Nella rassegna stampa di oggi:
1) 24/05/2009 12.22.35 – Radio Vaticana – Al Regina Caeli il saluto di Benedetto XVI ai cattolici in Cina: rinnovate la comunione di fede in Cristo e di fedeltà al Successore di Pietro
2) 24/05/2009 11.26.14 – Radio Vaticana – Il Papa a Cassino: cultura europea è ricerca di Dio e attenzione ai più deboli
3) La testimonianza in un mondo multiculturale e multireligioso - Il veicolo più efficace per la verità - Martedì scorso è stato presentato alla Pontificia Università Urbaniana il libro All'origine della diversità, con prefazione del patriarca di Venezia (Milano, Guerini e Associati, 2009, pagine 238, euro 15). Pubblichiamo uno stralcio del contributo del curatore. - di Javier Prades
4) Cosa spera l'uomo di oggi? - I cattolici pessimisti sono una bestemmia vivente - Un anno fa, il 22 maggio 2008, moriva Paolo Giuntella. Giornalista e scrittore, era nato nel 1946 e, dopo avere lavorato per alcuni quotidiani ("Il Popolo", "Avvenire", "Il Mattino"), dal 1999 seguiva per il Tg1 della Rai l'attività del presidente della Repubblica. Poco prima di morire era stato pubblicato il suo ultimo libro (L'aratro, l'ipod, e le stelle. Diario di viaggio di un laico cristiano, Milano, Paoline, 2008, pagine 175, euro 12), e ora è appena uscita, a cura di Laura Rozza Giuntella, la nuova edizione di un volumetto scritto con il padre, lo storico Vittorio Emanuele Giuntella (1913-1996), con l'aggiunta di una lunga appendice (Il gomitolo dell'alleluja. Di padre in figlio il filo della fede, Roma, Ave, 2009, pagine 151, euro 9). Per ricordare lo scrittore pubblichiamo un suo testo inedito. - di Paolo Giuntella – L’Osservatore Romano, 23 maggio 2009
5) ETICA E SOCIETÀ - «Alto valore formativo e informativo». Così l’arcivescovo di Bologna ha presentato il «manifesto» lanciato da Scienza & vita, Forum delle associazioni familiari e Retinopera - «Liberi per vivere» Una sfida di verità - DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 23 maggio 2009
6) Dal caso Englaro alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (I) - ).- La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero ed abbiamo chiesto al prof. Lucio Romano di rispondere. - Il prof. Romano è dirigente ginecologo nel Dipartimento di Scienze Ostetrico Ginecologiche, Urologiche e Medicina della Riproduzione dell’Università di Napoli “Federico II”, e docente di Ostetricia al Corso di Laurea Specialistica in Scienze Ostetriche. E' inoltre docente di Bioetica ai corsi di laurea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presso l’A.O. S. Carlo di Potenza; e alla Facoltà di Bioetica e al Master in Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. E' Vicepresidente del Movimento per la Vita Italiano e componente del Consiglio Esecutivo nazionale dell’Associazione “Scienza & Vita”. Fa inoltre parte del Comitato Scientifico della rivista “I Quaderni di Scienza & Vita” ed è autore insieme a Maria Luisa Di Pietro, Maurizio P. Faggioni e Marina Casini del volume “Dall'aborto chimico alla contraccezione d'emergenza” (Edizioni ART, Roma 2008).
7) Libertà religiosa minacciata - Venezuela si aggiunge all’ultimo rapporto della Commissione USA - di padre John Flynn, LC
8) La mistica di Edith Stein - L'irruzione della Verità nella notte di Bad Bergzabern - Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni tenute all'università di Enna nell'ambito di un convegno intitolato "Edith Stein: esistenza, verità e bellezza". - di Cristiana Dobner – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
9) Nel santo patrono d'Europa le radici del pontificato di Benedetto XVI - L'inscindibile legame tra obbedienza e libertà - di Mariano Dell'Omo Benedettino Vicearchivista dell'abbazia di Montecassino – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
10) Il Patriarca Twal e l'arcivescovo Franco sull'esito del pellegrinaggio di Benedetto XVI - Il Papa in Terra Santa e i frutti da raccogliere – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
11) I limiti inderogabili del dialogo sui temi etici con la Casa Bianca e con il Congresso - I vescovi degli Stati Uniti su ricerca e obiezione di coscienza - di Marco Bellizi – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
12) A colloquio con dom Pietro Vittorelli, abate di Montecassino - Il Papa nel cuore dell'Europa cristiana - di Nicola Gori – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
13) DOMENICHE DI PRIME COMUNIONI - L’EVENTO ZITTITO MUOVE IL CUORE DI MOLTI - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 24 maggio 2009
14) CHIESA E SOCIETÀ - Cottolengo Altro che 'mostri deformi' tenuti in vita ad oltranza - DAL NOSTRO INVIATO A TORINO - MARINA CORRADI – Avvenire, 24 maggio 2009
15) Se dalla sofferenza di Dio nasce la Speranza JÜRGEN MOLTMANN - Con Gesù dalla storia della morte alla storia della vita eterna - di Jürgen Moltmann – Avvenire, 24 maggio 2009
16) Galileo - Occasione fallita o proficua lezione? - di Jean-Robert Armogathe* - Avvenire, 24 maggio 2009
24/05/2009 12.22.35 – Radio Vaticana – Al Regina Caeli il saluto di Benedetto XVI ai cattolici in Cina: rinnovate la comunione di fede in Cristo e di fedeltà al Successore di Pietro
Al termine della Messa la recita del Regina Caeli. Queste le parole del Papa:
Cari fratelli e sorelle!
Ogni volta che celebriamo la Santa Messa, sentiamo echeggiare nel cuore le parole che Gesù affidò ai discepoli nell’Ultima Cena come un dono prezioso: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Gv 14,27). Quanto bisogno ha la comunità cristiana e l’intera umanità di assaporare appieno la ricchezza e la potenza della pace di Cristo! San Benedetto ne è stato grande testimone, perché l’ha accolta nella sua esistenza e l’ha fatta fruttificare in opere di autentico rinnovamento culturale e spirituale. Proprio per questo, all’ingresso dell’Abbazia di Montecassino e di ogni altro monastero benedettino, è posta come motto la parola “PAX”: la comunità monastica, infatti, è chiamata a vivere secondo questa pace, che è dono pasquale per eccellenza. Come sapete, nel mio recente viaggio in Terra Santa mi sono fatto pellegrino di pace, e oggi – in questa terra segnata dal carisma benedettino – mi è data l’occasione per sottolineare, ancora una volta, che la pace è in primo luogo dono di Dio, e dunque la sua forza sta nella preghiera.
E’ dono affidato, però, all’impegno umano. Anche l’energia necessaria per attuarlo si può attingere dalla preghiera. E’ pertanto fondamentale coltivare un’autentica vita di preghiera per assicurare il progresso sociale nella pace. Ancora una volta la storia del monachesimo ci insegna che una grande crescita di civiltà si prepara nel quotidiano ascolto della Parola di Dio, che spinge i credenti ad un sforzo personale e comunitario di lotta contro ogni forma di egoismo e di ingiustizia. Solo imparando, con la grazia di Cristo, a combattere e vincere il male dentro di sé e nelle relazioni con gli altri, si diventa autentici costruttori di pace e di progresso civile. La Vergine Maria, Regina della Pace, aiuti tutti i cristiani, nelle diverse vocazioni e situazioni di vita, ad essere testimoni della pace, che Cristo ci ha donato e ci ha lasciato come missione impegnativa da realizzare dappertutto.
Oggi, 24 maggio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria, Aiuto dei Cristiani - che è venerata con grande devozione nel santuario di Sheshan a Shanghai -, si celebra la Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina. Il mio pensiero va a tutto il Popolo cinese. In particolare saluto con grande affetto i cattolici in Cina e li esorto a rinnovare in questo giorno la loro comunione di fede in Cristo e di fedeltà al Successore di Pietro. La nostra comune preghiera ottenga un 'effusione dei doni dello Spirito Santo, affinché l'unità fra tutti i cristiani, la cattolicità e l'universalità della Chiesa siano sempre più profonde e visibili.
…
E infine saluto con grande affetto voi tutti, abitanti di Cassino e del suo territorio! Vi ringrazio per la vostra accoglienza, in particolare quanti avete in diversi modi collaborato alla preparazione della mia visita. Grazie di cuore! La Madonna vegli sempre su di voi e vi dia la forza di perseverare nel bene. Un pensiero speciale rivolgo anche ai ragazzi della Diocesi di Genova, radunati in questo momento a Roma, in Piazza San Pietro, per festeggiare la loro Cresima. In questa domenica, in cui si celebra la Giornata delle comunicazioni sociali, con fiducia filiale invochiamo Maria Ausiliatrice con la preghiera del Regina Caeli.
24/05/2009 11.26.14 – Radio Vaticana – Il Papa a Cassino: cultura europea è ricerca di Dio e attenzione ai più deboli
“Nella vostra Abbazia si tocca con mano il “quaerere Deum”, il fatto cioè che la cultura europea è stata la ricerca di Dio e la disponibilità al suo ascolto. E questo vale anche nel nostro tempo”: è quanto ha detto Benedetto XVI durante la Messa a Cassino, dove è arrivato stamani verso le 9.30. Il Pontefice ha parlato della necessità di “trasmettere ai giovani i valori irrinunciabili del nostro patrimonio umano e cristiano. Nell’odierno sforzo culturale teso a creare un nuovo umanesimo, fedeli alla tradizione benedettina – ha detto - voi intendete giustamente sottolineare anche l’attenzione all’uomo fragile, debole, alle persone disabili e agli immigrati”. Quindi ha aggiunto: “questa porzione di Chiesa che vive attorno a Montecassino, è erede e depositaria della missione, impregnata dello spirito di san Benedetto, di proclamare che nella nostra vita nessuno e nulla devono togliere a Gesù il primo posto; la missione di costruire, nel nome di Cristo, una nuova umanità all’insegna dell’accoglienza e dell’aiuto ai più deboli”. Parlando dell’odierna Solennità dell’Ascensione ha detto: “Nel Cristo asceso al cielo, l’essere umano è entrato in modo inaudito e nuovo nell'intimità di Dio; l'uomo trova ormai per sempre spazio in Dio. Il “cielo” non indica un luogo sopra le stelle, ma qualcosa di molto più ardito e sublime: indica Cristo stesso, la Persona divina che accoglie pienamente e per sempre l’umanità, Colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti. E noi ci avviciniamo al cielo, anzi, entriamo nel cielo, nella misura in cui ci avviciniamo a Gesù ed entriamo in comunione con Lui. Pertanto, 1'odierna solennità dell’Ascensione ci invita a una comunione profonda con Gesù morto e risorto, invisibilmente presente nella vita di ognuno di noi”. Ecco il testo integrale dell'omelia del Papa:
Cari fratelli e sorelle!
“Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8). Con queste parole, Gesù si congeda dagli Apostoli, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura. Subito dopo l’autore sacro aggiunge che “mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi” (At 1,9). E’ il mistero dell’Ascensione, che quest’oggi solennemente celebriamo. Ma cosa intendono comunicarci la Bibbia e la liturgia dicendo che Gesù “fu elevato in alto”? Si comprende il senso di questa espressione non a partire da un unico testo, neppure da un unico libro del Nuovo Testamento, ma nell'attento ascolto di tutta la Sacra Scrittura. L’uso del verbo “elevare” è in effetti di origine veterotestamentaria, ed è riferito all'insediamento nella regalità. L’Ascensione di Cristo significa dunque, in primo luogo, l'insediamento del Figlio dell'uomo crocifisso e risorto nella regalità di Dio sul mondo.
C’è però un senso più profondo non percepibile immediatamente. Nella pagina degli Atti degli Apostoli si dice dapprima che Gesù fu “elevato in alto” (v. 9), e dopo si aggiunge che “è stato assunto” (v. 11). L'evento è descritto non come un viaggio verso l'alto, bensì come un’azione della potenza di Dio, che introduce Gesù nello spazio della prossimità divina. La presenza della nuvola che “lo sottrasse ai loro occhi” (v. 9), richiama un'antichissima immagine della teologia veterotestamentaria, ed inserisce il racconto dell'Ascensione nella storia di Dio con Israele, dalla nube del Sinai e sopra la tenda dell'alleanza del deserto, fino alla nube luminosa sul monte della Trasfigurazione. Presentare il Signore avvolto nella nube evoca in definitiva il medesimo mistero espresso dal simbolismo del “sedere alla destra di Dio”. Nel Cristo asceso al cielo, l’essere umano è entrato in modo inaudito e nuovo nell'intimità di Dio; l'uomo trova ormai per sempre spazio in Dio. Il “cielo” non indica un luogo sopra le stelle, ma qualcosa di molto più ardito e sublime: indica Cristo stesso, la Persona divina che accoglie pienamente e per sempre l’umanità, Colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti. E noi ci avviciniamo al cielo, anzi, entriamo nel cielo, nella misura in cui ci avviciniamo a Gesù ed entriamo in comunione con Lui. Pertanto, 1'odierna solennità dell’Ascensione ci invita a una comunione profonda con Gesù morto e risorto, invisibilmente presente nella vita di ognuno di noi.
In questa prospettiva comprendiamo perché l’evangelista Luca affermi che, dopo l'Ascensione, i discepoli tornarono a Gerusalemme “pieni di gioia” (24,52). La causa della loro gioia sta nel fatto che quanto era accaduto non era stato in verità un distacco, un'assenza permanente del Signore: anzi essi avevano ormai la certezza che il Crocifisso- Risorto era vivo, ed in Lui erano state per sempre aperte all’umanità le porte della vita eterna. In altri termini, la sua Ascensione non ne comportava la temporanea assenza dal mondo, ma piuttosto inaugurava la nuova, definitiva ed insopprimibile forma della sua presenza, in virtù della sua partecipazione alla potenza regale di Dio. Toccherà proprio a loro, ai discepoli, resi arditi dalla potenza dello Spirito Santo, renderne percepibile la presenza con la testimonianza, la predicazione e l’impegno missionario. La solennità dell'Ascensione del Signore dovrebbe colmare anche noi di serenità e di entusiasmo, proprio come avvenne per gli Apostoli che dal Monte degli Ulivi ripartirono “pieni di gioia”. Come loro, anche noi, accogliendo l’invito dei “due uomini in bianche vesti”, non dobbiamo rimanere a fissare il cielo, ma, sotto la guida dello Spirito Santo, dobbiamo andare dappertutto e proclamare l’annuncio salvifico della morte e risurrezione del Cristo. Ci accompagnano e ci sono di conforto le sue stesse parole, con le quali si chiude il Vangelo secondo san Matteo: “Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19).
Cari fratelli e sorelle, il carattere storico del mistero della risurrezione e dell’ascensione del Cristo ci aiuta a riconoscere e a comprendere la condizione trascendente ed escatologica della Chiesa, la quale non è nata e non vive per supplire all’assenza del suo Signore “scomparso”, ma piuttosto trova la ragione del suo essere e della sua missione nell’invisibile presenza di Gesù operante con la potenza del suo Spirito. In altri termini, potremmo dire che la Chiesa non svolge la funzione di preparare il ritorno di un Gesù “assente”, ma, al contrario, vive ed opera per proclamarne la “presenza gloriosa” in maniera storica ed esistenziale. Dal giorno dell’Ascensione, ogni comunità cristiana avanza nel suo itinerario terreno verso il compimento delle promesse messianiche, alimentata dalla Parola di Dio e nutrita dal Corpo e Sangue del suo Signore. Questa è la condizione della Chiesa – ricorda il Concilio Vaticano II - mentre “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, annunziando la passione e morte del Signore fino a che Egli venga” (Lumen gentium, 8).
Fratelli e sorelle di questa cara Comunità diocesana, l’odierna solennità ci esorta a rinsaldare la nostra fede nella reale presenza di Gesù nella storia; senza di Lui nulla possiamo compiere di efficace nella nostra vita e nel nostro apostolato. E’ Lui, come ricorda l’apostolo Paolo nella seconda lettura, che “ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri per compiere il ministero allo scopo di edificare il corpo di Cristo” cioè la Chiesa. E ciò per giungere “all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio”, essendo la comune vocazione di tutti formare “un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza a cui siamo chiamati” (Ef 4,11-13.14). In quest’ottica si colloca l’odierna mia visita che, come ha ricordato il vostro Pastore, ha l’obbiettivo di incoraggiarvi a “costruire, fondare e riedificare” costantemente la vostra Comunità diocesana su Cristo. Come? Ce lo indica lo stesso san Benedetto, che raccomanda nella sua Regola di niente anteporre a Cristo: “Christo nihil omnino praeponere” (LXII,11).
Rendo pertanto grazie a Dio per il bene che sta realizzando la vostra Comunità sotto la guida del suo Pastore, il Padre Abate Dom Pietro Vittorelli, che saluto con affetto e ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto a nome di tutti. Con lui saluto la Comunità monastica, i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose presenti. Saluto le Autorità civili e militari, in primo luogo il Sindaco a cui sono grato per l’indirizzo di benvenuto, con cui mi ha accolto all’arrivo in questa Piazza Miranda, che da oggi porterà, anche se sono indegno, il mio nome. Saluto i catechisti, gli operatori pastorali, i giovani e quanti in vario modo si prendono cura della diffusione del Vangelo in questa terra carica di storia, che ha conosciuto durante la seconda guerra mondiale momenti di grande sofferenza. Ne sono silenziosi testimoni i tanti cimiteri che circondano la vostra risorta città, tra i quali ricordo in particolare quello polacco, quello tedesco e quello del Commonwealth. Il mio saluto si estende infine a tutti gli abitanti di Cassino e dei centri vicini: a ciascuno, specialmente agli ammalati e ai sofferenti, giunga l’assicurazione del mio affetto e della mia preghiera.
Cari fratelli e sorelle, sentiamo echeggiare in questa nostra celebrazione l’appello di san Benedetto a mantenere il cuore fisso sul Cristo, a nulla anteporre a Lui. Questo non ci distrae, al contrario ci spinge ancor più ad impegnarci nel costruire una società dove la solidarietà sia espressa da segni concreti. Ma come? La spiritualità benedettina, a voi ben nota, propone un programma evangelico sintetizzato nel motto: ora et labora et lege, la preghiera, il lavoro, la cultura. Innanzitutto la preghiera, che è la più bella eredità lasciata da san Benedetto ai monaci, ma anche alla vostra Chiesa particolare: al vostro Clero, in gran parte formato nel Seminario diocesano, per secoli ospitato nella stessa Abbazia di Montecassino, ai seminaristi, ai tanti educati nelle scuole e nei “ricreatori” benedettini e nelle vostre parrocchie, a tutti voi che vivete in questa terra. Elevando lo sguardo da ogni paese e contrada della diocesi, potete ammirare quel richiamo costante al cielo che è il monastero di Montecassino, al quale salite ogni anno in processione alla vigilia di Pentecoste. La preghiera, a cui ogni mattina la campana di san Benedetto con i suoi gravi rintocchi invita i monaci, è il sentiero silenzioso che ci conduce direttamente nel cuore di Dio; è il respiro dell’anima che ci ridona pace nelle tempeste della vita. Inoltre, alla scuola di san Benedetto, i monaci hanno sempre coltivato un amore speciale per la Parola di Dio nella lectio divina, diventata oggi patrimonio comune di molti. So che la vostra Chiesa diocesana, facendo proprie le indicazioni della Conferenza Episcopale Italiana, dedica grande cura all’approfondimento biblico, ed anzi ha inaugurato un itinerario di studio delle Sacre Scritture, consacrato quest’anno all’evangelista Marco e che proseguirà nel prossimo quadriennio per concludersi, a Dio piacendo, con un pellegrinaggio diocesano in Terra Santa. Possa l’attento ascolto della Parola divina nutrire la vostra preghiera e rendervi profeti di verità e di amore in un corale impegno di evangelizzazione e di promozione umana.
Altro cardine della spiritualità benedettina è il lavoro. Umanizzare il mondo lavorativo è tipico dell’anima del monachesimo, e questo è anche lo sforzo della vostra Comunità che cerca di stare a fianco dei numerosi lavoratori della grande industria presente a Cassino e delle imprese ad essa collegate. So quanto sia critica la situazione di tanti operai. Esprimo la mia solidarietà a quanti vivono in una precarietà preoccupante, ai lavoratori in cassa-integrazione o addirittura licenziati. La ferita della disoccupazione che affligge questo territorio induca i responsabili della cosa pubblica, gli imprenditori e quanti ne hanno la possibilità a ricercare, con il contributo di tutti, valide soluzioni alla crisi occupazionale, creando nuovi posti di lavoro a salvaguardia delle famiglie. A questo proposito, come non ricordare che la famiglia ha oggi urgente bisogno di essere meglio tutelata, poiché è fortemente insidiata nelle radici stesse della sua istituzione? Penso poi ai giovani che fanno fatica a trovare una degna attività lavorativa che permetta loro di costruirsi una famiglia. Ad essi vorrei dire: non scoraggiatevi, cari amici, la Chiesa non vi abbandona! So che ben 25 giovani della vostra Diocesi hanno partecipato alla scorsa Giornata Mondiale della Gioventù a Sydney: facendo tesoro di quella straordinaria esperienza spirituale, siate lievito evangelico tra i vostri amici e coetanei; con la forza dello Spirito Santo, siate i nuovi missionari in questa terra di san Benedetto!
Appartiene infine alla vostra tradizione anche l’attenzione al mondo della cultura e dell’educazione. Il celebre Archivio e la Biblioteca di Montecassino raccolgono innumerevoli testimonianze dell’impegno di uomini e donne che hanno meditato e ricercato come migliorare la vita spirituale e materiale dell’uomo. Nella vostra Abbazia si tocca con mano il “quaerere Deum”, il fatto cioè che la cultura europea è stata la ricerca di Dio e la disponibilità al suo ascolto. E questo vale anche nel nostro tempo. So che voi state operando con questo stesso spirito nell’Università e nelle scuole, perché diventino laboratori di conoscenza, di ricerca, di passione per il futuro delle nuove generazioni. So pure che, in preparazione a questa mia visita, avete tenuto un recente convegno sul tema dell’educazione per sollecitare in tutti la viva determinazione a trasmettere ai giovani i valori irrinunciabili del nostro patrimonio umano e cristiano. Nell’odierno sforzo culturale teso a creare un nuovo umanesimo, fedeli alla tradizione benedettina voi intendete giustamente sottolineare anche l’attenzione all’uomo fragile, debole, alle persone disabili e agli immigrati. E vi sono grato che mi diate la possibilità di inaugurare quest’oggi la “Casa della Carità”, dove si costruisce con i fatti una cultura attenta alla vita.
Cari fratelli e sorelle! Non è difficile percepire che la vostra Comunità, questa porzione di Chiesa che vive attorno a Montecassino, è erede e depositaria della missione, impregnata dello spirito di san Benedetto, di proclamare che nella nostra vita nessuno e nulla devono togliere a Gesù il primo posto; la missione di costruire, nel nome di Cristo, una nuova umanità all’insegna dell’accoglienza e dell’aiuto ai più deboli. Vi aiuti e vi accompagni il vostro santo Patriarca, con santa Scolastica sua sorella; vi proteggano i santi Patroni e soprattutto Maria, Madre della Chiesa e Stella della nostra speranza. Amen!
La testimonianza in un mondo multiculturale e multireligioso - Il veicolo più efficace per la verità - Martedì scorso è stato presentato alla Pontificia Università Urbaniana il libro All'origine della diversità, con prefazione del patriarca di Venezia (Milano, Guerini e Associati, 2009, pagine 238, euro 15). Pubblichiamo uno stralcio del contributo del curatore. - di Javier Prades
Secondo la rivelazione cristiana, "ogni singolo uomo può aderire al fondamento originario e trascendente solo nell'atto della libera decisione in favore di quell'evento che realizza l'evidenza di tale fondamento. Questo evento è Gesù Cristo". Egli, nella sua singolarità di Figlio di Dio incarnato, pretende di realizzare la pienezza universale della rivelazione di Dio, vale a dire, pretende di rimandare al fondamento originario. Così attua storicamente il senso ultimo del mondo e dell'uomo donandosi alla concreta libertà storica del singolo uomo. La categoria che esprime bene l'incontro dell'uomo con la realtà è quella della testimonianza, intesa come la risposta al fondamento da parte della libertà finitale. L'importanza di questa categoria è stata ricuperata nella teologia postconciliare: "La fede nella rivelazione storicamente avvenuta viene comunicata per mezzo della testimonianza. Stando così le cose, la testimonianza è uno dei concetti centrali della teologia cristiana". Infatti, sia nel caso singolare della libertà di Gesù che risponde al Padre, essendo il Figlio di Dio, sia nel caso dei cristiani che vivono la Parola, il sacramento, la comunione e l'autorità, mediante il dono dello Spirito Santo, ci troviamo davanti alla struttura testimoniale della rivelazione e della fede, e della sua trasmissione. Solo quando la testimonianza viene collocata in questo incrocio filosofico-teologico risulta determinante per dire la novità irriducibile del fatto cristiano e per indicare la modalità specifica di dialogo con le religioni e con le culture, liberandosi dalle precomprensioni riduttive con cui spesso viene concepita, e che la rendono inutile per il compito fondativo che le spetta. Superfluo rilevare che la testimonianza risulta efficace per un ricupero della dimensione esistenziale della fede, in quanto esprime una decisione personale che coinvolge la vita mediante un legame affettivo. Sembrerebbe questo il modo con cui la testimonianza corregge la deriva intellettualistica di una fede che si identifica con la ripetizione della dottrina corretta. Ma si deve essere attenti a non perdere la ricchezza teoretica del rapporto testimonianza-verità. Si deve subito chiarire che la testimonianza non si limita a una sorta di autoreferenzialità biografica del credente, invece dell'attestazione della rivelazione divina. Anche se la testimonianza cristiana coinvolge sempre il testimone, non si deve dimenticare che questi "intenziona quel referente irriducibile [Gesù di Nazaret] come termine risolutivo del gesto sul quale si concentra, e mira esplicitamente a renderlo apprezzabile come l'inizio e il compimento dell'atto di fede che desidera propiziare". Per la sua natura veritativa, la testimonianza non si può identificare soltanto con la manifestazione dell'evidenza degli effetti buoni della fede (al modo del buon esempio) o con la persuasione vissuta della sua esistenzialità. Il suo compito non si limita a offrire una rilevanza affettivamente coinvolgente per compensare un difetto di evidenza della rivelazione. La testimonianza ha la pretesa di veicolare efficacemente la verità di Cristo. Il nostro mondo multiculturale e multireligioso è segnato dall'apparente impossibilità di proporre la verità. La rinascita della religione non è di per sé determinante per superare questa situazione. Va ricuperata la domanda sulla valenza veritativa della religione e della filosofia. In tale contesto l'originalità cristiana è quella di annunciare una verità definitiva per il mondo e per l'uomo. La fede si deve paragonare con le religioni sul terreno della verità e della libertà. Poiché la concezione moderna di ragione "separata" fa fatica ad articolare verità e libertà, c'è bisogno di un ripensamento dell'ontologia e anche di un ripensamento della natura rituale della religione come accesso alla verità. La rivelazione cristiana ha la pretesa di attribuire valore veritativo a un fatto storico liberamente deciso da Dio, che si rivolge alla nostra libertà storica. La testimonianza cristiana è una dimensione essenziale della rivelazione. Non può essere ridotta a pura autoreferenzialità, né a supplemento affettivo di una mancata evidenza, ma intenziona un referente preciso: Gesù Cristo e Dio Trino. Nella testimonianza il soggetto decide di se stesso in rapporto all'Assoluto nell'interpretare il segno storico che suscita l'attrattiva, coinvolgendo la sua adesione fino a potersi parlare di concepimento nuovo dell'io.
(©L'Osservatore Romano - 22-23 maggio 2009)
Cosa spera l'uomo di oggi? - I cattolici pessimisti sono una bestemmia vivente - Un anno fa, il 22 maggio 2008, moriva Paolo Giuntella. Giornalista e scrittore, era nato nel 1946 e, dopo avere lavorato per alcuni quotidiani ("Il Popolo", "Avvenire", "Il Mattino"), dal 1999 seguiva per il Tg1 della Rai l'attività del presidente della Repubblica. Poco prima di morire era stato pubblicato il suo ultimo libro (L'aratro, l'ipod, e le stelle. Diario di viaggio di un laico cristiano, Milano, Paoline, 2008, pagine 175, euro 12), e ora è appena uscita, a cura di Laura Rozza Giuntella, la nuova edizione di un volumetto scritto con il padre, lo storico Vittorio Emanuele Giuntella (1913-1996), con l'aggiunta di una lunga appendice (Il gomitolo dell'alleluja. Di padre in figlio il filo della fede, Roma, Ave, 2009, pagine 151, euro 9). Per ricordare lo scrittore pubblichiamo un suo testo inedito. - di Paolo Giuntella – L’Osservatore Romano, 23 maggio 2009
Caro amico, tu mi dici, come si fa ad avere speranza in tempi come questo? Tempi di guerra, di terrore, letteralmente, di opposti fondamentalismi, di razzismi, di lavoro e sentimenti precari, di disuguaglianze e ingiustizie? Come si fa a sperare e chi continua, spes contra spem, a sperare? E soprattutto, cosa spera la gente? Beh, ti dovessi dire... io non sono così pessimista. In realtà c'è più gente che spera di quanto non si creda. D'altra parte io sono della scuola di François Varillon: la speranza è un istinto genetico, costitutivo, dell'uomo. La speranza di cambiare vita, la speranza di un diverso orizzonte, la speranza, magari anche solo il sogno, di uscire dal tunnel dell'oppressione, della servitù, della depressione, della miseria, la speranza di una vita oltre la vita, la speranza di una nuova scoperta, la speranza di conoscere il mistero della vita... La ragione è alla radice della speranza. Perché? Non potrebbe apparire il contrario? No, la disperazione è il rifiuto di affrontare con la ragione il problema del senso ultimo della vita, del senso della storia, rimanendo prigionieri, in modo irrazionale ed emotivo, dei dati immediati, duri e oscuri, dell'esistenza e dell'ingiustizia, del mistero del male, del dolore, della morte, dell'insensatezza delle crudeltà, della violenza... Se vuoi, la speranza è la risposta alla disperazione, la risposta al senso del limite, della finitezza, è, come dire, una pretesa della ragione di cercare di intuire il senso della vita oltre l'insensatezza apparente, la ricerca del sentiero per dare una spiegazione al desiderio e ai momenti di felicità, di gioia, all'amore, all'amicizia, alla solidarietà, di riconoscere l'esigenza insopprimibile di un oltre, di un Altro, l'istinto, dell'eterno, del divino, dell'infinito. È un po' come definire il nostro tempo secolarizzato, un po' come parlare di eclissi del sacro. Mai visto un'epoca più intrisa di sacro, di deificazione, di sacralizzazione, di tante banalità: dalle identità etniche al libero mercato, dalle etnie alla ricchezza, dal sesso al diritto di proprietà privata, dal tifo sportivo al look, all'apparenza, dall'avere all'apparire, dal successo agli status symbol, per non parlare delle sette religiose, del recupero delle radici religiose in funzione culturale, identitaria di "civiltà contro" sino a tutte le liturgie laiche e tutti i templi profani: la borsa, le banche, i centri commerciali, gli outlet, i cosiddetti eventi musicali o televisivi, sportivi o politici, persino le piste ciclabili e i mercatini etnici... Il problema, hai ragione tu, è piuttosto capire cosa, oggi, in queste ore, in questi mesi, in questi anni, sperano gli uomini e le donne, i giovani, i ragazzi, gli anziani. Cosa spera l'umanità che è prigioniera degli orizzonti precari della vita, dal lavoro precario alla precarietà e alla frammentazione degli affetti, dei legami profondi, dell'idea stessa di patto, alleanza, amicizia, amore, e persino alla precarizzazione delle stesse convinzioni etiche e politiche? Cosa sperano i prigionieri delle liturgie secolarizzate del nostro tempo, nei centri commerciali, negli outlet, nei supermercati, nei mercatini domenicali? Cosa credono che sia la speranza tutte le donne e gli uomini che ritmano la loro vita con la lingua degli spot, con i giochi, i serial e i gossip televisivi, con la seduta in palestra e la seduta in pizzeria, la stagione dei saldi e quella delle emozioni collettive (dalla solidarietà via sms, alle grandi paure per gli attentati e alle grandi fiction o alla programmazione cinematografica e televisiva natalizia)... Per molti la speranza è un'automobile nuova, è la casa, la prima casa, ma anche la seconda casa, una storia d'amore, una serata di sesso, un contratto di lavoro, il lavoro a tempo indeterminato, una promozione, una comparsata televisiva, una vacanza, una crociera, un colpo di fortuna, un grande successo di denaro o di carriera, il nuovo ipod, un nuovo super dvd, un nuovo frigorifero. Secolarizzate le grandi speranze politiche o rivoluzionarie, ridotta allo stato laicale la speranza cristiana, la speranza diffusa di molti occidentali è quella di fuggire dall'angoscia, dai grandi interrogativi sulla vita e sulla morte, o dalla precarietà con supplementi di gratificazioni materialiste ravvicinate, con piccole attese di felicità istantanea. Il nostro è tempo di liofilizzati e non di obiettivi differiti, di progetti da costruire, e da condividere. Questo è vero. Ma io non credo all'eclissi della speranza. Tu mi avverti: attento, non mi replicare con le solite dosi di buonismo retorico, di falso perbenismo, di speranzismo cattolico da omelia o documento ecclesiale, o di ottimismo laico della volontà... Ebbene hai ancora ragione. Cercherò di dirti la mia evitando i luoghi comuni melassati. Il vero rischio di oggi è la non speranza. Su questo sono d'accordo. Ma la non speranza è il non cristianesimo. Perché la speranza cristiana, che non necessariamente coincide con la conversione del mondo e il trionfo del bene sul male sulla Terra, è il fondamento escatologico del cristianesimo. E senza fondamento escatologico non esiste né esperienza di fede, né trascendenza. I cattolici pessimisti, come i cattolici musoni o i cristiani moralisti, sono una bestemmia vivente. Inutile che ti ricordi ancora una volta il poema di Charles Péguy, Il portico della seconda virtù, quando si sbilancia: "La virtù che amo di più, dice il Signore, è la speranza". Per i cristiani, insomma, il limite invalicabile resta la concezione autentica e non sdolcinata della speranza cristiana: la tensione escatologica che ridimensiona ogni illusione e ogni progetto umano.
Tutto questo neo-cristianesimo senza Parola, senza Vangelo, ridotto - come ci siamo detti tante volte ma giova pur sempre ripeterlo - a identità culturale, addirittura a identità geopolitica, questo cristianesimo senza stranieri, senza samaritani e samaritane, senza prostitute, senza pubblicani e senza Zaccheo, senza adultere e senza poveri, dunque senza speranza, senza riscatto, senza giustizia, senza eguaglianza, senza fraternità, senza libertà - quella vera, quella del grido degli schiavi freedom, freedom over me, non quella dei neoliberisti che vogliono liberarsi solo dalle regole, dalle costituzioni scritte, dall'indipendenza e autonomia dei poteri - tutto questo cristianesimo dei valori proclamati e non vissuti, dei valori "ideologici" e non biblici, dei valori conservatori, ebbene questo cristianesimo post-cristiano e senza speranza è il vero problema. La lezione dei martiri e dei profeti ci porta a una necessaria, non rinviabile scelta di campo: la strada della felicità, quella dell'avventura cristiana. La Croce è il segno eterno, nella storia ma oltre la storia, nel tempo ma oltre il tempo e lo spazio, che il Dio della nostra esperienza di fede non è il Dio del potere, della potenza, del dominio, ma il Dio Amore della apparente sconfitta nella storia, nel tempo, il Dio crocifisso. Per questo noi non dobbiamo avere paura della depressione, dei momenti di bassa in cui vediamo tutto nero, dal piano personale a quello politico. La disperazione è parte della condizione umana, ce lo insegna una delle più intense espressioni musicali, il blues. Se non attraversassimo momenti cupi saremmo perfetti, cioè non saremmo umani, perché la nostra è condizione di finitudine e di limite. Solo avvertendo tutto l'abisso, e tuttavia tutti i raggi di luce, tutto il dolore ma anche tutte le energie di allegria, innamoramento, estasi, della nostra esperienza carnale e dunque storica, possiamo credere - e possiamo farlo con la ragione, con l'intelligenza razionale - in un riscatto, nella redenzione, della chiamata a una Città Futura pienezza dei tempi, speranza compiuta finalmente, perciò pienezza di umanità, anzi di divino-umanità. Se Dio è Amore la speranza non può essere vissuta in solitudine. Se Dio è Amore la sua conoscenza, diventare intimi di Dio, vivere con Dio, essere intimi di un Amore che rende liberi, che suscita e crea libertà, vuol dire cercare anzitutto di nutrirmi di questo amore infinito che rende liberi in modo assoluto totale e già ora. È una convinzione profonda maturata nella mia esperienza di vita, nel mio viaggiare, nel mio leggere, nella mia strada che dalla ragione porta alla fede, a una fede liberante, appagante, fondamento di piacere non di dovere. Croce e Resurrezione sono l'inizio di un percorso di trasfigurazione che siamo chiamati a percorrere credendoci e sperandoci. Questa è l'eredità, la lezione che ci è stata data. E se riusciamo a metterci su questa strada non con condizioni particolari di privilegio, ma dovendo fare i conti quotidiani con il lavoro, con i pannolini da cambiare, con figli da tirar su, avremo incarnato la speranza che condividiamo con tanti altri.
(©L'Osservatore Romano - 22-23 maggio 2009)
ETICA E SOCIETÀ - «Alto valore formativo e informativo». Così l’arcivescovo di Bologna ha presentato il «manifesto» lanciato da Scienza & vita, Forum delle associazioni familiari e Retinopera - «Liberi per vivere» Una sfida di verità - DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 23 maggio 2009
«Ci sono già, anche in Italia, tutti i presupposti culturali perché venga legittimata giuridicamente la poligamia. È solo una questione di tempo ». Lo ha detto il cardinale Carlo Caffarra nel suo saluto alla presentazione bolognese del manifesto 'Liberi per vivere. Amare la vita fino alla fine' redatto a livello nazionale da 'Scienza & vita' in collaborazione con il Forum delle associazioni familiari e 'Retinopera'. «Il primo passo – ha osservato l’arcivescovo – sarà di consentire a chi nella propria cultura legittima la poligamia di poterla praticare». «Mi è capitato di vedere uno spot televisivo che, per promuovere la grande capacità di un’automobile, esalta la poligamia. Una bella automobile che consente all’uomo che la guida di raccogliere tutti i bambini avuti dalle tante mogli. Queste sono cose inammissibili in un Paese che riconosce la monogamia come una valore non più discutibile ». Un esempio che è servito a Caffarra per ribadire il suo giudizio positivo su una manifesto come 'Liberi per vivere', che si propone due scopi: formativo e informativo. Il primo, ha ricordato, riguarda il grande tema della fragilità umana che si esprime soprattutto nel momento in cui la persona umana giunge allo stadio terminale della sua esistenza. «Leggevo in questi giorni quanto disse un filosofo italiano non credente che affermava che, per quanto riguarda l’uso della libertà, ci troviamo nella situazione di un bambino a cui è stata donata una Ferrari. Che ha nelle mani un motore dalla potenza straordinaria ma è non in grado di guidarlo senza farsi del male e senza fare del male agli altri. Come per parlare una lingua la prima cosa da apprendere è l’alfabeto, così c’è un alfabeto della libertà ». Ma oggi, ha aggiunto, ci troviamo in una sorta di analfabetismo della libertà. Secondo Caffarra questo è accaduto «perché si è fatto coincidere l’esercizio della libertà con la categoria dell’autodeterminazione. Una categoria in fondo inventata ed elaborata dal pensiero cristiano».
Ma nel nostro Occidente si è staccata questa categoria da tutto il contesto entro il quale era collocata. «Era la stella di una costellazione, togliendola – ha aggiunto il cardinale – è cambiato tutto. L’autodeterminazione implicava prima di tutto un radicamento del giudizio della ragione. Ma questo significava apertura della persona alla realtà. La libertà si radicava dentro il terreno della verità ». Oggi invece l’autodeterminazione non viene più vissuta in questo modo ma si scontra tuttavia con due fatti terribilmente testardi. La nostra nascita e la nostra morte. «Nessuno decide di venire al mondo, la decisione è presa da altri e quindi l’attuale concetto di autodeterminazione trova qui una prima radicale obiezione». L’altro fatto è la morte. «Perché il morire – ha ricordato – ultimamente non dipende da noi. Tuttavia si tenta di negare questa realtà. Come faccio ad affermare la mia autodeterminazione in ordine alla morte? Affermando che io decido quando devo morire. Affermando addirittura il diritto alla morte». E qui, ha aggiunto «viene scardinato uno dei fondamenti di tutti gli ordinamenti giuridici. Ovvero che il dare assistenza ad una volontà suicida è sempre stato considerato reato». Ma il manifesto, ha concluso, svolge anche una preziosa opera informativa perché «deve aiutare le persone a capire cosa sta accadendo nella cultura di oggi, a formarsi un giudizio critico ». Antonella Diegoli, presidente di Federvita, ha raccontato come a Finale Emilia si è lavorato sulla diffusione del manifesto, «usando la metodologia dell’apprendimento cooperativo con ragazzi di 17-18 anni. L’esperimento è stato positivo. Ha calato il messaggio nel vissuto delle persone».
L’allarme di Caffarra: l’autodeterminazione ha preso il posto della verità. Ma sul nascere e sul morire non tiene
Dal caso Englaro alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (I)
ROMA, domenica, 24 maggio 2009 (ZENIT.org).- La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero ed abbiamo chiesto al prof. Lucio Romano di rispondere.
Il prof. Romano è dirigente ginecologo nel Dipartimento di Scienze Ostetrico Ginecologiche, Urologiche e Medicina della Riproduzione dell’Università di Napoli “Federico II”, e docente di Ostetricia al Corso di Laurea Specialistica in Scienze Ostetriche. E' inoltre docente di Bioetica ai corsi di laurea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presso l’A.O. S. Carlo di Potenza; e alla Facoltà di Bioetica e al Master in Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. E' Vicepresidente del Movimento per la Vita Italiano e componente del Consiglio Esecutivo nazionale dell’Associazione “Scienza & Vita”. Fa inoltre parte del Comitato Scientifico della rivista “I Quaderni di Scienza & Vita” ed è autore insieme a Maria Luisa Di Pietro, Maurizio P. Faggioni e Marina Casini del volume “Dall'aborto chimico alla contraccezione d'emergenza” (Edizioni ART, Roma 2008).
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Dopo il 9 febbraio 2009, qual è la situazione in merito alla vicenda Englaro?
Quando l’emotività va diradandosi, l’indicibile amarezza per la soppressione di una vita già estremamente fragile appena si attutisce e le posizioni antitetiche lasciano spazio a tentativi di dialogo, ineludibili si impongono riflessioni argomentate secondo ragione e rigorosamente fondate da cui partire. Potremmo ritenere che una capillare divulgazione mediatica tutto abbia già detto, che ognuno abbia già perfettamente chiare le dinamiche della vicenda Englaro e che abbia fatto una scelta di campo, “oggi per allora”. Tuttavia la delicatezza degli argomenti e le ricadute sociali, culturali, etiche, politiche impongono supplementi di riflessioni e discernimento. La complessità della tematica suggerisce di riconsiderare alcuni degli innumerevoli aspetti meritevoli di attenzione.
Che cosa si intende per eutanasia?
Secondo classica definizione, è “un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”. Così per l’Organizzazione Mondiale della Sanità ” è l’atto con cui si pone deliberatamente fine alla vita di un paziente, anche nel caso di richiesta del paziente stesso o di un suo parente stretto”. Riguardo all’azione, quindi, l’eutanasia è attiva quando si procede direttamente con un’azione che induce la morte; omissiva o passiva quando non si somministra una terapia o si interrompe un sostegno vitale; terminale quando si realizza appunto su di una persona in fase terminale conseguente a grave patologia.
Si può pensare che la definizione ed il concetto di eutanasia vanno a modificarsi?
Certamente. Nel dibattito attuale, come già richiamato da Adriano Bompiani, Bruno Dallapiccola, Maria Luisa Di Pietro e Aldo Isidori, il termine eutanasia si utilizza per indicare solo forme dirette o attive di uccisione del paziente, mentre l’eutanasia indiretta o per omissione è stata ridotta al rango di un generico rifiuto/rinuncia dei trattamenti sanitari. “[…] Depotenziando il dovere di garanzia del medico nei confronti del paziente e decontestualizzando l’astensione/sottrazione di trattamenti sanitari che non troverebbero giustificazione nei criteri di sproporzionalità/straordinarietà, si legittimano di fatto forme di eutanasia “indiretta o per omissione”. Altra considerazione è che va rilevato una scenario eutanasico con una voluta oscillazione tra disponibilità e indisponibilità della vita; riduzione della complessità della casistica alla genericità della norma; decontestualizzazione delle decisioni. Questi ed altri fattori aprono a qualsiasi scenario anche celatamente eutanasico, in cui giudizi sociali sulla qualità e sulla dignità della vita possono entrare come indisturbati coprotagonisti. Lo scenario eutanasico fu già descritto e preconizzato da F.W. Nietzsche nel “Crepuscolo degli idoli”: “Il malato è un parassita della società. In certe condizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a vegetare in una imbelle dipendenza dai medici e dalle pratiche mediche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe suscitare nella società un profondo disprezzo».
Quindi una vera e propria riformulazione del concetto di eutanasia?
Un tentativo di riformulazione assolutamente non condivisibile. Si assegnerebbe, in tal modo, liceità etica e giuridica ad un’azione o un’omissione che procuri la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore, sulla scorta della sola richiesta sebbene autonoma e consapevole. E’ opportuno definire, sotto il profilo etico, due termini ricorrenti e spesso sovrapponibili: uccidere e lasciar morire. Uccidere è sempre moralmente illecito, lasciar morire può essere comportamento colpevole, non colpevole o addirittura virtuoso. In entrambi i casi la causa della morte è sempre la malattia ma diverse le responsabilità morali. “Nell’abbandono e nella sospensione dei trattamenti la causa diretta della morte è la malattia, ma ciò che fa la differenza è il fatto che nell’abbandono la morte poteva e doveva essere evitata (quindi l’abbandono terapeutico e assistenziale si costituisce come una colpa morale). Nella sospensione dei trattamenti, invece, la morte non poteva essere evitata, e non si doveva, per prolungare un processo agonico già iniziato, infierire sulla condizione terminale della persona (e in questo caso l’atto della sospensione è moralmente doveroso).”
E nel caso di Eluana Englaro?
Eluana Englaro, sotto il profilo clinico, non era una paziente in stato terminale ma affetta da una gravissima disabilità. Non era morta e non era collegata ad alcuna strumentazione (es. respiratore artificiale, ecc.). Usufruiva dei comuni mezzi di assistenza, propri per quelle determinate situazioni e, tra l’altro, alimentazione e idratazione con sondino naso gastrico. Se considerata già morta, come alcuni hanno ritenuto da 17 anni, di conseguenza si sarebbe potuto ad esempio espiantare gli organi, cosa assolutamente non praticabile in quanto Eluana Englaro non rientrava affatto nei criteri della morte cerebrale totale. Voglio ricordare che Science, nel 2006, ha pubblicato un articolo che ha molto interessato la comunità scientifica: la Risonanza Magnetica Funzionale ha mostrato l'attivazione di varie zone cerebrali, in situazioni cliniche come quella di Eluana Englaro, in corrispondenza con gli inviti da parte dei ricercatori ad immaginare di salire delle scale piuttosto che di giocare una partita di tennis, in maniera esattamente uguale a quanto evidenziato nel cervello dei "soggetti di controllo" sani. Comunque nulla altro aggiungerei in merito alla situazione clinica che ha caratterizzato la vita di Eluana Englaro.
Eppure si è ritenuta lecita la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione.
E’ stato ritenuto anche opportuno, oltre alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, la somministrazione di sedativi. Delle due una: se Eluana non aveva alcuna percezione cosciente dell’ambiente esterno, così del dolore o di altro sentire, perché somministrare sedativi? O forse, visto che concretamente non si era del tutto certi del suo stato di completa incoscienza, si è preferito in via precauzionale somministrare sedativi? Il ricorso ai sedativi sarebbe stato motivato dagli spasmi muscolari per alterazione degli elettroliti, da sospensione dell’alimentazione e idratazione.
E nel dubbio sulle effettive capacità percettive di Eluana?
Una corretta interpretazione e attuazione del principio di precauzione, così giustamente propugnato in altri ambiti, avrebbe significato la non sospensione dei sostegni vitali mancando la certezza dell’assoluta assenza di coscienza. Parafrasando dalla civiltà giuridica la locuzione “in dubio pro reo”: “in dubio pro vita”.
L’alimentazione e l’idratazione sono terapie o cure?
Per i fautori della sospensione di alimentazione e idratazione, queste vengono considerate terapie e per tale motivo rifiutabili dal paziente, per autodeterminazione. Analizziamo senza pregiudizi e con argomentazioni logiche, almeno in linee generali il problema. Alimentazione e idratazione se inquadrabili come terapie devono curare qualcuno da qualcosa, ovvero da una patologia, da una disfunzione. Dovremmo arguire che, se terapie, alimentazione e idratazione avrebbero svolto su Eluana azione terapeutica. Quale sarebbe la malattia di Eluana che alimentazione e idratazione avrebbero tentato di curare? Quale malattia è curabile con alimentazione e idratazione così che, dopo la guarigione, si possa sospendere il trattamento in questione? La risposta, logica e non ideologica, è che alimentazione e idratazione non curano alcuna malattia, né tantomeno svolgevano azione terapeutica su Eluana. Se alimentazione e idratazione sono terapie, ne consegue che anche il neonato nutrito con latte artificiale è sottoposto a terapia, così il politraumatizzato che abbisogna del sondino o il paziente postoperatorio, o l’anziano che ha problemi di deglutizione, o chiunque necessita semplicemente di un aiuto per essere nutrito e dissetato. Non è il mezzo di somministrazione né la composizione dell’alimentazione e idratazione che cambiano la natura propria del sostegno vitale. Infatti il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel parere su alimentazione e idratazione di pazienti in stato vegetativo, ricorda che “il problema bioetico centrale è costituito dallo stato di dipendenza dagli altri. Si tratta di persone che per sopravvivere necessitano delle stesse cose di cui necessita ogni essere umano (acqua, cibo, riscaldamento, pulizia, movimento), ma che non sono in grado di provvedervi autonomamente, avendo bisogno di essere aiutate, sostenute ed accudite in tutte le loro funzioni, anche le più elementari.”
Alimentazione e idratazione, allora, sono forme di sostegno vitale?
Alimentazione e idratazione sono forme di sostegno vitale delle quali l’uomo né ha fondamentale bisogno e per tale motivo non possono essere sospese in quanto essenziali nella “umana relazione di cura”, che non significa terapia né tantomeno accanimento terapeutico, bensì presa in carico, “presa in cura”. Sotto il profilo bioetico si realizza così l’alleanza terapeutica medico-paziente, che si basa appunto sulla “beneficialità nella fiducia”: la fiducia (di un paziente) che incontra una coscienza (del medico). Inoltre, e non secondariamente, simbolicamente dar da mangiare e da bere rappresenta la manifestazione più tangibile ed immediata della solidarietà umana.
Alimentazione e idratazione non possono essere mai sospese?
Si, possono essere sospese. Come già indicato dal Comitato nazionale per la Bioetica, “non sussistono invece dubbi sulla doverosità etica della sospensione della nutrizione nell’ipotesi in cui nell’imminenza della morte l'organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite: l’unico limite obiettivamente riconoscibile al dovere etico di nutrire la persona in SVP è la capacità di assimilazione dell’organismo (dunque la possibilità che l’atto raggiunga il fine proprio non essendovi risposta positiva al trattamento) o uno stato di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’ alimentazione”.
Libertà religiosa minacciata - Venezuela si aggiunge all’ultimo rapporto della Commissione USA - di padre John Flynn, LC
ROMA, sabato, 23 maggio 2009 (ZENIT.org).- La Commissione USA sulla libertà religiosa internazionale conferma che questo diritto umano fondamentale continua ad essere minacciato in molte parti del mondo, anche se qualche miglioramento è stato registrato.
La situazione in Paesi come Myanmar e Venezuela è peggiorata dal punto di vista della libertà di religione, mentre l’India sta mostrando qualche segnale positivo.
Il 1° maggio scorso, la Commissione USA sulla libertà religiosa internazionale (USCIRF) ha pubblicato il suo rapporto annuale, unitamente alle raccomandazioni concernenti i Paesi cosiddetti “di particolare preoccupazione” (Paesi CPC, dall’inglese “countries of particular concern”).
Si tratta del X rapporto della Commissione, dalla sua istituzione in forza della legge sulla libertà religiosa internazionale del 1998.
I Paesi che l’USCIRF indica potenzialmente tra i CPC sono: Myanmar, Cina, Corea del Nord, Eritrea, Iran, Iraq, Nigeria, Pakistan, Arabia Saudita, Sudan, Turkmenistan, Uzbekistan e Vietnam.
Le raccomandazioni dell’USCIRF sono indirizzate al Dipartimento di Stato, il quale poi decide in via definitiva quali dichiarare “di particolare preoccupazione”.
L’elenco dei CPC attualmente in vigore presso il Dipartimento di Stato contiene otto dei Paesi raccomandati dall’USCIRF: Myanmar, Cina, Eritrea, Iran, Corea del Nord, Arabia Saudita, Sudan e Uzbekistan.
La Commissione ha anche stilato una “Watch List” (“lista di attenzione”) di quei Paesi il cui comportamento raccomanda un attento monitoraggio sull’entità delle violazioni alla libertà religiosa. Questo elenco, per il 2009, è composto da: Afghanistan, Bielorussia, Cuba, Egitto, Indonesia, Laos, Russia, Somalia, Tajikistan, Turchia e Venezuela.
Il rapporto contiene informazioni dettagliate su tutti i Paesi CPC e della Watch List. Il Myanmar – secondo il rapporto – presenta, per il 2008, una situazione tra le peggiori al mondo quanto al rispetto dei diritti umani ed in particolare della libertà di religione. Il regime militare ha imposto pesanti restrizioni alla pratica religiosa e tiene sotto controllo ogni attività delle organizzazioni religiose, osserva la Commissione.
Si stima che 136 monaci buddisti si trovino ancora in reclusione, in attesa di giudizio, e che molti monasteri siano ancora chiusi o in funzionalità ridotte. Inoltre, le minoranze etniche cristiane e musulmane continuano ad incontrare difficoltà.
In Cina, secondo la Commissione, “non vi è stato alcun miglioramento in materia di libertà religiosa e, anzi, si è registrato un deciso deterioramento, nello scorso anno, soprattutto nella zona buddista del Tibet e in quella musulmana dell’Uighur”.
Gravi violazioni
“Il Governo cinese continua a compiere gravi e sistematiche violazioni della libertà di religione o di culto, tendo le attività religiose sotto stretto controllo e imponendo ad alcuni esponenti religiosi periodi di detenzione e di reclusione, multe, percosse e vessazioni”, afferma il rapporto.
La Commissione osserva anche che la repressione su molti gruppi religiosi si era intensificata nel periodo precedente alle Olimpiadi di Pechino del 2008.
Riguardo al Medio Oriente, il rapporto afferma che in Iran “la retorica ufficiale e la politica del Governo hanno determinato un peggioramento delle condizioni di quasi tutti i gruppi religiosi non shiiti”.
La politica del Governo ha avallato le violazioni della libertà religiosa, tra cui detenzioni, torture ed esecuzioni, basate sulla religione di appartenenza, afferma la Commissione.
Secondo il rapporto, in Iraq “il Governo continua a commettere e tollerare gravi abusi della libertà di religione o di culto”.
Per quanto concerne l’Arabia Saudita, il rapporto riconosce che il re Abdullah ha consentito qualche limitata riforma ed ha promosso il dialogo interreligioso. Ciò nonostante, il Governo vieta ancora ogni forma di espressione religiosa pubblica che non sia della scuola islamica sunnita e secondo la particolare interpretazione ufficiale.
Inoltre, la Commissione accusa le autorità saudite di sostenere, a livello internazionale, gruppi che promuovono “un’ideologia estremista che contempla, in qualche caso, violenze contro i non islamici e contro i musulmani di scuola diversa”.
In Egitto – prosegue il rapporto – vi sono stati gravi problemi di discriminazione, intolleranza e di altre violazioni di diritti umani, a danno di aderenti a minoranze religiose. Gravi violazioni della libertà religiosa continuano ad interessare i cristiani copti ortodossi, gli ebrei e i baha’i, oltre ai musulmani di comunità minoritarie, secondo la Commissione.
Il rapporto sostiene inoltre che il governo non abbia preso le misure sufficienti per arrestare il fenomeno repressorio e discriminatorio contro i credenti religiosi, né per punire i responsabili delle violenze o delle altre gravi violazioni della libertà religiosa.
Estremisti
Forti preoccupazioni per la libertà religiosa permangono anche in Pakistan, osserva la Commissione. Nel corso dello scorso anno la forza dei gruppi estremisti è aumentata. Inoltre, sono state sfruttate le leggi antiblasfemia per mettere a tacere dissenzienti e membri di minoranze religiose, aggiunge il rapporto.
Nel vicino Afghanistan, secondo il rapporto, la situazione della liberà religiosa o di culto è diventata sempre più preoccupante.
La Commissione sostiene che la costituzione dell’Afghanistan, Paese a maggioranza musulmana, non assicura un’adeguata tutela agli individui che dissentono dall’ortodossia prevalente. Di conseguenza si verificano gravi violazioni della libertà religiosa, dovute anche al potere e all’influenza dei leader religiosi fortemente tradizionalisti.
Per il Vietnam, la Commissione raccomanda il reinserimento tra i Paesi CPC, per via delle continue violazioni della libertà religiosa da parte del Governo. Nonostante qualche progresso, il Governo vietnamita continua ad imporre pesanti restrizioni alla libertà religiosa, sostiene il rapporto.
Per esempio, continuano a verificarsi arresti e detenzioni anche per attività religiose del tutto pacifiche, poiché le attività religiose indipendenti sono ancora vietate dalla legge. In aggiunta, le tutele giuridiche per le organizzazioni religiose approvate dal Governo sono alquanto vaghe e soggette ad interpretazioni arbitrarie e discriminatorie, sulla base di fattori politici, dichiara il rapporto.
Le reazioni
La Cina, così come ha fatto in passato per i precedenti rapporti della Commissione, ha rigettato aspramente le critiche contenute nell’ultimo rapporto.
“È un dato di fatto che il Governo cinese tutela la libertà di fede religiosa dei propri cittadini secondo la legge, e tutti i gruppi etnici di qualsiasi parte della Cina godono della piena libertà religiosa”, ha dichiarato Ma Zhaoxu, portavoce del Ministro degli esteri, secondo quanto riferito da Associated Press il 5 maggio.
“Il tentativo della Commissione USA sulla libertà religiosa internazionale di screditare la Cina con questo rapporto non riuscirà”, ha aggiunto Ma.
L’India, invece, in un’inversione di tendenza, si sta aprendo ad una visita di studio di rappresentanti dell’USCIRF. Secondo il quotidiano Telegraph di Calcutta, del 2 maggio, il Governo federale indiano ha mutato la sua politica tradizionale di non consentire visite ispettive da parte del Governo USA.
I rappresentanti dell’USCIRF si recheranno in India a giugno, per la prima volta, per poi pubblicare un rapporto specifico sul Paese.
Intanto, il Wall Street Journal ha commentato la decisione di inserire il Venezuela nella Watch List, in un articolo del 1° maggio di Melanie Kirkpatrick, vice redattrice della pagina editoriale del Journal.
L’articolo si è incentrato sulla condizione degli ebrei in Venezuela. Quando Hugo Chávez è stato eletto Presidente nel 1998, nel Paese vivevano circa 22.000 ebrei. Oggi si stima che siano scesi ad una cifra tra i 10.000 e 15.000.
“Gli ebrei del Venezuela fuggono verso Miami, Madrid e altrove, a causa dell’antisemitismo che subiscono a casa”, ha affermato Kirkpatrick.
Tra le frasi di Chávez citate nell’articolo vi sono quelle in cui descrive gli ebrei venezuelani come “discendenti di quelli che hanno crocifisso Cristo”, o come “una minoranza [che] ha preso possesso di tutto l’oro del pianeta”.
Povertà morale
Nel messaggio di quest’anno, ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Benedetto XVI ha espresso la sua preoccupazione per le persone perseguitate a causa della propria fede. Nel suo discorso dell’8 gennaio ha rinnovato il suo affetto “ai nostri fratelli e alle nostre sorelle vittime della violenza, specialmente in Iraq e in India”.
Ma la preoccupazione del Papa riguarda anche i Paesi sviluppati. “Auspico altresì che, nel mondo occidentale, non si coltivino pregiudizi o ostilità contro i cristiani, semplicemente perché, su certe questioni, la loro voce dissente”, ha affermato.
Un punto interessante è che Benedetto XVI non ha incentrato il tema della libertà religiosa sul punto di vista della libertà, ma ha adottato un approccio più teologico. “Le discriminazioni e i gravissimi attacchi di cui sono state vittime, l’anno scorso, migliaia di cristiani, mostrano come non sia soltanto la povertà materiale, ma anche la povertà morale a nuocere alla pace”, ha affermato. Una povertà che affligge molti Paesi, quale che sia il loro livello economico.
La mistica di Edith Stein - L'irruzione della Verità nella notte di Bad Bergzabern - Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni tenute all'università di Enna nell'ambito di un convegno intitolato "Edith Stein: esistenza, verità e bellezza". - di Cristiana Dobner – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
Estate 1921. È notte a Bad Bergzabern in Germania. Nella vita della fenomenologa Edith Stein, basata sulla ricerca della verità, sulla razionalità e sull'assenza - fin da quando aveva 13 anni - di ogni pratica religiosa ebraica, irrompe la Verità e converte - nel senso etimologico del termine ebraico teshuvà, cioè di appoggiarsi ai talloni e invertire la propria posizione - tutta la sua esistenza e la sconvolge. Ella stessa scriverà in una lettera: "Chi cerca la verità cerca Dio, che lo sappia o no". L'interrogativo che ne consegue è serrato e lo formulo nel seguente modo: "Chi" ha fatto irruzione in lei? Non "che cosa" è accaduto? Ma allora Edith Stein è una mistica? Il teologo Giovanni Moioli nella storia della mistica rileva due grandi tipologie: la Wesensmystik, la mistica dell'essenza, individuata nella tendenza "renano-fiamminga" (secoli XIII-XIV) e nella Brautmystik, la mistica sponsale, influenzata dall'essere di Plotino; e la cosiddetta "mistica dell'assenza", caratteristica soprattutto dei mistici spagnoli (secolo XVIi). L'alveo in cui collocare Edith Stein è in quest'ultima tipologia, con due precisazioni essenziali: Teresa di Gesù e Giovanni della Croce hanno superato la Wesensmystik, nella loro esperienza, creando così con la loro dottrina la mistica dell'unione; Edith Stein non è figlia del misticismo spagnolo affetto da psicologismo e affettività. Max Scheler - che Edith Stein poté ascoltare a Gottinga e dal cui linguaggio e testimonianza fu impressionata favorevolmente - sottolineò quanto la distinzione fra Wesensmystik e Vitalmistik fosse ormai superata. La ragione risiede nella Trinità stessa che, inabitando la persona, opera e dona l'unione mistica che si opera sul piano della conoscenza e dell'amore. La giovane fenomenologa scrive: "Non ricordo in quale anno Scheler sia rientrato nella Chiesa cattolica. Non doveva essere da molto. In ogni caso, in quel periodo, aveva molte idee cattoliche e sapeva divulgarle facendo uso della sua brillante intelligenza e della sua potente eloquenza. Fu così che venni per la prima volta in contatto con un mondo che, fino ad allora, mi era stato completamente sconosciuto. Ciò non mi condusse ancora alla fede, tuttavia mi dischiuse un campo di "fenomeni" dinanzi ai quali non potevo più essere cieca. Non per niente ci veniva continuamente raccomandato di considerare ogni cosa con occhio libero da pregiudizi, di gettare via qualsiasi tipo di "paraocchi". Cadevano le barriere dei pregiudizi razionalistici, nei quali ero cresciuta senza saperlo, e il mondo della fede comparve improvvisamente dinanzi a me. Persone con le quali avevo rapporti quotidiani e alle quali guardavo con ammirazione, vivevano in quel mondo. Doveva, perciò, valere la pena almeno di riflettervi seriamente. Per il momento non mi occupai sistematicamente di questioni religiose; ero troppo occupata in molte altre cose. Mi accontentai di accogliere in me senza opporre resistenza gli stimoli che mi venivano dall'ambiente che frequentavo e - quasi senza accorgermene - ne fui pian piano trasformata". Di quale esperienza allora si trattò nella notte di Bergzabern? Quella che Edith Stein definiva secretum meum mihi e che conservò sempre gelosamente ma che, indirettamente, tracciò in alcuni passi delle sue opere: "Vedere con gli occhi o con l'immaginazione non è necessario. Tutto questo può mancare, ci può essere però la certezza interiore che è Dio che parla. Questa certezza può poggiare sul "sentimento" che Dio è presente; perché ci si sente toccati da Lui, il Presente, nel più profondo interiore. Questo è quanto chiamiamo esperienza di Dio nel senso assolutamente più proprio. È il nocciolo di ogni esperienza mistica, l'incontro con Dio da persona a persona. Il termine mistica, quindi, denota l'esperire la percezione di Dio e il legame con Lui, con il conseguente paradigma mentale di conoscenza, all'interno della specifica topologia dell'anima che così viene creandosi: una persona che incontra la Persona di Dio. L'esperienza e la vita di Edith Stein richiedono una disamina precisa che si può scandire in tre livelli: penetrare la genesi dei fatti esperienziali; ricostruire dagli effetti la causa; risalire dallo stile all'etimologia spirituale. La genesi, prettamente impregnata dalla ricerca intellettuale sistematica e dalle scosse interiori personali e interpersonali, si precisa nella notte di Bergzabern: "Nell'estate del 1921 mi capitò tra le mani la Vita della nostra santa madre Teresa (...) e pose fine alla lunga ricerca della fede". Bruno Bettelheim affermerebbe che si tratta dello "shock del riconoscimento" che però può avvenire grazie alla lunga preparazione e ricerca di Edith e che chiedeva di affiorare alla coscienza. Il 5 settembre 1941, durante un corso di esercizi spirituali, scrive: "Condizione della mia anima prima della conversione: peccato di una radicale irreligiosità. Salvezza solo grazie alla misericordia di Dio e non proprio merito. Riflettere spesso su questo per diventare umile". Edith Stein conserverà sempre un'attrazione particolare per il libro che provocò la scossa interiore: "Tranne le Confessioni di sant'Agostino, non esiste alcun libro della letteratura mondiale che come questo porti il sigillo della veridicità, che illumini dentro le pieghe più nascoste dell'anima e offra una testimonianza così commovente della "misericordia di Dio"". Dopo il crinale di Bergzabern, Edith Stein entra in rapporto con il Lògos, in senso etimologico e personale: lògos indica infatti il rapporto logico, pensante; personale indica l'incontro con la persona viva di Gesù Cristo. Un dono gratuito non acquisito per sforzo personale o acume intellettuale: "Posso bramare una fede religiosa, posso adoperarmi con tutte le mie forze per ottenerla, ma non posso riceverla (...) La accetto: significa che mi do a essa, quando entra in me, con gioia e senza opporre resistenza". Nel corso di quella notte durante la lettura della Vita di Teresa di Gesù, Edith Stein mosse un passo determinante di fede: "Afferrare e tenere la mano di Dio: questo è il fatto che coopera a costituire l'atto di fede". Con la sicurezza di non essere attrice primaria: "L'afferrare presuppone un venire afferrati: non potremmo credere senza la grazia". Si può riprendere e riconsiderare quindi la positività della mistica, intesa come esperire religioso, quando si abbandoni il finito, la soglia fra tutto e nulla: "Quando l'anima nella comunicazione di grazia sperimenta l'irrompere dell'Essere divino nel suo proprio essere come elevazione dell'essere, si realizza un divenire uno con il punto sorgivo personale della vita attraverso una reciproca consegna personale. Bisogna però notare ancora qualche cosa di diverso: il nudo tocco nel più profondo interiore non ha necessariamente come presupposto l'inabitazione per grazia. Può essere donato a una persona totalmente irreligiosa come risveglio alla fede e come preparazione per ricevere la grazia santificante. Può anche servire come mezzo per rendere idonea una persona irreligiosa come strumento per raggiungere uno scopo determinato. Entrambe le possibilità valgono anche per le illuminazioni particolari. L'unione invece come reciproca consegna non può avvenire senza la fede e l'amore, cioè senza la grazia santificante. Se si verifica in un'anima che non è in stato di grazia dovrebbe, fin dal suo inizio, contemporaneamente venire donata anche la grazia santificante e come condizione previa la perfetta contrizione". Nell'idea di mistica steiniana non c'è la fusione dell'io nel tutto (che rasenta oppure è il nulla) ma il coniugare la storia, con il suo peso tragico, con la speranza, in una viva modalità esperienziale. Un'obbedienza alla Verità, Gesù Cristo, fattasi carne rivelandosi nella storia, finita sino all'estremo possibile limite della kènosis della croce. Il trascendente infatti per lei non si risolve nello spirito umano, ma si lascia trasformare dallo Spirito e scatta l'alchimia di grazia che muta il dolore in amore e genera la più alta mistica perché è quella del crocifisso. Edith Stein nella storia del Carmelo teresiano si dimostra come un unicum perché racchiude in se stessa due dimensioni che, troppo spesso, vengono considerate divergenti: la ricerca della verità e l'incontro amoroso con la Verità.
(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009)
Nel santo patrono d'Europa le radici del pontificato di Benedetto XVI - L'inscindibile legame tra obbedienza e libertà - di Mariano Dell'Omo Benedettino Vicearchivista dell'abbazia di Montecassino – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
A chi non conosceva il lungo itinerario umano e spirituale del cardinale Joseph Ratzinger, la scelta del nome Benedetto al momento della sua elezione a Papa in quel pomeriggio romano del 19 aprile 2005, prima che egli stesso potesse spiegarne la genesi con la consueta limpidezza della sua parola, poteva apparire singolare se non straordinaria. In realtà, basta scorrere il volume della sua autobiografia La mia vita. Ricordi (1927-1977) - Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, pagine 122, euro 16,53 - per cogliere come già nel fanciullo Joseph si delineasse ben presto quel paesaggio interiore che lo avrebbe condotto molti anni dopo, una volta eletto Papa, a preferire a tutti gli altri il nome di Benedetto, il santo fondatore di Montecassino e patriarca dei monaci d'Occidente. Lo spazio della liturgia attrasse infatti in modo avvincente l'interesse del fanciullo Ratzinger: "Questo misterioso intreccio di testi e di azioni (...) cresciuto nel corso dei secoli dalla fede della Chiesa. Portava in sé il peso di tutta la storia ed era, insieme, molto di più che un prodotto della storia umana", scrive in quei suoi Ricordi. E questo mondo gli divenne familiare proprio grazie alla mediazione di un benedettino, Anselm Schott abate di Beuron, che aveva pubblicato il messale in lingua tedesca corredandolo di commenti, sì da avvicinare alla comprensione della messa anche un pubblico semplice e intuitivo come quello dei ragazzi. E il cardinale ricordava come egli ricevette appunto "uno Schott per bambini, in cui erano già riportati i testi più importanti della liturgia; poi lo Schott della domenica, in cui la liturgia della domenica e dei giorni festivi era riportata integralmente, e, infine, il messale quotidiano completo". E continuava: "Ogni nuovo passo che mi faceva entrare più profondamente nella liturgia era per me un grande avvenimento. I volumetti che di volta in volta io ricevevo erano qualcosa di prezioso, come non potevo sognarne di più belli. Era un'avventura avvincente entrare a poco a poco nel misterioso mondo della liturgia". È questa l'Opus Dei, l'Opera di Dio, la Sua lode, che occupa un posto privilegiato e primario nella vita del monaco benedettino, sempre memore di quel che san Benedetto afferma nella Regola (capitolo 43, 3): Nihil Operi Dei praeponatur (all'Opera di Dio non si anteponga nulla). Altamente significativo è il fatto che solo in un altro caso Benedetto adotta lo stesso sintagma nihil praeponere, quando afferma in modo apodittico il primato di Cristo nella vita del monaco (capitolo 4, 21): Nihil amori Christi praeponere (nulla anteporre all'amore di Cristo). La preghiera liturgica, l'Opus Dei è lo spazio stesso nel quale Cristo si fa presente in un triplice modo, secondo il pensiero ben noto di sant'Agostino che tanto pervade quello di san Benedetto: "L'unico salvatore del corpo mistico, il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è colui che prega per noi, che prega in noi e che è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote; prega in noi come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio" (Expositio in psalmos, 85, 1). Allora ben si comprende quel che scriveva il cardinale Ratzinger, sull'onda dei suoi giovanili ricordi, circa quella lontana eco benedettina con la quale egli avrebbe via via sempre più sintonizzato la sua esperienza di sacerdote, di vescovo e infine di Papa: "L'inesauribile realtà della liturgia cattolica mi ha accompagnato attraverso tutte le fasi della mia vita; per questo, non posso non parlarne continuamente". Del resto l'infanzia e l'adolescenza del futuro Pontefice trascorsero in un ambiente particolarmente segnato dall'impronta benedettina, e quindi dalla cultura liturgica che la caratterizza, se solo si richiami alla memoria che Traunstein, il piccolo centro abitato dov'egli viveva, nei pressi della frontiera con l'Austria, è situato a soli trenta chilometri da Salisburgo, la città mozartiana per eccellenza, tanto influenzata dalla storica abbazia benedettina di San Pietro, fondata nel secolo vii da san Ruperto apostolo dei bavaresi. L'Austria e la Baviera sono profondamente marcate dalla presenza di tanti monasteri di regola benedettina, a tal punto che ancor oggi le congregazioni monastiche austriaca e bavarese, che fanno parte della Confederazione dell'Ordine di San Benedetto, comprendono rispettivamente dodici e undici monasteri, alcuni dei quali, come ad esempio Weltenburg in diocesi di Ratisbona, e Scheyern nell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga, erano ben conosciuti dal sacerdote e professore di teologia, poi cardinale Ratzinger. Il contesto nel quale con più ampiezza il cardinale, ormai da diversi anni prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, delineò come in un vasto affresco tutta la sua idea del mondo benedettino, del suo contributo alla civiltà umana e spirituale dell'Europa in particolare, è sicuramente il libro-intervista che dalle sue parole si venne formando proprio a Montecassino nei giorni dal 7 all'11 febbraio dell'anno 2000, uscendo poi l'anno successivo col titolo quasi programmatico: Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio (Joseph Ratzinger, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, pagine 432, euro 23,69). Quel segmento di tempo tanto breve quanto intenso fu vissuto, come scrisse nella prefazione lo stesso cardinale Joseph Ratzinger, in un'atmosfera di pace: "La quiete del monastero, il calore dimostrato dai monaci e dall'abate, l'atmosfera favorevole alla preghiera e la riverente solennità della liturgia ci furono di grande aiuto". Egli rispose in quell'occasione alle tante domande postegli dal giornalista e scrittore Peter Seewald, lasciando così affiorare in quelle pagine la sua visione monastica, le speranze che egli nutriva circa l'attualità dell'ideale di Benedetto. In primo luogo ciò che colpiva il futuro Papa era la casuale coincidenza temporale - per lui "estremamente significativa" - nell'anno 529, "tra la chiusura dell'Accademia ateniese, simbolo dell'educazione nell'antichità classica, e l'inaugurazione del monastero di Montecassino, che fu, per così dire, l'accademia della cristianità. La chiusura dell'Accademia platonica è il simbolo del declino di un mondo. L'impero romano è in decomposizione, a Occidente è già stato smembrato e non esiste più in quanto tale. Con esso un'intera cultura minaccia di affondare nell'oblio, ma Benedetto la custodisce gelosamente e insieme la fa rinascere, compiendo così un'opera che soddisfa in pieno il motto benedettino: succisa virescit - ciò che viene reciso germoglia di nuovo. Alla frattura corrisponde in qualche misura un nuovo inizio". Quando il cardinale Ratzinger alcuni anni dopo assunse, quale successore di Giovanni Paolo II, il nome di Benedetto, è credibile che pensasse anch'egli a "un nuovo inizio". Come san Benedetto egli stesso deve aver intuito la possibilità che la Provvidenza gli offriva di dare al suo pontificato un esordio augurale e profetico, da cui potesse, come sta già avvenendo, scaturire una nuova cultura e una nuova opera di rigenerazione cristiana per il mondo intero. Non a caso egli era da tempo ben consapevole dell'attualità della Regola di san Benedetto, un viatico esistenziale offerto non solo ai monaci ma a tutti gli uomini ben disposti ad accettarsi, a "dimorare presso di sé", a tacere, ad ascoltare, e perciò a trovare la pace. In quei giorni di serena contemplazione e di proficuo lavoro a Montecassino, nel costruire quel libro-intervista egli riconosceva che "la Regola benedettina è l'esempio lampante del fatto che ciò che davvero rispecchia la natura umana non invecchia", e da vero maestro il cardinale Ratzinger si faceva esegeta finissimo di un testo, la Regola, che ha avuto tanti illustri e santi commentatori. Egli si aggiungeva al novero di quella schiera, illuminando le prime parole del prologo alla Regola: Obsculta, o fili, praecepta magistri (Ascolta, o figlio, gl'insegnamenti del maestro), ed esortando con accento magistrale e tono paterno "a recuperare l'idea che l'ascolto faccia parte della vita - visto che il servizio divino è in gran parte permettere a Dio di entrare nella nostra vita e ascoltarlo. Come disciplina, misura e ordine, così anche ubbidienza e libertà sono inscindibili, e anche la capacità di sopportazione reciproca nel nome della fede non è solo una Regola fondamentale di una comunità monastica ma, assieme a tutti gli altri elementi che abbiamo nominato, è anche ingrediente essenziale di qualsiasi forma di convivenza umana. È una regola radicata nella natura umana e capace di sintetizzare l'essenza umana perché ha guardato e ascoltato al di là dell'umano e ha percepito il divino. L'uomo si umanizza appunto laddove è toccato da Dio". Come è tutto più chiaro ora, come appare naturale, coerente, espressiva di una diuturna fedeltà al carisma benedettino, la scelta di chiamarsi Benedetto! Quella sera del 19 aprile di cinque anni orsono, restammo felicemente sorpresi per quel nome, che poi è divenuto sempre più e sempre più sarà l'emblema di un Papa che ama contemplare la bellezza di Dio, che vuole farla percepire a noi tutti, e che ha individuato nel messaggio suadente, fermo e dolce al tempo stesso, del patriarca Benedetto, il mezzo per orientare nuovamente l'umanità sulla via dell'ascolto con l'orecchio del cuore, perché tu uomo di questo splendido e tormentato tempo, egli sembra dirci paternamente, ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras - perché tu possa per la fatica dell'obbedienza ritornare a Colui dal quale ti eri allontanato per l'inerzia della disobbedienza - (Regola, prologo, 2). È emblematico che tra le ultime parole ufficiali del cardinale Joseph Ratzinger Decano del Sacro Collegio, mentre le condizioni fisiche del Papa Giovanni Paolo II si aggravavano di ora in ora, vi siano quelle dedicate a Benedetto da Norcia, pronunziate il 1° aprile del 2005, a Subiaco, dov'egli ricevette il "Premio San Benedetto" promosso dalla Fondazione "Vita e famiglia". Egli si rivolgeva all'Europa nella crisi delle culture, a quel continente europeo che l'apostolo della Germania, il monaco san Bonifacio, aveva contribuito a edificare cristianamente nel lontano secolo vIII. Rileggendo quel testo non possiamo non vedervi l'annunzio di una svolta, un presagio di quel varco che il Signore della storia misteriosamente stava aprendo all'orizzonte dell'umanità: "Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo. Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli". Nell'imminenza della sua venuta a Cassino e Montecassino il 24 maggio, risplendono di viva luce queste parole di speranza del futuro Papa, il primo a essere eletto nel terzo millennio, all'alba di un nuovo mondo, di quella rinnovata civiltà, che egli auspica sia finalmente la civiltà dell'amore.
(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009)
Il Patriarca Twal e l'arcivescovo Franco sull'esito del pellegrinaggio di Benedetto XVI - Il Papa in Terra Santa e i frutti da raccogliere – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
Gerusalemme, 23. Come pellegrino in Terra Santa, Benedetto XVI ha voluto incoraggiare i cristiani del mondo intero a seguire il suo esempio, "a venire qui, per pregare ed entrare in contatto con le comunità locali". Come pastore, ha rivolto il suo messaggio alle popolazioni cristiane incontrate, fermandosi ad ascoltarle. Come Capo di Stato, ha ribadito la posizione della Chiesa sui diritti degli israeliani e dei palestinesi, "spronando verso la soluzione dei due Stati". Il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, Fouad Twal, e l'arcivescovo Antonio Franco, nunzio apostolico in Israele e in Cipro e delegato apostolico in Gerusalemme e Palestina, hanno riassunto così i principali contenuti del viaggio del Papa in Terra Santa. In una conferenza stampa tenutasi mercoledì scorso al Centro Notre Dame di Gerusalemme, i due presuli hanno sottolineato il successo di questo pellegrinaggio, "persino nelle difficoltà", poiché "il Santo Padre ha così potuto fare esperienza della realtà concreta nella quale viviamo, qui in Terra Santa". Il messaggio lasciato da Benedetto XVI va ora studiato, recepito, trasformato in azione: "I risultati non saranno totalmente visibili oggi - hanno spiegato Twal e Franco - e nemmeno domani. Abbiamo bisogno di più tempo, di dar tempo alla Provvidenza, ma questo messaggio di dialogo, di pace, di riconciliazione porterà i suoi frutti". Di certo "dipenderà dalla buona volontà di ognuno di noi di ascoltarlo veramente e di confrontare i nostri atteggiamenti con le indicazioni lasciateci dal Santo Padre". Una di queste - ha detto il nunzio apostolico - "è che si riconosca il diritto di Israele a vivere in sicurezza nel proprio Paese e il diritto dei palestinesi ad avere una patria, uno Stato, in modo che si giunga a una pace stabile in questa parte del mondo". Ma il ruolo della Chiesa nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese - ha aggiunto monsignor Franco - "non è certamente diretto. A essa spetta di rendere le persone capaci di accettarsi a vicenda, di perdonarsi, di creare delle nuove possibilità, in modo da originare le precondizioni alla pace, sostenendo gli sforzi positivi e tentando di vincere la rassegnazione e la passività". L'arcivescovo ha sottolineato anche l'importanza del discorso pronunciato da Benedetto XVI allo Yad Vashem: "Vi invito a riprendere le parole del Papa nel loro insieme, e specialmente quelle pronunciate al suo arrivo all'aeroporto, al memoriale e nel discorso conclusivo. Se ci addentriamo veramente nel pensiero del Papa, non possiamo desiderare di più del messaggio che egli ci ha lasciato sulla Shoah. Ha detto "Mai più!"". E la "riflessione sul nome", allo Yad Vashem, "è la più bella che poteva fare per parlarci del dovere della memoria". Il Patriarca Twal ha approfondito l'aspetto del viaggio legato al dialogo ecumenico e interreligioso: "Il Santo Padre - ha affermato - è stato felice di constatare che esiste una volontà di dialogo fra tutte le religioni, di trovare una buona disposizione. E, in un certo senso, è stato felice di toccare con mano la complessità della nostra situazione. Per il Papa, una cosa è leggere dei rapporti, un'altra è vedere la realtà nella sua concretezza". Di tappa importante per il cammino del dialogo interreligioso parla anche l'arcivescovo Francis Assisi Chullikatt, nunzio apostolico in Giordania e in Iraq, che in un'intervista al Sir sottolinea che la scelta della Giordania, come "prima sosta del suo pellegrinaggio", e la visita alla moschea di Amman "sono stati gesti molto apprezzati" dalla comunità musulmana giordana e dai reali. Gesti che hanno fatto "ulteriormente migliorare l'atteggiamento dei musulmani nei riguardi dei cristiani". Il dialogo interreligioso - dice Chullikatt - "ha ricevuto, dalla visita papale, uno stimolo in più. Da questo incontro ci attendiamo frutti positivi". Apprezzamento per il "valore" e la "forza" della visita di Benedetto XVI in Terra Santa è stato manifestato inoltre dall'istituzione interreligiosa "Pave the way foundation" che, in un comunicato firmato dal suo fondatore e presidente, l'ebreo Gary Krupp, sottolinea l'importanza del messaggio di pace portato dal Papa "in una regione divisa da differenze politiche, religiose e culturali". Allo stesso tempo la fondazione lamenta le critiche che "da settori contrapposti sono state mosse al Santo Padre", spiegando che si tratta di persone o istituzioni "con ideologie opposte o con finalità di partito".
(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009)
I limiti inderogabili del dialogo sui temi etici con la Casa Bianca e con il Congresso - I vescovi degli Stati Uniti su ricerca e obiezione di coscienza - di Marco Bellizi – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
Il presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, il cardinale Francis Eugene George, arcivescovo di Chicago, esorta il presidente Barack Obama a tradurre in pratica quanto ha affermato recentemente riguardo alla difesa del diritto all'obiezione di coscienza per gli operatori sanitari. Obiezione - ricorda il cardinale - nella quale rientra anche il diritto a non finanziare l'aborto con le tasse pagate allo Stato. Obama, intervenendo presso la University of Notre Dame di South Bend, in Indiana, ha assicurato che il diritto all'obiezione, finora previsto dalla legge, continuerà a essere riconosciuto. La questione è rilevante, in quanto alla luce dei provvedimenti presi dalla nuova amministrazione in materia etica, molti operatori sanitari si potrebbero trovare di fronte alla necessità di dover prestare servizi moralmente non condivisi. Il cardinale George, in una dichiarazione resa pubblica dalla Conferenza episcopale, ha espresso gratitudine per le affermazioni fatte da Obama sulla necessità di "onorare la coscienza di quanti non sono d'accordo con l'aborto" anche attraverso le clausole di coscienza riconosciute agli operatori sanitari. "Dal 1973 - si legge nella dichiarazione - le leggi federali a protezione del diritto all'obiezione di coscienza degli operatori sanitari hanno costituito una parte importante della tradizione dei diritti civili in America. Tali leggi dovrebbero essere pienamente applicate e rinforzate. Gli operatori e le istituzioni sanitarie cattoliche dovrebbero poter sapere che le loro più profonde convinzioni religiose e morali saranno rispettate nel momento in cui esercitano il loro diritto a servire i pazienti che hanno bisogno di aiuto. Gli operatori cattolici, in particolare, rendono un grande ed essenziale contributo all'assistenza sanitaria nella nostra società. Passi essenziali per proteggere i diritti di coscienza rafforzeranno il nostro sistema sanitario e la possibilità per molti pazienti di accedere a un'assistenza orientata alla difesa della vita. Un Governo - ha aggiunto il cardinale - che vuole ridurre il tragico numero di aborti nella nostra società lavorerà anche per assicurare che nessuno sia costretto a supportare l'aborto o a prendervi parte, attraverso prestazioni dirette o fornendo informazioni sull'aborto o finanziandolo con i dollari delle sue tasse. Mentre il dibattito continua, attendiamo di poter lavorare con l'amministrazione e i legislatori per raggiungere questo obbiettivo". I vescovi degli Stati Uniti, dunque, attraverso il cardinale George, rispondono a quanti hanno visto dietro alle posizioni assunte dai presuli sui temi etici un'opposizione politica alla nuova amministrazione. Raccogliendo l'invito espresso dal presidente Obama nel suo discorso all'università di Notre Dame, la Conferenza episcopale ha invece ricordato quali sono i termini inderogabili all'interno dei quali, dal punto di vista cattolico, il dialogo, quale che sia il colore dell'amministrazione, può avvenire. Il contributo a un lavoro comune con l'amministrazione è dimostrato anche dalla raccolta di pareri, avviata dalla stessa Conferenza episcopale, riguardo alle linee guida elaborate dai National Institutes of Health (Nih) per la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Secondo monsignor David Malloy, segretario generale della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, i Nih hanno perso "un'enorme opportunità per mostrare come la scienza e l'etica possano non solo coesistere ma aiutarsi e arricchirsi l'una con l'altra". Monsignor Malloy ha citato anche la dignità della vita umana in ogni stadio dell'esistenza e l'innato diritto di ogni uomo a non essere soggetto a sperimentazioni senza il proprio consenso informato ed esplicito. Leggi che manchino di riconoscere tale diritto - ha aggiunto - finiscono per chiamare in causa "la loro stessa legittimità morale". Il segretario generale della conferenza ha messo in evidenza "un fatto scientifico centrale" nella questione della ricerca sulle cellule staminali embrionali: l'embrione che verrà distrutto per ottenere cellule staminali "è un essere umano nelle primissime fasi del suo sviluppo". Non si tratta - ha spiegato monsignor Malloy - di un argomento religioso ma di un fatto riconosciuto da molti organismi, compresa la National Bioethics Advisory Commission nominata dal presidente Clinton. Tale organismo arrivò alla conclusione che dal momento che gli embrioni umani meritano rispetto in quanto forme di vita umana, distruggerli per ottenere cellule staminali è "giustificabile solo se alternative meno problematiche dal punto di vista etico non siano disponibili". Tali alternative esistono, ha ricordato monsignor Malloy riferendosi per esempio alla riprogrammazione delle cellule staminali adulte in modo che diventino cellule staminali pluripotenziali senza danno alla vita umana. Le politiche federali che vietavano la distruzione di embrioni avevano consentito il grande avanzamento di questo tipo di ricerche. Ora, l'executive order del 9 marzo, presentato dal presidente Obama - ha detto ancora il segretario generale della Conferenza episcopale - non ha solo rimosso tale politica ma anche un analogo provvedimento del 2007 che dava istruzioni ai Nih per poter praticare nuove strade al fine di ottenere la riprogrammazione delle cellule staminali adulte senza distruggere embrioni umani: "Con tale decisione - ha concluso monsignor Malloy - sia la scienza sia l'etica sono state ignorate".
(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009)
A colloquio con dom Pietro Vittorelli, abate di Montecassino - Il Papa nel cuore dell'Europa cristiana - di Nicola Gori – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
L'attesa, la speranza, la gioia per l'arrivo di Benedetto XVI in visita all'abbazia e alla diocesi di Montecassino, domani domenica 24 maggio, trovano eco nell'intervista dell'abate Pietro Vittorelli rilasciata al nostro giornale.
Benedetto XVI si reca a Montecassino portatore dei suoi forti legami con san Benedetto. Come sono finora emersi questi legami nel suo servizio petrino?
Benedetto XVI ha più volte sottolineato, sin dall'inizio del suo pontificato, un radicamento nella spiritualità benedettina riproponendola nei suoi discorsi e nelle sue catechesi che trovano una mirabile sintesi nel nihil amori Christi praeponere, che san Benedetto inserisce nel quarto capitolo della Regola "Sugli strumenti delle buone opere" (4,21) e che il Santo Padre ha più volte citato quasi come un leitmotiv della sua narrazione teologica. Quando la sera del 19 aprile 2005 dalla Loggia delle benedizioni il cardinale Jorge Arturo Medina Estévez annunciava al mondo che era stato eletto Papa il cardinale Ratzinger e che aveva scelto di chiamarsi Benedetto, oltre alla gioia incontenibile di tutto il mondo monastico che a Montecassino si confondeva con il suono delle campane e l'intasamento delle linee telefoniche e della posta elettronica, ad alcuni monaci non sfuggì l'immediato riferimento alla Regola nelle prime parole che dichiaravano il Papa "un umile operaio nella vigna del Signore". Benché chiaro il riferimento evangelico, non sfuggiva la citazione dell'umiltà cara a Benedetto e l'espressione del Prologo alla sua Regola Et quaerens Dominus, in moltitudine populi cui haec clamat, operarium suum (14). Non è mai mancato nell'infaticabile servizio petrino di Benedetto XVI il riferimento alla importanza delle radici cristiane dell'Europa e il servizio reso alla Chiesa in questo dai monaci e dalle monache di san Benedetto. Il Papa non ha però uno sguardo "archeologico" verso il monachesimo benedettino ma ne coglie tutta la vitalità e le prospettive future. Ricevendo in udienza il Congresso mondiale degli abati lo scorso 20 settembre 2008 ebbe a dire: "Per costruire un'Europa nuova occorre incominciare dalle nuove generazioni", affermò il Papa, per poi allargare lo sguardo all'intera famiglia umana e sottolineare che "in tante parti del mondo, specialmente dell'Asia e dell'Africa, vi è grande bisogno di spazi vitali d'incontro con il Signore, nei quali attraverso la preghiera e la contemplazione si ricuperino la serenità e la pace con se stessi e con gli altri". Ma il testo che a mio avviso rimarrà il "manifesto benedettino" del pontificato di Papa Ratzinger è il magnifico discorso tenuto al College des bernardins nell'incontro con il mondo della cultura. Introdusse: "Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea" e con la maestria teologica che gli è propria e con il cuore di monaco ha intessuto il canto più bello sul quaerere Deum.
Il richiamo a san Benedetto attualizza anche la riflessione sull'Europa. Pensa che la visita di Benedetto XVI abbia un significato per l'intero continente alla ricerca delle sue radici cristiane?
La visita di un Papa di nome Benedetto nella culla del monachesimo occidentale, nel luogo che hanno rispecchiato gli occhi di san Benedetto, da dove è partito l'impulso di una nuova evangelizzazione per il continente europeo non potrà non avere un'eco nell'Europa contemporanea. Il Papa riaffermerà l'importanza per l'uomo contemporaneo di riappropriarsi di una ferialità, di una normalità che nella quotidianità benedettina dell'ora et labora et lege può continuare a costruire l'uomo. "Nei vostri monasteri, voi per primi rinnovate e approfondite quotidianamente l'incontro con la persona del Cristo, che avete sempre con voi come ospite, amico e compagno. Per questo i vostri conventi sono luoghi dove uomini e donne, anche nella nostra epoca, accorrono per cercare Dio e imparare a riconoscere i segni della presenza di Cristo, della sua carità, della sua misericordia": così ebbe a dire nell'ultima udienza concessa agli abati benedettini riuniti in congresso mondiale.
La diocesi di Montecassino è storicamente dipendente dagli abati dell'abbazia. Nello sviluppo della pastorale diocesana ciò comporta delle difficoltà?
La diocesi di Montecassino è Montecassino e Montecassino è la sua diocesi. Il legame indissolubile che ha unito le nostre parrocchie e le nostre popolazioni al monastero e ai suoi abati ha quindici secoli di storia, nasce con l'arrivo di san Benedetto stesso nel vi secolo e nei secoli successivi ha subito modifiche con gli adattamenti che i mutati tempi richiedevano e che la saggezza di tanti abati miei predecessori ha saputo armonizzare. Oggi la nostra diocesi dopo un lungo cammino di Sinodo ha attuato tutte le istanze del Vaticano ii. Le difficoltà ci sono state quando per un lungo periodo si è vissuta con sofferenza l'indecisione sul futuro della stessa abbazia territoriale. Quel periodo creò tanto disagio nel clero per il loro futuro e soprattutto nei fedeli così legati alla loro matrice benedettina. Oggi che la Santa Sede ha confermato una ritrovata stabilità con la nomina di un nuovo abate e ordinario diocesano la vita di questa piccola ma significativa Chiesa diocesana ha ripreso il suo secolare cammino conservando nel suo cuore la forza orante di una comunità monastica e nelle sue membra la testimonianza appassionata di tanti presbiteri cresciuti alla scuola di Benedetto. Il piano pastorale che abbiamo inaugurato lo scorso anno come Chiesa diocesana prevede un percorso quinquennale di riflessione sulla Parola di Dio.
L'abbazia di Montecassino è indiscutibilmente un punto di riferimento per il monachesimo occidentale. Cosa rappresenta oggi per l'Ordine e per la vita contemplativa?
Montecassino rimane la casa madre di tutti i benedettini. Da tutto il mondo è costante il passaggio di monaci e monache sulla tomba dei santi Benedetto e Scolastica e certamente Montecassino rappresenta per tutti il cuore dell'esperienza di san Benedetto. Fu lo stesso Santo Padre che nell'udienza generale del 9 aprile 2008 presentando la figura di san Benedetto ebbe a dire: "La vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d'essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita". Così giustificava autorevolmente il passaggio di san Benedetto da Subiaco, che rimane l'altro grande cuore benedettino, a Montecassino, che dell'esperienza di Benedetto è appunto la visibilità della fede come forza di vita.
La spiritualità benedettina influisce sulla vita religiosa dei fedeli della diocesi?
I fedeli della diocesi sono totalmente imbevuti di spiritualità benedettina. Molti dei nostri bravi sacerdoti sono stati formati da monaci quando ancora il seminario era in monastero. L'attenzione alla liturgia, il gusto per il canto corale, il suono della campana all'Angelus tre volte al giorno in ogni nostra parrocchia, il gusto per la Parola di Dio, il pellegrinaggio notturno a Montecassino per la veglia di Pentecoste. Pensi che una piccola diocesi come la nostra conta 25 corali parrocchiali che ogni anno ascoltiamo in una rassegna sempre molto attesa, con una continua riscoperta del canto gregoriano e della tradizione polifonica che agli inizi del '900 ebbe in alcuni nostri monaci dei mirabili promotori: dom Mariano Iaccarino e dom Luigi De Sario furono maestri per molti. Ogni anno per la festa di san Benedetto del 21 marzo si celebra una vera e propria giornata per l'Europa e proprio per riscoprire le radici benedettine quindici anni fa è stato fondato il corteo storico Terra Sancti Benedicti che ogni anno coinvolge cinquecento persone, per lo più giovani, che rievocano i tempi dell'abate Bernardo Ayglerio tra xIII e xiv secolo, con ricerche storiche e di costume. Abbiamo poi la scuola cattolica san Benedetto che in città i monaci gestiscono insieme alle suore di Carità di santa Giovanna Antida Thouret e che ospita cinquecento alunni, dalla scuola dell'infanzia fino al liceo classico.
Le figure di Benedetto e Scolastica richiamano pellegrini anche di altre fedi?
Spesso abbiamo ospitato monaci buddisti che hanno voluto conoscere la nostra forma di vita. Non sono mancate visite di musulmani anche illustri: penso alla visita di re Abdullah ii Bin Hussein di Giordania. Suo nonno aveva combattuto qui a Montecassino durante la seconda guerra mondiale e al presidente dell'Iran Khatami. Tanti gli amici ebrei, soprattutto della comunità romana.
Montecassino è anche un luogo che ricorda gli orrori della guerra. I suoi monaci e la diocesi sono impegnati per la pace?
Pochi decenni fa, la morte e la distruzione che sono piombati sull'abbazia e sul territorio hanno devastato migliaia di vite umane qui, attorno a noi. Queste terre hanno risuonato delle grida di dolore e delle lacrime di famiglie e individui disperati. Tutto questo ha determinato monastero e diocesi a un lavoro continuo di costruzione della pace. Un impegno rinnovato ogni anno negli anniversari del bombardamento dell'abbazia e della città con gli inviti ai reduci che ancora quest'anno sono tornati per riaffermare il desiderio di pace.
(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009)
DOMENICHE DI PRIME COMUNIONI - L’EVENTO ZITTITO MUOVE IL CUORE DI MOLTI - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 24 maggio 2009
In queste domeniche c’è un appuntamento che coinvolge migliaia e migliaia di italiani. Ma non ne troverete traccia nei media. Ci sarà un appuntamento importantissimo. Un vero evento, che batte per profondità, per vastità e per numero di persone coinvolte ogni altro evento o supposto evento di cui le cronache si riempiono. Che batte ogni piazza riempita da show di vario genere. Che batte ogni comizio. Che coinvolge più di ogni campionato. Ma non ne parlano i giornali. Perché, si sa, i giornali e le tv parlano solo di una parte di realtà. Della realtà che interessa a coloro che comandano e fanno le tv e i giornali. E della realtà che (sempre loro) pensano interessi agli altri. Insomma sta succedendo una cosa che coinvolge un sacco di gente, un sacco di famiglie, un evento che ha perfino, per così dire, un bell’impatto economico. Ma non ne parlano i media. Ne parlano molto le persone. Anche i bambini. Fervono i preparativi, come si dice. Intendo le prime comunioni. Appuntamenti delle domeniche di maggio in ogni città e in ogni borgo d’Italia. Evento che muove i cuori e le azioni di centinaia di migliaia di italiani in questi giorni. Di chi è genitore, e di chi è parente. E di chi è amico. Di chi è catechista. E di chi è parroco. Un sacco di gente, davvero. Ma di cui non troverete traccia sui media.
Non troverete traccia nemmeno dei protagonisti, tutti questi piccoli bellissimi nei loro otto, nove anni. Tutti questi bambini non più piccoli, già ragazzini. Che – ecco l’evento – mangeranno Gesù. Un evento che potrebbe fare notizia, effettivamente. Il corpo di un Uomo viene mangiato, ingoiato, e custodito nel petto di migliaia di piccoli italiani. Di ragazzini che per la prima volta compiranno il gesto estremo di prendere in bocca il corpo di Cristo. Quel corpo sacrificato per la vita. Il corpo che dà la vita. Lo prenderanno tra le labbra avendo fame di vita.
Rappresenteranno, per questo desiderio, l’Italia intera. L’Italia che ha fame di pane, e fame di vita. Che ha fame di senso per l’esistenza. Fame che torce il viso, che sfigura l’Italia. Che la rende fragile, smarrita. Questi ragazzini mangeranno Gesù, lo prenderanno dentro di loro come l’unico pane che toglie la fame. Perché è la carne del Risorto e noi abbiamo fame di Resurrezione. Suprema spiritualità e suprema materialità del cristianesimo. Antica e futura originalità.
Questi ragazzini faranno quello che desideriamo tutti: mischiare al nostro corpo e alla nostra vita la Resurrezione. E tessere la nostra vita con l’energia che viene dall’Amore. Anche se i media non ce li fanno vedere, sarebbe giusto guardare tutti questi nostri piccoli che fanno la prima comunione. Correndo, volando per strade e vicoli, in case e piccoli o grandi ritrovi. Nei loro vestiti, simpatici, eleganti e a volte bizzarri, ma tutti messi con il garbo di chi si prepara a incontrare un grande Ospite. Guai ai genitori e ai catechisti che non fanno percepire ai loro piccoli cosa sta succedendo. E tristi quegli adulti che guardandoli non si ricordano – in questo maggio ferito da crisi e violenze – della loro prima comunione. Che non è solo un rito, non è solo una festa. È il gesto decisivo della intera esistenza. Più di tanti altri che ora sembrano, sui media, i gesti necessari, i gesti per vivere bene, o per scampare da vari tipi di crisi. Vedendo ora i nostri figli e questi bambini chiari come il vento, noi adulti ci si ricordi di che nutrimento abbiamo scelto per la nostra vita, e per quella dei nostri bambini. Se la vanità, l’oro che arrugginisce nei cuori, le chiacchiere inconsistenti delle ideologie e delle mode. O il corpo di Dio.
CHIESA E SOCIETÀ - Cottolengo Altro che 'mostri deformi' tenuti in vita ad oltranza - DAL NOSTRO INVIATO A TORINO - MARINA CORRADI – Avvenire, 24 maggio 2009
Porta Palazzo, Torino sembra una casba, un mercato mediorientale ondeggiante di chador, vociante di richiami maghrebini. Poi giri a destra, e ti si para davanti il Cottolengo con le sue imponenti interminabili facciate. La strada si fa silenziosa.
Caritas Christi urget nos, è scolpito sull’ingresso, la carità di Cristo ci sprona. Entri. Sotto ai tigli secolari ti sembra d’essere in una città diversa. 112 mila metri quadri di padiglioni, 3000 pasti al giorno, una mensa per i poveri, una scuola per infermieri, un monastero di clausura, il seminario, l’ospedale, e poi le case per disabili e anziani, in tutto oltre seicento letti. Una città, davvero. Ti inoltri per i viali in un viavai di suore in veste bianca – ce ne sono oltre seicento qui – e di ospiti che camminano adagio, claudicanti, o in carrozzella. La reazione istintiva del visitatore è di inquietudine – quella che provi quando immagini di dover vedere da vicino il dolore. Del resto, un’aura di mistero gravava un tempo su questa Piccola casa della Provvidenza. «Laggiù stanno i mostri», si diceva a Torino. Lo dice ancora del resto, sull’Espresso, Giorgio Bocca, che ha scritto di «un culto della vita ad ogni costo che lascia perplessi i visitatori della pia istituzione del Cottolengo, dove tengono in vita esseri mostruosi e deformi». E dunque chi entra immagina una immersione nel dolore. Belli i viali alberati, ma, dietro quelle finestre? Don Carmine Arice, responsabile della Pastorale della Casa, è un pugliese arrivato qui da oltre vent’anni. Ci porterà per i reparti, in un labirinto infinito di corridoi e stanze e sotterranei dove, ti fa notare, un uomo in carrozzella può andare ovunque senza incontrare un gradino: e sì che l’anno di fondazione della casa precede di 150 anni le leggi sulle 'barriere architettoniche'. Quel prete, san Giuseppe Cottolengo, ci aveva già pensato.
Passi per l’ospedale con gli ambulatori affollati , riesci di nuovo, verso la chiesa. Qui il via vai delle suore si fa più intenso. Allo scadere dell’ora vanno e vengono le sorelle che si alternano per tutto il giorno nella laus perennis. C’è sempre qualcuno, in questa chiesa, che prega. Sentinelle, che s’alternano alla guardia. Perché pregare, diceva il fondatore, è 'il primo lavoro'. Quando aveva bisogno di nuove strutture, fondava un nuovo monastero di clausura. Quasi che veramente fondante fosse il pregare. Singolare logica, pensa fra sé il visitatore del 2009, a tutt’altro sguardo abituato; ma si direbbe, a giudicare dall’allargarsi prodigioso di questa casa dal 1832, che funziona. E siamo arrivati ai Santi innocenti, il reparto dei 'mostri' nella leggenda popolare. 122 ricoverati, quasi tutti disabili gravi. Morti ormai i macrocefali dalla testa enorme, gli ospiti qui sono quasi tutti handicappati anziani, età media 65 anni ( da quando esistono le ecografie, certi figli raramente vengono al mondo. Li individuano, e vengono eliminati).
Ai Santi innocenti i ricoverati sono divisi in dieci 'famiglie', ciascuna con una propria casa. Grandi stanze luminose, odore di pulito. Qualche ospite passeggia e risponde al saluto degli infermieri con un gesto di familiare consuetudine. Una, ancora giovane, esile, un moncone al posto di una mano, all’abbraccio di una suora risponde prima con uno scuotersi spastico del busto; poi le si calma fra le braccia. Le ricoverate qui, anche le più vistosamente colpite da una disabilità che ne annebbia lo sguardo o rende incerto il movimento delle mani, lavorano. Il lavorare con un senso, e uno scopo, al Cottolengo è considerato essenziale per l’uomo. Allora al pomeriggio trovi le donne ai tavoli dei laboratori, intente ad assemblare lentamente pezzi di giocattoli. O, le più abili, a lavorare all’uncinetto, le mani che con lucida precisione tramano pizzi elaborati. Una legge da un quaderno spalancato: 'VII93XC2P', e tutta la pagina è un susseguirsi di formule astruse, scritte a mano. È l’ordine dei punti del merletto, spiega la suora; e rimani attonita a contemplare il lavorio di quelle mani. Splendidi, degni di un altare, i pezzi finiti.
Le donne riconoscono don Carmine, gli sorridono. Pare un convivio di vecchie di paese intente ad antichi femminei mestieri. Dov’è, ti domandi, il dolore cocente che paventavi entrando in queste stanze? Le donne sembrano serene nel loro lavorare, in una dimestichezza affettuosa con le assistenti. Forse che il problema di queste persone, ti domandi, stia più negli occhi di chi li guarda che in loro? Perché noi dobbiamo essere efficienti, autonomi, capaci; e allora ci sembra un povero niente, quel faticoso lavorio di dita per assemblare una scatola di matite. Ma loro, le donne dei Santi innocenti, ti dicono: «L’ho fatto io», e ne sono contente. Ci han messo un’ora, a ordinare quei pastelli. Ma qui, dice don Carmine, «il tempo è al servizio degli uomini, e non gli uomini al servizio del tempo».
Armadi colmi di giochi ad incastro per bambini. Banchi incrostati di anni di pitture. I quadri dei disabili sembrano opere di impressionisti, sgargianti, tracimanti di colore. Un grande foglio appeso al muro è tutto nero: le ospiti lo hanno dipinto così. per raccontare la morte. Un altro è un’esplosione di luce: quello, spiega la suora, è, secondo loro, il Paradiso.
Vai avanti e parli meno, e resti assorta a guardare. Certo, nelle mani tremanti, negli sguardi persi riconosci come un piegarsi della vita sotto al giogo di un antica condanna. Una ferita oscura, originaria, in queste donne è evidente. «Dove la ferita è più grande, la domanda è più grande. Queste perso- ne sono come un grido, una più forte domanda di Cristo», dice don Carmine, intuendo ciò che ti stai chiedendo. (Forse per questo, per questa domanda evidente portata dalla sofferenza, oggi i figli malformati si sopprimono?) No, non ci sono creature 'metà cavallo e metà uomo' qui al Cottolengo, come fantasticavano una volta nei paesi del Torinese. Ma solo uomini con un 'di meno', che agli occhi dei sani è insopportabile. ( E accadeva che li lasciassero qui con l’inganno. Li portavano per una visita e li abbandonavano, perché quella diversità era onta fra i sani).
Eppure Angela, sorda, muta e cieca, si alza di scatto nell’avvertire la voce amica del prete, gli afferra le mani, inizia un intenso discorso di gesti che la suora che le è accanto – grossa, benigna, materna – capisce. Le risponde. Ridono fra di loro. Oltre la maschera che, fuori, noi sani portiamo, qui dentro intravvedi cos’è davvero un uomo. Oltre a ogni apparenza. «Vede – dice don Arice – questo giardino, come è perfettamente curato. Le finestre di fronte sono quelle dei malati di Alzheimer. Ecco, questo giardino lo curiamo così perché ognuno dei malati che lo guarda ha per noi un valore infinito».
È una concezione dell’uomo molto grande, quella che regge questo allargarsi di case e stanze da 170 anni nel cuore di Torino. Quando un canonico quarantenne si trovò di fronte allo scandalo della ingiustizia e del dolore: una donna incinta e malata respinta da due ospedali e lasciata morire in una stalla. Don Giuseppe Cottolengo cambiò vita. Le sue case nacquero una dopo l’altra, senza un progetto,rispondendo al quotidiano bisogno. I soldi, all’occorrenza, arrivavano. Si mostrava evidente, quasi in un’eco di ciò che il Manzoni proprio in quegli anni scriveva, che «la c’è, la Provvidenza». Malati segregati, poveri 'mostri' da imboccare e amare, confluirono nella Casa. Oggi nuovi poveri premono alle porte della cittadella dietro a Porta Palazzo. Vecchi dementi, lasciati soli in case vuote: la nuova emergenza, sono i vecchi. La Piccola Casa resta nel cuore della Torino del Duemila, crocevia di mille etnie, come un segno. Giovanni Paolo II qui disse: «Se non si comincia da questa accettazione dell’altro, comunque egli si presenti, in lui riconoscendo un’immagine vera anche e offuscata di Cristo, non si può dire di amare veramente ». Tutto un altro amore. Tutta un’altra logica, da quella di cui scrivono i giornali.
Se dalla sofferenza di Dio nasce la Speranza JÜRGEN MOLTMANN - Con Gesù dalla storia della morte alla storia della vita eterna - di Jürgen Moltmann – Avvenire, 24 maggio 2009
Il rapporto tra gli studiosi del Nuovo Testamento e i teologi, e viceversa, non sempre è stato dei migliori, perché i primi devono condurre un’indagine critica e i secondi devono dare formulazione alla certezza della fede. L’esegesi del Nuovo Testamento è segnata dalla tendenza moderna a cedere allo storicismo, mentre la teologia è segnata da quella a comprendersi come filosofia cristiana della religione, e in tal modo entrambi si allontanano parecchio l’una dall’altra, in ogni caso per non interferire e non disturbarsi reciprocamente. Ma ci sono anche i richiami a quanto ci è comune. Base della nostra lettura è lo stesso libro: il Nuovo Testamento, nel contesto del canone biblico. Lo leggiamo certamente con occhi diversi e con differenti interessi, ma si tratta delle stesse parole e idee, è lo stesso messaggio che noi leggiamo. Che cosa, dunque, dicono gli studiosi del Nuovo Testamento ai teologi e che cosa dicono i teologi a chi studia il Nuovo Testamento, nella comune lettura della Scrittura? La risposta è allo stesso tempo semplice e difficile, proprio come accadde nell’incontro dell’apostolo Filippo con il 'funzionario etiope di Candace'. Costui, nella sua carrozza, leggeva il profeta Isaia e proprio nel momento in cui stava leggendo il capitolo 53 giunse a «Gaza, che è deserta» (come oggi). Filippo ferma il carro e interpella il lettore della Bibbia con la domanda ermeneutica: «Capisci quello che stai leggendo?», e «partendo da quel passo della Scrittura, annunciò a lui (il Vangelo di) Gesù» (At 8,35). Comprendiamo noi ciò che leggiamo, e afferriamo bene ciò che sappiamo?
Questa è la domanda comune a esegeti del Nuovo Testamento e a teologi, e se questa è la domanda teologica rivolta agli esegeti del Nuovo Testamento, che conoscono i loro testi dal punto di vista della critica testuale e dal punto di vista storico, ciò, però, presuppone nei teologi che anch’essi leggano il Nuovo Testamento con l’aiuto degli esegeti; dunque la domanda ermeneutica è rivolta a noi: «Quello che vuoi comprendere, lo leggi anche?». Felice l’esegeta del Nuovo Testamento che sa unire in sé entrambi le cose, come l’ha saputo fare Charles Moule; infelice il teologo che non lo sa fare. Ma come è possibile unire le due cose, per rispondere alla domanda ermeneutica in modo credibile? [...] Se si vuol comprendere i testi del Nuovo Testamento nel senso dei loro autori, si deve entrare in rapporto con il loro messaggio cristiano, il messaggio che essi intendono comunicare. Io devo comprendere che cosa essi vogliono annunciare, raccontare o descrivere come Vangelo di Gesù Cristo. Ciò non significa che io debba essere d’accordo o che soltanto dei cristiani possano oggi comprendere i cristiani di allora. Né io devo essere necessariamente un credente per poter studiare teologia. Ma l’esegesi teologica di testi neotestamentari prende i testi alla lettera e cerca di afferrarne il contenuto. In questo giocano un ruolo importante, a cui occorre prestare sempre attenzione, il contesto, il kairos e la comunità di origine di questi testi, ma i testi non hanno solamente questi ambienti di riferimento, bensì anche il loro specifico contenuto, tanto che noi dobbiamo considerare le loro affermazioni anche secondo quello che viene detto. Un’indagine teologica sulla teologia dell’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, nel suo tempo e nella sua situazione, è però soltanto un lato dell’esegesi teologica. Dall’altro lato si pone la domanda su ciò che questo messaggio teologico può significare per noi oggi. Qui si leva il ponte ermeneutico from what meant to what it means (da ciò che ha significato a ciò che significa), e qui inizia il lavoro del teologo.
Egli deve leggere la Lettera di Paolo ai Romani come se essa non fosse scritta soltanto ai cristiani di Roma di allora, ma anche a lui, lettore, e ai suoi contemporanei di oggi. Può allora, il teologo, prescindere dal lavoro teologico dell’esegeta del Nuovo Testamento e far apparire come per incanto la sua propria esegesi?
Prendiamo ad esempio Karl Barth. Il suo libro La Lettera ai Romani apparve nel 1922, diede vita alla nuova teologia dialettica e fu per molti l’opera teologica più importante della prima metà del XX secolo. La prefazione inizia con le frasi: «Paolo ha parlato ai suoi contemporanei come un figlio del suo tempo. Ma assai più importante di questa verità è quest’altra, che egli parla, come profeta e apostolo del Regno di Dio, a tutti gli uomini di tutti i tempi.
[...] Tutta la mia attenzione è stata rivolta a penetrare con lo sguardo attraverso l’aspetto storico, secondo lo spirito della Bibbia, che è lo Spirito eterno». Ci si deve confrontare con il testo e con ciò che si trova in esso fino a che il muro tra il primo secolo e il nostro secolo diventa trasparente, fino a che Paolo parla là e l’uomo ascolta qui. [...] La questione ermeneutica è la questione del 'come': come devo comprenderlo? L’ermeneutica non dà risposte alla questione del 'perché': perché devo comprenderlo? Essa presuppone la risposta positiva.
Perciò: perché facciamo questo sforzo? Forse perché il Nuovo Testamento è il documento fondativo della tradizione cristiana e ha caratterizzato la storia della nostra cultura europea? Per questo, però, basterebbero la ricerca storica sui documenti e la loro storia degli effetti nel cristianesimo. Forse perché il Nuovo Testamento viene letto, spiegato e predicato in ogni liturgia della Chiesa? Questo è vero: il Nuovo Testamento non ha il suo Sitz im Leben soltanto nella terra di Giudea di duemila anni fa, ma anche sugli altari e sui pulpiti delle chiese e nelle mani dei lettori di oggi. La parola che suscita la fede, che motiva l’amore e incoraggia alla speranza, rende presente Cristo. Per comprendere questa parola l’esegesi teologica e una corrispondente teologia ecclesiale del presente sono necessarie. Ma tutto questo basta? Adesso io parlo da teologo: il ponte ermeneutico, che porta dal Gesù storico e dal suo Vangelo a noi oggi, è il ponte sul fiume Lete, il fiume della dimenticanza. Esso è anche il ponte sul fiume di ciò che passa, poiché in fondo è, in primo luogo e in definitiva, il ponte dal Gesù storico al Cristo presente. È il ponte della risurrezione, posto sull’abisso della morte. Solo in forza della sua risuscitazione dalla morte di croce nell’anno 33, ad opera di Dio, Gesù è oggi presente.
Se partiamo dalla presenza del Risorto, allora ricordiamo la vita, l’opera e la morte di Gesù come 'la storia di un vivente', proprio come gli evangelisti hanno raccontato la sua vita e la passione alla luce della sua risurrezione. Il ponte ermeneutico ha il suo fondamento in questa svolta indeducibile e inattesa dalla morte alla vita, che noi riconosciamo avvenuta in Gesù Cristo: la sua fine temporale divenne il suo inizio eterno. Sul ponte ermeneutico percepiamo la storia della morte di Gesù Cristo nella luce del futuro della vita.
Guardiamo indietro al futuro passato di Cristo e viviamo nel presente di colui che verrà. Nella storia di morte degli storici Gesù diventa 'storico' e rimane a noi estraneo; nella storia di futuro della vita eterna noi lo comprendiamo e addirittura accendiamo la fiamma della speranza sui cimiteri della storia, poiché Gesù non solo è risuscitato dalla sua morte di croce, ma è risuscitato 'dai morti' anche come il primogenito di coloro che si sono addormentati e come l’autore della vera vita. In tal modo si raggiunge l’orizzonte universale di ciò di cui parla il Nuovo Testamento. Nel Cristo della Chiesa c’è più che la chiesa: si tratta della venuta di Dio e del futuro del nuovo mondo della vita, che supera la morte. Comprendiamo ciò che leggiamo? Quando leggiamo il Nuovo Testamento e ne abbiamo profonda intelligenza, ci avviciniamo a ricordi sorprendenti e alla accecante luce di una grande speranza. Filippo aveva dunque probabilmente ragione, quando «cominciando da questo passo della Scrittura annunciò il vangelo di Gesù».
Galileo - Occasione fallita o proficua lezione? - di Jean-Robert Armogathe* - Avvenire, 24 maggio 2009
La condanna di Galileo non poteva accadere in un momento meno propizio: le ultime due generazioni avevano di fatto assistito ad una rivoluzione culturale senza precedenti, di cui la Chiesa cattolica era stata il promotore e il diffusore. Nel 1582 il papato aveva proposto al mondo la riforma del calendario: era stata così dimostrata la perizia degli astronomi cattolici. Il calendario gregoriano (da papa Gregorio XIII) era opera della stupenda ricerca matematica accolta e sviluppata dalla Chiesa, soprattutto dai padri gesuiti del Collegio romano. Rimane come un monumento permanente della Controriforma cattolica. Gli interlocutori incontrati da Galileo a Roma – che l’avevano festeggiato con molti onori – erano convinti di avere ammaestrato il tempo: avevano dotato il mondo di un calendario 'perpetuo', con la più esatta (e quasi perfetta) misura del tempo. Le potenze protestanti avevano respinto una tale riforma, che rendeva manifesto ai loro occhi quanto la Roma papale fosse la sede dell’Anticristo, la nuova Babilonia, che voleva sostituirsi a Dio stesso nel dominio del tempo, cancellando la datazione pasquale stabilita dal Concilio di Nicea e sottraendo dieci giorni alla durata del mondo, anticipando così il regno del Anticristo. La riforma del calendario è stato il segno più patente della dominante competenza degli scienziati cattolici. Ma era inserita in tutta una serie di misure decise dal Concilio di Trento per incrementare la formazione del clero – seminari maggiori creati dai vescovi, collegi dei gesuiti e di altre congregazioni e ordini, accademie scientifiche: Roma aveva moltiplicato le istituzioni di insegnamento e di ricerca, con un vigore educativo che voleva essere la risposta alle riforme universitarie dei protestanti (basta ricordare Melantone, «il precettore della Germania»). Numerosi religiosi erano impegnati nel campo della ricerca scientifica, scambiandosi dati sperimentali, osservazioni astronomiche, documenti vari, nel proficuo «commercio epistolare» della respublica litteraria.
All’inizio della Controriforma la Chiesa si è voluta dotare dei mezzi disciplinari ed educativi idonei per combattere e bloccare l’estensione del movimento riformatore. Questa politica si è rivelata feconda, e ha contributo a gran parte de la riconquista cattolica (soprattutto nella Germania meridionale e nell’Europa centrale). Dal canto loro, i pontefici romani si sono affermati come mecenati delle scienze e degli arti, ad un livello mai uguagliato.
Galileo stava tra i lumi di questa scienza cattolica, era stato festeggiato dai gesuiti romani e godeva dell’amicizia di tanti cardinali, tra i quali Maffeo Barberini (papa Urbano VIII dal 1623 al 1644).
Gli studiosi hanno ricostruito i motivi della sua condanna: sono di natura politica, diplomatica, disciplinare (il non avere obbedito alla cosiddetta «ingiunzione del 1616» di non pubblicare nulla sull’eliocentrismo), personale (aveva perso la fiducia del papa). La dimensione dottrinale del reato è scarsa, e i giudici non hanno insistito su questo aspetto.
Il «caso» non ha suscitato dibattiti teologici, si trattava per i contemporanei di un caso disciplinare. Tanto più che i decreti delle congregazioni romane non erano ricevuti nella maggior parte dell’Europa cattolica, dove i regni (Spagna, Francia, Sacro Impero) e tanti altri Stati (Venezia) erano molto gelosi della propria indipendenza dalle decisioni romane: Index non viget era la parola d’ordine della maggioranza dei Paesi cattolici. Eppure i danni dalla sentenza del 1633 sono stati cospicui: si è consumata la rottura tra la Chiesa e la visione moderna, scientifica, del mondo. Si è detto che la condanna di Fénelon, nel 1699, era stata «il tramonto dei mistici» (Louis Cognet), allo stesso modo, la condanna di Galileo è stata il tramonto della scienza cattolica. Le sequele del decreto si sono allargate ben al di là del semplice fatto di una messa all’Indice. La scienza moderna si è da allora in poi sviluppata spesso senza la Chiesa e spesso contro di lei. Il colpo tirato nel campo della cosmologia ha fatto tante vittime collaterali nella critica storica e filologica e nel campo dell’erudizione. Il modernismo del primo Novecento, la cui ombra ha coperto la storia intellettuale cattolica per mezzo secolo, mi pare una lontana eppure genuina sequela di questa condanna del 1632.
È palese che Galileo Galilei rimane un eroe scomodo per gli zelanti dello scientismo laicista; non era certo un metafisico e, nonostante le prove subite dalla sua Chiesa, è rimasto un buon cristiano. Arthur Koestler ha ricordato le debolezze del grand’uomo: non ha inventato il cannocchiale, né il microscopio, né il pendolo isocrono, ha sbagliato in diversi campi (le maree), non ha rilevato le macchie solari e non ha potuto provare il copernicanesimo. Eppure, è stato il padre della dinamica – e questo basterebbe perché sia considerato tra i padri della scienza nuova. La sua condanna ingiustificata ne ha fatto il martire del oscurantismo clericale e il simbolo dell’autonomia del pensiero scientifico. Le Chiese ortodosse sono rimaste a lungo anti-copernicane; i grandi riformatori protestanti si sono opposti all’eliocentrismo.
Purtroppo, il caso Galileo è rimasto come una macchia per la sola Chiesa cattolica e ha inquinato le relazioni tra la Chiesa e la scienza per due secoli. Invano la condanna è stata cancellata, la Chiesa si è voluta riconciliare con la scienza contemporanea (basta ricordare l’abate agostiniano Gregor Mendel o, nel secolo scorso, il canonico belga Georges Lemaître), «ha invitato i premi Nobel al Vaticano» (si ricorda il bel libro di Regis Ladous), ha incoraggiato le istituzioni scientifiche (la Specola vaticana, l’Accademia pontificia): ci vorranno parecchie generazioni, e gli sforzi meritevoli di tanti papi (tra quali Pio XI e Pio XII), per riconciliare pienamente la Chiesa e la scienza moderna e ricucire i loro legami, senza mai allontanare totalmente il sospetto di opportunismo (in parte verificato, negli ambienti romani, intorno alla figura di Teilhard de Chardin). Eppure, nonostante i danni, non si può dare del caso Galileo un giudizio del tutto negativo. Si può sostenere pure che questa condanna fatale è stata di fatto molto utile nella storia del pensiero dottrinale e dell’insegnamento magisteriale della Chiesa cattolica. La memoria della condanna e delle sue sequele ha lasciato una traccia segnata: un atteggiamento di grande cautela nei confronti di ogni giudizio sulle nuove teorie scientifiche. Si è avverata una chiara distinzione di ordine tra le verità rivelate e quelle inventate dall’ingegno umano. Può darsi che la causa sia il timore di sbagliarsi di nuovo, di non volere aprire un 'nuovo caso Galileo', o la convinzione dei piani diversi della scienza e della Rivelazione. I due libri, quello delle Scritture e quello della Natura (per proporre un’immagine familiare, dal Medioevo in poi, alla mente occidentale), richiedono un’ermeneutica diversa, con delle regole proprie; la loro lettura non si può mescolare.
L’evoluzionismo, avversato dalle Chiese fondamentaliste americane, non è stato condannato. Sempre attenti alle norme morali e al rispetto della dignità umana, i pontefici romani hanno accolto con interesse e benevolenza i progressi della genetica, delle neuroscienze, le grandi tesi della cosmologia. I nuovi dati scientifici sono insegnati nelle scuole cattoliche; da mezzo secolo, non c’è più un Indice, e Sigmund Freud non è stato anatematizzato...
L’ apertura dell’Archivio del Sant’Uffizio, voluta dall’attuale pontefice, ha svelato un’amministrazione molto preoccupata della disciplina interna e cosciente della sua debolezza nel controllare la produzione intellettuale. Galileo era troppo noto agli ambienti romani (e curiali) e la sua 'disubbidienza' troppo patente per rimanere illeso.
Ma la Chiesa ha approfittato del caso: questa occasione fallita è stata una proficua lezione, che ha facilitato nel Novecento l’aggiornamento cattolico nei confronti dei nuovi orizzonti scientifici.
*Ordinario di Storia delle idee religiose e scientifiche nell’Europa moderna presso l’Ecole pratique des hautes études alla Sorbona, Parigi.
1) 24/05/2009 12.22.35 – Radio Vaticana – Al Regina Caeli il saluto di Benedetto XVI ai cattolici in Cina: rinnovate la comunione di fede in Cristo e di fedeltà al Successore di Pietro
2) 24/05/2009 11.26.14 – Radio Vaticana – Il Papa a Cassino: cultura europea è ricerca di Dio e attenzione ai più deboli
3) La testimonianza in un mondo multiculturale e multireligioso - Il veicolo più efficace per la verità - Martedì scorso è stato presentato alla Pontificia Università Urbaniana il libro All'origine della diversità, con prefazione del patriarca di Venezia (Milano, Guerini e Associati, 2009, pagine 238, euro 15). Pubblichiamo uno stralcio del contributo del curatore. - di Javier Prades
4) Cosa spera l'uomo di oggi? - I cattolici pessimisti sono una bestemmia vivente - Un anno fa, il 22 maggio 2008, moriva Paolo Giuntella. Giornalista e scrittore, era nato nel 1946 e, dopo avere lavorato per alcuni quotidiani ("Il Popolo", "Avvenire", "Il Mattino"), dal 1999 seguiva per il Tg1 della Rai l'attività del presidente della Repubblica. Poco prima di morire era stato pubblicato il suo ultimo libro (L'aratro, l'ipod, e le stelle. Diario di viaggio di un laico cristiano, Milano, Paoline, 2008, pagine 175, euro 12), e ora è appena uscita, a cura di Laura Rozza Giuntella, la nuova edizione di un volumetto scritto con il padre, lo storico Vittorio Emanuele Giuntella (1913-1996), con l'aggiunta di una lunga appendice (Il gomitolo dell'alleluja. Di padre in figlio il filo della fede, Roma, Ave, 2009, pagine 151, euro 9). Per ricordare lo scrittore pubblichiamo un suo testo inedito. - di Paolo Giuntella – L’Osservatore Romano, 23 maggio 2009
5) ETICA E SOCIETÀ - «Alto valore formativo e informativo». Così l’arcivescovo di Bologna ha presentato il «manifesto» lanciato da Scienza & vita, Forum delle associazioni familiari e Retinopera - «Liberi per vivere» Una sfida di verità - DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 23 maggio 2009
6) Dal caso Englaro alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (I) - ).- La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero ed abbiamo chiesto al prof. Lucio Romano di rispondere. - Il prof. Romano è dirigente ginecologo nel Dipartimento di Scienze Ostetrico Ginecologiche, Urologiche e Medicina della Riproduzione dell’Università di Napoli “Federico II”, e docente di Ostetricia al Corso di Laurea Specialistica in Scienze Ostetriche. E' inoltre docente di Bioetica ai corsi di laurea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presso l’A.O. S. Carlo di Potenza; e alla Facoltà di Bioetica e al Master in Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. E' Vicepresidente del Movimento per la Vita Italiano e componente del Consiglio Esecutivo nazionale dell’Associazione “Scienza & Vita”. Fa inoltre parte del Comitato Scientifico della rivista “I Quaderni di Scienza & Vita” ed è autore insieme a Maria Luisa Di Pietro, Maurizio P. Faggioni e Marina Casini del volume “Dall'aborto chimico alla contraccezione d'emergenza” (Edizioni ART, Roma 2008).
7) Libertà religiosa minacciata - Venezuela si aggiunge all’ultimo rapporto della Commissione USA - di padre John Flynn, LC
8) La mistica di Edith Stein - L'irruzione della Verità nella notte di Bad Bergzabern - Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni tenute all'università di Enna nell'ambito di un convegno intitolato "Edith Stein: esistenza, verità e bellezza". - di Cristiana Dobner – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
9) Nel santo patrono d'Europa le radici del pontificato di Benedetto XVI - L'inscindibile legame tra obbedienza e libertà - di Mariano Dell'Omo Benedettino Vicearchivista dell'abbazia di Montecassino – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
10) Il Patriarca Twal e l'arcivescovo Franco sull'esito del pellegrinaggio di Benedetto XVI - Il Papa in Terra Santa e i frutti da raccogliere – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
11) I limiti inderogabili del dialogo sui temi etici con la Casa Bianca e con il Congresso - I vescovi degli Stati Uniti su ricerca e obiezione di coscienza - di Marco Bellizi – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
12) A colloquio con dom Pietro Vittorelli, abate di Montecassino - Il Papa nel cuore dell'Europa cristiana - di Nicola Gori – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
13) DOMENICHE DI PRIME COMUNIONI - L’EVENTO ZITTITO MUOVE IL CUORE DI MOLTI - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 24 maggio 2009
14) CHIESA E SOCIETÀ - Cottolengo Altro che 'mostri deformi' tenuti in vita ad oltranza - DAL NOSTRO INVIATO A TORINO - MARINA CORRADI – Avvenire, 24 maggio 2009
15) Se dalla sofferenza di Dio nasce la Speranza JÜRGEN MOLTMANN - Con Gesù dalla storia della morte alla storia della vita eterna - di Jürgen Moltmann – Avvenire, 24 maggio 2009
16) Galileo - Occasione fallita o proficua lezione? - di Jean-Robert Armogathe* - Avvenire, 24 maggio 2009
24/05/2009 12.22.35 – Radio Vaticana – Al Regina Caeli il saluto di Benedetto XVI ai cattolici in Cina: rinnovate la comunione di fede in Cristo e di fedeltà al Successore di Pietro
Al termine della Messa la recita del Regina Caeli. Queste le parole del Papa:
Cari fratelli e sorelle!
Ogni volta che celebriamo la Santa Messa, sentiamo echeggiare nel cuore le parole che Gesù affidò ai discepoli nell’Ultima Cena come un dono prezioso: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Gv 14,27). Quanto bisogno ha la comunità cristiana e l’intera umanità di assaporare appieno la ricchezza e la potenza della pace di Cristo! San Benedetto ne è stato grande testimone, perché l’ha accolta nella sua esistenza e l’ha fatta fruttificare in opere di autentico rinnovamento culturale e spirituale. Proprio per questo, all’ingresso dell’Abbazia di Montecassino e di ogni altro monastero benedettino, è posta come motto la parola “PAX”: la comunità monastica, infatti, è chiamata a vivere secondo questa pace, che è dono pasquale per eccellenza. Come sapete, nel mio recente viaggio in Terra Santa mi sono fatto pellegrino di pace, e oggi – in questa terra segnata dal carisma benedettino – mi è data l’occasione per sottolineare, ancora una volta, che la pace è in primo luogo dono di Dio, e dunque la sua forza sta nella preghiera.
E’ dono affidato, però, all’impegno umano. Anche l’energia necessaria per attuarlo si può attingere dalla preghiera. E’ pertanto fondamentale coltivare un’autentica vita di preghiera per assicurare il progresso sociale nella pace. Ancora una volta la storia del monachesimo ci insegna che una grande crescita di civiltà si prepara nel quotidiano ascolto della Parola di Dio, che spinge i credenti ad un sforzo personale e comunitario di lotta contro ogni forma di egoismo e di ingiustizia. Solo imparando, con la grazia di Cristo, a combattere e vincere il male dentro di sé e nelle relazioni con gli altri, si diventa autentici costruttori di pace e di progresso civile. La Vergine Maria, Regina della Pace, aiuti tutti i cristiani, nelle diverse vocazioni e situazioni di vita, ad essere testimoni della pace, che Cristo ci ha donato e ci ha lasciato come missione impegnativa da realizzare dappertutto.
Oggi, 24 maggio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria, Aiuto dei Cristiani - che è venerata con grande devozione nel santuario di Sheshan a Shanghai -, si celebra la Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina. Il mio pensiero va a tutto il Popolo cinese. In particolare saluto con grande affetto i cattolici in Cina e li esorto a rinnovare in questo giorno la loro comunione di fede in Cristo e di fedeltà al Successore di Pietro. La nostra comune preghiera ottenga un 'effusione dei doni dello Spirito Santo, affinché l'unità fra tutti i cristiani, la cattolicità e l'universalità della Chiesa siano sempre più profonde e visibili.
…
E infine saluto con grande affetto voi tutti, abitanti di Cassino e del suo territorio! Vi ringrazio per la vostra accoglienza, in particolare quanti avete in diversi modi collaborato alla preparazione della mia visita. Grazie di cuore! La Madonna vegli sempre su di voi e vi dia la forza di perseverare nel bene. Un pensiero speciale rivolgo anche ai ragazzi della Diocesi di Genova, radunati in questo momento a Roma, in Piazza San Pietro, per festeggiare la loro Cresima. In questa domenica, in cui si celebra la Giornata delle comunicazioni sociali, con fiducia filiale invochiamo Maria Ausiliatrice con la preghiera del Regina Caeli.
24/05/2009 11.26.14 – Radio Vaticana – Il Papa a Cassino: cultura europea è ricerca di Dio e attenzione ai più deboli
“Nella vostra Abbazia si tocca con mano il “quaerere Deum”, il fatto cioè che la cultura europea è stata la ricerca di Dio e la disponibilità al suo ascolto. E questo vale anche nel nostro tempo”: è quanto ha detto Benedetto XVI durante la Messa a Cassino, dove è arrivato stamani verso le 9.30. Il Pontefice ha parlato della necessità di “trasmettere ai giovani i valori irrinunciabili del nostro patrimonio umano e cristiano. Nell’odierno sforzo culturale teso a creare un nuovo umanesimo, fedeli alla tradizione benedettina – ha detto - voi intendete giustamente sottolineare anche l’attenzione all’uomo fragile, debole, alle persone disabili e agli immigrati”. Quindi ha aggiunto: “questa porzione di Chiesa che vive attorno a Montecassino, è erede e depositaria della missione, impregnata dello spirito di san Benedetto, di proclamare che nella nostra vita nessuno e nulla devono togliere a Gesù il primo posto; la missione di costruire, nel nome di Cristo, una nuova umanità all’insegna dell’accoglienza e dell’aiuto ai più deboli”. Parlando dell’odierna Solennità dell’Ascensione ha detto: “Nel Cristo asceso al cielo, l’essere umano è entrato in modo inaudito e nuovo nell'intimità di Dio; l'uomo trova ormai per sempre spazio in Dio. Il “cielo” non indica un luogo sopra le stelle, ma qualcosa di molto più ardito e sublime: indica Cristo stesso, la Persona divina che accoglie pienamente e per sempre l’umanità, Colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti. E noi ci avviciniamo al cielo, anzi, entriamo nel cielo, nella misura in cui ci avviciniamo a Gesù ed entriamo in comunione con Lui. Pertanto, 1'odierna solennità dell’Ascensione ci invita a una comunione profonda con Gesù morto e risorto, invisibilmente presente nella vita di ognuno di noi”. Ecco il testo integrale dell'omelia del Papa:
Cari fratelli e sorelle!
“Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8). Con queste parole, Gesù si congeda dagli Apostoli, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura. Subito dopo l’autore sacro aggiunge che “mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi” (At 1,9). E’ il mistero dell’Ascensione, che quest’oggi solennemente celebriamo. Ma cosa intendono comunicarci la Bibbia e la liturgia dicendo che Gesù “fu elevato in alto”? Si comprende il senso di questa espressione non a partire da un unico testo, neppure da un unico libro del Nuovo Testamento, ma nell'attento ascolto di tutta la Sacra Scrittura. L’uso del verbo “elevare” è in effetti di origine veterotestamentaria, ed è riferito all'insediamento nella regalità. L’Ascensione di Cristo significa dunque, in primo luogo, l'insediamento del Figlio dell'uomo crocifisso e risorto nella regalità di Dio sul mondo.
C’è però un senso più profondo non percepibile immediatamente. Nella pagina degli Atti degli Apostoli si dice dapprima che Gesù fu “elevato in alto” (v. 9), e dopo si aggiunge che “è stato assunto” (v. 11). L'evento è descritto non come un viaggio verso l'alto, bensì come un’azione della potenza di Dio, che introduce Gesù nello spazio della prossimità divina. La presenza della nuvola che “lo sottrasse ai loro occhi” (v. 9), richiama un'antichissima immagine della teologia veterotestamentaria, ed inserisce il racconto dell'Ascensione nella storia di Dio con Israele, dalla nube del Sinai e sopra la tenda dell'alleanza del deserto, fino alla nube luminosa sul monte della Trasfigurazione. Presentare il Signore avvolto nella nube evoca in definitiva il medesimo mistero espresso dal simbolismo del “sedere alla destra di Dio”. Nel Cristo asceso al cielo, l’essere umano è entrato in modo inaudito e nuovo nell'intimità di Dio; l'uomo trova ormai per sempre spazio in Dio. Il “cielo” non indica un luogo sopra le stelle, ma qualcosa di molto più ardito e sublime: indica Cristo stesso, la Persona divina che accoglie pienamente e per sempre l’umanità, Colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti. E noi ci avviciniamo al cielo, anzi, entriamo nel cielo, nella misura in cui ci avviciniamo a Gesù ed entriamo in comunione con Lui. Pertanto, 1'odierna solennità dell’Ascensione ci invita a una comunione profonda con Gesù morto e risorto, invisibilmente presente nella vita di ognuno di noi.
In questa prospettiva comprendiamo perché l’evangelista Luca affermi che, dopo l'Ascensione, i discepoli tornarono a Gerusalemme “pieni di gioia” (24,52). La causa della loro gioia sta nel fatto che quanto era accaduto non era stato in verità un distacco, un'assenza permanente del Signore: anzi essi avevano ormai la certezza che il Crocifisso- Risorto era vivo, ed in Lui erano state per sempre aperte all’umanità le porte della vita eterna. In altri termini, la sua Ascensione non ne comportava la temporanea assenza dal mondo, ma piuttosto inaugurava la nuova, definitiva ed insopprimibile forma della sua presenza, in virtù della sua partecipazione alla potenza regale di Dio. Toccherà proprio a loro, ai discepoli, resi arditi dalla potenza dello Spirito Santo, renderne percepibile la presenza con la testimonianza, la predicazione e l’impegno missionario. La solennità dell'Ascensione del Signore dovrebbe colmare anche noi di serenità e di entusiasmo, proprio come avvenne per gli Apostoli che dal Monte degli Ulivi ripartirono “pieni di gioia”. Come loro, anche noi, accogliendo l’invito dei “due uomini in bianche vesti”, non dobbiamo rimanere a fissare il cielo, ma, sotto la guida dello Spirito Santo, dobbiamo andare dappertutto e proclamare l’annuncio salvifico della morte e risurrezione del Cristo. Ci accompagnano e ci sono di conforto le sue stesse parole, con le quali si chiude il Vangelo secondo san Matteo: “Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19).
Cari fratelli e sorelle, il carattere storico del mistero della risurrezione e dell’ascensione del Cristo ci aiuta a riconoscere e a comprendere la condizione trascendente ed escatologica della Chiesa, la quale non è nata e non vive per supplire all’assenza del suo Signore “scomparso”, ma piuttosto trova la ragione del suo essere e della sua missione nell’invisibile presenza di Gesù operante con la potenza del suo Spirito. In altri termini, potremmo dire che la Chiesa non svolge la funzione di preparare il ritorno di un Gesù “assente”, ma, al contrario, vive ed opera per proclamarne la “presenza gloriosa” in maniera storica ed esistenziale. Dal giorno dell’Ascensione, ogni comunità cristiana avanza nel suo itinerario terreno verso il compimento delle promesse messianiche, alimentata dalla Parola di Dio e nutrita dal Corpo e Sangue del suo Signore. Questa è la condizione della Chiesa – ricorda il Concilio Vaticano II - mentre “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, annunziando la passione e morte del Signore fino a che Egli venga” (Lumen gentium, 8).
Fratelli e sorelle di questa cara Comunità diocesana, l’odierna solennità ci esorta a rinsaldare la nostra fede nella reale presenza di Gesù nella storia; senza di Lui nulla possiamo compiere di efficace nella nostra vita e nel nostro apostolato. E’ Lui, come ricorda l’apostolo Paolo nella seconda lettura, che “ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri per compiere il ministero allo scopo di edificare il corpo di Cristo” cioè la Chiesa. E ciò per giungere “all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio”, essendo la comune vocazione di tutti formare “un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza a cui siamo chiamati” (Ef 4,11-13.14). In quest’ottica si colloca l’odierna mia visita che, come ha ricordato il vostro Pastore, ha l’obbiettivo di incoraggiarvi a “costruire, fondare e riedificare” costantemente la vostra Comunità diocesana su Cristo. Come? Ce lo indica lo stesso san Benedetto, che raccomanda nella sua Regola di niente anteporre a Cristo: “Christo nihil omnino praeponere” (LXII,11).
Rendo pertanto grazie a Dio per il bene che sta realizzando la vostra Comunità sotto la guida del suo Pastore, il Padre Abate Dom Pietro Vittorelli, che saluto con affetto e ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto a nome di tutti. Con lui saluto la Comunità monastica, i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose presenti. Saluto le Autorità civili e militari, in primo luogo il Sindaco a cui sono grato per l’indirizzo di benvenuto, con cui mi ha accolto all’arrivo in questa Piazza Miranda, che da oggi porterà, anche se sono indegno, il mio nome. Saluto i catechisti, gli operatori pastorali, i giovani e quanti in vario modo si prendono cura della diffusione del Vangelo in questa terra carica di storia, che ha conosciuto durante la seconda guerra mondiale momenti di grande sofferenza. Ne sono silenziosi testimoni i tanti cimiteri che circondano la vostra risorta città, tra i quali ricordo in particolare quello polacco, quello tedesco e quello del Commonwealth. Il mio saluto si estende infine a tutti gli abitanti di Cassino e dei centri vicini: a ciascuno, specialmente agli ammalati e ai sofferenti, giunga l’assicurazione del mio affetto e della mia preghiera.
Cari fratelli e sorelle, sentiamo echeggiare in questa nostra celebrazione l’appello di san Benedetto a mantenere il cuore fisso sul Cristo, a nulla anteporre a Lui. Questo non ci distrae, al contrario ci spinge ancor più ad impegnarci nel costruire una società dove la solidarietà sia espressa da segni concreti. Ma come? La spiritualità benedettina, a voi ben nota, propone un programma evangelico sintetizzato nel motto: ora et labora et lege, la preghiera, il lavoro, la cultura. Innanzitutto la preghiera, che è la più bella eredità lasciata da san Benedetto ai monaci, ma anche alla vostra Chiesa particolare: al vostro Clero, in gran parte formato nel Seminario diocesano, per secoli ospitato nella stessa Abbazia di Montecassino, ai seminaristi, ai tanti educati nelle scuole e nei “ricreatori” benedettini e nelle vostre parrocchie, a tutti voi che vivete in questa terra. Elevando lo sguardo da ogni paese e contrada della diocesi, potete ammirare quel richiamo costante al cielo che è il monastero di Montecassino, al quale salite ogni anno in processione alla vigilia di Pentecoste. La preghiera, a cui ogni mattina la campana di san Benedetto con i suoi gravi rintocchi invita i monaci, è il sentiero silenzioso che ci conduce direttamente nel cuore di Dio; è il respiro dell’anima che ci ridona pace nelle tempeste della vita. Inoltre, alla scuola di san Benedetto, i monaci hanno sempre coltivato un amore speciale per la Parola di Dio nella lectio divina, diventata oggi patrimonio comune di molti. So che la vostra Chiesa diocesana, facendo proprie le indicazioni della Conferenza Episcopale Italiana, dedica grande cura all’approfondimento biblico, ed anzi ha inaugurato un itinerario di studio delle Sacre Scritture, consacrato quest’anno all’evangelista Marco e che proseguirà nel prossimo quadriennio per concludersi, a Dio piacendo, con un pellegrinaggio diocesano in Terra Santa. Possa l’attento ascolto della Parola divina nutrire la vostra preghiera e rendervi profeti di verità e di amore in un corale impegno di evangelizzazione e di promozione umana.
Altro cardine della spiritualità benedettina è il lavoro. Umanizzare il mondo lavorativo è tipico dell’anima del monachesimo, e questo è anche lo sforzo della vostra Comunità che cerca di stare a fianco dei numerosi lavoratori della grande industria presente a Cassino e delle imprese ad essa collegate. So quanto sia critica la situazione di tanti operai. Esprimo la mia solidarietà a quanti vivono in una precarietà preoccupante, ai lavoratori in cassa-integrazione o addirittura licenziati. La ferita della disoccupazione che affligge questo territorio induca i responsabili della cosa pubblica, gli imprenditori e quanti ne hanno la possibilità a ricercare, con il contributo di tutti, valide soluzioni alla crisi occupazionale, creando nuovi posti di lavoro a salvaguardia delle famiglie. A questo proposito, come non ricordare che la famiglia ha oggi urgente bisogno di essere meglio tutelata, poiché è fortemente insidiata nelle radici stesse della sua istituzione? Penso poi ai giovani che fanno fatica a trovare una degna attività lavorativa che permetta loro di costruirsi una famiglia. Ad essi vorrei dire: non scoraggiatevi, cari amici, la Chiesa non vi abbandona! So che ben 25 giovani della vostra Diocesi hanno partecipato alla scorsa Giornata Mondiale della Gioventù a Sydney: facendo tesoro di quella straordinaria esperienza spirituale, siate lievito evangelico tra i vostri amici e coetanei; con la forza dello Spirito Santo, siate i nuovi missionari in questa terra di san Benedetto!
Appartiene infine alla vostra tradizione anche l’attenzione al mondo della cultura e dell’educazione. Il celebre Archivio e la Biblioteca di Montecassino raccolgono innumerevoli testimonianze dell’impegno di uomini e donne che hanno meditato e ricercato come migliorare la vita spirituale e materiale dell’uomo. Nella vostra Abbazia si tocca con mano il “quaerere Deum”, il fatto cioè che la cultura europea è stata la ricerca di Dio e la disponibilità al suo ascolto. E questo vale anche nel nostro tempo. So che voi state operando con questo stesso spirito nell’Università e nelle scuole, perché diventino laboratori di conoscenza, di ricerca, di passione per il futuro delle nuove generazioni. So pure che, in preparazione a questa mia visita, avete tenuto un recente convegno sul tema dell’educazione per sollecitare in tutti la viva determinazione a trasmettere ai giovani i valori irrinunciabili del nostro patrimonio umano e cristiano. Nell’odierno sforzo culturale teso a creare un nuovo umanesimo, fedeli alla tradizione benedettina voi intendete giustamente sottolineare anche l’attenzione all’uomo fragile, debole, alle persone disabili e agli immigrati. E vi sono grato che mi diate la possibilità di inaugurare quest’oggi la “Casa della Carità”, dove si costruisce con i fatti una cultura attenta alla vita.
Cari fratelli e sorelle! Non è difficile percepire che la vostra Comunità, questa porzione di Chiesa che vive attorno a Montecassino, è erede e depositaria della missione, impregnata dello spirito di san Benedetto, di proclamare che nella nostra vita nessuno e nulla devono togliere a Gesù il primo posto; la missione di costruire, nel nome di Cristo, una nuova umanità all’insegna dell’accoglienza e dell’aiuto ai più deboli. Vi aiuti e vi accompagni il vostro santo Patriarca, con santa Scolastica sua sorella; vi proteggano i santi Patroni e soprattutto Maria, Madre della Chiesa e Stella della nostra speranza. Amen!
La testimonianza in un mondo multiculturale e multireligioso - Il veicolo più efficace per la verità - Martedì scorso è stato presentato alla Pontificia Università Urbaniana il libro All'origine della diversità, con prefazione del patriarca di Venezia (Milano, Guerini e Associati, 2009, pagine 238, euro 15). Pubblichiamo uno stralcio del contributo del curatore. - di Javier Prades
Secondo la rivelazione cristiana, "ogni singolo uomo può aderire al fondamento originario e trascendente solo nell'atto della libera decisione in favore di quell'evento che realizza l'evidenza di tale fondamento. Questo evento è Gesù Cristo". Egli, nella sua singolarità di Figlio di Dio incarnato, pretende di realizzare la pienezza universale della rivelazione di Dio, vale a dire, pretende di rimandare al fondamento originario. Così attua storicamente il senso ultimo del mondo e dell'uomo donandosi alla concreta libertà storica del singolo uomo. La categoria che esprime bene l'incontro dell'uomo con la realtà è quella della testimonianza, intesa come la risposta al fondamento da parte della libertà finitale. L'importanza di questa categoria è stata ricuperata nella teologia postconciliare: "La fede nella rivelazione storicamente avvenuta viene comunicata per mezzo della testimonianza. Stando così le cose, la testimonianza è uno dei concetti centrali della teologia cristiana". Infatti, sia nel caso singolare della libertà di Gesù che risponde al Padre, essendo il Figlio di Dio, sia nel caso dei cristiani che vivono la Parola, il sacramento, la comunione e l'autorità, mediante il dono dello Spirito Santo, ci troviamo davanti alla struttura testimoniale della rivelazione e della fede, e della sua trasmissione. Solo quando la testimonianza viene collocata in questo incrocio filosofico-teologico risulta determinante per dire la novità irriducibile del fatto cristiano e per indicare la modalità specifica di dialogo con le religioni e con le culture, liberandosi dalle precomprensioni riduttive con cui spesso viene concepita, e che la rendono inutile per il compito fondativo che le spetta. Superfluo rilevare che la testimonianza risulta efficace per un ricupero della dimensione esistenziale della fede, in quanto esprime una decisione personale che coinvolge la vita mediante un legame affettivo. Sembrerebbe questo il modo con cui la testimonianza corregge la deriva intellettualistica di una fede che si identifica con la ripetizione della dottrina corretta. Ma si deve essere attenti a non perdere la ricchezza teoretica del rapporto testimonianza-verità. Si deve subito chiarire che la testimonianza non si limita a una sorta di autoreferenzialità biografica del credente, invece dell'attestazione della rivelazione divina. Anche se la testimonianza cristiana coinvolge sempre il testimone, non si deve dimenticare che questi "intenziona quel referente irriducibile [Gesù di Nazaret] come termine risolutivo del gesto sul quale si concentra, e mira esplicitamente a renderlo apprezzabile come l'inizio e il compimento dell'atto di fede che desidera propiziare". Per la sua natura veritativa, la testimonianza non si può identificare soltanto con la manifestazione dell'evidenza degli effetti buoni della fede (al modo del buon esempio) o con la persuasione vissuta della sua esistenzialità. Il suo compito non si limita a offrire una rilevanza affettivamente coinvolgente per compensare un difetto di evidenza della rivelazione. La testimonianza ha la pretesa di veicolare efficacemente la verità di Cristo. Il nostro mondo multiculturale e multireligioso è segnato dall'apparente impossibilità di proporre la verità. La rinascita della religione non è di per sé determinante per superare questa situazione. Va ricuperata la domanda sulla valenza veritativa della religione e della filosofia. In tale contesto l'originalità cristiana è quella di annunciare una verità definitiva per il mondo e per l'uomo. La fede si deve paragonare con le religioni sul terreno della verità e della libertà. Poiché la concezione moderna di ragione "separata" fa fatica ad articolare verità e libertà, c'è bisogno di un ripensamento dell'ontologia e anche di un ripensamento della natura rituale della religione come accesso alla verità. La rivelazione cristiana ha la pretesa di attribuire valore veritativo a un fatto storico liberamente deciso da Dio, che si rivolge alla nostra libertà storica. La testimonianza cristiana è una dimensione essenziale della rivelazione. Non può essere ridotta a pura autoreferenzialità, né a supplemento affettivo di una mancata evidenza, ma intenziona un referente preciso: Gesù Cristo e Dio Trino. Nella testimonianza il soggetto decide di se stesso in rapporto all'Assoluto nell'interpretare il segno storico che suscita l'attrattiva, coinvolgendo la sua adesione fino a potersi parlare di concepimento nuovo dell'io.
(©L'Osservatore Romano - 22-23 maggio 2009)
Cosa spera l'uomo di oggi? - I cattolici pessimisti sono una bestemmia vivente - Un anno fa, il 22 maggio 2008, moriva Paolo Giuntella. Giornalista e scrittore, era nato nel 1946 e, dopo avere lavorato per alcuni quotidiani ("Il Popolo", "Avvenire", "Il Mattino"), dal 1999 seguiva per il Tg1 della Rai l'attività del presidente della Repubblica. Poco prima di morire era stato pubblicato il suo ultimo libro (L'aratro, l'ipod, e le stelle. Diario di viaggio di un laico cristiano, Milano, Paoline, 2008, pagine 175, euro 12), e ora è appena uscita, a cura di Laura Rozza Giuntella, la nuova edizione di un volumetto scritto con il padre, lo storico Vittorio Emanuele Giuntella (1913-1996), con l'aggiunta di una lunga appendice (Il gomitolo dell'alleluja. Di padre in figlio il filo della fede, Roma, Ave, 2009, pagine 151, euro 9). Per ricordare lo scrittore pubblichiamo un suo testo inedito. - di Paolo Giuntella – L’Osservatore Romano, 23 maggio 2009
Caro amico, tu mi dici, come si fa ad avere speranza in tempi come questo? Tempi di guerra, di terrore, letteralmente, di opposti fondamentalismi, di razzismi, di lavoro e sentimenti precari, di disuguaglianze e ingiustizie? Come si fa a sperare e chi continua, spes contra spem, a sperare? E soprattutto, cosa spera la gente? Beh, ti dovessi dire... io non sono così pessimista. In realtà c'è più gente che spera di quanto non si creda. D'altra parte io sono della scuola di François Varillon: la speranza è un istinto genetico, costitutivo, dell'uomo. La speranza di cambiare vita, la speranza di un diverso orizzonte, la speranza, magari anche solo il sogno, di uscire dal tunnel dell'oppressione, della servitù, della depressione, della miseria, la speranza di una vita oltre la vita, la speranza di una nuova scoperta, la speranza di conoscere il mistero della vita... La ragione è alla radice della speranza. Perché? Non potrebbe apparire il contrario? No, la disperazione è il rifiuto di affrontare con la ragione il problema del senso ultimo della vita, del senso della storia, rimanendo prigionieri, in modo irrazionale ed emotivo, dei dati immediati, duri e oscuri, dell'esistenza e dell'ingiustizia, del mistero del male, del dolore, della morte, dell'insensatezza delle crudeltà, della violenza... Se vuoi, la speranza è la risposta alla disperazione, la risposta al senso del limite, della finitezza, è, come dire, una pretesa della ragione di cercare di intuire il senso della vita oltre l'insensatezza apparente, la ricerca del sentiero per dare una spiegazione al desiderio e ai momenti di felicità, di gioia, all'amore, all'amicizia, alla solidarietà, di riconoscere l'esigenza insopprimibile di un oltre, di un Altro, l'istinto, dell'eterno, del divino, dell'infinito. È un po' come definire il nostro tempo secolarizzato, un po' come parlare di eclissi del sacro. Mai visto un'epoca più intrisa di sacro, di deificazione, di sacralizzazione, di tante banalità: dalle identità etniche al libero mercato, dalle etnie alla ricchezza, dal sesso al diritto di proprietà privata, dal tifo sportivo al look, all'apparenza, dall'avere all'apparire, dal successo agli status symbol, per non parlare delle sette religiose, del recupero delle radici religiose in funzione culturale, identitaria di "civiltà contro" sino a tutte le liturgie laiche e tutti i templi profani: la borsa, le banche, i centri commerciali, gli outlet, i cosiddetti eventi musicali o televisivi, sportivi o politici, persino le piste ciclabili e i mercatini etnici... Il problema, hai ragione tu, è piuttosto capire cosa, oggi, in queste ore, in questi mesi, in questi anni, sperano gli uomini e le donne, i giovani, i ragazzi, gli anziani. Cosa spera l'umanità che è prigioniera degli orizzonti precari della vita, dal lavoro precario alla precarietà e alla frammentazione degli affetti, dei legami profondi, dell'idea stessa di patto, alleanza, amicizia, amore, e persino alla precarizzazione delle stesse convinzioni etiche e politiche? Cosa sperano i prigionieri delle liturgie secolarizzate del nostro tempo, nei centri commerciali, negli outlet, nei supermercati, nei mercatini domenicali? Cosa credono che sia la speranza tutte le donne e gli uomini che ritmano la loro vita con la lingua degli spot, con i giochi, i serial e i gossip televisivi, con la seduta in palestra e la seduta in pizzeria, la stagione dei saldi e quella delle emozioni collettive (dalla solidarietà via sms, alle grandi paure per gli attentati e alle grandi fiction o alla programmazione cinematografica e televisiva natalizia)... Per molti la speranza è un'automobile nuova, è la casa, la prima casa, ma anche la seconda casa, una storia d'amore, una serata di sesso, un contratto di lavoro, il lavoro a tempo indeterminato, una promozione, una comparsata televisiva, una vacanza, una crociera, un colpo di fortuna, un grande successo di denaro o di carriera, il nuovo ipod, un nuovo super dvd, un nuovo frigorifero. Secolarizzate le grandi speranze politiche o rivoluzionarie, ridotta allo stato laicale la speranza cristiana, la speranza diffusa di molti occidentali è quella di fuggire dall'angoscia, dai grandi interrogativi sulla vita e sulla morte, o dalla precarietà con supplementi di gratificazioni materialiste ravvicinate, con piccole attese di felicità istantanea. Il nostro è tempo di liofilizzati e non di obiettivi differiti, di progetti da costruire, e da condividere. Questo è vero. Ma io non credo all'eclissi della speranza. Tu mi avverti: attento, non mi replicare con le solite dosi di buonismo retorico, di falso perbenismo, di speranzismo cattolico da omelia o documento ecclesiale, o di ottimismo laico della volontà... Ebbene hai ancora ragione. Cercherò di dirti la mia evitando i luoghi comuni melassati. Il vero rischio di oggi è la non speranza. Su questo sono d'accordo. Ma la non speranza è il non cristianesimo. Perché la speranza cristiana, che non necessariamente coincide con la conversione del mondo e il trionfo del bene sul male sulla Terra, è il fondamento escatologico del cristianesimo. E senza fondamento escatologico non esiste né esperienza di fede, né trascendenza. I cattolici pessimisti, come i cattolici musoni o i cristiani moralisti, sono una bestemmia vivente. Inutile che ti ricordi ancora una volta il poema di Charles Péguy, Il portico della seconda virtù, quando si sbilancia: "La virtù che amo di più, dice il Signore, è la speranza". Per i cristiani, insomma, il limite invalicabile resta la concezione autentica e non sdolcinata della speranza cristiana: la tensione escatologica che ridimensiona ogni illusione e ogni progetto umano.
Tutto questo neo-cristianesimo senza Parola, senza Vangelo, ridotto - come ci siamo detti tante volte ma giova pur sempre ripeterlo - a identità culturale, addirittura a identità geopolitica, questo cristianesimo senza stranieri, senza samaritani e samaritane, senza prostitute, senza pubblicani e senza Zaccheo, senza adultere e senza poveri, dunque senza speranza, senza riscatto, senza giustizia, senza eguaglianza, senza fraternità, senza libertà - quella vera, quella del grido degli schiavi freedom, freedom over me, non quella dei neoliberisti che vogliono liberarsi solo dalle regole, dalle costituzioni scritte, dall'indipendenza e autonomia dei poteri - tutto questo cristianesimo dei valori proclamati e non vissuti, dei valori "ideologici" e non biblici, dei valori conservatori, ebbene questo cristianesimo post-cristiano e senza speranza è il vero problema. La lezione dei martiri e dei profeti ci porta a una necessaria, non rinviabile scelta di campo: la strada della felicità, quella dell'avventura cristiana. La Croce è il segno eterno, nella storia ma oltre la storia, nel tempo ma oltre il tempo e lo spazio, che il Dio della nostra esperienza di fede non è il Dio del potere, della potenza, del dominio, ma il Dio Amore della apparente sconfitta nella storia, nel tempo, il Dio crocifisso. Per questo noi non dobbiamo avere paura della depressione, dei momenti di bassa in cui vediamo tutto nero, dal piano personale a quello politico. La disperazione è parte della condizione umana, ce lo insegna una delle più intense espressioni musicali, il blues. Se non attraversassimo momenti cupi saremmo perfetti, cioè non saremmo umani, perché la nostra è condizione di finitudine e di limite. Solo avvertendo tutto l'abisso, e tuttavia tutti i raggi di luce, tutto il dolore ma anche tutte le energie di allegria, innamoramento, estasi, della nostra esperienza carnale e dunque storica, possiamo credere - e possiamo farlo con la ragione, con l'intelligenza razionale - in un riscatto, nella redenzione, della chiamata a una Città Futura pienezza dei tempi, speranza compiuta finalmente, perciò pienezza di umanità, anzi di divino-umanità. Se Dio è Amore la speranza non può essere vissuta in solitudine. Se Dio è Amore la sua conoscenza, diventare intimi di Dio, vivere con Dio, essere intimi di un Amore che rende liberi, che suscita e crea libertà, vuol dire cercare anzitutto di nutrirmi di questo amore infinito che rende liberi in modo assoluto totale e già ora. È una convinzione profonda maturata nella mia esperienza di vita, nel mio viaggiare, nel mio leggere, nella mia strada che dalla ragione porta alla fede, a una fede liberante, appagante, fondamento di piacere non di dovere. Croce e Resurrezione sono l'inizio di un percorso di trasfigurazione che siamo chiamati a percorrere credendoci e sperandoci. Questa è l'eredità, la lezione che ci è stata data. E se riusciamo a metterci su questa strada non con condizioni particolari di privilegio, ma dovendo fare i conti quotidiani con il lavoro, con i pannolini da cambiare, con figli da tirar su, avremo incarnato la speranza che condividiamo con tanti altri.
(©L'Osservatore Romano - 22-23 maggio 2009)
ETICA E SOCIETÀ - «Alto valore formativo e informativo». Così l’arcivescovo di Bologna ha presentato il «manifesto» lanciato da Scienza & vita, Forum delle associazioni familiari e Retinopera - «Liberi per vivere» Una sfida di verità - DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 23 maggio 2009
«Ci sono già, anche in Italia, tutti i presupposti culturali perché venga legittimata giuridicamente la poligamia. È solo una questione di tempo ». Lo ha detto il cardinale Carlo Caffarra nel suo saluto alla presentazione bolognese del manifesto 'Liberi per vivere. Amare la vita fino alla fine' redatto a livello nazionale da 'Scienza & vita' in collaborazione con il Forum delle associazioni familiari e 'Retinopera'. «Il primo passo – ha osservato l’arcivescovo – sarà di consentire a chi nella propria cultura legittima la poligamia di poterla praticare». «Mi è capitato di vedere uno spot televisivo che, per promuovere la grande capacità di un’automobile, esalta la poligamia. Una bella automobile che consente all’uomo che la guida di raccogliere tutti i bambini avuti dalle tante mogli. Queste sono cose inammissibili in un Paese che riconosce la monogamia come una valore non più discutibile ». Un esempio che è servito a Caffarra per ribadire il suo giudizio positivo su una manifesto come 'Liberi per vivere', che si propone due scopi: formativo e informativo. Il primo, ha ricordato, riguarda il grande tema della fragilità umana che si esprime soprattutto nel momento in cui la persona umana giunge allo stadio terminale della sua esistenza. «Leggevo in questi giorni quanto disse un filosofo italiano non credente che affermava che, per quanto riguarda l’uso della libertà, ci troviamo nella situazione di un bambino a cui è stata donata una Ferrari. Che ha nelle mani un motore dalla potenza straordinaria ma è non in grado di guidarlo senza farsi del male e senza fare del male agli altri. Come per parlare una lingua la prima cosa da apprendere è l’alfabeto, così c’è un alfabeto della libertà ». Ma oggi, ha aggiunto, ci troviamo in una sorta di analfabetismo della libertà. Secondo Caffarra questo è accaduto «perché si è fatto coincidere l’esercizio della libertà con la categoria dell’autodeterminazione. Una categoria in fondo inventata ed elaborata dal pensiero cristiano».
Ma nel nostro Occidente si è staccata questa categoria da tutto il contesto entro il quale era collocata. «Era la stella di una costellazione, togliendola – ha aggiunto il cardinale – è cambiato tutto. L’autodeterminazione implicava prima di tutto un radicamento del giudizio della ragione. Ma questo significava apertura della persona alla realtà. La libertà si radicava dentro il terreno della verità ». Oggi invece l’autodeterminazione non viene più vissuta in questo modo ma si scontra tuttavia con due fatti terribilmente testardi. La nostra nascita e la nostra morte. «Nessuno decide di venire al mondo, la decisione è presa da altri e quindi l’attuale concetto di autodeterminazione trova qui una prima radicale obiezione». L’altro fatto è la morte. «Perché il morire – ha ricordato – ultimamente non dipende da noi. Tuttavia si tenta di negare questa realtà. Come faccio ad affermare la mia autodeterminazione in ordine alla morte? Affermando che io decido quando devo morire. Affermando addirittura il diritto alla morte». E qui, ha aggiunto «viene scardinato uno dei fondamenti di tutti gli ordinamenti giuridici. Ovvero che il dare assistenza ad una volontà suicida è sempre stato considerato reato». Ma il manifesto, ha concluso, svolge anche una preziosa opera informativa perché «deve aiutare le persone a capire cosa sta accadendo nella cultura di oggi, a formarsi un giudizio critico ». Antonella Diegoli, presidente di Federvita, ha raccontato come a Finale Emilia si è lavorato sulla diffusione del manifesto, «usando la metodologia dell’apprendimento cooperativo con ragazzi di 17-18 anni. L’esperimento è stato positivo. Ha calato il messaggio nel vissuto delle persone».
L’allarme di Caffarra: l’autodeterminazione ha preso il posto della verità. Ma sul nascere e sul morire non tiene
Dal caso Englaro alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (I)
ROMA, domenica, 24 maggio 2009 (ZENIT.org).- La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero ed abbiamo chiesto al prof. Lucio Romano di rispondere.
Il prof. Romano è dirigente ginecologo nel Dipartimento di Scienze Ostetrico Ginecologiche, Urologiche e Medicina della Riproduzione dell’Università di Napoli “Federico II”, e docente di Ostetricia al Corso di Laurea Specialistica in Scienze Ostetriche. E' inoltre docente di Bioetica ai corsi di laurea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presso l’A.O. S. Carlo di Potenza; e alla Facoltà di Bioetica e al Master in Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. E' Vicepresidente del Movimento per la Vita Italiano e componente del Consiglio Esecutivo nazionale dell’Associazione “Scienza & Vita”. Fa inoltre parte del Comitato Scientifico della rivista “I Quaderni di Scienza & Vita” ed è autore insieme a Maria Luisa Di Pietro, Maurizio P. Faggioni e Marina Casini del volume “Dall'aborto chimico alla contraccezione d'emergenza” (Edizioni ART, Roma 2008).
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Dopo il 9 febbraio 2009, qual è la situazione in merito alla vicenda Englaro?
Quando l’emotività va diradandosi, l’indicibile amarezza per la soppressione di una vita già estremamente fragile appena si attutisce e le posizioni antitetiche lasciano spazio a tentativi di dialogo, ineludibili si impongono riflessioni argomentate secondo ragione e rigorosamente fondate da cui partire. Potremmo ritenere che una capillare divulgazione mediatica tutto abbia già detto, che ognuno abbia già perfettamente chiare le dinamiche della vicenda Englaro e che abbia fatto una scelta di campo, “oggi per allora”. Tuttavia la delicatezza degli argomenti e le ricadute sociali, culturali, etiche, politiche impongono supplementi di riflessioni e discernimento. La complessità della tematica suggerisce di riconsiderare alcuni degli innumerevoli aspetti meritevoli di attenzione.
Che cosa si intende per eutanasia?
Secondo classica definizione, è “un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”. Così per l’Organizzazione Mondiale della Sanità ” è l’atto con cui si pone deliberatamente fine alla vita di un paziente, anche nel caso di richiesta del paziente stesso o di un suo parente stretto”. Riguardo all’azione, quindi, l’eutanasia è attiva quando si procede direttamente con un’azione che induce la morte; omissiva o passiva quando non si somministra una terapia o si interrompe un sostegno vitale; terminale quando si realizza appunto su di una persona in fase terminale conseguente a grave patologia.
Si può pensare che la definizione ed il concetto di eutanasia vanno a modificarsi?
Certamente. Nel dibattito attuale, come già richiamato da Adriano Bompiani, Bruno Dallapiccola, Maria Luisa Di Pietro e Aldo Isidori, il termine eutanasia si utilizza per indicare solo forme dirette o attive di uccisione del paziente, mentre l’eutanasia indiretta o per omissione è stata ridotta al rango di un generico rifiuto/rinuncia dei trattamenti sanitari. “[…] Depotenziando il dovere di garanzia del medico nei confronti del paziente e decontestualizzando l’astensione/sottrazione di trattamenti sanitari che non troverebbero giustificazione nei criteri di sproporzionalità/straordinarietà, si legittimano di fatto forme di eutanasia “indiretta o per omissione”. Altra considerazione è che va rilevato una scenario eutanasico con una voluta oscillazione tra disponibilità e indisponibilità della vita; riduzione della complessità della casistica alla genericità della norma; decontestualizzazione delle decisioni. Questi ed altri fattori aprono a qualsiasi scenario anche celatamente eutanasico, in cui giudizi sociali sulla qualità e sulla dignità della vita possono entrare come indisturbati coprotagonisti. Lo scenario eutanasico fu già descritto e preconizzato da F.W. Nietzsche nel “Crepuscolo degli idoli”: “Il malato è un parassita della società. In certe condizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a vegetare in una imbelle dipendenza dai medici e dalle pratiche mediche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe suscitare nella società un profondo disprezzo».
Quindi una vera e propria riformulazione del concetto di eutanasia?
Un tentativo di riformulazione assolutamente non condivisibile. Si assegnerebbe, in tal modo, liceità etica e giuridica ad un’azione o un’omissione che procuri la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore, sulla scorta della sola richiesta sebbene autonoma e consapevole. E’ opportuno definire, sotto il profilo etico, due termini ricorrenti e spesso sovrapponibili: uccidere e lasciar morire. Uccidere è sempre moralmente illecito, lasciar morire può essere comportamento colpevole, non colpevole o addirittura virtuoso. In entrambi i casi la causa della morte è sempre la malattia ma diverse le responsabilità morali. “Nell’abbandono e nella sospensione dei trattamenti la causa diretta della morte è la malattia, ma ciò che fa la differenza è il fatto che nell’abbandono la morte poteva e doveva essere evitata (quindi l’abbandono terapeutico e assistenziale si costituisce come una colpa morale). Nella sospensione dei trattamenti, invece, la morte non poteva essere evitata, e non si doveva, per prolungare un processo agonico già iniziato, infierire sulla condizione terminale della persona (e in questo caso l’atto della sospensione è moralmente doveroso).”
E nel caso di Eluana Englaro?
Eluana Englaro, sotto il profilo clinico, non era una paziente in stato terminale ma affetta da una gravissima disabilità. Non era morta e non era collegata ad alcuna strumentazione (es. respiratore artificiale, ecc.). Usufruiva dei comuni mezzi di assistenza, propri per quelle determinate situazioni e, tra l’altro, alimentazione e idratazione con sondino naso gastrico. Se considerata già morta, come alcuni hanno ritenuto da 17 anni, di conseguenza si sarebbe potuto ad esempio espiantare gli organi, cosa assolutamente non praticabile in quanto Eluana Englaro non rientrava affatto nei criteri della morte cerebrale totale. Voglio ricordare che Science, nel 2006, ha pubblicato un articolo che ha molto interessato la comunità scientifica: la Risonanza Magnetica Funzionale ha mostrato l'attivazione di varie zone cerebrali, in situazioni cliniche come quella di Eluana Englaro, in corrispondenza con gli inviti da parte dei ricercatori ad immaginare di salire delle scale piuttosto che di giocare una partita di tennis, in maniera esattamente uguale a quanto evidenziato nel cervello dei "soggetti di controllo" sani. Comunque nulla altro aggiungerei in merito alla situazione clinica che ha caratterizzato la vita di Eluana Englaro.
Eppure si è ritenuta lecita la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione.
E’ stato ritenuto anche opportuno, oltre alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, la somministrazione di sedativi. Delle due una: se Eluana non aveva alcuna percezione cosciente dell’ambiente esterno, così del dolore o di altro sentire, perché somministrare sedativi? O forse, visto che concretamente non si era del tutto certi del suo stato di completa incoscienza, si è preferito in via precauzionale somministrare sedativi? Il ricorso ai sedativi sarebbe stato motivato dagli spasmi muscolari per alterazione degli elettroliti, da sospensione dell’alimentazione e idratazione.
E nel dubbio sulle effettive capacità percettive di Eluana?
Una corretta interpretazione e attuazione del principio di precauzione, così giustamente propugnato in altri ambiti, avrebbe significato la non sospensione dei sostegni vitali mancando la certezza dell’assoluta assenza di coscienza. Parafrasando dalla civiltà giuridica la locuzione “in dubio pro reo”: “in dubio pro vita”.
L’alimentazione e l’idratazione sono terapie o cure?
Per i fautori della sospensione di alimentazione e idratazione, queste vengono considerate terapie e per tale motivo rifiutabili dal paziente, per autodeterminazione. Analizziamo senza pregiudizi e con argomentazioni logiche, almeno in linee generali il problema. Alimentazione e idratazione se inquadrabili come terapie devono curare qualcuno da qualcosa, ovvero da una patologia, da una disfunzione. Dovremmo arguire che, se terapie, alimentazione e idratazione avrebbero svolto su Eluana azione terapeutica. Quale sarebbe la malattia di Eluana che alimentazione e idratazione avrebbero tentato di curare? Quale malattia è curabile con alimentazione e idratazione così che, dopo la guarigione, si possa sospendere il trattamento in questione? La risposta, logica e non ideologica, è che alimentazione e idratazione non curano alcuna malattia, né tantomeno svolgevano azione terapeutica su Eluana. Se alimentazione e idratazione sono terapie, ne consegue che anche il neonato nutrito con latte artificiale è sottoposto a terapia, così il politraumatizzato che abbisogna del sondino o il paziente postoperatorio, o l’anziano che ha problemi di deglutizione, o chiunque necessita semplicemente di un aiuto per essere nutrito e dissetato. Non è il mezzo di somministrazione né la composizione dell’alimentazione e idratazione che cambiano la natura propria del sostegno vitale. Infatti il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel parere su alimentazione e idratazione di pazienti in stato vegetativo, ricorda che “il problema bioetico centrale è costituito dallo stato di dipendenza dagli altri. Si tratta di persone che per sopravvivere necessitano delle stesse cose di cui necessita ogni essere umano (acqua, cibo, riscaldamento, pulizia, movimento), ma che non sono in grado di provvedervi autonomamente, avendo bisogno di essere aiutate, sostenute ed accudite in tutte le loro funzioni, anche le più elementari.”
Alimentazione e idratazione, allora, sono forme di sostegno vitale?
Alimentazione e idratazione sono forme di sostegno vitale delle quali l’uomo né ha fondamentale bisogno e per tale motivo non possono essere sospese in quanto essenziali nella “umana relazione di cura”, che non significa terapia né tantomeno accanimento terapeutico, bensì presa in carico, “presa in cura”. Sotto il profilo bioetico si realizza così l’alleanza terapeutica medico-paziente, che si basa appunto sulla “beneficialità nella fiducia”: la fiducia (di un paziente) che incontra una coscienza (del medico). Inoltre, e non secondariamente, simbolicamente dar da mangiare e da bere rappresenta la manifestazione più tangibile ed immediata della solidarietà umana.
Alimentazione e idratazione non possono essere mai sospese?
Si, possono essere sospese. Come già indicato dal Comitato nazionale per la Bioetica, “non sussistono invece dubbi sulla doverosità etica della sospensione della nutrizione nell’ipotesi in cui nell’imminenza della morte l'organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite: l’unico limite obiettivamente riconoscibile al dovere etico di nutrire la persona in SVP è la capacità di assimilazione dell’organismo (dunque la possibilità che l’atto raggiunga il fine proprio non essendovi risposta positiva al trattamento) o uno stato di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’ alimentazione”.
Libertà religiosa minacciata - Venezuela si aggiunge all’ultimo rapporto della Commissione USA - di padre John Flynn, LC
ROMA, sabato, 23 maggio 2009 (ZENIT.org).- La Commissione USA sulla libertà religiosa internazionale conferma che questo diritto umano fondamentale continua ad essere minacciato in molte parti del mondo, anche se qualche miglioramento è stato registrato.
La situazione in Paesi come Myanmar e Venezuela è peggiorata dal punto di vista della libertà di religione, mentre l’India sta mostrando qualche segnale positivo.
Il 1° maggio scorso, la Commissione USA sulla libertà religiosa internazionale (USCIRF) ha pubblicato il suo rapporto annuale, unitamente alle raccomandazioni concernenti i Paesi cosiddetti “di particolare preoccupazione” (Paesi CPC, dall’inglese “countries of particular concern”).
Si tratta del X rapporto della Commissione, dalla sua istituzione in forza della legge sulla libertà religiosa internazionale del 1998.
I Paesi che l’USCIRF indica potenzialmente tra i CPC sono: Myanmar, Cina, Corea del Nord, Eritrea, Iran, Iraq, Nigeria, Pakistan, Arabia Saudita, Sudan, Turkmenistan, Uzbekistan e Vietnam.
Le raccomandazioni dell’USCIRF sono indirizzate al Dipartimento di Stato, il quale poi decide in via definitiva quali dichiarare “di particolare preoccupazione”.
L’elenco dei CPC attualmente in vigore presso il Dipartimento di Stato contiene otto dei Paesi raccomandati dall’USCIRF: Myanmar, Cina, Eritrea, Iran, Corea del Nord, Arabia Saudita, Sudan e Uzbekistan.
La Commissione ha anche stilato una “Watch List” (“lista di attenzione”) di quei Paesi il cui comportamento raccomanda un attento monitoraggio sull’entità delle violazioni alla libertà religiosa. Questo elenco, per il 2009, è composto da: Afghanistan, Bielorussia, Cuba, Egitto, Indonesia, Laos, Russia, Somalia, Tajikistan, Turchia e Venezuela.
Il rapporto contiene informazioni dettagliate su tutti i Paesi CPC e della Watch List. Il Myanmar – secondo il rapporto – presenta, per il 2008, una situazione tra le peggiori al mondo quanto al rispetto dei diritti umani ed in particolare della libertà di religione. Il regime militare ha imposto pesanti restrizioni alla pratica religiosa e tiene sotto controllo ogni attività delle organizzazioni religiose, osserva la Commissione.
Si stima che 136 monaci buddisti si trovino ancora in reclusione, in attesa di giudizio, e che molti monasteri siano ancora chiusi o in funzionalità ridotte. Inoltre, le minoranze etniche cristiane e musulmane continuano ad incontrare difficoltà.
In Cina, secondo la Commissione, “non vi è stato alcun miglioramento in materia di libertà religiosa e, anzi, si è registrato un deciso deterioramento, nello scorso anno, soprattutto nella zona buddista del Tibet e in quella musulmana dell’Uighur”.
Gravi violazioni
“Il Governo cinese continua a compiere gravi e sistematiche violazioni della libertà di religione o di culto, tendo le attività religiose sotto stretto controllo e imponendo ad alcuni esponenti religiosi periodi di detenzione e di reclusione, multe, percosse e vessazioni”, afferma il rapporto.
La Commissione osserva anche che la repressione su molti gruppi religiosi si era intensificata nel periodo precedente alle Olimpiadi di Pechino del 2008.
Riguardo al Medio Oriente, il rapporto afferma che in Iran “la retorica ufficiale e la politica del Governo hanno determinato un peggioramento delle condizioni di quasi tutti i gruppi religiosi non shiiti”.
La politica del Governo ha avallato le violazioni della libertà religiosa, tra cui detenzioni, torture ed esecuzioni, basate sulla religione di appartenenza, afferma la Commissione.
Secondo il rapporto, in Iraq “il Governo continua a commettere e tollerare gravi abusi della libertà di religione o di culto”.
Per quanto concerne l’Arabia Saudita, il rapporto riconosce che il re Abdullah ha consentito qualche limitata riforma ed ha promosso il dialogo interreligioso. Ciò nonostante, il Governo vieta ancora ogni forma di espressione religiosa pubblica che non sia della scuola islamica sunnita e secondo la particolare interpretazione ufficiale.
Inoltre, la Commissione accusa le autorità saudite di sostenere, a livello internazionale, gruppi che promuovono “un’ideologia estremista che contempla, in qualche caso, violenze contro i non islamici e contro i musulmani di scuola diversa”.
In Egitto – prosegue il rapporto – vi sono stati gravi problemi di discriminazione, intolleranza e di altre violazioni di diritti umani, a danno di aderenti a minoranze religiose. Gravi violazioni della libertà religiosa continuano ad interessare i cristiani copti ortodossi, gli ebrei e i baha’i, oltre ai musulmani di comunità minoritarie, secondo la Commissione.
Il rapporto sostiene inoltre che il governo non abbia preso le misure sufficienti per arrestare il fenomeno repressorio e discriminatorio contro i credenti religiosi, né per punire i responsabili delle violenze o delle altre gravi violazioni della libertà religiosa.
Estremisti
Forti preoccupazioni per la libertà religiosa permangono anche in Pakistan, osserva la Commissione. Nel corso dello scorso anno la forza dei gruppi estremisti è aumentata. Inoltre, sono state sfruttate le leggi antiblasfemia per mettere a tacere dissenzienti e membri di minoranze religiose, aggiunge il rapporto.
Nel vicino Afghanistan, secondo il rapporto, la situazione della liberà religiosa o di culto è diventata sempre più preoccupante.
La Commissione sostiene che la costituzione dell’Afghanistan, Paese a maggioranza musulmana, non assicura un’adeguata tutela agli individui che dissentono dall’ortodossia prevalente. Di conseguenza si verificano gravi violazioni della libertà religiosa, dovute anche al potere e all’influenza dei leader religiosi fortemente tradizionalisti.
Per il Vietnam, la Commissione raccomanda il reinserimento tra i Paesi CPC, per via delle continue violazioni della libertà religiosa da parte del Governo. Nonostante qualche progresso, il Governo vietnamita continua ad imporre pesanti restrizioni alla libertà religiosa, sostiene il rapporto.
Per esempio, continuano a verificarsi arresti e detenzioni anche per attività religiose del tutto pacifiche, poiché le attività religiose indipendenti sono ancora vietate dalla legge. In aggiunta, le tutele giuridiche per le organizzazioni religiose approvate dal Governo sono alquanto vaghe e soggette ad interpretazioni arbitrarie e discriminatorie, sulla base di fattori politici, dichiara il rapporto.
Le reazioni
La Cina, così come ha fatto in passato per i precedenti rapporti della Commissione, ha rigettato aspramente le critiche contenute nell’ultimo rapporto.
“È un dato di fatto che il Governo cinese tutela la libertà di fede religiosa dei propri cittadini secondo la legge, e tutti i gruppi etnici di qualsiasi parte della Cina godono della piena libertà religiosa”, ha dichiarato Ma Zhaoxu, portavoce del Ministro degli esteri, secondo quanto riferito da Associated Press il 5 maggio.
“Il tentativo della Commissione USA sulla libertà religiosa internazionale di screditare la Cina con questo rapporto non riuscirà”, ha aggiunto Ma.
L’India, invece, in un’inversione di tendenza, si sta aprendo ad una visita di studio di rappresentanti dell’USCIRF. Secondo il quotidiano Telegraph di Calcutta, del 2 maggio, il Governo federale indiano ha mutato la sua politica tradizionale di non consentire visite ispettive da parte del Governo USA.
I rappresentanti dell’USCIRF si recheranno in India a giugno, per la prima volta, per poi pubblicare un rapporto specifico sul Paese.
Intanto, il Wall Street Journal ha commentato la decisione di inserire il Venezuela nella Watch List, in un articolo del 1° maggio di Melanie Kirkpatrick, vice redattrice della pagina editoriale del Journal.
L’articolo si è incentrato sulla condizione degli ebrei in Venezuela. Quando Hugo Chávez è stato eletto Presidente nel 1998, nel Paese vivevano circa 22.000 ebrei. Oggi si stima che siano scesi ad una cifra tra i 10.000 e 15.000.
“Gli ebrei del Venezuela fuggono verso Miami, Madrid e altrove, a causa dell’antisemitismo che subiscono a casa”, ha affermato Kirkpatrick.
Tra le frasi di Chávez citate nell’articolo vi sono quelle in cui descrive gli ebrei venezuelani come “discendenti di quelli che hanno crocifisso Cristo”, o come “una minoranza [che] ha preso possesso di tutto l’oro del pianeta”.
Povertà morale
Nel messaggio di quest’anno, ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Benedetto XVI ha espresso la sua preoccupazione per le persone perseguitate a causa della propria fede. Nel suo discorso dell’8 gennaio ha rinnovato il suo affetto “ai nostri fratelli e alle nostre sorelle vittime della violenza, specialmente in Iraq e in India”.
Ma la preoccupazione del Papa riguarda anche i Paesi sviluppati. “Auspico altresì che, nel mondo occidentale, non si coltivino pregiudizi o ostilità contro i cristiani, semplicemente perché, su certe questioni, la loro voce dissente”, ha affermato.
Un punto interessante è che Benedetto XVI non ha incentrato il tema della libertà religiosa sul punto di vista della libertà, ma ha adottato un approccio più teologico. “Le discriminazioni e i gravissimi attacchi di cui sono state vittime, l’anno scorso, migliaia di cristiani, mostrano come non sia soltanto la povertà materiale, ma anche la povertà morale a nuocere alla pace”, ha affermato. Una povertà che affligge molti Paesi, quale che sia il loro livello economico.
La mistica di Edith Stein - L'irruzione della Verità nella notte di Bad Bergzabern - Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni tenute all'università di Enna nell'ambito di un convegno intitolato "Edith Stein: esistenza, verità e bellezza". - di Cristiana Dobner – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
Estate 1921. È notte a Bad Bergzabern in Germania. Nella vita della fenomenologa Edith Stein, basata sulla ricerca della verità, sulla razionalità e sull'assenza - fin da quando aveva 13 anni - di ogni pratica religiosa ebraica, irrompe la Verità e converte - nel senso etimologico del termine ebraico teshuvà, cioè di appoggiarsi ai talloni e invertire la propria posizione - tutta la sua esistenza e la sconvolge. Ella stessa scriverà in una lettera: "Chi cerca la verità cerca Dio, che lo sappia o no". L'interrogativo che ne consegue è serrato e lo formulo nel seguente modo: "Chi" ha fatto irruzione in lei? Non "che cosa" è accaduto? Ma allora Edith Stein è una mistica? Il teologo Giovanni Moioli nella storia della mistica rileva due grandi tipologie: la Wesensmystik, la mistica dell'essenza, individuata nella tendenza "renano-fiamminga" (secoli XIII-XIV) e nella Brautmystik, la mistica sponsale, influenzata dall'essere di Plotino; e la cosiddetta "mistica dell'assenza", caratteristica soprattutto dei mistici spagnoli (secolo XVIi). L'alveo in cui collocare Edith Stein è in quest'ultima tipologia, con due precisazioni essenziali: Teresa di Gesù e Giovanni della Croce hanno superato la Wesensmystik, nella loro esperienza, creando così con la loro dottrina la mistica dell'unione; Edith Stein non è figlia del misticismo spagnolo affetto da psicologismo e affettività. Max Scheler - che Edith Stein poté ascoltare a Gottinga e dal cui linguaggio e testimonianza fu impressionata favorevolmente - sottolineò quanto la distinzione fra Wesensmystik e Vitalmistik fosse ormai superata. La ragione risiede nella Trinità stessa che, inabitando la persona, opera e dona l'unione mistica che si opera sul piano della conoscenza e dell'amore. La giovane fenomenologa scrive: "Non ricordo in quale anno Scheler sia rientrato nella Chiesa cattolica. Non doveva essere da molto. In ogni caso, in quel periodo, aveva molte idee cattoliche e sapeva divulgarle facendo uso della sua brillante intelligenza e della sua potente eloquenza. Fu così che venni per la prima volta in contatto con un mondo che, fino ad allora, mi era stato completamente sconosciuto. Ciò non mi condusse ancora alla fede, tuttavia mi dischiuse un campo di "fenomeni" dinanzi ai quali non potevo più essere cieca. Non per niente ci veniva continuamente raccomandato di considerare ogni cosa con occhio libero da pregiudizi, di gettare via qualsiasi tipo di "paraocchi". Cadevano le barriere dei pregiudizi razionalistici, nei quali ero cresciuta senza saperlo, e il mondo della fede comparve improvvisamente dinanzi a me. Persone con le quali avevo rapporti quotidiani e alle quali guardavo con ammirazione, vivevano in quel mondo. Doveva, perciò, valere la pena almeno di riflettervi seriamente. Per il momento non mi occupai sistematicamente di questioni religiose; ero troppo occupata in molte altre cose. Mi accontentai di accogliere in me senza opporre resistenza gli stimoli che mi venivano dall'ambiente che frequentavo e - quasi senza accorgermene - ne fui pian piano trasformata". Di quale esperienza allora si trattò nella notte di Bergzabern? Quella che Edith Stein definiva secretum meum mihi e che conservò sempre gelosamente ma che, indirettamente, tracciò in alcuni passi delle sue opere: "Vedere con gli occhi o con l'immaginazione non è necessario. Tutto questo può mancare, ci può essere però la certezza interiore che è Dio che parla. Questa certezza può poggiare sul "sentimento" che Dio è presente; perché ci si sente toccati da Lui, il Presente, nel più profondo interiore. Questo è quanto chiamiamo esperienza di Dio nel senso assolutamente più proprio. È il nocciolo di ogni esperienza mistica, l'incontro con Dio da persona a persona. Il termine mistica, quindi, denota l'esperire la percezione di Dio e il legame con Lui, con il conseguente paradigma mentale di conoscenza, all'interno della specifica topologia dell'anima che così viene creandosi: una persona che incontra la Persona di Dio. L'esperienza e la vita di Edith Stein richiedono una disamina precisa che si può scandire in tre livelli: penetrare la genesi dei fatti esperienziali; ricostruire dagli effetti la causa; risalire dallo stile all'etimologia spirituale. La genesi, prettamente impregnata dalla ricerca intellettuale sistematica e dalle scosse interiori personali e interpersonali, si precisa nella notte di Bergzabern: "Nell'estate del 1921 mi capitò tra le mani la Vita della nostra santa madre Teresa (...) e pose fine alla lunga ricerca della fede". Bruno Bettelheim affermerebbe che si tratta dello "shock del riconoscimento" che però può avvenire grazie alla lunga preparazione e ricerca di Edith e che chiedeva di affiorare alla coscienza. Il 5 settembre 1941, durante un corso di esercizi spirituali, scrive: "Condizione della mia anima prima della conversione: peccato di una radicale irreligiosità. Salvezza solo grazie alla misericordia di Dio e non proprio merito. Riflettere spesso su questo per diventare umile". Edith Stein conserverà sempre un'attrazione particolare per il libro che provocò la scossa interiore: "Tranne le Confessioni di sant'Agostino, non esiste alcun libro della letteratura mondiale che come questo porti il sigillo della veridicità, che illumini dentro le pieghe più nascoste dell'anima e offra una testimonianza così commovente della "misericordia di Dio"". Dopo il crinale di Bergzabern, Edith Stein entra in rapporto con il Lògos, in senso etimologico e personale: lògos indica infatti il rapporto logico, pensante; personale indica l'incontro con la persona viva di Gesù Cristo. Un dono gratuito non acquisito per sforzo personale o acume intellettuale: "Posso bramare una fede religiosa, posso adoperarmi con tutte le mie forze per ottenerla, ma non posso riceverla (...) La accetto: significa che mi do a essa, quando entra in me, con gioia e senza opporre resistenza". Nel corso di quella notte durante la lettura della Vita di Teresa di Gesù, Edith Stein mosse un passo determinante di fede: "Afferrare e tenere la mano di Dio: questo è il fatto che coopera a costituire l'atto di fede". Con la sicurezza di non essere attrice primaria: "L'afferrare presuppone un venire afferrati: non potremmo credere senza la grazia". Si può riprendere e riconsiderare quindi la positività della mistica, intesa come esperire religioso, quando si abbandoni il finito, la soglia fra tutto e nulla: "Quando l'anima nella comunicazione di grazia sperimenta l'irrompere dell'Essere divino nel suo proprio essere come elevazione dell'essere, si realizza un divenire uno con il punto sorgivo personale della vita attraverso una reciproca consegna personale. Bisogna però notare ancora qualche cosa di diverso: il nudo tocco nel più profondo interiore non ha necessariamente come presupposto l'inabitazione per grazia. Può essere donato a una persona totalmente irreligiosa come risveglio alla fede e come preparazione per ricevere la grazia santificante. Può anche servire come mezzo per rendere idonea una persona irreligiosa come strumento per raggiungere uno scopo determinato. Entrambe le possibilità valgono anche per le illuminazioni particolari. L'unione invece come reciproca consegna non può avvenire senza la fede e l'amore, cioè senza la grazia santificante. Se si verifica in un'anima che non è in stato di grazia dovrebbe, fin dal suo inizio, contemporaneamente venire donata anche la grazia santificante e come condizione previa la perfetta contrizione". Nell'idea di mistica steiniana non c'è la fusione dell'io nel tutto (che rasenta oppure è il nulla) ma il coniugare la storia, con il suo peso tragico, con la speranza, in una viva modalità esperienziale. Un'obbedienza alla Verità, Gesù Cristo, fattasi carne rivelandosi nella storia, finita sino all'estremo possibile limite della kènosis della croce. Il trascendente infatti per lei non si risolve nello spirito umano, ma si lascia trasformare dallo Spirito e scatta l'alchimia di grazia che muta il dolore in amore e genera la più alta mistica perché è quella del crocifisso. Edith Stein nella storia del Carmelo teresiano si dimostra come un unicum perché racchiude in se stessa due dimensioni che, troppo spesso, vengono considerate divergenti: la ricerca della verità e l'incontro amoroso con la Verità.
(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009)
Nel santo patrono d'Europa le radici del pontificato di Benedetto XVI - L'inscindibile legame tra obbedienza e libertà - di Mariano Dell'Omo Benedettino Vicearchivista dell'abbazia di Montecassino – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
A chi non conosceva il lungo itinerario umano e spirituale del cardinale Joseph Ratzinger, la scelta del nome Benedetto al momento della sua elezione a Papa in quel pomeriggio romano del 19 aprile 2005, prima che egli stesso potesse spiegarne la genesi con la consueta limpidezza della sua parola, poteva apparire singolare se non straordinaria. In realtà, basta scorrere il volume della sua autobiografia La mia vita. Ricordi (1927-1977) - Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, pagine 122, euro 16,53 - per cogliere come già nel fanciullo Joseph si delineasse ben presto quel paesaggio interiore che lo avrebbe condotto molti anni dopo, una volta eletto Papa, a preferire a tutti gli altri il nome di Benedetto, il santo fondatore di Montecassino e patriarca dei monaci d'Occidente. Lo spazio della liturgia attrasse infatti in modo avvincente l'interesse del fanciullo Ratzinger: "Questo misterioso intreccio di testi e di azioni (...) cresciuto nel corso dei secoli dalla fede della Chiesa. Portava in sé il peso di tutta la storia ed era, insieme, molto di più che un prodotto della storia umana", scrive in quei suoi Ricordi. E questo mondo gli divenne familiare proprio grazie alla mediazione di un benedettino, Anselm Schott abate di Beuron, che aveva pubblicato il messale in lingua tedesca corredandolo di commenti, sì da avvicinare alla comprensione della messa anche un pubblico semplice e intuitivo come quello dei ragazzi. E il cardinale ricordava come egli ricevette appunto "uno Schott per bambini, in cui erano già riportati i testi più importanti della liturgia; poi lo Schott della domenica, in cui la liturgia della domenica e dei giorni festivi era riportata integralmente, e, infine, il messale quotidiano completo". E continuava: "Ogni nuovo passo che mi faceva entrare più profondamente nella liturgia era per me un grande avvenimento. I volumetti che di volta in volta io ricevevo erano qualcosa di prezioso, come non potevo sognarne di più belli. Era un'avventura avvincente entrare a poco a poco nel misterioso mondo della liturgia". È questa l'Opus Dei, l'Opera di Dio, la Sua lode, che occupa un posto privilegiato e primario nella vita del monaco benedettino, sempre memore di quel che san Benedetto afferma nella Regola (capitolo 43, 3): Nihil Operi Dei praeponatur (all'Opera di Dio non si anteponga nulla). Altamente significativo è il fatto che solo in un altro caso Benedetto adotta lo stesso sintagma nihil praeponere, quando afferma in modo apodittico il primato di Cristo nella vita del monaco (capitolo 4, 21): Nihil amori Christi praeponere (nulla anteporre all'amore di Cristo). La preghiera liturgica, l'Opus Dei è lo spazio stesso nel quale Cristo si fa presente in un triplice modo, secondo il pensiero ben noto di sant'Agostino che tanto pervade quello di san Benedetto: "L'unico salvatore del corpo mistico, il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è colui che prega per noi, che prega in noi e che è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote; prega in noi come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio" (Expositio in psalmos, 85, 1). Allora ben si comprende quel che scriveva il cardinale Ratzinger, sull'onda dei suoi giovanili ricordi, circa quella lontana eco benedettina con la quale egli avrebbe via via sempre più sintonizzato la sua esperienza di sacerdote, di vescovo e infine di Papa: "L'inesauribile realtà della liturgia cattolica mi ha accompagnato attraverso tutte le fasi della mia vita; per questo, non posso non parlarne continuamente". Del resto l'infanzia e l'adolescenza del futuro Pontefice trascorsero in un ambiente particolarmente segnato dall'impronta benedettina, e quindi dalla cultura liturgica che la caratterizza, se solo si richiami alla memoria che Traunstein, il piccolo centro abitato dov'egli viveva, nei pressi della frontiera con l'Austria, è situato a soli trenta chilometri da Salisburgo, la città mozartiana per eccellenza, tanto influenzata dalla storica abbazia benedettina di San Pietro, fondata nel secolo vii da san Ruperto apostolo dei bavaresi. L'Austria e la Baviera sono profondamente marcate dalla presenza di tanti monasteri di regola benedettina, a tal punto che ancor oggi le congregazioni monastiche austriaca e bavarese, che fanno parte della Confederazione dell'Ordine di San Benedetto, comprendono rispettivamente dodici e undici monasteri, alcuni dei quali, come ad esempio Weltenburg in diocesi di Ratisbona, e Scheyern nell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga, erano ben conosciuti dal sacerdote e professore di teologia, poi cardinale Ratzinger. Il contesto nel quale con più ampiezza il cardinale, ormai da diversi anni prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, delineò come in un vasto affresco tutta la sua idea del mondo benedettino, del suo contributo alla civiltà umana e spirituale dell'Europa in particolare, è sicuramente il libro-intervista che dalle sue parole si venne formando proprio a Montecassino nei giorni dal 7 all'11 febbraio dell'anno 2000, uscendo poi l'anno successivo col titolo quasi programmatico: Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio (Joseph Ratzinger, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, pagine 432, euro 23,69). Quel segmento di tempo tanto breve quanto intenso fu vissuto, come scrisse nella prefazione lo stesso cardinale Joseph Ratzinger, in un'atmosfera di pace: "La quiete del monastero, il calore dimostrato dai monaci e dall'abate, l'atmosfera favorevole alla preghiera e la riverente solennità della liturgia ci furono di grande aiuto". Egli rispose in quell'occasione alle tante domande postegli dal giornalista e scrittore Peter Seewald, lasciando così affiorare in quelle pagine la sua visione monastica, le speranze che egli nutriva circa l'attualità dell'ideale di Benedetto. In primo luogo ciò che colpiva il futuro Papa era la casuale coincidenza temporale - per lui "estremamente significativa" - nell'anno 529, "tra la chiusura dell'Accademia ateniese, simbolo dell'educazione nell'antichità classica, e l'inaugurazione del monastero di Montecassino, che fu, per così dire, l'accademia della cristianità. La chiusura dell'Accademia platonica è il simbolo del declino di un mondo. L'impero romano è in decomposizione, a Occidente è già stato smembrato e non esiste più in quanto tale. Con esso un'intera cultura minaccia di affondare nell'oblio, ma Benedetto la custodisce gelosamente e insieme la fa rinascere, compiendo così un'opera che soddisfa in pieno il motto benedettino: succisa virescit - ciò che viene reciso germoglia di nuovo. Alla frattura corrisponde in qualche misura un nuovo inizio". Quando il cardinale Ratzinger alcuni anni dopo assunse, quale successore di Giovanni Paolo II, il nome di Benedetto, è credibile che pensasse anch'egli a "un nuovo inizio". Come san Benedetto egli stesso deve aver intuito la possibilità che la Provvidenza gli offriva di dare al suo pontificato un esordio augurale e profetico, da cui potesse, come sta già avvenendo, scaturire una nuova cultura e una nuova opera di rigenerazione cristiana per il mondo intero. Non a caso egli era da tempo ben consapevole dell'attualità della Regola di san Benedetto, un viatico esistenziale offerto non solo ai monaci ma a tutti gli uomini ben disposti ad accettarsi, a "dimorare presso di sé", a tacere, ad ascoltare, e perciò a trovare la pace. In quei giorni di serena contemplazione e di proficuo lavoro a Montecassino, nel costruire quel libro-intervista egli riconosceva che "la Regola benedettina è l'esempio lampante del fatto che ciò che davvero rispecchia la natura umana non invecchia", e da vero maestro il cardinale Ratzinger si faceva esegeta finissimo di un testo, la Regola, che ha avuto tanti illustri e santi commentatori. Egli si aggiungeva al novero di quella schiera, illuminando le prime parole del prologo alla Regola: Obsculta, o fili, praecepta magistri (Ascolta, o figlio, gl'insegnamenti del maestro), ed esortando con accento magistrale e tono paterno "a recuperare l'idea che l'ascolto faccia parte della vita - visto che il servizio divino è in gran parte permettere a Dio di entrare nella nostra vita e ascoltarlo. Come disciplina, misura e ordine, così anche ubbidienza e libertà sono inscindibili, e anche la capacità di sopportazione reciproca nel nome della fede non è solo una Regola fondamentale di una comunità monastica ma, assieme a tutti gli altri elementi che abbiamo nominato, è anche ingrediente essenziale di qualsiasi forma di convivenza umana. È una regola radicata nella natura umana e capace di sintetizzare l'essenza umana perché ha guardato e ascoltato al di là dell'umano e ha percepito il divino. L'uomo si umanizza appunto laddove è toccato da Dio". Come è tutto più chiaro ora, come appare naturale, coerente, espressiva di una diuturna fedeltà al carisma benedettino, la scelta di chiamarsi Benedetto! Quella sera del 19 aprile di cinque anni orsono, restammo felicemente sorpresi per quel nome, che poi è divenuto sempre più e sempre più sarà l'emblema di un Papa che ama contemplare la bellezza di Dio, che vuole farla percepire a noi tutti, e che ha individuato nel messaggio suadente, fermo e dolce al tempo stesso, del patriarca Benedetto, il mezzo per orientare nuovamente l'umanità sulla via dell'ascolto con l'orecchio del cuore, perché tu uomo di questo splendido e tormentato tempo, egli sembra dirci paternamente, ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras - perché tu possa per la fatica dell'obbedienza ritornare a Colui dal quale ti eri allontanato per l'inerzia della disobbedienza - (Regola, prologo, 2). È emblematico che tra le ultime parole ufficiali del cardinale Joseph Ratzinger Decano del Sacro Collegio, mentre le condizioni fisiche del Papa Giovanni Paolo II si aggravavano di ora in ora, vi siano quelle dedicate a Benedetto da Norcia, pronunziate il 1° aprile del 2005, a Subiaco, dov'egli ricevette il "Premio San Benedetto" promosso dalla Fondazione "Vita e famiglia". Egli si rivolgeva all'Europa nella crisi delle culture, a quel continente europeo che l'apostolo della Germania, il monaco san Bonifacio, aveva contribuito a edificare cristianamente nel lontano secolo vIII. Rileggendo quel testo non possiamo non vedervi l'annunzio di una svolta, un presagio di quel varco che il Signore della storia misteriosamente stava aprendo all'orizzonte dell'umanità: "Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo. Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli". Nell'imminenza della sua venuta a Cassino e Montecassino il 24 maggio, risplendono di viva luce queste parole di speranza del futuro Papa, il primo a essere eletto nel terzo millennio, all'alba di un nuovo mondo, di quella rinnovata civiltà, che egli auspica sia finalmente la civiltà dell'amore.
(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009)
Il Patriarca Twal e l'arcivescovo Franco sull'esito del pellegrinaggio di Benedetto XVI - Il Papa in Terra Santa e i frutti da raccogliere – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
Gerusalemme, 23. Come pellegrino in Terra Santa, Benedetto XVI ha voluto incoraggiare i cristiani del mondo intero a seguire il suo esempio, "a venire qui, per pregare ed entrare in contatto con le comunità locali". Come pastore, ha rivolto il suo messaggio alle popolazioni cristiane incontrate, fermandosi ad ascoltarle. Come Capo di Stato, ha ribadito la posizione della Chiesa sui diritti degli israeliani e dei palestinesi, "spronando verso la soluzione dei due Stati". Il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, Fouad Twal, e l'arcivescovo Antonio Franco, nunzio apostolico in Israele e in Cipro e delegato apostolico in Gerusalemme e Palestina, hanno riassunto così i principali contenuti del viaggio del Papa in Terra Santa. In una conferenza stampa tenutasi mercoledì scorso al Centro Notre Dame di Gerusalemme, i due presuli hanno sottolineato il successo di questo pellegrinaggio, "persino nelle difficoltà", poiché "il Santo Padre ha così potuto fare esperienza della realtà concreta nella quale viviamo, qui in Terra Santa". Il messaggio lasciato da Benedetto XVI va ora studiato, recepito, trasformato in azione: "I risultati non saranno totalmente visibili oggi - hanno spiegato Twal e Franco - e nemmeno domani. Abbiamo bisogno di più tempo, di dar tempo alla Provvidenza, ma questo messaggio di dialogo, di pace, di riconciliazione porterà i suoi frutti". Di certo "dipenderà dalla buona volontà di ognuno di noi di ascoltarlo veramente e di confrontare i nostri atteggiamenti con le indicazioni lasciateci dal Santo Padre". Una di queste - ha detto il nunzio apostolico - "è che si riconosca il diritto di Israele a vivere in sicurezza nel proprio Paese e il diritto dei palestinesi ad avere una patria, uno Stato, in modo che si giunga a una pace stabile in questa parte del mondo". Ma il ruolo della Chiesa nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese - ha aggiunto monsignor Franco - "non è certamente diretto. A essa spetta di rendere le persone capaci di accettarsi a vicenda, di perdonarsi, di creare delle nuove possibilità, in modo da originare le precondizioni alla pace, sostenendo gli sforzi positivi e tentando di vincere la rassegnazione e la passività". L'arcivescovo ha sottolineato anche l'importanza del discorso pronunciato da Benedetto XVI allo Yad Vashem: "Vi invito a riprendere le parole del Papa nel loro insieme, e specialmente quelle pronunciate al suo arrivo all'aeroporto, al memoriale e nel discorso conclusivo. Se ci addentriamo veramente nel pensiero del Papa, non possiamo desiderare di più del messaggio che egli ci ha lasciato sulla Shoah. Ha detto "Mai più!"". E la "riflessione sul nome", allo Yad Vashem, "è la più bella che poteva fare per parlarci del dovere della memoria". Il Patriarca Twal ha approfondito l'aspetto del viaggio legato al dialogo ecumenico e interreligioso: "Il Santo Padre - ha affermato - è stato felice di constatare che esiste una volontà di dialogo fra tutte le religioni, di trovare una buona disposizione. E, in un certo senso, è stato felice di toccare con mano la complessità della nostra situazione. Per il Papa, una cosa è leggere dei rapporti, un'altra è vedere la realtà nella sua concretezza". Di tappa importante per il cammino del dialogo interreligioso parla anche l'arcivescovo Francis Assisi Chullikatt, nunzio apostolico in Giordania e in Iraq, che in un'intervista al Sir sottolinea che la scelta della Giordania, come "prima sosta del suo pellegrinaggio", e la visita alla moschea di Amman "sono stati gesti molto apprezzati" dalla comunità musulmana giordana e dai reali. Gesti che hanno fatto "ulteriormente migliorare l'atteggiamento dei musulmani nei riguardi dei cristiani". Il dialogo interreligioso - dice Chullikatt - "ha ricevuto, dalla visita papale, uno stimolo in più. Da questo incontro ci attendiamo frutti positivi". Apprezzamento per il "valore" e la "forza" della visita di Benedetto XVI in Terra Santa è stato manifestato inoltre dall'istituzione interreligiosa "Pave the way foundation" che, in un comunicato firmato dal suo fondatore e presidente, l'ebreo Gary Krupp, sottolinea l'importanza del messaggio di pace portato dal Papa "in una regione divisa da differenze politiche, religiose e culturali". Allo stesso tempo la fondazione lamenta le critiche che "da settori contrapposti sono state mosse al Santo Padre", spiegando che si tratta di persone o istituzioni "con ideologie opposte o con finalità di partito".
(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009)
I limiti inderogabili del dialogo sui temi etici con la Casa Bianca e con il Congresso - I vescovi degli Stati Uniti su ricerca e obiezione di coscienza - di Marco Bellizi – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
Il presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, il cardinale Francis Eugene George, arcivescovo di Chicago, esorta il presidente Barack Obama a tradurre in pratica quanto ha affermato recentemente riguardo alla difesa del diritto all'obiezione di coscienza per gli operatori sanitari. Obiezione - ricorda il cardinale - nella quale rientra anche il diritto a non finanziare l'aborto con le tasse pagate allo Stato. Obama, intervenendo presso la University of Notre Dame di South Bend, in Indiana, ha assicurato che il diritto all'obiezione, finora previsto dalla legge, continuerà a essere riconosciuto. La questione è rilevante, in quanto alla luce dei provvedimenti presi dalla nuova amministrazione in materia etica, molti operatori sanitari si potrebbero trovare di fronte alla necessità di dover prestare servizi moralmente non condivisi. Il cardinale George, in una dichiarazione resa pubblica dalla Conferenza episcopale, ha espresso gratitudine per le affermazioni fatte da Obama sulla necessità di "onorare la coscienza di quanti non sono d'accordo con l'aborto" anche attraverso le clausole di coscienza riconosciute agli operatori sanitari. "Dal 1973 - si legge nella dichiarazione - le leggi federali a protezione del diritto all'obiezione di coscienza degli operatori sanitari hanno costituito una parte importante della tradizione dei diritti civili in America. Tali leggi dovrebbero essere pienamente applicate e rinforzate. Gli operatori e le istituzioni sanitarie cattoliche dovrebbero poter sapere che le loro più profonde convinzioni religiose e morali saranno rispettate nel momento in cui esercitano il loro diritto a servire i pazienti che hanno bisogno di aiuto. Gli operatori cattolici, in particolare, rendono un grande ed essenziale contributo all'assistenza sanitaria nella nostra società. Passi essenziali per proteggere i diritti di coscienza rafforzeranno il nostro sistema sanitario e la possibilità per molti pazienti di accedere a un'assistenza orientata alla difesa della vita. Un Governo - ha aggiunto il cardinale - che vuole ridurre il tragico numero di aborti nella nostra società lavorerà anche per assicurare che nessuno sia costretto a supportare l'aborto o a prendervi parte, attraverso prestazioni dirette o fornendo informazioni sull'aborto o finanziandolo con i dollari delle sue tasse. Mentre il dibattito continua, attendiamo di poter lavorare con l'amministrazione e i legislatori per raggiungere questo obbiettivo". I vescovi degli Stati Uniti, dunque, attraverso il cardinale George, rispondono a quanti hanno visto dietro alle posizioni assunte dai presuli sui temi etici un'opposizione politica alla nuova amministrazione. Raccogliendo l'invito espresso dal presidente Obama nel suo discorso all'università di Notre Dame, la Conferenza episcopale ha invece ricordato quali sono i termini inderogabili all'interno dei quali, dal punto di vista cattolico, il dialogo, quale che sia il colore dell'amministrazione, può avvenire. Il contributo a un lavoro comune con l'amministrazione è dimostrato anche dalla raccolta di pareri, avviata dalla stessa Conferenza episcopale, riguardo alle linee guida elaborate dai National Institutes of Health (Nih) per la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Secondo monsignor David Malloy, segretario generale della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, i Nih hanno perso "un'enorme opportunità per mostrare come la scienza e l'etica possano non solo coesistere ma aiutarsi e arricchirsi l'una con l'altra". Monsignor Malloy ha citato anche la dignità della vita umana in ogni stadio dell'esistenza e l'innato diritto di ogni uomo a non essere soggetto a sperimentazioni senza il proprio consenso informato ed esplicito. Leggi che manchino di riconoscere tale diritto - ha aggiunto - finiscono per chiamare in causa "la loro stessa legittimità morale". Il segretario generale della conferenza ha messo in evidenza "un fatto scientifico centrale" nella questione della ricerca sulle cellule staminali embrionali: l'embrione che verrà distrutto per ottenere cellule staminali "è un essere umano nelle primissime fasi del suo sviluppo". Non si tratta - ha spiegato monsignor Malloy - di un argomento religioso ma di un fatto riconosciuto da molti organismi, compresa la National Bioethics Advisory Commission nominata dal presidente Clinton. Tale organismo arrivò alla conclusione che dal momento che gli embrioni umani meritano rispetto in quanto forme di vita umana, distruggerli per ottenere cellule staminali è "giustificabile solo se alternative meno problematiche dal punto di vista etico non siano disponibili". Tali alternative esistono, ha ricordato monsignor Malloy riferendosi per esempio alla riprogrammazione delle cellule staminali adulte in modo che diventino cellule staminali pluripotenziali senza danno alla vita umana. Le politiche federali che vietavano la distruzione di embrioni avevano consentito il grande avanzamento di questo tipo di ricerche. Ora, l'executive order del 9 marzo, presentato dal presidente Obama - ha detto ancora il segretario generale della Conferenza episcopale - non ha solo rimosso tale politica ma anche un analogo provvedimento del 2007 che dava istruzioni ai Nih per poter praticare nuove strade al fine di ottenere la riprogrammazione delle cellule staminali adulte senza distruggere embrioni umani: "Con tale decisione - ha concluso monsignor Malloy - sia la scienza sia l'etica sono state ignorate".
(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009)
A colloquio con dom Pietro Vittorelli, abate di Montecassino - Il Papa nel cuore dell'Europa cristiana - di Nicola Gori – L’Osservatore Romano, 24 maggio 2009
L'attesa, la speranza, la gioia per l'arrivo di Benedetto XVI in visita all'abbazia e alla diocesi di Montecassino, domani domenica 24 maggio, trovano eco nell'intervista dell'abate Pietro Vittorelli rilasciata al nostro giornale.
Benedetto XVI si reca a Montecassino portatore dei suoi forti legami con san Benedetto. Come sono finora emersi questi legami nel suo servizio petrino?
Benedetto XVI ha più volte sottolineato, sin dall'inizio del suo pontificato, un radicamento nella spiritualità benedettina riproponendola nei suoi discorsi e nelle sue catechesi che trovano una mirabile sintesi nel nihil amori Christi praeponere, che san Benedetto inserisce nel quarto capitolo della Regola "Sugli strumenti delle buone opere" (4,21) e che il Santo Padre ha più volte citato quasi come un leitmotiv della sua narrazione teologica. Quando la sera del 19 aprile 2005 dalla Loggia delle benedizioni il cardinale Jorge Arturo Medina Estévez annunciava al mondo che era stato eletto Papa il cardinale Ratzinger e che aveva scelto di chiamarsi Benedetto, oltre alla gioia incontenibile di tutto il mondo monastico che a Montecassino si confondeva con il suono delle campane e l'intasamento delle linee telefoniche e della posta elettronica, ad alcuni monaci non sfuggì l'immediato riferimento alla Regola nelle prime parole che dichiaravano il Papa "un umile operaio nella vigna del Signore". Benché chiaro il riferimento evangelico, non sfuggiva la citazione dell'umiltà cara a Benedetto e l'espressione del Prologo alla sua Regola Et quaerens Dominus, in moltitudine populi cui haec clamat, operarium suum (14). Non è mai mancato nell'infaticabile servizio petrino di Benedetto XVI il riferimento alla importanza delle radici cristiane dell'Europa e il servizio reso alla Chiesa in questo dai monaci e dalle monache di san Benedetto. Il Papa non ha però uno sguardo "archeologico" verso il monachesimo benedettino ma ne coglie tutta la vitalità e le prospettive future. Ricevendo in udienza il Congresso mondiale degli abati lo scorso 20 settembre 2008 ebbe a dire: "Per costruire un'Europa nuova occorre incominciare dalle nuove generazioni", affermò il Papa, per poi allargare lo sguardo all'intera famiglia umana e sottolineare che "in tante parti del mondo, specialmente dell'Asia e dell'Africa, vi è grande bisogno di spazi vitali d'incontro con il Signore, nei quali attraverso la preghiera e la contemplazione si ricuperino la serenità e la pace con se stessi e con gli altri". Ma il testo che a mio avviso rimarrà il "manifesto benedettino" del pontificato di Papa Ratzinger è il magnifico discorso tenuto al College des bernardins nell'incontro con il mondo della cultura. Introdusse: "Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea" e con la maestria teologica che gli è propria e con il cuore di monaco ha intessuto il canto più bello sul quaerere Deum.
Il richiamo a san Benedetto attualizza anche la riflessione sull'Europa. Pensa che la visita di Benedetto XVI abbia un significato per l'intero continente alla ricerca delle sue radici cristiane?
La visita di un Papa di nome Benedetto nella culla del monachesimo occidentale, nel luogo che hanno rispecchiato gli occhi di san Benedetto, da dove è partito l'impulso di una nuova evangelizzazione per il continente europeo non potrà non avere un'eco nell'Europa contemporanea. Il Papa riaffermerà l'importanza per l'uomo contemporaneo di riappropriarsi di una ferialità, di una normalità che nella quotidianità benedettina dell'ora et labora et lege può continuare a costruire l'uomo. "Nei vostri monasteri, voi per primi rinnovate e approfondite quotidianamente l'incontro con la persona del Cristo, che avete sempre con voi come ospite, amico e compagno. Per questo i vostri conventi sono luoghi dove uomini e donne, anche nella nostra epoca, accorrono per cercare Dio e imparare a riconoscere i segni della presenza di Cristo, della sua carità, della sua misericordia": così ebbe a dire nell'ultima udienza concessa agli abati benedettini riuniti in congresso mondiale.
La diocesi di Montecassino è storicamente dipendente dagli abati dell'abbazia. Nello sviluppo della pastorale diocesana ciò comporta delle difficoltà?
La diocesi di Montecassino è Montecassino e Montecassino è la sua diocesi. Il legame indissolubile che ha unito le nostre parrocchie e le nostre popolazioni al monastero e ai suoi abati ha quindici secoli di storia, nasce con l'arrivo di san Benedetto stesso nel vi secolo e nei secoli successivi ha subito modifiche con gli adattamenti che i mutati tempi richiedevano e che la saggezza di tanti abati miei predecessori ha saputo armonizzare. Oggi la nostra diocesi dopo un lungo cammino di Sinodo ha attuato tutte le istanze del Vaticano ii. Le difficoltà ci sono state quando per un lungo periodo si è vissuta con sofferenza l'indecisione sul futuro della stessa abbazia territoriale. Quel periodo creò tanto disagio nel clero per il loro futuro e soprattutto nei fedeli così legati alla loro matrice benedettina. Oggi che la Santa Sede ha confermato una ritrovata stabilità con la nomina di un nuovo abate e ordinario diocesano la vita di questa piccola ma significativa Chiesa diocesana ha ripreso il suo secolare cammino conservando nel suo cuore la forza orante di una comunità monastica e nelle sue membra la testimonianza appassionata di tanti presbiteri cresciuti alla scuola di Benedetto. Il piano pastorale che abbiamo inaugurato lo scorso anno come Chiesa diocesana prevede un percorso quinquennale di riflessione sulla Parola di Dio.
L'abbazia di Montecassino è indiscutibilmente un punto di riferimento per il monachesimo occidentale. Cosa rappresenta oggi per l'Ordine e per la vita contemplativa?
Montecassino rimane la casa madre di tutti i benedettini. Da tutto il mondo è costante il passaggio di monaci e monache sulla tomba dei santi Benedetto e Scolastica e certamente Montecassino rappresenta per tutti il cuore dell'esperienza di san Benedetto. Fu lo stesso Santo Padre che nell'udienza generale del 9 aprile 2008 presentando la figura di san Benedetto ebbe a dire: "La vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d'essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita". Così giustificava autorevolmente il passaggio di san Benedetto da Subiaco, che rimane l'altro grande cuore benedettino, a Montecassino, che dell'esperienza di Benedetto è appunto la visibilità della fede come forza di vita.
La spiritualità benedettina influisce sulla vita religiosa dei fedeli della diocesi?
I fedeli della diocesi sono totalmente imbevuti di spiritualità benedettina. Molti dei nostri bravi sacerdoti sono stati formati da monaci quando ancora il seminario era in monastero. L'attenzione alla liturgia, il gusto per il canto corale, il suono della campana all'Angelus tre volte al giorno in ogni nostra parrocchia, il gusto per la Parola di Dio, il pellegrinaggio notturno a Montecassino per la veglia di Pentecoste. Pensi che una piccola diocesi come la nostra conta 25 corali parrocchiali che ogni anno ascoltiamo in una rassegna sempre molto attesa, con una continua riscoperta del canto gregoriano e della tradizione polifonica che agli inizi del '900 ebbe in alcuni nostri monaci dei mirabili promotori: dom Mariano Iaccarino e dom Luigi De Sario furono maestri per molti. Ogni anno per la festa di san Benedetto del 21 marzo si celebra una vera e propria giornata per l'Europa e proprio per riscoprire le radici benedettine quindici anni fa è stato fondato il corteo storico Terra Sancti Benedicti che ogni anno coinvolge cinquecento persone, per lo più giovani, che rievocano i tempi dell'abate Bernardo Ayglerio tra xIII e xiv secolo, con ricerche storiche e di costume. Abbiamo poi la scuola cattolica san Benedetto che in città i monaci gestiscono insieme alle suore di Carità di santa Giovanna Antida Thouret e che ospita cinquecento alunni, dalla scuola dell'infanzia fino al liceo classico.
Le figure di Benedetto e Scolastica richiamano pellegrini anche di altre fedi?
Spesso abbiamo ospitato monaci buddisti che hanno voluto conoscere la nostra forma di vita. Non sono mancate visite di musulmani anche illustri: penso alla visita di re Abdullah ii Bin Hussein di Giordania. Suo nonno aveva combattuto qui a Montecassino durante la seconda guerra mondiale e al presidente dell'Iran Khatami. Tanti gli amici ebrei, soprattutto della comunità romana.
Montecassino è anche un luogo che ricorda gli orrori della guerra. I suoi monaci e la diocesi sono impegnati per la pace?
Pochi decenni fa, la morte e la distruzione che sono piombati sull'abbazia e sul territorio hanno devastato migliaia di vite umane qui, attorno a noi. Queste terre hanno risuonato delle grida di dolore e delle lacrime di famiglie e individui disperati. Tutto questo ha determinato monastero e diocesi a un lavoro continuo di costruzione della pace. Un impegno rinnovato ogni anno negli anniversari del bombardamento dell'abbazia e della città con gli inviti ai reduci che ancora quest'anno sono tornati per riaffermare il desiderio di pace.
(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009)
DOMENICHE DI PRIME COMUNIONI - L’EVENTO ZITTITO MUOVE IL CUORE DI MOLTI - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 24 maggio 2009
In queste domeniche c’è un appuntamento che coinvolge migliaia e migliaia di italiani. Ma non ne troverete traccia nei media. Ci sarà un appuntamento importantissimo. Un vero evento, che batte per profondità, per vastità e per numero di persone coinvolte ogni altro evento o supposto evento di cui le cronache si riempiono. Che batte ogni piazza riempita da show di vario genere. Che batte ogni comizio. Che coinvolge più di ogni campionato. Ma non ne parlano i giornali. Perché, si sa, i giornali e le tv parlano solo di una parte di realtà. Della realtà che interessa a coloro che comandano e fanno le tv e i giornali. E della realtà che (sempre loro) pensano interessi agli altri. Insomma sta succedendo una cosa che coinvolge un sacco di gente, un sacco di famiglie, un evento che ha perfino, per così dire, un bell’impatto economico. Ma non ne parlano i media. Ne parlano molto le persone. Anche i bambini. Fervono i preparativi, come si dice. Intendo le prime comunioni. Appuntamenti delle domeniche di maggio in ogni città e in ogni borgo d’Italia. Evento che muove i cuori e le azioni di centinaia di migliaia di italiani in questi giorni. Di chi è genitore, e di chi è parente. E di chi è amico. Di chi è catechista. E di chi è parroco. Un sacco di gente, davvero. Ma di cui non troverete traccia sui media.
Non troverete traccia nemmeno dei protagonisti, tutti questi piccoli bellissimi nei loro otto, nove anni. Tutti questi bambini non più piccoli, già ragazzini. Che – ecco l’evento – mangeranno Gesù. Un evento che potrebbe fare notizia, effettivamente. Il corpo di un Uomo viene mangiato, ingoiato, e custodito nel petto di migliaia di piccoli italiani. Di ragazzini che per la prima volta compiranno il gesto estremo di prendere in bocca il corpo di Cristo. Quel corpo sacrificato per la vita. Il corpo che dà la vita. Lo prenderanno tra le labbra avendo fame di vita.
Rappresenteranno, per questo desiderio, l’Italia intera. L’Italia che ha fame di pane, e fame di vita. Che ha fame di senso per l’esistenza. Fame che torce il viso, che sfigura l’Italia. Che la rende fragile, smarrita. Questi ragazzini mangeranno Gesù, lo prenderanno dentro di loro come l’unico pane che toglie la fame. Perché è la carne del Risorto e noi abbiamo fame di Resurrezione. Suprema spiritualità e suprema materialità del cristianesimo. Antica e futura originalità.
Questi ragazzini faranno quello che desideriamo tutti: mischiare al nostro corpo e alla nostra vita la Resurrezione. E tessere la nostra vita con l’energia che viene dall’Amore. Anche se i media non ce li fanno vedere, sarebbe giusto guardare tutti questi nostri piccoli che fanno la prima comunione. Correndo, volando per strade e vicoli, in case e piccoli o grandi ritrovi. Nei loro vestiti, simpatici, eleganti e a volte bizzarri, ma tutti messi con il garbo di chi si prepara a incontrare un grande Ospite. Guai ai genitori e ai catechisti che non fanno percepire ai loro piccoli cosa sta succedendo. E tristi quegli adulti che guardandoli non si ricordano – in questo maggio ferito da crisi e violenze – della loro prima comunione. Che non è solo un rito, non è solo una festa. È il gesto decisivo della intera esistenza. Più di tanti altri che ora sembrano, sui media, i gesti necessari, i gesti per vivere bene, o per scampare da vari tipi di crisi. Vedendo ora i nostri figli e questi bambini chiari come il vento, noi adulti ci si ricordi di che nutrimento abbiamo scelto per la nostra vita, e per quella dei nostri bambini. Se la vanità, l’oro che arrugginisce nei cuori, le chiacchiere inconsistenti delle ideologie e delle mode. O il corpo di Dio.
CHIESA E SOCIETÀ - Cottolengo Altro che 'mostri deformi' tenuti in vita ad oltranza - DAL NOSTRO INVIATO A TORINO - MARINA CORRADI – Avvenire, 24 maggio 2009
Porta Palazzo, Torino sembra una casba, un mercato mediorientale ondeggiante di chador, vociante di richiami maghrebini. Poi giri a destra, e ti si para davanti il Cottolengo con le sue imponenti interminabili facciate. La strada si fa silenziosa.
Caritas Christi urget nos, è scolpito sull’ingresso, la carità di Cristo ci sprona. Entri. Sotto ai tigli secolari ti sembra d’essere in una città diversa. 112 mila metri quadri di padiglioni, 3000 pasti al giorno, una mensa per i poveri, una scuola per infermieri, un monastero di clausura, il seminario, l’ospedale, e poi le case per disabili e anziani, in tutto oltre seicento letti. Una città, davvero. Ti inoltri per i viali in un viavai di suore in veste bianca – ce ne sono oltre seicento qui – e di ospiti che camminano adagio, claudicanti, o in carrozzella. La reazione istintiva del visitatore è di inquietudine – quella che provi quando immagini di dover vedere da vicino il dolore. Del resto, un’aura di mistero gravava un tempo su questa Piccola casa della Provvidenza. «Laggiù stanno i mostri», si diceva a Torino. Lo dice ancora del resto, sull’Espresso, Giorgio Bocca, che ha scritto di «un culto della vita ad ogni costo che lascia perplessi i visitatori della pia istituzione del Cottolengo, dove tengono in vita esseri mostruosi e deformi». E dunque chi entra immagina una immersione nel dolore. Belli i viali alberati, ma, dietro quelle finestre? Don Carmine Arice, responsabile della Pastorale della Casa, è un pugliese arrivato qui da oltre vent’anni. Ci porterà per i reparti, in un labirinto infinito di corridoi e stanze e sotterranei dove, ti fa notare, un uomo in carrozzella può andare ovunque senza incontrare un gradino: e sì che l’anno di fondazione della casa precede di 150 anni le leggi sulle 'barriere architettoniche'. Quel prete, san Giuseppe Cottolengo, ci aveva già pensato.
Passi per l’ospedale con gli ambulatori affollati , riesci di nuovo, verso la chiesa. Qui il via vai delle suore si fa più intenso. Allo scadere dell’ora vanno e vengono le sorelle che si alternano per tutto il giorno nella laus perennis. C’è sempre qualcuno, in questa chiesa, che prega. Sentinelle, che s’alternano alla guardia. Perché pregare, diceva il fondatore, è 'il primo lavoro'. Quando aveva bisogno di nuove strutture, fondava un nuovo monastero di clausura. Quasi che veramente fondante fosse il pregare. Singolare logica, pensa fra sé il visitatore del 2009, a tutt’altro sguardo abituato; ma si direbbe, a giudicare dall’allargarsi prodigioso di questa casa dal 1832, che funziona. E siamo arrivati ai Santi innocenti, il reparto dei 'mostri' nella leggenda popolare. 122 ricoverati, quasi tutti disabili gravi. Morti ormai i macrocefali dalla testa enorme, gli ospiti qui sono quasi tutti handicappati anziani, età media 65 anni ( da quando esistono le ecografie, certi figli raramente vengono al mondo. Li individuano, e vengono eliminati).
Ai Santi innocenti i ricoverati sono divisi in dieci 'famiglie', ciascuna con una propria casa. Grandi stanze luminose, odore di pulito. Qualche ospite passeggia e risponde al saluto degli infermieri con un gesto di familiare consuetudine. Una, ancora giovane, esile, un moncone al posto di una mano, all’abbraccio di una suora risponde prima con uno scuotersi spastico del busto; poi le si calma fra le braccia. Le ricoverate qui, anche le più vistosamente colpite da una disabilità che ne annebbia lo sguardo o rende incerto il movimento delle mani, lavorano. Il lavorare con un senso, e uno scopo, al Cottolengo è considerato essenziale per l’uomo. Allora al pomeriggio trovi le donne ai tavoli dei laboratori, intente ad assemblare lentamente pezzi di giocattoli. O, le più abili, a lavorare all’uncinetto, le mani che con lucida precisione tramano pizzi elaborati. Una legge da un quaderno spalancato: 'VII93XC2P', e tutta la pagina è un susseguirsi di formule astruse, scritte a mano. È l’ordine dei punti del merletto, spiega la suora; e rimani attonita a contemplare il lavorio di quelle mani. Splendidi, degni di un altare, i pezzi finiti.
Le donne riconoscono don Carmine, gli sorridono. Pare un convivio di vecchie di paese intente ad antichi femminei mestieri. Dov’è, ti domandi, il dolore cocente che paventavi entrando in queste stanze? Le donne sembrano serene nel loro lavorare, in una dimestichezza affettuosa con le assistenti. Forse che il problema di queste persone, ti domandi, stia più negli occhi di chi li guarda che in loro? Perché noi dobbiamo essere efficienti, autonomi, capaci; e allora ci sembra un povero niente, quel faticoso lavorio di dita per assemblare una scatola di matite. Ma loro, le donne dei Santi innocenti, ti dicono: «L’ho fatto io», e ne sono contente. Ci han messo un’ora, a ordinare quei pastelli. Ma qui, dice don Carmine, «il tempo è al servizio degli uomini, e non gli uomini al servizio del tempo».
Armadi colmi di giochi ad incastro per bambini. Banchi incrostati di anni di pitture. I quadri dei disabili sembrano opere di impressionisti, sgargianti, tracimanti di colore. Un grande foglio appeso al muro è tutto nero: le ospiti lo hanno dipinto così. per raccontare la morte. Un altro è un’esplosione di luce: quello, spiega la suora, è, secondo loro, il Paradiso.
Vai avanti e parli meno, e resti assorta a guardare. Certo, nelle mani tremanti, negli sguardi persi riconosci come un piegarsi della vita sotto al giogo di un antica condanna. Una ferita oscura, originaria, in queste donne è evidente. «Dove la ferita è più grande, la domanda è più grande. Queste perso- ne sono come un grido, una più forte domanda di Cristo», dice don Carmine, intuendo ciò che ti stai chiedendo. (Forse per questo, per questa domanda evidente portata dalla sofferenza, oggi i figli malformati si sopprimono?) No, non ci sono creature 'metà cavallo e metà uomo' qui al Cottolengo, come fantasticavano una volta nei paesi del Torinese. Ma solo uomini con un 'di meno', che agli occhi dei sani è insopportabile. ( E accadeva che li lasciassero qui con l’inganno. Li portavano per una visita e li abbandonavano, perché quella diversità era onta fra i sani).
Eppure Angela, sorda, muta e cieca, si alza di scatto nell’avvertire la voce amica del prete, gli afferra le mani, inizia un intenso discorso di gesti che la suora che le è accanto – grossa, benigna, materna – capisce. Le risponde. Ridono fra di loro. Oltre la maschera che, fuori, noi sani portiamo, qui dentro intravvedi cos’è davvero un uomo. Oltre a ogni apparenza. «Vede – dice don Arice – questo giardino, come è perfettamente curato. Le finestre di fronte sono quelle dei malati di Alzheimer. Ecco, questo giardino lo curiamo così perché ognuno dei malati che lo guarda ha per noi un valore infinito».
È una concezione dell’uomo molto grande, quella che regge questo allargarsi di case e stanze da 170 anni nel cuore di Torino. Quando un canonico quarantenne si trovò di fronte allo scandalo della ingiustizia e del dolore: una donna incinta e malata respinta da due ospedali e lasciata morire in una stalla. Don Giuseppe Cottolengo cambiò vita. Le sue case nacquero una dopo l’altra, senza un progetto,rispondendo al quotidiano bisogno. I soldi, all’occorrenza, arrivavano. Si mostrava evidente, quasi in un’eco di ciò che il Manzoni proprio in quegli anni scriveva, che «la c’è, la Provvidenza». Malati segregati, poveri 'mostri' da imboccare e amare, confluirono nella Casa. Oggi nuovi poveri premono alle porte della cittadella dietro a Porta Palazzo. Vecchi dementi, lasciati soli in case vuote: la nuova emergenza, sono i vecchi. La Piccola Casa resta nel cuore della Torino del Duemila, crocevia di mille etnie, come un segno. Giovanni Paolo II qui disse: «Se non si comincia da questa accettazione dell’altro, comunque egli si presenti, in lui riconoscendo un’immagine vera anche e offuscata di Cristo, non si può dire di amare veramente ». Tutto un altro amore. Tutta un’altra logica, da quella di cui scrivono i giornali.
Se dalla sofferenza di Dio nasce la Speranza JÜRGEN MOLTMANN - Con Gesù dalla storia della morte alla storia della vita eterna - di Jürgen Moltmann – Avvenire, 24 maggio 2009
Il rapporto tra gli studiosi del Nuovo Testamento e i teologi, e viceversa, non sempre è stato dei migliori, perché i primi devono condurre un’indagine critica e i secondi devono dare formulazione alla certezza della fede. L’esegesi del Nuovo Testamento è segnata dalla tendenza moderna a cedere allo storicismo, mentre la teologia è segnata da quella a comprendersi come filosofia cristiana della religione, e in tal modo entrambi si allontanano parecchio l’una dall’altra, in ogni caso per non interferire e non disturbarsi reciprocamente. Ma ci sono anche i richiami a quanto ci è comune. Base della nostra lettura è lo stesso libro: il Nuovo Testamento, nel contesto del canone biblico. Lo leggiamo certamente con occhi diversi e con differenti interessi, ma si tratta delle stesse parole e idee, è lo stesso messaggio che noi leggiamo. Che cosa, dunque, dicono gli studiosi del Nuovo Testamento ai teologi e che cosa dicono i teologi a chi studia il Nuovo Testamento, nella comune lettura della Scrittura? La risposta è allo stesso tempo semplice e difficile, proprio come accadde nell’incontro dell’apostolo Filippo con il 'funzionario etiope di Candace'. Costui, nella sua carrozza, leggeva il profeta Isaia e proprio nel momento in cui stava leggendo il capitolo 53 giunse a «Gaza, che è deserta» (come oggi). Filippo ferma il carro e interpella il lettore della Bibbia con la domanda ermeneutica: «Capisci quello che stai leggendo?», e «partendo da quel passo della Scrittura, annunciò a lui (il Vangelo di) Gesù» (At 8,35). Comprendiamo noi ciò che leggiamo, e afferriamo bene ciò che sappiamo?
Questa è la domanda comune a esegeti del Nuovo Testamento e a teologi, e se questa è la domanda teologica rivolta agli esegeti del Nuovo Testamento, che conoscono i loro testi dal punto di vista della critica testuale e dal punto di vista storico, ciò, però, presuppone nei teologi che anch’essi leggano il Nuovo Testamento con l’aiuto degli esegeti; dunque la domanda ermeneutica è rivolta a noi: «Quello che vuoi comprendere, lo leggi anche?». Felice l’esegeta del Nuovo Testamento che sa unire in sé entrambi le cose, come l’ha saputo fare Charles Moule; infelice il teologo che non lo sa fare. Ma come è possibile unire le due cose, per rispondere alla domanda ermeneutica in modo credibile? [...] Se si vuol comprendere i testi del Nuovo Testamento nel senso dei loro autori, si deve entrare in rapporto con il loro messaggio cristiano, il messaggio che essi intendono comunicare. Io devo comprendere che cosa essi vogliono annunciare, raccontare o descrivere come Vangelo di Gesù Cristo. Ciò non significa che io debba essere d’accordo o che soltanto dei cristiani possano oggi comprendere i cristiani di allora. Né io devo essere necessariamente un credente per poter studiare teologia. Ma l’esegesi teologica di testi neotestamentari prende i testi alla lettera e cerca di afferrarne il contenuto. In questo giocano un ruolo importante, a cui occorre prestare sempre attenzione, il contesto, il kairos e la comunità di origine di questi testi, ma i testi non hanno solamente questi ambienti di riferimento, bensì anche il loro specifico contenuto, tanto che noi dobbiamo considerare le loro affermazioni anche secondo quello che viene detto. Un’indagine teologica sulla teologia dell’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, nel suo tempo e nella sua situazione, è però soltanto un lato dell’esegesi teologica. Dall’altro lato si pone la domanda su ciò che questo messaggio teologico può significare per noi oggi. Qui si leva il ponte ermeneutico from what meant to what it means (da ciò che ha significato a ciò che significa), e qui inizia il lavoro del teologo.
Egli deve leggere la Lettera di Paolo ai Romani come se essa non fosse scritta soltanto ai cristiani di Roma di allora, ma anche a lui, lettore, e ai suoi contemporanei di oggi. Può allora, il teologo, prescindere dal lavoro teologico dell’esegeta del Nuovo Testamento e far apparire come per incanto la sua propria esegesi?
Prendiamo ad esempio Karl Barth. Il suo libro La Lettera ai Romani apparve nel 1922, diede vita alla nuova teologia dialettica e fu per molti l’opera teologica più importante della prima metà del XX secolo. La prefazione inizia con le frasi: «Paolo ha parlato ai suoi contemporanei come un figlio del suo tempo. Ma assai più importante di questa verità è quest’altra, che egli parla, come profeta e apostolo del Regno di Dio, a tutti gli uomini di tutti i tempi.
[...] Tutta la mia attenzione è stata rivolta a penetrare con lo sguardo attraverso l’aspetto storico, secondo lo spirito della Bibbia, che è lo Spirito eterno». Ci si deve confrontare con il testo e con ciò che si trova in esso fino a che il muro tra il primo secolo e il nostro secolo diventa trasparente, fino a che Paolo parla là e l’uomo ascolta qui. [...] La questione ermeneutica è la questione del 'come': come devo comprenderlo? L’ermeneutica non dà risposte alla questione del 'perché': perché devo comprenderlo? Essa presuppone la risposta positiva.
Perciò: perché facciamo questo sforzo? Forse perché il Nuovo Testamento è il documento fondativo della tradizione cristiana e ha caratterizzato la storia della nostra cultura europea? Per questo, però, basterebbero la ricerca storica sui documenti e la loro storia degli effetti nel cristianesimo. Forse perché il Nuovo Testamento viene letto, spiegato e predicato in ogni liturgia della Chiesa? Questo è vero: il Nuovo Testamento non ha il suo Sitz im Leben soltanto nella terra di Giudea di duemila anni fa, ma anche sugli altari e sui pulpiti delle chiese e nelle mani dei lettori di oggi. La parola che suscita la fede, che motiva l’amore e incoraggia alla speranza, rende presente Cristo. Per comprendere questa parola l’esegesi teologica e una corrispondente teologia ecclesiale del presente sono necessarie. Ma tutto questo basta? Adesso io parlo da teologo: il ponte ermeneutico, che porta dal Gesù storico e dal suo Vangelo a noi oggi, è il ponte sul fiume Lete, il fiume della dimenticanza. Esso è anche il ponte sul fiume di ciò che passa, poiché in fondo è, in primo luogo e in definitiva, il ponte dal Gesù storico al Cristo presente. È il ponte della risurrezione, posto sull’abisso della morte. Solo in forza della sua risuscitazione dalla morte di croce nell’anno 33, ad opera di Dio, Gesù è oggi presente.
Se partiamo dalla presenza del Risorto, allora ricordiamo la vita, l’opera e la morte di Gesù come 'la storia di un vivente', proprio come gli evangelisti hanno raccontato la sua vita e la passione alla luce della sua risurrezione. Il ponte ermeneutico ha il suo fondamento in questa svolta indeducibile e inattesa dalla morte alla vita, che noi riconosciamo avvenuta in Gesù Cristo: la sua fine temporale divenne il suo inizio eterno. Sul ponte ermeneutico percepiamo la storia della morte di Gesù Cristo nella luce del futuro della vita.
Guardiamo indietro al futuro passato di Cristo e viviamo nel presente di colui che verrà. Nella storia di morte degli storici Gesù diventa 'storico' e rimane a noi estraneo; nella storia di futuro della vita eterna noi lo comprendiamo e addirittura accendiamo la fiamma della speranza sui cimiteri della storia, poiché Gesù non solo è risuscitato dalla sua morte di croce, ma è risuscitato 'dai morti' anche come il primogenito di coloro che si sono addormentati e come l’autore della vera vita. In tal modo si raggiunge l’orizzonte universale di ciò di cui parla il Nuovo Testamento. Nel Cristo della Chiesa c’è più che la chiesa: si tratta della venuta di Dio e del futuro del nuovo mondo della vita, che supera la morte. Comprendiamo ciò che leggiamo? Quando leggiamo il Nuovo Testamento e ne abbiamo profonda intelligenza, ci avviciniamo a ricordi sorprendenti e alla accecante luce di una grande speranza. Filippo aveva dunque probabilmente ragione, quando «cominciando da questo passo della Scrittura annunciò il vangelo di Gesù».
Galileo - Occasione fallita o proficua lezione? - di Jean-Robert Armogathe* - Avvenire, 24 maggio 2009
La condanna di Galileo non poteva accadere in un momento meno propizio: le ultime due generazioni avevano di fatto assistito ad una rivoluzione culturale senza precedenti, di cui la Chiesa cattolica era stata il promotore e il diffusore. Nel 1582 il papato aveva proposto al mondo la riforma del calendario: era stata così dimostrata la perizia degli astronomi cattolici. Il calendario gregoriano (da papa Gregorio XIII) era opera della stupenda ricerca matematica accolta e sviluppata dalla Chiesa, soprattutto dai padri gesuiti del Collegio romano. Rimane come un monumento permanente della Controriforma cattolica. Gli interlocutori incontrati da Galileo a Roma – che l’avevano festeggiato con molti onori – erano convinti di avere ammaestrato il tempo: avevano dotato il mondo di un calendario 'perpetuo', con la più esatta (e quasi perfetta) misura del tempo. Le potenze protestanti avevano respinto una tale riforma, che rendeva manifesto ai loro occhi quanto la Roma papale fosse la sede dell’Anticristo, la nuova Babilonia, che voleva sostituirsi a Dio stesso nel dominio del tempo, cancellando la datazione pasquale stabilita dal Concilio di Nicea e sottraendo dieci giorni alla durata del mondo, anticipando così il regno del Anticristo. La riforma del calendario è stato il segno più patente della dominante competenza degli scienziati cattolici. Ma era inserita in tutta una serie di misure decise dal Concilio di Trento per incrementare la formazione del clero – seminari maggiori creati dai vescovi, collegi dei gesuiti e di altre congregazioni e ordini, accademie scientifiche: Roma aveva moltiplicato le istituzioni di insegnamento e di ricerca, con un vigore educativo che voleva essere la risposta alle riforme universitarie dei protestanti (basta ricordare Melantone, «il precettore della Germania»). Numerosi religiosi erano impegnati nel campo della ricerca scientifica, scambiandosi dati sperimentali, osservazioni astronomiche, documenti vari, nel proficuo «commercio epistolare» della respublica litteraria.
All’inizio della Controriforma la Chiesa si è voluta dotare dei mezzi disciplinari ed educativi idonei per combattere e bloccare l’estensione del movimento riformatore. Questa politica si è rivelata feconda, e ha contributo a gran parte de la riconquista cattolica (soprattutto nella Germania meridionale e nell’Europa centrale). Dal canto loro, i pontefici romani si sono affermati come mecenati delle scienze e degli arti, ad un livello mai uguagliato.
Galileo stava tra i lumi di questa scienza cattolica, era stato festeggiato dai gesuiti romani e godeva dell’amicizia di tanti cardinali, tra i quali Maffeo Barberini (papa Urbano VIII dal 1623 al 1644).
Gli studiosi hanno ricostruito i motivi della sua condanna: sono di natura politica, diplomatica, disciplinare (il non avere obbedito alla cosiddetta «ingiunzione del 1616» di non pubblicare nulla sull’eliocentrismo), personale (aveva perso la fiducia del papa). La dimensione dottrinale del reato è scarsa, e i giudici non hanno insistito su questo aspetto.
Il «caso» non ha suscitato dibattiti teologici, si trattava per i contemporanei di un caso disciplinare. Tanto più che i decreti delle congregazioni romane non erano ricevuti nella maggior parte dell’Europa cattolica, dove i regni (Spagna, Francia, Sacro Impero) e tanti altri Stati (Venezia) erano molto gelosi della propria indipendenza dalle decisioni romane: Index non viget era la parola d’ordine della maggioranza dei Paesi cattolici. Eppure i danni dalla sentenza del 1633 sono stati cospicui: si è consumata la rottura tra la Chiesa e la visione moderna, scientifica, del mondo. Si è detto che la condanna di Fénelon, nel 1699, era stata «il tramonto dei mistici» (Louis Cognet), allo stesso modo, la condanna di Galileo è stata il tramonto della scienza cattolica. Le sequele del decreto si sono allargate ben al di là del semplice fatto di una messa all’Indice. La scienza moderna si è da allora in poi sviluppata spesso senza la Chiesa e spesso contro di lei. Il colpo tirato nel campo della cosmologia ha fatto tante vittime collaterali nella critica storica e filologica e nel campo dell’erudizione. Il modernismo del primo Novecento, la cui ombra ha coperto la storia intellettuale cattolica per mezzo secolo, mi pare una lontana eppure genuina sequela di questa condanna del 1632.
È palese che Galileo Galilei rimane un eroe scomodo per gli zelanti dello scientismo laicista; non era certo un metafisico e, nonostante le prove subite dalla sua Chiesa, è rimasto un buon cristiano. Arthur Koestler ha ricordato le debolezze del grand’uomo: non ha inventato il cannocchiale, né il microscopio, né il pendolo isocrono, ha sbagliato in diversi campi (le maree), non ha rilevato le macchie solari e non ha potuto provare il copernicanesimo. Eppure, è stato il padre della dinamica – e questo basterebbe perché sia considerato tra i padri della scienza nuova. La sua condanna ingiustificata ne ha fatto il martire del oscurantismo clericale e il simbolo dell’autonomia del pensiero scientifico. Le Chiese ortodosse sono rimaste a lungo anti-copernicane; i grandi riformatori protestanti si sono opposti all’eliocentrismo.
Purtroppo, il caso Galileo è rimasto come una macchia per la sola Chiesa cattolica e ha inquinato le relazioni tra la Chiesa e la scienza per due secoli. Invano la condanna è stata cancellata, la Chiesa si è voluta riconciliare con la scienza contemporanea (basta ricordare l’abate agostiniano Gregor Mendel o, nel secolo scorso, il canonico belga Georges Lemaître), «ha invitato i premi Nobel al Vaticano» (si ricorda il bel libro di Regis Ladous), ha incoraggiato le istituzioni scientifiche (la Specola vaticana, l’Accademia pontificia): ci vorranno parecchie generazioni, e gli sforzi meritevoli di tanti papi (tra quali Pio XI e Pio XII), per riconciliare pienamente la Chiesa e la scienza moderna e ricucire i loro legami, senza mai allontanare totalmente il sospetto di opportunismo (in parte verificato, negli ambienti romani, intorno alla figura di Teilhard de Chardin). Eppure, nonostante i danni, non si può dare del caso Galileo un giudizio del tutto negativo. Si può sostenere pure che questa condanna fatale è stata di fatto molto utile nella storia del pensiero dottrinale e dell’insegnamento magisteriale della Chiesa cattolica. La memoria della condanna e delle sue sequele ha lasciato una traccia segnata: un atteggiamento di grande cautela nei confronti di ogni giudizio sulle nuove teorie scientifiche. Si è avverata una chiara distinzione di ordine tra le verità rivelate e quelle inventate dall’ingegno umano. Può darsi che la causa sia il timore di sbagliarsi di nuovo, di non volere aprire un 'nuovo caso Galileo', o la convinzione dei piani diversi della scienza e della Rivelazione. I due libri, quello delle Scritture e quello della Natura (per proporre un’immagine familiare, dal Medioevo in poi, alla mente occidentale), richiedono un’ermeneutica diversa, con delle regole proprie; la loro lettura non si può mescolare.
L’evoluzionismo, avversato dalle Chiese fondamentaliste americane, non è stato condannato. Sempre attenti alle norme morali e al rispetto della dignità umana, i pontefici romani hanno accolto con interesse e benevolenza i progressi della genetica, delle neuroscienze, le grandi tesi della cosmologia. I nuovi dati scientifici sono insegnati nelle scuole cattoliche; da mezzo secolo, non c’è più un Indice, e Sigmund Freud non è stato anatematizzato...
L’ apertura dell’Archivio del Sant’Uffizio, voluta dall’attuale pontefice, ha svelato un’amministrazione molto preoccupata della disciplina interna e cosciente della sua debolezza nel controllare la produzione intellettuale. Galileo era troppo noto agli ambienti romani (e curiali) e la sua 'disubbidienza' troppo patente per rimanere illeso.
Ma la Chiesa ha approfittato del caso: questa occasione fallita è stata una proficua lezione, che ha facilitato nel Novecento l’aggiornamento cattolico nei confronti dei nuovi orizzonti scientifici.
*Ordinario di Storia delle idee religiose e scientifiche nell’Europa moderna presso l’Ecole pratique des hautes études alla Sorbona, Parigi.