mercoledì 6 maggio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e la lotta contro l’AIDS - Intervista a mons. Tony Anatrella - di Anita S. Bourdin
2) Il secolarismo invade il mondo - Gli Stati Uniti si uniscono all'Europa e alle Nazioni Unite - di Carl Anderson*
3) Tommaso d'Aquino e Jacques Maritain - La fobia del lògos paralizza il pensiero contemporaneo - Nell'ambito delle lezioni della cattedra "San Tommaso e il pensiero contemporaneo" istituita presso la Pontificia Università Lateranense, il 6 maggio si tiene un incontro sul tomismo di Jacques Maritain. L'autore ne ha sintetizzato i contenuti per il nostro giornale. - di Antonio Livi – L’Osservatore Romano 6 maggio 2009
4) Obama e gli Usa tra aborto e torture - Lorenzo Albacete - mercoledì 6 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) DIARIO DA L'AQUILA/ Il mio mese in bicicletta per lavorare - Redazione - mercoledì 6 maggio 2009 – ilsussidiario.net
6) Meeting di Rimini: testimoni per la convivenza - DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ – Avvenire, 6 maggio 2009
7) «Il Papa in Terra Santa benedizione per tutti» - Fouad Twal: darà sostegno e coraggio ai cristiani - l’intervista - Le difficoltà vissute dalla comunità cristiana, il valore interreligioso del pellegrinaggio. Alla vigilia della visita di Benedetto XVI, parla il patriarca latino di Gerusalemme: viene ad invocare pace e riconciliazione in una regione di grandi tensioni e interminabili conflitti - SULLE ORME DEL RISORTO - DAL NOSTRO INVIATO A GERUSALEMME - LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 6 maggio 2009
8) A Smirne ( Turchia) sono stati scoperti graffiti in cui Gesù è definito «Colui che dona lo Spirito»: potrebbe essere la più antica testimonianza scritta cristiana. Parla l’esegeta tedesco protestante Riesner - San Paolo scriveva sui muri - DI ANTONIO GIULIANO – Avvenire, 6 maggio 2009


Benedetto XVI e la lotta contro l’AIDS - Intervista a mons. Tony Anatrella - di Anita S. Bourdin
ROMA, lunedì, 4 maggio 2009 (ZENIT.org).- Benedetto XVI è molto ben informato in quanto alla realtà della prevenzione dell’AIDS e parla di un “nuovo colonialismo del comportamento” che “scuote le società africane”, sostiene mons.Tony Anatrella.
Psicoanalista e specialista in psichiatria sociale, mons.Anatrella insegna a Parigi e a Roma ed è consultore del Pontificio Consiglio per la famiglia e del Pontificio Consiglio della salute.
Ha pubblicato in francese “L'amour et le préservatif” (Parigi, ed. Flammarion, 1995), un libro che continua ad essere d’attualità e che è stato ripubblicato con il titolo “L'amour et l'Eglise” (Parigi, ed. Champ-Flammarion).
La sua ultima opera pubblicata è “La tentation de Capoue”, – antropologia del matrimonio e della filiazione – (Parigi, ed. Cujas), un libro che si interroga sulle modifiche in corso, attraverso le quali si vorrebbe estendere il matrimonio e la filiazione, in modo surrettizio, anche alle coppie dello stesso sesso.
Mons. Tony Anatrella torna, in questa intervista, sulla polemica suscitata, soprattutto in Francia, dalle proposte del Papa in relazione alla prevenzione dell’AIDS.
Le proposte del Papa Benedetto XVI hanno suscitato una tempesta mediatica. Si tratta di un errore di comunicazione?
Mons. Anatrella: No! Il Papa ha parlato in modo chiaro. È molto ben informato sulle questioni relative alla trasmissione del virus HIV e dei problemi insiti nelle campagne di prevenzione. Ci interroga ponendo in questione una visione della prevenzione limitata al solo preservativo. Adotta un punto di vista antropologico e morale per criticare un orientamento sanitario che, da solo, non è in grado di interrompere la pandemia. In venticinque anni, queste campagne non sono riuscite in questo intento. Bisogna assumere un’altra prospettiva, in cui si faccia ricorso alla coscienza umana e al senso di responsabilità, al fine di conferire la capacità di dare senso ai comportamenti sessuali.
Ma questa prospettiva, per quello che possiamo vedere, difficilmente può essere compresa nel dibattito pubblico. Il preservativo è diventato una sorta di tabù indiscutibile che dovrebbe, curiosamente, contribuire alla definizione della sessualità. Non è invece questo un modo per mascherare gli interrogativi?
Si tratta di un dialogo fra sordi?
Mons. Anatrella: Senza alcun dubbio. Chi decide e prescrive le politiche sociali, diffonde e consolida una rappresentazione della espressione sessuale che è molto spesso strumentale e deleteria. L’atto sessuale cercato in quanto tale, per il piacere che provoca, non umanizza la sessualità né il rapporto umano. Porta con sé sofferenze e pesa sulla qualità del vincolo sociale. L’atto sessuale non ha senso se non è integrato in una relazione d’amore in cui non è vissuto solo come una risposta ad un impulso riflesso.
La Chiesa sostiene che solo l’amore che si inscrive in una prospettiva coniugale e familiare è fonte di vita, mentre la confusione relazionale e identitaria e i dibattiti di morte ci allontanano da questa prospettiva.
La prevenzione basata sul preservativo aggrava la pandemia dell’AIDS?
Mons. Anatrella: cosa dice il Papa esattamente? Lo cito perché le sue proposte sono state trasmesse solo parzialmente e, ancora una volta, distorte. “Penso che la realtà più efficiente, più presente sul fronte della lotta contro l’AIDS sia proprio la Chiesa cattolica, con i suoi movimenti, con le sue diverse realtà. Penso alla Comunità di Sant’Egidio che fa tanto, visibilmente e anche invisibilmente, per la lotta contro l’AIDS, ai Camilliani, a tante altre cose, a tutte le Suore che sono a disposizione dei malati. Direi che non si può superare questo problema dell’AIDS solo con soldi, pur necessari, ma se non c’è l’anima, se gli africani non aiutano (impegnando la responsabilità personale), non si può superarlo con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema. La soluzione può essere solo duplice: la prima, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro; la seconda, una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, la disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, ad essere con i sofferenti. E questi sono i fattori che aiutano e che portano visibili progressi. Perciò, direi questa nostra duplice forza di rinnovare l’uomo interiormente, di dare forza spirituale e umana per un comportamento giusto nei confronti del proprio corpo e di quello dell’altro, e questa capacità di soffrire con i sofferenti, di rimanere presente nelle situazioni di prova. Mi sembra che questa sia la giusta risposta, e la Chiesa fa questo e così offre un contributo grandissimo ed importante. Ringraziamo tutti coloro che lo fanno”.
Il ruolo del Papa è di affermare che, senza una educazione e senza un senso di responsabilità, difficilmente si riuscirà a ridurre la diffusione del virus. La trasmissione del virus dell’AIDS è perfettamente evitabile. Non si riduce come un’influenza. È legato ai comportamenti e alle pratiche sessuali. Contando solo sul preservativo, facendo intendere che così si può “fare ciò che si vuole”, si corre il rischio di consolidare comportamenti che portano con sé problemi, evitando di affrontarli. Il preservativo non è un principio di vita. È la responsabilità che è principio di vita.
Nella società attuale, il senso delle cose e delle parole viene sovvertito quando si afferma per esempio che “l’AIDS è la malattia dell’amore”. Si tratta piuttosto del contrario: è soprattutto l’espressione di un vagabondaggio affettivo e di una impulsività sessuale. Detto in altri termini, esiste una prevenzione conformista che elude i veri interrogativi sui comportamenti sessuali di oggi. Dobbiamo domandarci se non si dovrebbe considerare l’espressione sessuale con maggiore dignità e non favorire comportamenti e pratiche irriflessive.
Ci si deve domandare quale sia il senso dell’amore e della fedeltà. Non si tratta di proposte retrograde, come alcuni hanno detto, ma al contrario proposte che invitano a una riflessione che è anzitutto umana, prima che confessionale. Esiste un altro modo di orientare la prevenzione, che è più costruttivo della promozione del preservativo che induce a pratiche problematiche. Non è questo il modo per uscire dalla confusione denunciata da Benedetto XVI. Ripeto, avere come unico orizzonte i “profilattici” per lottare contro l’AIDS è insufficiente, se a questa lotta non si accompagna una riflessione psicologica, sociale e morale. La politica della salute pubblica ne beneficerebbe in umanità ed efficacia.
L’Africa sembra meno toccata da questa polemica rispetto alla Francia.
Mons. Anatrella: L’accoglienza che gli africani hanno dimostrato al Papa è stata straordinaria. I partecipanti erano numerosi e molto gioiosi. I discorsi di Benedetto XVI sono di elevata qualità e tracciano vie di speranza per questo continente. Purtroppo l’ossessione dei mezzi di informazione sul tema del preservativo ha oscurato l’importanza di questi discorsi. Potrebbe essere vista come una forma di pigrizia intellettuale e di annebbiamento della coscienza, e di una visione miope e parziale delle cose?
La verità è che chi è interessato alle proposte del Papa sa ascoltarle e accoglierle in generale. Inoltre, numerosi Paesi africani organizzano la prevenzione contro l’AIDS fondandosi su tre principi: “astinenza, fedeltà o preservativo” e questo genera effetti positivi. Gli occidentali sono incapaci di comprendere questo punto di vista. Noi riceviamo, d’altra parte, numerose reazioni dall’Africa di chi è stanco di vedere l’imposizione di modelli sessuali delle società occidentali, che per appoggiare questi modelli sono accompagnati evidentemente da strumenti di protezione. Si tratta di un nuovo colonialismo del comportamento, che scuote le società africane. Alcuni si ribellano allo sviluppo di un “vagabondaggio” sconosciuto fino ad ora in Africa, dove il senso della fedeltà e della famiglia è ancora rispettato e apprezzato. Alcuni occidentali perdono il senso di questa dignità.
Esiste uno sfasamento fra l’Africa e i Paesi occidentali, rispetto alla sessualità. Prossimamente dovrò andare in Africa e mi sono reso conto, preparando le mie conferenze, che questo continente ha molte cose da insegnarci, mentre i nostri modelli occidentali di una sessualità fine a se stessa offuscano il vero senso della sessualità umana.
Come vede il ruolo dei mezzi di comunicazione e la posizione di chi prende le decisioni politiche e sociali?
Mons. Anatrella: Stiamo assistendo ad una sorta di linciaggio mediatico nel quale la malafede si mescola con giudizi sulle intenzioni e con interpretazioni tendenziose. Tutti si esprimono contro il Santo Padre e molto spesso senza tenere conto di ciò che veramente dice. Non è il Papa il problema. D’altra parte, i mezzi di comunicazione e le reazioni di alcuni responsabili della politica che dettano le norme sociali, rappresentano un grave problema. L’unanimità in questa questione è per lo meno sospetta. Il Papa appare disgustato, ma a ragione! La stampa potrebbe parlare con un minimo di rigore, cercando di dare una spiegazione, perché la verità delle proposte del Santo Padre sia restituita. Come di consueto, una frase citata fuori contesto scatena una serie di reazioni totalmente irrazionali. Come vuole che persone che non hanno altra informazione se non quella data dalla stampa possano reagire con serenità?
Credo che, in realtà, non si vuole sentire altro discorso se non quello del preservativo! Alcuni cercano di portare altri messaggi ma le reazioni dei giornalisti sono sempre le stesse: “È troppo complicato!”. Effettivamente il senso della vita e dell’amore è complesso, e per questo è necessario impiegare del tempo per spiegarlo. Ma questo tempo sembra non esserci nei mezzi di comunicazione.
Ne ho appena potuto fare l’esperienza: alla radio, alla televisione e nella stampa scritta, il tempo che ci viene concesso per rispondere è molto limitato, mentre questi dedicano ampio spazio ad ogni sorta di detrattore. Esistono professionisti della contestazione, che fanno parte di una piccola minoranza di cattolici estremisti, che si ergono a esperti e parlano dando un’interpretazione ideologica ben lontana dal pensiero cristiano. Esistono responsabili politici che, presentandosi come cattolici, cercano di smarcarsi dalle posizioni della Chiesa, adottando idee che nono sono coerenti con il suo insegnamento e dicono di opporsi in nome della fede, come se considerassero la propria fede come un magistero. Siamo succubi di un conformismo dominante che ci allontana dal buon senso e dalle semplici norme di una umanità così necessaria in materia di sessualità.
[Martedì 5 maggio, la seconda parte dell'intervista]

Benedetto XVI e la lotta contro l’AIDS (parte II)
Intervista a mons. Tony Anatrella
di Anita S. Bourdin

ROMA, martedì, 5 maggio 2009 (ZENIT.org).- Chi mira a lasciare intendere che il Papa sia responsabile della diffusione dell'AIDS in Africa cerca di eludere, in realtà, le proprie responsabilità ricorrendo a un capro espiatorio, sostiene mons. Tony Anatrella.
In questa intervista, il noto pscichiatra francese ricorda che secondo la Chiesa “non esiste un rimedio definitivo contro l’AIDS se non quello di un comportamento degno dell’uomo, ovvero un comportamento rispettoso, di fedeltà e di dominio di sé, che è precondizione dell’amore”.
La prima parte dell’intervista è stata pubblicata il 4 maggio.
Cosa fa la Chiesa per contrastare l’AIDS e per prendersi cura dei malati?
Mons. Anatrella: Nelle sue riflessioni sulla lotta all’AIDS, Benedetto XVI ha voluto innanzitutto sottolineare l’impegno della Chiesa nell’accoglienza, nelle cure mediche e nell’accompagnamento sociale e spirituale delle persone toccate dal virus dell'HIV. Tra le istituzioni che nel mondo si prendono cura delle persone affette da questa malattia, la Chiesa è la prima struttura privata al mondo. Prima di lei ci sono solo gli Stati: il 44% sono istituzioni statali, il 26,7% istituzioni cattoliche, il 18,3% ONG e l’11% organizzazioni di altre religioni (cfr. Pontificio Consiglio della salute).

La Chiesa è anche impegnata sul fronte della prevenzione della trasmissione del virus dell’HIV attraverso le sue reti scolastiche, i movimenti giovanili e le associazioni familiari.

La Santa Sede ha creato, nel 2004, sotto l’impulso del Papa Giovanni Paolo II, la Fondazione del Buon Samaritano per finanziare progetti di cura e di educazione, diretti alle persone affette e alla prevenzione. Tutto questo dimostra quanto la Chiesa sia attiva in questo campo e come conosca le problematiche di questa pandemia. La sua competenza in materia la porta a sostenere la necessità di un’educazione al senso di responsabilità. Una riflessione umana accessibile a tutte le coscienze, indipendentemente dal punto di vista confessionale. In questo contesto si inserisce l’affermazione di Benedetto XVI: “non si può superarlo [il problema dell’AIDS] con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema”. La soluzione, a suo avviso, passa attraverso “un rinnovo spirituale e umano” e “una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti”.

Come valuta le reazioni che hanno seguito le parole del Papa?

Mons. Anatrella: Le parole del Papa hanno sorpreso non pochi commentatori che sostengono una visione sanitaria della sessualità umana.

L’interrogativo che si presenta alla coscienza umana, di fronte alla costante diffusione del virus dell’HIV, riguarda il senso che vogliamo dare alla sessualità, il modello che vogliamo costruire con misure di prevenzione incentrate unicamente sul preservativo, l’educazione che vogliamo dare alle giovani generazioni sul senso del rapporto umano. Ma, anziché fissarci su uno strumento tecnico, che suscita numerosi dubbi, non è più utile riflettere sui comportamenti sessuali che contribuiscono alla diffusione di questo virus?

Sentendo le reazioni provenienti dal mondo mediatico-politico, non si può non scorgere una frattura culturale importante: non si riesce a pensare alla sessualità se non dal punto di vista sanitario. Lasciare intendere che il Papa sia responsabile della pandemia in Africa è quantomeno semplicistico e ridicolo. Da un lato si afferma che la gente non tiene conto dei principi morali della Chiesa in materia sessuale e dall’altro si sostiene che il suo discorso facilita la trasmissione del virus. Si stanno così invertendo i ruoli ed eludendo le responsabilità attraverso un capro espiatorio. Esiste un tipo di prevenzione che, anziché promuovere pratiche contro le quali vuole lottare, produce l’effetto contrario, come quando tempo fa si voleva “curare la droga con la droga”. Poi ci siamo resi conto che questa forma di prevenzione ci ha fatto perdere tempo: quasi quarant’anni!

V’è una sorta di incapacità a comprendere semplicemente ciò che il Papa dice: “Riflettiamo sui comportamenti sessuali che trasmettono il virus dell’HIV e cerchiamo misure che educhino al senso di responsabilità”. Questo non vuol dire che il discorso sanitario e i “mezzi profilattici” siano da escludersi, ma che in una prospettiva educativa non ci possiamo limitare solo ad essi.

Questo ben dimostra a che livello siamo arrivati. Dove è finito il buon senso? È sorprendente che si rimproveri il Papa di averci fatto partecipi delle sue riflessioni rispondendo alla domanda di un giornalista. L’incapacità di riflettere sui comportamenti e sui modelli sessuali contemporanei, di valutare le pulsioni parziali, le pratiche non integrate e gli orientamenti sessuali, finisce per ridurre tutto a cliché.

Così abbiamo sentito, con tono di affermazione perentoria, come sanno fare gli adolescenti: “ciò che mi interessa è l’uomini e non i dogmi”. In questo modo non siamo forse tornati ad un livello zero della cultura? I responsabili della politica riducono il campo della riflessione ad un soliloquio perché il Papa non parla qui di dogmi, ma dà uno sguardo realistico, da adulto, rispetto ad una visione quasi immatura e infantile della sessualità umana. Quanta cecità, quanto oscurantismo e visione ideologica sul preservativo, per non voler vedere quali siano le pratiche che danno origine alla trasmissione del virus.

La malattia provocata dal virus è tragica ed a noi spetta fare tutto il possibile per evitarla e per trattare degnamente i malati, soprattutto in africa, attraverso la gratuità dei servizi e delle cure, come suggerisce il Papa. Ma al tempo stesso esiste una sorta di arroccamento verso un modello di sessualità, ormai da quarant’anni, che suscita seri problemi.

Il rifiuto della riflessione mostra la volontà di eludere la preoccupazione senza affrontare i comportamenti che ne sono la causa. Si dimentica anche che, prima ancora che di AIDS, si muore di altre malattie, ma solo di questo si parla. Come se fosse un modo per mantenere modelli comportamentali, facendo leva sulla compassione, per non doverli mettere in questione. La cultura insegna che la responsabilità è anche un modo per dare significato alla sessualità e all’espressione sessuale, che rappresenta una forma di relazione umana tra un uomo e una donna e non solo uno sfogo di angosce primarie e di pulsioni parziali, come per volersi liberare di un sentimento di castrazione, quando non si fa altro che rafforzarlo.

La pandemia dell’AIDS ci fa tornare ancora una volta sulla questione dei comportamenti sessuali. Ci chiede di cambiare comportamento anziché cambiare le tecniche pratiche. Dobbiamo solo limitarci ad una visione della sessualità incentrata sugli istinti e sulla tecnica, che favorisce la deumanizzazione, oppure cercare invece le condizioni che ne illuminino l’esercizio nella prospettiva di un incontro che arricchisce la relazione tra un uomo e una donna? Nell’atto sessuale, l’uomo e la donna si accolgono e si integrano. Grazie all’amore sessuale si uniscono nel godimento per essere uniti e darsi vita.

Se l’atto sessuale non comprende la relazione e risponde semplicemente ad un’eccitazione, rimane un mero atto igienico e, in queste condizioni, il preservativo appare come una protezione sanitaria ma anche come una protezione relazionale. Invece, se l’espressione sessuale è vissuta come un impegno tra un uomo e una donna, allora sono necessarie l’astinenza e la fedeltà. Ma da qualche anno abbiamo iniziato a fabbricare un modello sessuale alquanto surrealista che produce il sesso-preservativo. È sulla base di questo oggetto sanitario che bisogna definire la sanità e umanizzarla?

D’altra parte, nelle campagne di prevenzione, a Parigi, non si vede altro che slogan del tipo: “Parigi ama”... seguito dall’immagine di un preservativo che rappresenta un’alba. Sarebbe più sano imparare a scoprire ciò che è l’amore tra un uomo e una donna, invece di confondere il senso dell’amore indicando il preservativo. Un messaggio che genera confusione e, ancora una volta, inverte il senso delle cose.

La Chiesa parla di amore?

Mons. Anatrella: Sì, ma non in modo emotivo, in cui in nome dell’amore si può dire tutto e il contrario di tutto. Bisogna conoscere cosa è l’amore e in quali condizioni è possibile viverlo. L’amore è inscindibile dalla verità. Le relazione affettive e le espressioni sessuali non sono sinonimi di amore.

Il discorso di Benedetto XVI sulla sessualità umana si inscrive nella continuità del senso dell’amore rivelato da Cristo. È in coerenza con gli orientamenti del Vangelo, sviluppati nella tradizione della Chiesa, sul senso dell’amore, che d’altra parte hanno influito sulla nostra società nell’arco della storia.

L’amore di Dio spesso è mal inteso. È inteso come per ricevere gratificazioni affettive in ogni circostanza. Questa visione semplicistica, talvolta infantile, non corrisponde al messaggio cristiano. Dio è Amore nel senso che dà un amore che rende possibile la vita. Amare con l’amore di Dio è cercare di far vivere l’altro e gli altri.

L’uomo è chiamato ad amare Dio. Questa concezione dell’uomo è, nella nostra civiltà, all’origine del senso della persona, dotata di un proprio valore, una sua interiorità, una sua coscienza, autonomia, libertà e responsabilità. Per questo il Vangelo di Cristo si rivolge alla sua coscienza perché cerchi la verità e valuti il senso e la conseguenza delle sue azioni verso se stesso, verso gli altri e la società. La persona si avvia in questa riflessione morale confrontandosi con i valori oggettivi che non dipendono in principio dalla sua soggettività o dai suoi desideri momentanei, bensì dai riferimenti trascendenti dell’amore.

La Chiesa non cessa di ricordare la dignità della persona umana e il significato dell’amore. Afferma che non esiste un rimedio definitivo contro l’AIDS se non quello di un comportamento degno dell’uomo, ovvero un comportamento rispettoso, di fedeltà e di dominio di sé, che è precondizione dell’amore. Questa prospettiva non esclude un discorso sanitario e il ricorso, in certe situazioni, al preservativo per non mettere a rischio la vita. Il discorso sanitario (e il preservativo) può essere necessario ma è molto restrittivo se si limita ai mezzi puramente tecnici.

Nel linguaggio morale il preservativo rimane come una questione di casistica, come ricordava già nel 1989 il cardinale Ratzinger che cito nel mio libro “L'amour et l'Eglise” (ed. Champ-Flammarion): “L’errore di fondo è di incentrare il problema dell’AIDS sull’uso del preservativo. Certamente i due si incontrano in un certo momento, ma questo non è il vero problema. Incentrarsi sul preservativo come mezzo di prevenzione significa porre in secondo piano tutte le realtà e tutti gli elementi umani che circondano il malato e che devono rimanere presenti nella nostra riflessione. La questione del preservativo è marginale, direi di casistica. [...]

Mi sembra che il problema fondamentale è trovare il giusto linguaggio in questa materia. Personalmente non mi piace l’espressione 'male minore'. D’altra parte, adesso la questione non è decidere tra una o un’altra posizione, ma cercare insieme il miglior modo per definire e comprendere l’azione possibile. [...] È segno che la riflessione non è definitiva [...]. Ciò che è chiaro, a mio avviso, è la necessità di una sessualità personalistica che considero essere la migliore e unica vera prevenzione. Bisogna tenere conto non solo del punto di vista teologico ma anche di quello delle scienze”[1].

Esistono due comportamenti per evitare l’AIDS: la fedeltà e l’astinenza, ed un mezzo tecnico: il preservativo. Se non è possibile indirizzare i comportamenti, allora è preferibile ricorrere a mezzi di protezione tecnici per non propagare la morte, anche se la priorità continua ad essere la formazione al senso di responsabilità.

Il cardinale Lustiger ha illustrato bene ciò che è in gioco in questa prospettiva dichiarando ai giornalisti de “L’Express” [2] : “Bisogna aiutare la nuova generazione che desidera scoprire la dignità dell’amore. La fedeltà è possibile. Ogni vero amore deve imparare la castità. I malati di AIDS sono chiamati, come ognuno di noi a vivere la castità non nella frustrazione ma nella libertà. Chi non ci riesce deve, utilizzando altri mezzi, evitare il peggio: evitare la morte”. Il giornalista domanda: “Il male minore è il preservativo?” “Un mezzo per non aggiungere un male ad altro male...”.

Detto in altri termini, non tutto è possibile in nome dell’amore: è necessario anche che le azioni siano coerenti con esso.

“La chiesa è esperta di umanità”, secondo l’espressione di Paolo VI all’ONU ed è anche maestra delle coscienze, facendo appello alla coscienza di ciascuno, alla sua libertà per non lasciarsi alienare, e al senso di una relazione autentica con l’altro. Come è possibile applicare questo al flagello dell’AIDS?

Mons. Anatrella: Per la Chiesa, “la sessualità, orientata, elevata e integrata dall'amore, acquista vera qualità umana”[3]. Anche se la persona non si colloca in questa prospettiva è ugualmente invitata ad impostare la sua esistenza, secondo la propria coscienza, in relazione alle realtà e alle esigenze morali. Detto in altri termini, l’amore è una prospettiva e un ordine razionale, sulla base del quale deve essere valutata la natura, la qualità e la verità della relazione e dell’impegno reciproco.

A fronte di questa esigenza, spetta poi a ciascuno assumere le proprie responsabilità usando la virtù della prudenza, nel calcolare e tenere conto di tutti i rischi della vita. Il preservativo, al di là del suo aspetto sanitario, quando è usato semplicemente per giustificare la molteplicità delle coppie, diventa – rispetto al senso dell’amore umano – segno della non autenticità della relazione e pertanto moralmente illecito. Questo comportamento simula l’amore, non lo sostituisce. In altri termini: non basta evitare incidenti stradali mettendosi la cintura, bisogna anche saper rispettare il codice stradale.

Benedetto XVI svolge la sua funzione e rimane sul suo terreno spirituale e morale quando riafferma i principi umani in materia di sessualità che riguardano tutti noi. L’AIDS dovrebbe cambiare questo?

I rapporti tra gli esseri umani implicano più di ciò che ci può apparire. L’espressione dell’amore sessuale non è una cosa banale. Ad un uomo e a una donna non basta l’intera vita per amarsi. La moltiplicazione delle coppie senza discernimento è una disgrazia totale per la dignità umana.

La sessualità umana non può essere modellata psicologicamente, né esprimersi moralmente, in funzione di una malattia, a meno che non si voglia approfittare di tale situazione per giustificare e costruire modelli sessuali sulla base di tendenze problematiche. La sessualità umana non si definisce in base all’AIDS, ma in base al senso dell’amore, di un amore che è impegno tra un uomo e una donna in una relazione e nella responsabilità. La Chiesa testimonia un amore di vita, un amore profetico.

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[1] G. Mattia, La Croix, 22 novembre 1989.

[2] “L'Express”, 9 dicembre 1988, p. 75, di Guillaume Maurie e Jean-Sebastien Stehli.

[3] Orientamenti educativi sull’amore umano, par. n. 6


Il secolarismo invade il mondo - Gli Stati Uniti si uniscono all'Europa e alle Nazioni Unite - di Carl Anderson*
NEW HAVEN (Connecticut, Stati Uniti), martedì, 5 maggio 2009 (ZENIT.org).- Molti eventi degli ultimi mesi - e in particolare la risposta dei media e delle organizzazioni governative alle dichiarazioni e alle azioni di Papa Benedetto XVI - hanno dimostrato chiaramente che il Papa e la Chiesa affrontano un secolarismo sempre più ostile.
I recenti attacchi internazionali al Papa, da parte sia dei Governi che dei media, sulla soluzione alla crisi dell'Aids in Africa mostrano un'ortodossia sempre più secolare. Questo punto di vista non dà valore alla moralità cristiana e vuole ignorare i fatti nella sua ricerca di una soluzione secolare a ogni problema sociale.
La discussione di Papa Benedetto su questo fenomeno nel contesto europeo risale a molti anni fa. Mentre l'Europa abbandona le sue radici cristiane, crea un futuro in cui la religione non ha posto nella sfera pubblica. Alcuni commentatori sono andati oltre al punto di riferirsi alla "cristianofobia" europea. Del resto, i sondaggi mostrano che un terzo o anche meno degli abitanti di Gran Bretagna, Germania, Italia e Francia afferma che la religione gioca un ruolo importante nella propria vita.
Parlando a un gruppo di politici europei nel 2006, Benedetto XVI li ha esortati a sostenere l'eredità cristiana del continente e ha avvertito dei pericoli per la democrazia se si esclude la tradizione cristiana dell'Europa da un ruolo pubblico.
Il "sostegno all'eredità cristiana", ha affermato, potrebbe aiutare a "sconfiggere quella cultura tanto ampiamente diffusa in Europa che relega alla sfera privata e soggettiva la manifestazione delle proprie convinzioni religiose". Citando l'Evangelium Vitae, ha anche avvertito che queste manifestazioni di secolarismo "escludono l'impegno con la tradizione religiosa dell'Europa che è tanto chiara nonostante le sue variazioni confessionali, minacciando in tal modo la democrazia stessa, la cui forza dipende dai valori che promuove".
In contrasto con la crescente ostilità nei confronti della Chiesa in Europa, Papa Benedetto - anche prima della sua elezione - ha visto un secolarismo con più speranze, meno ostile, in America. Parlando negli Stati Uniti poco più di un anno fa, ha affermato: "Ritengo significativo il fatto che qui in America, a differenza di molti luoghi in Europa, la mentalità secolare non si è posta come intrinsecamente opposta alla religione. All'interno del contesto della separazione fra Chiesa e Stato, la società americana è sempre stata segnata da un fondamentale rispetto della religione e del suo ruolo pubblico e, se si vuol dar credito ai sondaggi, il popolo americano è profondamente religioso".
Ad ogni modo, non considerava il modello americano libero da attacchi di secolarismo, e ha aggiunto: "Non è sufficiente contare su questa religiosità tradizionale e comportarsi come se tutto fosse normale, mentre i suoi fondamenti vengono lentamente erosi".
Lo scorso anno, quest'ultima frase si è dimostrata sempre più presciente.
Se non sono ancora stridenti come i secolaristi in Europa, le forze secolari degli Stati Uniti sono diventate più audaci, cercando di emarginare la Chiesa e di etichettare il suo insegnamento sul matrimonio e la vita come superato, quando non bigotto. In almeno un caso, un Governo statale ha considerato (senza successo) l'ipotesi di riorganizzare legalmente la Chiesa cattolica togliendo ai suoi Vescovi e ai sacerdoti il controllo su Diocesi e parrocchie.
L'ostilità è aumentata anche nei media. Proprio prima di Pasqua, i media americani hanno trattato due sondaggi di importanti istituti: uno - commissionato dai Cavalieri di Colombo - ha mostrato un enorme apprezzamento della Pasqua da parte degli americani, l'altro ha mostrato un modesto decremento del numero di americani che si dice cristiano. I media secolari hanno scelto di dare ampia copertura al "declino della cristianità", e molta meno all'alta considerazione per la Pasqua e al gran numero di americani che prevedeva di assistere alle celebrazioni.
C'è un pregiudizio apparentemente simile negli attacchi alle dichiarazioni del Papa sull'Aids e i preservativi. Funzionari delle Nazioni Unite di vari Paesi europei, così come i media internazionali di Stati Uniti e Gran Bretagna, si sono affrettati ad affermare che il Papa aveva torto.
Mentre negli Stati Uniti aumenta l'ostilità politica nei confronti dell'eredità cristiana del Paese, sembra ora evidente che Papa Benedetto e la Chiesa cattolica affrontano un asse di secolarismo, costituito da importanti elementi nell'Unione Europea, nelle Nazioni Unite e ora anche negli Stati Uniti. Il fatto che abbia aderito anche quest'ultimo Paese è significativo sia perché si tratta di un'aggiunta recente che perché gli USA esercitano una grande influenza, in generale e in termini relativi ai loro media.
Ne abbiamo anche visti gli effetti. Tagliato fuori dalla sua bussola morale, a cui il Papa si è riferito come alla base morale pre-politica di uno Stato libero, questo asse si è mostrato non desideroso o incapace di accettare altro se non i suoi valori. In nome di un impegno radicale solo nei confronti della ragione, siamo stati testimoni di un giudizio contro il Papa nonostante le prove scientifiche. Un cosiddetto impegno con la ragione - separata dalla fede - si è dimostrato irragionevole nella sua ostilità verso la moralità e la fede religiosa.
Una tendenza di questo tipo, come ha sottolineato il Papa, è preoccupante per il futuro della democrazia, e per un mondo che ha già sperimentato il secolarismo radicale nella forma del marxismo e del nazionalsocialismo questa tendenza è troppo familiare. Escluso dalla bussola morale, il mondo rischia di abbracciare una dittatura familiare, una "dittatura del relativismo" come l'ha definita il Pontefice.
Questa "hubris della ragione", ha avvertito una volta l'allora Cardinale Ratzinger, "rappresenta una sfida ancor maggiore - basta pensare alla bomba atomica, o all'uomo come 'prodotto'".
La nostra risposta richiederà una stretta cooperazione tra Vescovi, sacerdoti e laici - che Papa Benedetto ha proposto come chiave del successo della nuova evangelizzazione. Nient'altro porterà efficacemente il Vangelo in questi panorami sempre più secolari.
Seguendo la guida di Papa Benedetto, ciascuno di noi deve lavorare per portare il messaggio di Cristo ai nostri vicini e alle nostre Nazioni attraverso la nostra testimonianza alla verità nella sfera pubblica e in quella privata. Come ogni volta in cui la Chiesa ha affrontato le sfide di un ambiente ostile, la nostra testimonianza cristiana, il nostro amore per il prossimo, è la testimonianza più potente che possiamo dare alla nostra società sempre più secolarizzata.
*Cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo e autore di best seller.
[Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]


Tommaso d'Aquino e Jacques Maritain - La fobia del lògos paralizza il pensiero contemporaneo - Nell'ambito delle lezioni della cattedra "San Tommaso e il pensiero contemporaneo" istituita presso la Pontificia Università Lateranense, il 6 maggio si tiene un incontro sul tomismo di Jacques Maritain. L'autore ne ha sintetizzato i contenuti per il nostro giornale. - di Antonio Livi – L’Osservatore Romano 6 maggio 2009
Jacques Maritain è uno dei filosofi cristiani del Novecento che hanno saputo rilevare nella teologia cattolica l'uso indebito di sistemi di pensiero incompatibili con la fede. Come è avvenuto anche nel caso di altri filosofi (Gilson, Pieper, Sciacca, Fabro, Guitton, Hildebrand), il suo intervento in questa delicata problematica - che riguarda non solo i rapporti tra ragione filosofica e riflessione sulla fede ma anche il giudizio teologico sulla modernità - è stato contestato da taluni teologi, ma ha trovato accoglienza presso altri, a cominciare da Charles Journet, il celebre autore de L'Eglise du Verbe Incarné, il quale fu molto vicino a Paolo vi durante i lavori del Vaticano ii. Nel 1965, il messaggio del concilio agli intellettuali fu consegnato in piazza San Pietro proprio a Maritain, il quale pochi mesi dopo pubblicò Le Paysan de la Garonne, critica filosofica dell'interpretazione del concilio che la teologia progressista andava proponendo come radicale riforma della fede cristiana. Gli storici della Chiesa hanno inoltre accertato che nel 1967, quando Paolo vi progettò la pubblicazione di un Credo del Popolo di Dio in occasione dell'Anno della fede, la bozza del documento fu redatta proprio da Maritain per incarico di Journet, il quale ritenne che il rigore epistemologico del filosofo francese potesse fornire al Magistero un contributo di chiarezza concettuale nel momento in cui alla Chiesa interessava presentare gli esiti del Vaticano ii nel loro vero contesto storico di rinnovamento nella continuità. Nato a Parigi (1882) da famiglia protestante, Maritain si era formato alla Sorbona, che era allora il regno del positivismo, avverso alla religione e alla metafisica. Ma all'università conobbe la poetessa ebrea Raïssa Umanzof, che lo indusse a frequentare i corsi del filosofo ebreo Henri Bergson al Collège de France. Una volta sposata Raïssa, assieme a lei si fece battezzare nella Chiesa cattolica (1906), dopo di che il teologo domenicano Réginald Garrigou-Lagrange lo avviò allo studio di Tommaso d'Aquino. Il suo primo intervento nella questione del giudizio teologico sulla modernità filosofica fu Antimoderne, del 1922, nel quale faceva riferimento all'enciclica Aeterni Patris di Leone xiii: "Si vuole far credere agli sprovveduti che le conclusioni contrarie al dogma alle quali pervengono (alcuni teologi) sono la conseguenza dell'aver essi adottato le categorie della scienza, che sarebbe sempre "imparziale"; ma la verità è che si tratta di errori presenti fin dal principio, frutto di una metafisica, spesso adottata inconsapevolmente, che altro non è se non un mero rivestimento intellettuale della vanagloria (...) Papa Leone xiii lo ha detto in una celebre enciclica: la scienza del fisico e quella del teologo non possono essere in contraddizione l'una con l'altra, perché ambedue provengono dalla verità. Ovviamente, questa affermazione va intesa così: la scienza non può mai contraddire la fede, a condizione che la scienza sia elaborata in buona fede. Ora, questa sedicente scienza che si dichiara neutrale, ma fin dal principio si mette surrettiziamente al servizio di una metafisica che nega e contraddice la fede, per poi spacciare le ipotesi di questa metafisica per risultati della sua ricerca, non è certamente in buona fede" (Antimoderno, Parigi 1922). Nel 1924, nel saggio sui Trois réformateurs: Luther, Descartes, Rousseaux, Maritain cercò di dissuadere i cattolici del suo tempo dall'aderire acriticamente a correnti filosofiche che avevano come progetto e come risultato storico la riforma del cristianesimo in senso secolaristico. Ma è nel 1965, con Le Paysan de la Garonne, che Maritain entra in pieno nel dibattito sul discernimento di fede riguardo alla filosofia e rileva certe tendenze neo-modernistiche presenti nella cosiddetta teologia conciliare. Molti critici, che lo avevano considerato un progressista per la sua interpretazione positiva della civiltà moderna e per le sue idee sulla democrazia (cfr. Humanisme intégral, del 1936), cambiarono opinione e lo etichettarono come reazionario. In effetti, se dal punto di vista "politico" il suo pensiero può sembrare come una successione di conversioni ideologiche, dal punto di vista propriamente "teoretico" la sua intenzione costante è invece la difesa dell'autonomo formale della ragione, condizione necessaria per "philosopher dans la foi". La critica del metodo fenomenologico di Husserl e di Heidegger, come anche la proposta di un tomismo genuinamente esistenziale, sono espressioni coerenti del suo impegno per dimostrare che la metafisica, superficialmente liquidata da molti teologi, è indispensabile per trovare una adeguata giustificazione epistemica a ogni pretesa di verità. Di qui la sua denuncia dei sistemi filosofici incompatibili con il metodo proprio della teologia, denuncia che va inquadrata nel contesto del confronto tra pensiero cristiano e pensiero "moderno" nel Novecento, quando alcuni filosofi cristiani, seguendo l'esempio di Vico e di Rosmini, tentano uno svolgimento autonomo delle istanze speculative moderne, in piena armonia con la loro fede nella Rivelazione, mentre altri tentano varie forme di "concordismo" e altri ancora si impegnano in una radicale contestazione della filosofia immanentistica, riproponendo il pensiero di Tommaso d'Aquino e dialogando da questa posizione con le filosofie moderne. Quest'ultima posizione è quella nella quale si ritrova Maritain, dichiaratamente distante dalla prima posizione (rappresentata da scuole come la "philosophie de l'esprit", lo spiritualismo cristiano, l'esistenzialismo cristiano, la fenomenologia e l'ermeneutica) e dalla seconda (che rientrerà in vari modi nella generica denominazione di modernismo o in quella equivalente di progressismo). Come ha osservato Del Noce, "il fatto che si sia prodotto il fenomeno del nuovo modernismo, o che abbia assunto le dimensioni che sappiamo, anziché conseguire a incertezze del pensiero di Maritain deve piuttosto essere collegato a quello che la sua lezione, per ciò che almeno è della sostanza, venne frainteso". E infatti: se ben si guarda, il nuovo modernismo è la continuazione di quello stesso pensiero che dominò ampie sfere negli anni Trenta, affermato però oggi in forma rovesciata, in dipendenza del rovesciamento del corso storico. Al collegamento con certe posizioni moderne si è sostituito quello con altre, e sia pur opposte, posizioni moderne; al collegamento con un anticristianesimo, che poteva apparire antimoderno si è sostituito quello con un altro anticristianesimo, moderno e progressivo (...) Il processo che si sta ora svolgendo avviene in una forma che Maritain non aveva certo potuto prevedere, ma che è in piena concordanza con le sue vedute, e che verifica i pericoli che vi erano implicitamente indicati. Sotto questo riguardo si vede come il suo pensiero non soltanto sia continuabile, ma "debba esserlo, da coloro almeno per cui il pensiero metafisico e religioso non rappresenta uno stadio destinato a essere storicamente oltrepassato" ("L'unità del pensiero di Jacques Maritain", L'Europa, 1973). Ancora oggi chi legga senza prevenzioni le ultime opere di Maritain e rilegga poi gli scritti anteriori ha modo di apprezzare la coerenza della riflessione maritainiana sul senso dell'essere, nella quale è fondamentale la tesi della capacità della ragione umana di attingere immediatamente - anteriormente a ogni discorso analitico - l'essere degli essenti, inteso come evidenza di significato (intelligibilità) e allo stesso tempo come inesauribilità di senso (problematicità). Si tratta della fondazione realistica del pensiero, che implica la nozione di realtà come mistero, dalla quale muove la ricerca di Dio. Questa tesi è di carattere esistenziale per due motivi: anzitutto, perché implica l'assunzione dell'attualità (esistenza, storia, fattualità) come punto di partenza della riflessione razionale, unitamente alle nozioni astratte e universali (logica delle essenze); secondariamente perché in questa certezza primordiale della ragione intuitiva l'uomo coglie il senso della sua esistenza come "essere-nel-mondo" e come "essere-per-la-morte". Da entrambi questi aspetti scaturisce il valore teologico del realismo metafisico: esso solo, infatti, consente di risalire al fondamento e al senso ultimo dell'esistenza, cioè a Dio. È significativa l'insistenza e la precisione epistemologica con le quali Maritain ricorda il valore aletico di quella "pre-filosofia spontanea che si esprime attraverso il linguaggio del senso comune" (Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia 1966, p. 30), individuando proprio nella negazione di questo valore la "logofobia" di gran parte della filosofia contemporanea, che consiste nella perdita di fiducia "non solo nel sapere filosofico, ma nella pre-filosofia spontanea che è per l'uomo come un dono di natura incluso nell'equipaggiamento di prima necessità che si chiama senso comune". Maritain è dunque un filosofo autenticamente moderno, perché moderna è la nozione di "senso comune", chiave di volta della critica razionale del cartesianesimo elaborata da un'importante filone speculativo (Pascal, Buffier, Vico, Reid, Balmes, Rosmini) che oggi si ricongiunge con il pensiero post-moderno, con la filosofia analitica e con il recupero di una metafisica non razionalistica. Notevole è il valore di tale impostazione ai fini di una plausibile fondazione della teologia naturale, ossia in merito alla questione dei "praeambula fidei" (cfr. Premesse razionali della fede. Teologi e filosofi a confronto sui "praeambula fidei", Città del Vaticano, Lateran University Press, 2008); scrive infatti Maritain: "Come potremmo noi poveri uomini, così poco dotati di intelligenza, arrivare a conoscere con piena certezza, mediante la fede, la Verità soprannaturalmente rivelata, alla quale l'intelletto umano non è proporzionato, se non potessimo conoscere con piena certezza le verità d'ordine razionale, alle quali esso è invece proporzionato?" (La signification de l'athéisme contemporain, Parigi, 1949).
(©L'Osservatore Romano - 6 maggio 2009)


Obama e gli Usa tra aborto e torture - Lorenzo Albacete - mercoledì 6 maggio 2009 – ilsussidiario.net
La discussione in corso sulle presunte torture di prigionieri da parte di inquirenti americani durante la “guerra contro il terrorismo” della seconda Amministrazione Bush rivela un interessante rovesciamento di ruoli in confronto alle discussioni sull’aborto.
In entrambi i casi si riscontra una divisione tra gli assolutisti e i relativisti morali. Nel caso dell’aborto, gli assolutisti morali sono per lo più associati con la destra politica. Costoro non sono disposti ad alcun compromesso su disegni di legge per modificare l’attuale legislazione sull’aborto, perché per loro si tratta di proporre un emendamento costituzionale che vieti ogni tipo di aborto legale.
Sulla sinistra dello spettro politico, si trovano invece quelli che non sono disposti ad accettare nessuna limitazione al diritto di aborto. Costoro insistono sull’approvazione di un “Freedom of Choice Act”, che elimini tutta l’attuale legislazione sul diritto di aborto, lasciandolo completamente libero.Durante l’ultima campagna presidenziale, Barack Obama ha sostenuto questa posizione. John McCain e il Partito Repubblicano hanno condiviso la posizione assolutista contro l’aborto legalizzato.
Nel caso della tortura dei prigionieri nella lotta contro il terrorismo, i ruoli si sono rovesciati. La posizione morale assolutista è sostenuta dall’Amministrazione Obama e dall’ala sinistra del Partito Democratico, che chiede l’incriminazione di coloro che nella precedente Amministrazione hanno autorizzato il ricorso alla tortura, compreso lo stesso Bush. I Repubblicani di destra e qualche Democratico conservatore sostengono invece che, in certe circostanze, la sicurezza nazionale può rendere necessaria la tortura di prigionieri.
Nel dibattito su questi due temi, la sola posizione coerente è quella della Chiesa Cattolica. Da una parte, i conservatori religiosi tendono a essere più aperti alla possibilità che la tortura possa essere ammessa in alcune speciali circostanze, mentre i secolaristi non ammettono alcuna possibilità di compromesso su questo punto.
Solo chi abbraccia la posizione sostenuta dal magistero della Chiesa cattolica condanna ugualmente e in ogni caso sia l’aborto, sia la tortura. Altri cattolici (molti presenti nel Congresso e nell’Amministrazione Obama) seguono le argomentazioni secolariste e condannano la tortura, ma difendono il diritto ad abortire. Il presidente, che professa un’astratta “posizione intermedia” sull’aborto, condanna inequivocabilmente la tortura in ogni caso.
Sentiamo le parole di un gesuita che difende la posizione della Chiesa: «L’insegnamento della Chiesa è chiaro: la tortura non è mai ammissibile, neppure per le più gravi ragioni… Questo perché la Chiesa ha un approccio deontologico all’etica. In altri termini, gli standard morali sono oggettivi e assoluti, basati sull’inviolabilità della persona umana. Questo contrasta con un approccio utilitaristico che ricerca il maggior bene per il maggior numero di persone, che suggerirebbe che un modello utilitaristico potrebbe permettere la tortura , per esempio, nel caso di un imminente attacco nucleare».
Un piccolo numero di cattolici, tuttavia, asserisce che la posizione cattolica non è basata su un argomento filosofico in favore di un «approccio deontologico all’etica», ma sulla fede in Cristo. Anche evangelici e protestanti conservatori sostengono il primato della fede: per essi la fede è separata dalla ragione, dando così ai secolaristi l’opportunità di accusarli di volere imporre la loro fede agli altri.
Per la Chiesa Cattolica, la fede è l’origine del giudizio morale, ma la fede non è separata dalla ragione, e può e deve essere verificata in tutti gli esseri umani attraverso una ragione correttamente intesa. I vescovi cattolici sono ancora alla ricerca di modi efficaci per affermare questo punto.


DIARIO DA L'AQUILA/ Il mio mese in bicicletta per lavorare - Redazione - mercoledì 6 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Che atmosfera strana oggi a L’Aquila. La notte che sta per arrivare incute timore. Un mese fa, alle 3.32, il terremoto che ha devastato e ferito la città. I giovani si stanno dando appuntamento per trascorrere la notte all’aperto, svegli. Un modo per esorcizzare quanto successo, un modo per vivere insieme il ricordo di un triste e doloroso momento. Solo attraverso la compagnia si superano i momenti difficili.
Domani un consiglio regionale a un mese dal sisma, con la partecipazione dei Presidenti di Camera e Senato. Domani una messa del vescovo Molinari nella tendopoli principale. L’Aquila si prepara a un giorno difficile, che porterà con sé il ricordo di amici e parenti morti, di case crollate, di dramma, di paura. Oggi su un’auto dei vigili del fuoco sono tornato in centro storico. Vuoto, silenzioso, desolato. In Piazza Duomo ho rivisto la chiesa delle Anime Sante. In gran parte distrutta, ma con i tecnici che la stavano “legando”. Le operazioni di recupero sono già in atto. Ho ripensato alla messa del vescovo in quella chiesa la settimana prima del terremoto, per chiedere l’intercessione di Sant’Emidio. Poi il crollo le macerie.
Per me oggi è stata una giornata importante professionalmente. Sono riuscito ad avere l’elenco delle zone dove si procederà alla ricostruzione delle nuove case antisismiche. Un documento che doveva rimanere segreto e che lo staff di Guido Bertolaso mi aveva negato. Poterlo pubblicare in anteprima è una soddisfazione personale. Girando per uffici alla ricerca di qualcuno che me lo passasse sottobanco mi sono imbattuto in una signora, non più giovanissima. Appena ha visto me, una collega e la telecamera ci si è avvicinata. Ha chiesto spiegazioni su come poter intervenire sulla sua casa, distrutta dal terremoto, senza attendere troppo tempo.
E’ proprio la mancanza di informazioni alla gente uno dei punti deboli di questa situazione. La gente, quella comune, non sa dove andare a chiedere spiegazioni con la certezza di avere risposte chiare. Agli uffici del Comune gli impiegati non sono preparati, non c’è stata formazione. E la gente, in mezzo a mille difficoltà, gira per la città, da un capo all’altro. Fino ad arrabbiarsi. La signora, invece, era tranquilla. Sperava solo di poter cominciare i lavori e farli pagare direttamente allo stato. «La mia casa è distrutta – ha detto – non ho soldi da parte. Voglio solo che mi ridiano la casa, me la ricostruiscano». E ha continuato a raccontare che adesso stava da parenti, a Tornimparte, la montagna a ovest dell’Aquila.
Ho guardato la donna, oltre la sessantina, stupito. Era a cavalcioni di una mountain bike. La salita verso il paese che la ospita non sarebbe agevole anche per me pedalando. La donna ha raccontato che un tempo quella strada la si faceva a piedi e in bicicletta è quasi un lusso. Prima di ripartire ha detto che i giornali devono insegnare alla gente cosa fare, spiegare quello che si deve capire, dare risposte che negli uffici non danno. Un richiamo alla realtà della nostra professione, troppo spesso solo amplificatore delle chiacchiere dei politici o del gossip da cronaca nera.
La bicicletta che si allontanava mi ha fatto ripensare a un mese fa. Ho capito che questo mese di lavoro è stato diverso. Diverso nel modo di rapportarmi con gli amici di sempre ma anche verso chi mi leggeva ogni giorno. In questo mese è stato come se fossi in bicicletta anche io per lavorare. L’assenza dell’ufficio mi ha fatto guardare in faccia la gente, chiamandola per nome.
(Fabio Capolla - Giornalista de Il Tempo)


Meeting di Rimini: testimoni per la convivenza - DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ – Avvenire, 6 maggio 2009
Trent’anni di vita rappresentano una tappa simbolica per rilanciare una scommessa che dal 1980 ha fatto molta strada. In vista della trentesima edi­zione, che si terrà dal 23 al 29 agosto, il Mee­ting di Rimini si è presentato ieri a Parigi presso la prestigiosa sede dell’Unesco. Un’occasione unica per una riflessione pre­liminare sul tema di quest’anno: «La co­noscenza è sempre un avvenimento».
Olabiyi Babalola Joseph Yai (Benin), l’at­tuale presidente del consiglio esecutivo del­l’agenzia dell’Onu, ha dato il benvenuto ai partecipanti sottolineando la prossimità di missione fra l’opera dell’Unesco e quella del Meeting: «Siete a casa vostra in questo tempio dell’amicizia universale che aspira ad essere la casa della conoscenza». È sta­to poi Giuseppe Moscato, ambasciatore i­taliano presso l’Unesco, a ricordare gli at­tuali sforzi internazionali per evitare il te­tro scenario di uno scontro fra le civiltà. «La Fondazio­ne Meeting ha avuto il me­rito di aver capito questo con anticipo», fornendo un esempio concreto d’incon­tro che ha ispirato tanti at­tori internazionali. A racco­gliere l’eredità sarà anche l’anno 2010 dell’Onu dedi­cato alla conoscenza fra i popoli.
Monsignor Francesco Follo, rappresen­tante della Santa Sede presso l’Unesco, ha invece insistito sul valore profondo dei con­cetti di amicizia e comunione, che trova­no espressione nel 'metodo' del Meeting: «Un gruppo di amici veri che testimonia­no la loro unione, ovvero un’amicizia pro­duttrice di cultura». Lo spettro della divi­sione, quello di una Babele contempora­nea, può essere sempre scongiurato dalla radiazione concreta di una Pentecoste fra popoli consapevoli di far parte della stes­sa umanità. A testimoniare della possibi­lità di un incontro nella diversità è stato an­che Igor Bailen, rappresentante delle Fi- lippine all’Unesco, che ha ricordato l’e­sempio della coesistenza fra cristiani e mu­sulmani nell’arcipelago.
Il celebre antropologo francese Yves Cop­pens, vecchio amico del Meeting, ha sot­tolineato quanto opportuno sia il tema del trentennale. Durante l’evoluzione umana, circa 100mila anni fa, la cultura umana ha cominciato a galoppare a un ritmo più ra­pido dell’evoluzione biologica. Ma la di­versità culturale eccezionale così prodotta pone sempre più oggi 'il problema della li­bertà e della responsabilità' rispetto ai pro­pri simili. Per lo scrittore irlandese John Waters, la conoscenza diventa oggi un processo complesso che rischia di farci scivolare in una confu­sione perpetua, sullo sfon­do talora angosciante di u­na perdita di senso. Per que­sto, «il Meeting non è un e­vento come gli altri». È l’oc­casione per riscoprire quel­la «curiosità che è una simpatia verso l’es­sere e la realtà, ovvero il motore dell’attività umana».
A chiudere gli interventi è stata Emilia Guarnieri, presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli, che ha ricordato la scommessa riproposta ogni e­state da 30 anni: «Il Meeting ha sempre in­vestito sulla domanda di significato, una molla su cui si è sperimentato tutto. Que­sta domanda di senso è il desiderio che ac­comuna gli uomini. Se non c’è un punto in comune il dialogo diventa impossibile». Per questo, «il Meeting non è solo un luo­go di dibattito, ma anche una grande oc­casione di esperienza umana».


«Il Papa in Terra Santa benedizione per tutti» - Fouad Twal: darà sostegno e coraggio ai cristiani - l’intervista - Le difficoltà vissute dalla comunità cristiana, il valore interreligioso del pellegrinaggio. Alla vigilia della visita di Benedetto XVI, parla il patriarca latino di Gerusalemme: viene ad invocare pace e riconciliazione in una regione di grandi tensioni e interminabili conflitti - SULLE ORME DEL RISORTO - DAL NOSTRO INVIATO A GERUSALEMME - LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 6 maggio 2009
«Sarà una benedizione per tutti, cristiani, musul­mani ed ebrei». Non ha dubbi monsignor Fouad Twal, pa­triarca della Chiesa latina di Geru­salemme. Invece che soffermarsi sulle difficoltà e sui rischi connes­si alla visita che Benedetto XVI ini­zierà l’8 maggio in Terra Santa pre­ferisce andare all’essenziale, cui guarda con grande fiducia e sere­nità. 68 anni, figura massiccia e im­ponente, da meno di un anno si tro­va a capo della comunità cristiana che è la madre di tutte le Chiese, la diocesi di Gerusalemme. Nativo della Giordania non nasconde la sua profonda soddisfazione per il fatto che il Papa inizierà il suo pel­legrinaggio proprio da da questo Paese. Ed in quest’intervista al no­stro giornale racconta le attese e le speranze che si concentrano su questo viaggio.
Alla vigilia del suo pellegrinaggio in Terra Santa Benedetto XVI chie­sto ai fedeli una speciale preghie­ra per il popolo palestinese dicen­dosi vicino alle sue sofferenze. Sarà l’aspetto predominante della visi­ta?
Certamente questo è uno dei mo­tivi principali che espliciterà nei di­scorsi ed anche coi gesti. Il Papa si china su tutti i sofferenti: andrà a Yad Vashem, il memoriale della Shoah, per ren­dere omaggio al popolo ebraico, così come si re­cherà al campo profughi di Aida, a Betlemme, do­ve da decenni vi­vono i rifugiati palestinesi. Ri­corderà le ferite del passato e quelle del presen­te che devono an­cora essere guari­te.
Cosa si aspettano i cristiani di Terra Santa dalla visita del Papa?
Si aspettano pa­role chiare e forti per vivere la pro­pria fede in un contesto molto difficile. Hanno bi­sogno di essere incoraggiati, di ve­dere e di sentire che il Santo Padre è venuto soprattutto per loro. E cre­do che questo loro desiderio sia più che legittimo. Il pellegrinaggio di Benedetto XVI in Terra Santa è al tempo stesso una visita pastorale alla nostra comunità. Questo è il senso essenziale della sua visita. Senza dimenticare ovviamente gli altri aspetti, a cominciare dall’im­pulso che darà al dialogo inter-re­ligioso. Ed inevitabilmente avrà an­che un significato politico, perché viene ad invocare pace e riconcilia­zione in un terra di grandi tensioni e d’interminabili conflitti.
Vede grandi diffe­renze rispetto al viaggio compiuto in Terra Santa da Giovanni Paolo II nel 2000?
A mio avviso il confronto non va fatto tra le due vi­site ma tra la si­tuazione di allora e quella attuale. Se a quel tempo c’e­ra una grande speranza oggi in­vece domina la delusione. La gen­te è molto stanca, non ce la fa più. Ha visto passare sulla propria testa iniziative di pa­ce, road map, Annapolis, ma nella realtà nulla è cambiato.
L’attenzione dei mass- media a questo viaggio è puntata soprat­tutto su Israele e palestinesi. Ma la prima tappa sarà la Giordania do­ve il Papa si fermerà ben tre gior­ni. Qual è il significato di questa vi­sita?
Come i suoi predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II anche Bene­detto XVI inizia il suo pellegrinag­gio apostolico dalla Giordania do­ve si trovano tanti luoghi della sto­ria sacra che il Papa visiterà. Inol­tre in Giordania si trova la comu­nità cristiana più consistente della Terra Santa anche perché ai fedeli locali si sono aggiunti via via tanti profughi, dapprima palestinesi e recentemente anche iracheni. Sarà l’occasione per allargare lo sguar­do ai cristiani di tutto il Medio O­riente che saranno rappresentati al più alto livello da quattro patriarchi.
Nel corso della sua visita il Papa farà qualche accenno a Gaza, sem­pre dominata da Hamas e recen­temente stremata da una guerra sanguinosa?
Qualcuno aveva espresso il deside­rio che Benedetto XVI si recasse a Gaza ma non è stato possibile. Ed allora, se il Papa non ci può anda­re, saranno quei di Gaza a venire da lui. Abbiamo chiesto i permessi per 250 persone, cattolici ma anche or­todossi e musulmani, in quanto la nostra comunità di fedeli a Gaza non supera le 300 persone. Non sappiamo ancora quanti permessi saranno rilasciati dalle autorità i­sraeliane. Speriamo in bene. E’ pre­visto che Benedetto XVI li incontri a Betlemme, nel palazzo presiden­ziale dell’Autorità palestinese.
Ci sono polemiche sulla visita del Papa al campo profughi di Aida. I palestinesi avrebbero voluto che l’incontro si svolgesse a ridosso del muro costruito attorno a Betlem­me ma invece, per imposizione delle autorità israeliane, si terrà nella scuola dell’Onu...
No, no. Le cose non stanno in que­sto modo. Fin dall’inizio era previ­sto che l’incontro si tenesse nella scuola. Poi, presi dall’entusiasmo, alcuni rappresentanti dei rifugiati hanno pensato di costruire un grande palco per il Papa a ridosso del muro. Ma tutto questo non cambia il messaggio che il Papa ri­volgerà ai profughi palestinesi.
Non teme le strumentalizzazioni politiche che verranno fatte dei ge­sti e delle parole del Santo Padre?
Vede, questa visita di Benedetto X­VI in Terra Santa è come una bella torta di cui tutti non solo vogliono avere una fetta ma pretendono che la loro sia la porzione più grande. Ciascuno ha la propria sensibilità, il proprio punto di vista che spes­so è in netto contrasto con quello degli altri. Sono sicuro che il Papa saprà trovare le parole giuste, sen­za offendere nessuno ma invitan­do tutti a guardare più in alto.


A Smirne ( Turchia) sono stati scoperti graffiti in cui Gesù è definito «Colui che dona lo Spirito»: potrebbe essere la più antica testimonianza scritta cristiana. Parla l’esegeta tedesco protestante Riesner - San Paolo scriveva sui muri - DI ANTONIO GIULIANO – Avvenire, 6 maggio 2009
Corse così tanto per annun­ciare il Vangelo da lasciarsi alle spalle già allora incom­prensioni e amarezze. Non che Paolo di Tarso fosse uno che nelle dispute si tirava indietro. Anzi, e­ra proprio in quei momenti che manifestava tutto il suo tempera­mento focoso e passionale. Di fat­to però, come succede ai grandi personaggi della storia, dopo due­mila anni la sua figura è ancora al centro di dibattiti e polemiche. C’è chi è convinto che senza i suoi viaggi missionari la buona notizia di Cristo sarebbe rimasta circo­scritta a una sparuta setta ebraica e che l’Apostolo debba essere con­siderato il vero «inventore» del cri­stianesimo come religione uni­versale. Sono tesi che conosce be­ne uno dei massimi studiosi della Chiesa primitiva, il tedesco Rainer Riesner, esegeta protestante, do­cente di Nuovo Testamento all’U­niversità di Dortmund. Riesner in­terverrà questa sera all’Università Cattolica in una conferenza orga­nizzata dal Centro culturale di Mi­lano: « Dalla terra alle genti: San Paolo, fondatore del cristianesimo o Apostolo di Gesù? » .
Professor Riesner, come mai Pao­lo di Tarso continua a far discu­tere?
« È ancora in voga una tesi del XIX secolo per cui Paolo sarebbe l’in­ventore del cristianesimo. Si vuo­le così contrapporre Gesù come semplice profeta e Paolo che dai suoi insegnamenti avrebbe creato una teologia complicata e distin­ta. Paolo viene dipinto come un uomo profondamente condizio­nato dal pensiero pagano, che per convincere i suoi interlocutori pa­gani avrebbe divinizzato Gesù. Ma dietro il tentativo di ridimensio­nare l’apostolo c’è la volontà di ne­gare la natura divina di Gesù e di ridurlo al ruolo di un insegnante di morale… Eppure basta leggere la Lettera ai Filippesi, in cui Pao­lo fa riferimento a una tradizione che non ha formulato lui ma che ha preso dalla Palestina, perché il linguaggio è semitico. La tradizio­ne sostiene che Gesù è il figlio di Dio. Per cui Paolo non è il primo ad averne affermato la divinità. Al­lo stesso tempo egli è intimamen­te persuaso della divinità di Cri­sto, non solo per aver accettato la tradizione, ma perché ne ha fatto esperienza lui stesso sulla via di Damasco, come racconta nella Lettera ai Galati » .
Qual è l’originalità di Paolo nella storia del cristianesimo?
« Paolo ha capito più profonda­mente e più velocemente degli al­tri apostoli che Cristo andava an­nunziato in tutto il mondo e che il padre di Gesù è il Dio dell’Antico Testamento. Ha testimoniato che attraverso Cristo tutti gli uomini possono arrivare al Dio d’Israele, l’unico vero Dio: anche i non e­brei; da qui le sue dispute con i Giudei. E allo stesso modo si è bat­tuto perché gli ebrei convertiti a Cristo potessero continuare i ri­tuali ebraici come la circoncisio­ne. Per questo la sua è una figura moderna, che sprona anche oggi le Chiese alla missione, e Bene­detto XVI ha perfettamente ragio­ne sulla necessità di una nuova e­vangelizzazione dell’Europa. Pao­lo è un modello anche per le altre religioni e per i politici: lui ha pre­dicato il Vangelo in maniera del tutto nonviolenta e ha sempre ri­spettato l’irriducibile valore della libertà di coscienza della perso­na » .
Lei è uno dei più apprezzati stu­diosi di esegesi biblica e archeo­logia dei luoghi sacri. Quali sono gli ultimi rilevamenti significati­vi sulle origini del cristianesimo?
« Oggi siamo in grado di mostrare a Gerusalemme il luogo esatto in cui la prima comunità si ritrovava: il Cenacolo della tradizione. Pur­troppo non si può scavare in quel posto per motivi politici. Ci sono però importanti sviluppi in un luogo legato alla vita stessa di Pao­lo: a Smirne, in Turchia, grazie al­le ricerche di uno studioso ameri­cano, Roger Bagnall, sono stati rin­venuti dei graffiti che fanno rife­rimento a Gesù; in particolare è stata decifrata la frase ' Colui che dona lo Spirito', che potrebbe es­sere la più antica testimonianza scritta della storia cristiana » .
Finora la Lettera ai Tessalonicesi – scritta nel 50- 51 – è considera­ta il testo più antico di un autore cristiano. È l’Apostolo il padre del­la letteratura cristiana?
« Il dibattito è aperto. Molti stu­diosi dell’Europa centrale pensa­no effettivamente che la Lettera ai Tessalonicesi sia il testo cristiano più antico. Ma in ambito anglofo­no e ora anche tra alcuni cattolici c’è un numero rispettabile di ese­geti che ritengono più vecchia la Lettera ai Galati. C’è poi una mi­noranza di studiosi in cui mi rico­nosco che pensa sia più datata la Lettera di Giacomo. Penso infatti che essa sia stata scritta prima del Concilio apostolico di Gerusa­lemme nel 48. In questo testo Gia­como introduce il problema prin­cipale affrontato dal Concilio: il rapporto dei cri­stiani con la legge mosaica. Un tema che sarà trattato, sebbene più tardi, anche da Paolo nella Lettera ai Ga­lati » .
Oggi c’è un grande interesse intorno alla storicità di Cristo e degli apo­stoli. C’è il rischio che alcuni best­seller falsino la ve­rità storiografica?
« Non solo come cristiano ma co­me studioso sono convinto che i Vangeli siano fonti storiche mol­to affidabili. Nel Vangelo di Marco soprattutto c’è coincidenza tra fat­ti, testimonianza oculare e Scrit­ture. Nella ricerca non è più di­scusso ma accettato che questo Vangelo sia in gran parte l’inse­gnamento di Pietro. Il legame tra Pietro, l’evangelista Marco e il suo Vangelo diventa importante so­prattutto se si considerano i van­geli apocrifi che adesso hanno for­tuna nella letteratura popolare. Nessuno degli apocrifi è più anti­co del II secolo e per nessuno di essi si può riscontrare continuità tra testimoni diretti di Gesù e la loro redazione. E questa è una dif­ferenza importante rispetto ai Vangeli canonici » .
Che cosa la preoccupa di più del­le polemiche su Paolo di Tarso?
« La tesi dell’Apostolo come in­ventore del cristianesimo è nata all’interno del protestantesimo li­berale, anche se molti esegeti e­vangelici si oppongono a tale in­terpretazione e non a caso proprio da essi il Papa ha ricevuto le re­censioni più entusiaste del libro su Gesù. Ma sono molto dispia­ciuto del successo di questa cor­rente anche al di fuori della Rifor­ma. Io temo che essa sia così dif­fusa e amata perché apparente­mente rende più facile il dialogo con le altre religioni: se Gesù è pre­sentato solo come maestro e pro­feta e non come figlio di Dio sa­rebbe più semplice accettarlo per l’ebraismo liberale e l’islam. Ma possiamo rinunciare alla cristolo­gia per il dialogo interreligioso? Su questa domanda si gioca il futuro del cristianesimo » .