capogruppo del­­l’Idv, per attaccare il centrode­stra, che ha « combattuto una battaglia ideologica quanto ir­razionale » . « Non c’è nessuna legge ispirata da preconcetti re­ligiosi – interviene il sottosegre­tario al Welfare Eugenia Roccel­la –. Semmai in qualche caso è la magistratura a essersi com­portata come un’authority eti­ca ».