Nella rassegna stampa di oggi:
1) Madonna di Medjugorje: messaggio del 25 maggio 2009 - Cari figli, in questo tempo vi invito tutti a pregare per la venuta dello Spirito Santo su ogni creatura battezzata, cosicchè lo Spirito Santo vi rinnovi tutti e conduca sulla via della testimonianza della vostra fede voi e tutti coloro che sono lontani da Dio e dal suo amore. Io sono con voi e intercedo per voi presso l’Altissimo. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
2) Su ilsussidiario.net Segnaliamo il video dell´incontro organizzato dal Centro Culturale di Milano con Don Julian Carron "L´esperienza della famiglia. Una bellezza da conquistare di nuovo"
3) L’Europa di Benedetto - Mario Mauro - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
4) SPAGNA/ Sull’aborto Zapatero prepara una mossa vincente - Redazione - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) TESTIMONI/ Quello che non dicono sull’arresto di Aung San Suu Kyi - Paolo Nessi - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
6) Cardinale Bagnasco: non c’è contrasto tra carità e verità - Il Presidente della CEI spiega che la Chiesa è molto di più che un'agenzia umanitaria - di Antonio Gaspari
7) Sgomento in Nepal per una bomba contro una Cattedrale cattolica - Attentato attribuito agli estremisti induisti
8) A scuola di predicazione da Filippo Neri - Semplici ed efficaci per andare dritti al cuore - di Edoardo Aldo Cerrato - Procuratore generale degli oratoriani – L’Osservatore Romano, 26 maggio 2009
9) L'unica radice di fede e scienza - di Giuseppe Betori Arcivescovo metropolita di Firenze – L’Osservatore Romano, 26 maggio 2006
10) DIBATTITO/ Giannino: ma quale etica, a Milano servono uomini - Oscar Giannino - martedì 26 maggio 2009 – ilsussidiario.net
11) MILANO/ Vittadini: la borghesia si deve svegliare - INT. Giorgio Vittadini - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
12) MILANO/ I protagonisti invisibili di una città in pezzi - Luca Doninelli - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
13) ASTRONOMIA/ Galileo e le carte segrete del Sant’Uffizio, una questione di verità storica - INT. Paolo Ponzio - martedì 26 maggio 2009 – ilsussidiario.net
L’Europa di Benedetto - Mario Mauro - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto parla di Benedetto. Quattro anni dopo il celebre “discorso di Subiaco”, quando l’allora Cardinale Ratzinger aveva presentato la sua lectio magistralis sull’Europa, il Santo Padre è tornato ieri a parlare di San Benedetto da Norcia, figura esemplare e Santo patrono dell’Europa. Nel monastero di Montecassino il Papa ha trovato i simboli dell'altro “Benedetto”, padre del monachesimo e propugnatore dell'evangelizzazione nel nostro continente, che oggi può idealmente rappresentare il baluardo a cui è ancorata la nostra tradizione millenaria.
“Ora et labora” dicevano - e dicono tuttora - i benedettini. Su questo concetto il Papa ha intessuto un messaggio che ha toccato i temi più attuali. Nessun salto nel passato, ma una lucida riflessione su quanto sta accadendo oggi. Ha espresso la sua solidarietà verso coloro che più di tutti stanno pagando il dazio imposto dalla crisi: i precari, i disoccupati e i giovani senza lavoro. Ha esortato a creare «nuovi posti di lavoro a salvaguardia delle famiglie, fortemente insidiate nelle radici stesse della loro istituzione».
L’Europa può trovare strategie per risolvere l’emergenza occupazione soltanto se sarà capace di riconoscere le proprie radici, perché per creare nuove possibilità occupazionali e superare l’attuale contesto di crisi occorre soprattutto lottare contro forme di egoismo e cercare di tutelare in primo luogo i giovani e le famiglie.
San Benedetto con una “regola” fatta di lavoro, cultura e preghiera contribuì a tirar fuori l’Europa da un periodo di profonda crisi. Il Papa ha riportato sotto i nostri occhi un valido esempio per rispolverare una strategia semplice ma efficace: guardare alle nostre radici mettendo tutti insieme il peso di cui siamo capaci sulla stessa mattonella perché nessuno rimanga indietro.
La dignità umana, infatti, viene prima di tutto. È per quella dignità che proprio nel nostro continente è stata calpestata milioni di volte dalle atrocità delle ideologie che le istituzioni sono pronte a battersi, facendosi garanti e mai padrone. È per questo motivo, nella memoria delle vite che la guerra ha spezzato, che il Santo Padre ha visitato ai cimiteri di guerra, ricordando così i caduti di tutte le nazioni e di tutti conflitti.
Tutto ciò ha forse a che fare con l’Europa, con le sue istituzioni e con i suoi cittadini? La fedeltà e il riconoscimento delle radici cristiane non potrebbero contribuire nella costruzione di un'Europa unita e solidale, fondata sulla ricerca della giustizia e della pace? Forse, per noi abituati a vivere in un clima privo di conflitti civili o di popoli, la parola pace ha acquisito un significato che diamo ormai per assodato.
Ma c’è un rischio. Se l’Europa non sarà capace di una memoria storica che le permetta di mantenere viva la sua tradizione culturale e religiosa, non potrà nemmeno pretendere di avere un futuro. La miopia non ha mai portato molto lontano. L’Europa è stata veramente se stessa e profondamente grande nel creare forme di autentica civiltà e progresso dei popoli a livello universale, solo nel momento in cui ha trasmesso quei valori costitutivi che le provenivano dalla fede cristiana, dopo averli fatti diventare patrimonio di cultura e identità di popoli.
Purtroppo la storia recente ci ricorda che non sempre le istituzioni sono state capaci di riconoscere il loro percorso pregresso. Ed è una stranezza il fatto che l’Europa rifiuti il riferimento alle sue radici, mentre gli Stati Uniti ad esempio, non hanno mai avuto il problema di riferirsi a Dio.
L’Europa è nata cristiana e solo nella misura in cui rimarrà tale potrà pensare di conservare appieno le proprie idealità e il proprio apporto originale alla costruzione della civiltà contemporanea. Per comprenderlo a fondo è necessario ritornare al IV secolo quando, durante la grave crisi dell’Impero romano, iniziò a svilupparsi la Chiesa, come nuovo soggetto storico, culturale e politico.
Il monastero di Montecassino quattro volte distrutto e quattro volte ricostruito è il simbolo di questa Europa che, pur essendo stata minata più volte alle sue fondamenta, è ancora oggi in piedi. Ha sopportato guerre, ha visto la distruzione, è più volte stata messa in ginocchio, ma oggi è salda ed è stata capace di assicurare a noi e ai nostri figli oltre sessant’anni di pace. È per questo che vogliamo difenderla, anche nel ricordo di San Benedetto.
La visita di Benedetto XVI alla vigilia di un importante appuntamento che coinvolge i cittadini dei Ventisette Stati Membri ci sprona a proseguire sulla strada tracciata dai padri del nostro continente e a batterci affinché, soprattutto ai giovani, sia garantito un avvenire di pace e sviluppo.
SPAGNA/ Sull’aborto Zapatero prepara una mossa vincente - Redazione - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Sul tema dell’aborto, il Psoe ripropone la strategia che gli ha permesso di portare a termine lo Statuto della Catalogna. Alcune voci critiche si cominciano a sentire dentro al partito di Zapatero già all’inizio dell’iter parlamentare. Più avanti arriveranno i cambiamenti opportuni per appianare le discrepanze interne e per accusare l’opposizione di essere retrograda, avendo già modificati i temi per cui si discuteva.
Lo si vede già all’interno del Partito socialista. Che le ragazze di 16 anni non debbano consultare i genitori prima di abortire non piace, tra gli altri, ai presidenti dell’Estremadura e di Castiglia-La Mancha. Lo ha riconosciuto la stessa Leire Pajín (segretaria del Psoe) presentando la campagna socialista per le elezioni europee. Alcuni aspetti possono generare dei dubbi, ha detto, perché forse non sono stati spiegati bene. I punti chiave dello sviluppo della norma li hanno portati avanti sia il segretario generale del gruppo socialista al Congresso, Ramón Jáuregui, sia il ministro dell’Industria, José Blanco. Tutto è possibile e non sono da scartare “mitigazioni”.
Quando lo Statuto della Catalogna fu approvato dal Parlamento catalano, non mancarono voci di socialisti che si lamentavano. Rodríguez Ibarra (allora presidente dell’Estremadura) uscì da una riunione con Zapatero nell’ottobre del 2005 certo che il testo sarebbe cambiato e che la Catalogna non sarebbe stata definita una nazione. L’allora ministro della Difesa José Bono confidava nella capacità del presidente del Governo per non arrivare a un testo incostituzionale. Altri, come l’allora Ambasciatore della Santa Sede Francisco Vázquez, sostenevano che la Catalogna non è una nazione. Cos’è successo dopo? Una riunione tra Zapatero e il presidente del CiU (coalizione nazionalista catalana) sistemò le cose, con una “piroetta” linguistica e l’apparizione del controverso termine nel preambolo dello Statuto.
Cosa possiamo aspettarci quindi dall’iter della legge sull’aborto? Certamente una nuova astuzia scritturale farà sì che risulti conveniente che le adoloscenti che vogliono abortire lo debbano comunicare ai propri genitori, ma a questo si aggiungerà una postilla: andrà rispettata la volontà della ragazza. Chi non sarà d’accordo non potrà farci niente. Alla fine resterà nella legge ciò che aveva generato malumori.
Si usa quindi la stessa strategia per portare avanti due delle leggi più controverse del Governo Zapatero. Nella prima legislatura, una manovra per mettere in crisi la convivenza tra le Regioni. Nella seconda legislatura, un’altra operazione che dimostra che l’umano non trova difesa con l’attuale esecutivo.
(Roberto de la Cruz)
TESTIMONI/ Quello che non dicono sull’arresto di Aung San Suu Kyi - Paolo Nessi - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Di Aung San Suu Kyi si sta parlando da alcuni giorni. L’ormai nota vicenda ha fatto in modo che balzasse agli onori della cronaca: a causa dell’incursione nella sua abitazione di un bizzarro reduce del Vietnam che ha tentato di portarle una Bibbia, ora lei rischia di passare 5 anni in carcere. Le condizioni degli arresti domiciliari ai quali era sottoposta, (i termini sarebbero scaduti il 27 maggio), le impedivano, infatti, di ricevere ospiti. In ragione di questo episodio, i tg le stanno dedicando quotidianamente alcuni secondi al giorno, i giornali qualche spazio in più. Peccato che i media, in generale, stiano omettendo sbadatamente i particolari più significativi della vicenda e della persona. A iniziare dal contesto in cui tutto ciò avviene.
Della Birmania – oggi Myanmar - si dice, genericamente, che sia un Paese sottoposto a dittatura. Non basta. Dittatura, sì. Ma una delle più feroci al mondo. Lì un cruento regime di sostanziale matrice marxista è al potere da decenni. Il carcere, la tortura e la morte per i dissidenti politici sono all’ordine del giorno. Alla “normale amministrazione” comune a tutti i regimi si aggiungono alcune pratiche che lo rendono particolarmente scellerato. Per dirne una, ogni famiglia birmana deve destinare almeno un proprio membro ai lavori forzati. Sia pure una donna o un bambino.
Il padre di Suu Kyi era il ”Bogyoke” (maggior-generale) Aung San. Nel 1942 costituì l’Esercito d’Indipendenza Birmano e liberò il Paese dal giogo britannico, prima, e giapponese più tardi. Amatissimo dalla popolazione che lo considera tuttora il padre della moderna Birmania, fu assassinato nel ‘47. Suu Kyi entra in gioco nell’’88. Conduceva da anni una serena esistenza in Inghilterra, pluri-laureata, sposata con un professore di Oxford e madre di due bambini. Tornata in patria per passare gli ultimi giorni con la madre morente, assistette all’instaurazione del regime militare che impose la via birmana al socialismo. Quell’anno i soldati spararono su una folla immensa di manifestanti inermi, uccidendone migliaia. Il generale Aung San morì quando lei era troppo piccola per averne dei ricordi. Ma il semplice fatto di essere figlia di suo padre la faceva sentire responsabile della propria gente.
Decise di rimanere in Birmania. Fondò un partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, che il 27 maggio del ‘90 ottenne una maggioranza schiacciante all’assemblea costituente: 392 membri, su un totale di 485. A quel punto lo Slorc (Consiglio di restaurazione della legge e dell’ordine di stato), con l’avallo dell’esercito, invalidò sfacciatamente le elezioni. Tutti i membri dell’Nld furono incarcerati e Suu Kyi messa agli arresti domiciliari. Liberata e incarcerata a più riprese, ogni volta che poteva, girava in lungo e in largo il suo Paese. Incontrava la gente nei villaggi per esortarli a non avere paura e teneva dalla sua casa di Rangoon i “discorsi della Domenica” di fronte a migliaia di sostenitori. Al primo erano presenti mezzo milione di ascoltatori.
E in tutta la sua attività politica o nei suoi scritti, la stessa inaspettata nota dominante: la religione e la tradizione come elemento di unità della Birmania. Per il suo popolo Suu Kyi diventa una sorta di guida spirituale. E, in quanto tale, un capo politico. Questo può far specie nell’Occidente secolarizzato. Ma la forza della leader birmana sta nel non aver mai respinto dalla propria vita pubblica riferimenti alla fede e alla trascendenza. «Per garantire al popolo la frescura protettrice della pace e della sicurezza, i governati devono osservare i precetti di Buddha», scrisse in un saggio intitolato In Quest of Democracy. Tutto ciò è insolito per la mentalità europea, abituata a considerare valori e ideali come frutto di processi storici. Una visione, invece, quella di Suu Kyi, che ha sempre considerato l’uomo nell’integralità dei suoi fattori, senza esaurirlo nelle proprie componenti sociali o economiche. «La dimensione spirituale» disse in uno dei suoi discorsi «diventa particolarmente importante in una lotta in cui convinzione profonda e impegno mentale sono le armi principali contro la repressione armata».
Religiosa e devota alla propria storia. E per questo in grado di elaborare un laicissimo pensiero politico: «La fonte del coraggio e della resistenza di fronte al potere scatenato è generalmente una salda fede nella sacralità dei principi etici combinata con la certezza storica che, malgrado tutte le sconfitte, la condizione umana abbia per fine ultimo il progresso spirituale e materiale. Non si possono accantonare come obsoleti concetti quali verità, giustizia e solidarietà, quando questi sono gli unici baluardi che si ergono contro la brutalità del potere». scrisse in Liberi dalla Paura, uno dei suoi saggi più noti. A che è valso tutto ciò? Per lo meno cinquanta milioni di Birmani credono ancora nella libertà. E sono convinti che prima o poi assumerà la forma politica della democrazia.
Cardinale Bagnasco: non c’è contrasto tra carità e verità - Il Presidente della CEI spiega che la Chiesa è molto di più che un'agenzia umanitaria - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 25 maggio 2009 (ZENIT.org).- Nel corso della prolusione alla 59a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), il Presidente dell'episcopato italiano, il Cardinale Angelo Bagnasco, ha spiegato che non c’è contrasto tra le opere di carità e l’affermazione dei principi dottrinali.
Intervenendo a Roma, questo lunedì, l’Arcivescovo di Genova ha riportato la domanda che alcuni fanno: “se non sia opportuno concentrarci sul terreno della carità, dove s’incontrano facili consensi, piuttosto che in quello assai più contrastato della bioetica”.
Ed ha risposto sottolineando che “la carità e la verità sull’uomo” si ritrovano nella persona di Gesù, “il suo essere buon samaritano della storia e per ciò stesso rivelatore della cifra inconfondibile di ogni esistenza umana”.
Il Presidente della CEI ha messo in guardia nei confronti di “fraintendimenti e deviazioni” se non si è costantemente richiamati al valore incomparabile della dignità umana, che è “minacciata dalla miseria e dalla povertà almeno quanto è minacciata dal disconoscimento del valore di ogni istante e di ogni condizione della vita”.
“Non si può assolutizzare una situazione di povertà a discapito delle altre; ma non si può nemmeno distinguere tra vita degna e vita non degna”, ha ribadito.
Secondo il porporato, “non c’è contraddizione tra mettersi il grembiule per servire le situazioni più esposte alla povertà e rivolgere ai Responsabili della democrazia un rispettoso invito affinché in materia di fine vita non si autorizzi la privazione dell’acqua e del nutrimento vitale a chi è in stato vegetativo”.
“È una questione di coerenza - ha rilevato il Cardinale Bagnasco - rispetto alle diverse stazioni della 'via crucis' che l’uomo di oggi affronta, la Chiesa non fa selezioni (…) non usa l’ideale della fede in vista di un potere” le interessa piuttosto ampliare i punti di incontro tra razionalità e disegno divino sulla vita per una società veramente umana”.
A questo proposito il Presidente della CEI ha denunciato “il rischio strisciante di eugenetica che potrebbe insinuarsi nel nostro costume a causa di interpretazioni della legge 40/2004, che forzosamente vengono avanzate sul piano della prassi come su quello giurisprudenziale”.
Dopo aver ribadito il sostegno al serio impegno del laicato circa il manifesto “Liberi per vivere”, l’Arcivescovo di Genova ha affermato che “il morire non può diventare un diritto che taluno invoca per sé o per altri” perchè se tale pretesa dovesse approdare nella legislazione e da qui attecchire nella mentalità corrente, le conseguenze “sarebbero fatali” anzitutto sul piano di “quegli autentici diritti umani che costituiscono il portato di una intera civiltà. Tra il cosiddetto 'diritto a morire' e gli altri diritti non vi è infatti alcuna omogeneità ontologica”.
“Se accettassimo l’accennata idea di un cattolicesimo inteso come religione civile - ha continuato il porporato -, o come 'agenzia umanitaria', e se completassimo tale visione con l’idea di una fede nuda, scevra da qualunque implicazione antropologica, allora davvero priveremmo la comunità umana di un apporto fondamentale e originale in ordine alla edificazione della stessa città dell’uomo”.
“Saremmo più poveri noi e sarebbe più povera la società - ha precisato il Presidente della CEI -. Ma soprattutto tradiremmo la consegna del Signore Gesù che è passato per le strade della Palestina 'beneficando e sanando' i bisognosi, come dicendo anche: Sta scritto: 'Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio' (Mt 4,4)”.
Per il Cardinale Bagnasco il destino della Chiesa è di “portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro fino a 'raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza'”.
Mentre, ha spiegato, “nella tendenza a ridurre il compito ecclesiale, e considerare le funzioni sociali come più rilevanti di quelle religiose, è difficile non vedere in azione una sorta di secolarismo edulcorato, ma non per questo forse meno subdolo, che – foss’anche senza volerlo – da una parte lusinga i cattolici e dall’altra li emargina”.
Riprendendo le parole di Benedetto XVI, l’Arcivescovo di Genova ha rilevato come la visione a-religiosa della vita e del pensiero porti alla marginalizzazione del cristianesimo, e mina le basi stesse della convivenza umana.
Si tratta di un fenomeno che “non lascia del tutto immuni le comunità cristiane” e “può cedere facilmente il passo ad un’atrofia ecclesiale e a un vuoto del cuore”
Il Presidente della CEI si è detto convinto che alla base di simili posizioni un po’ disincarnate, “s’annidi una cultura neo-illuministica per la quale Dio in realtà c’entra poco – forse nulla – con la vita pubblica: lo si lascia al massimo sopravvivere nella dimensione privata ed intima delle persone”.
“Ma il Vangelo annuncia che Gesù è Dio fatto uomo - ha aggiunto -, è pertinente alla storia e interessato al mondo. Ben lontano dall’essere allergico all’uomo e alla sua ragione, Egli è il suo più grande e fedele alleato: Cristo è veramente il grande 'sì' di Dio agli uomini!”
“Ecco, dunque - ha concluso il Cardinale Bagnasco -, perché vediamo con grande piacere l’iniziativa che, nella forma di un convegno internazionale sul tema 'Dio oggi', è stata messa in cantiere per il prossimo mese di dicembre dal Comitato per il Progetto culturale presieduto dal Cardinale Camillo Ruini”.
Sgomento in Nepal per una bomba contro una Cattedrale cattolica - Attentato attribuito agli estremisti induisti
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 25 maggio 2009 (ZENIT.org).- Dolore e sgomento sono i sentimenti che ha provocato questo sabato l'esplosione di una bomba durante la Messa nella Cattedrale dell'Assunzione a Dhobighat, alla periferia di Kathmandu (Nepal).
In quel momento nella chiesa c'erano circa 300 persone. Un adolescente e una donna sono morti, e i fedeli feriti sono più di una dozzina.
Si ritiene che l'attentato sia opera degli estremisti che chiedono la fine della libertà religiosa in Nepal, spiega la Caritas in un comunicato inviato a ZENIT.
Sulla scena del crimine sono stati infatti trovati degli opuscoli di un piccolo gruppo militante induista chiamato National Defence Army (Esercito di Difesa Nazionale), che ha rivendicato anche l'assassinio del sacerdote salesiano p. John Prakash, avvenuto nel luglio scorso nella zona orientale del Nepal. Il gruppo lotta per la restaurazione della monarchia induista, abolita nel 2008.
Il direttore di Caritas Nepal, p. Silas Bogati, stava celebrando la Messa al momento dell'attentato. "Non avremo mai immaginato che qualcuno potesse perpetrare un atto così codardo e uccidere e ferire tante persone. In Nepal c'è una buona armonia religiosa, ma qualche gruppo estremista sta cercando di disturbare questa realtà".
L'attacco è stato condannato dal Governo entrante e da molti partiti politici, così come da attivisti per i diritti umani, Chiese e gruppi religiosi.
La Chiesa ha organizzato preghiere congiunte questa domenica per cristiani, induisti, buddisti e musulmani.
"Preghiamo per esprimere la nostra solidarietà e la nostra tolleranza religiosa", ha detto p. Bogati. "L'attacco ha provocato paura tra i cristiani. Alcuni gruppi armati stanno cercando di disturbare l'armonia religiosa in Nepal, ma non ci riusciranno mai".
P. Pius Perumana, pro-Vicario Apostolico del Nepal, ha confessato all'agenzia Fides che la piccola comunità cattolica "è triste, amareggiata e scioccata. Siamo una comunità non violenta, pacifica, che ama il suo Paese".
"Quello che ci sorprende è che l'attentato sia stato realizzato senza alcun motivo, senza alcuna provocazione, senza alcun avvertimento. Crediamo che dietro questo gesto vi sia il tentativo di creare tensione fra le diverse comunità etniche e religiose del Nepal e aggiungere caos alla già difficile situazione sociale e politica in cui versa il Paese", ha aggiunto.
"La bomba aveva un forte potenziale di deflagrazione: le persone sono state sbalzate dal loro posto, i vetri della chiesa, distanti 15 metri dall'ordigno, sono andati in frantumi, gli arredi distrutti".
"Il boato dell'esplosione è stato udito fino a molto lontano - ha proseguito -. La gente era sotto shock, ha iniziato a fuggire, nella totale confusione. Nessuno comprendeva cosa stesse accadendo. La polizia è giunta subito sul luogo e ha formato un cordone per consentire i soccorsi e appurare che non vi fossero altri ordigni. La gente è stata subito evacuata dalla chiesa e i feriti condotti agli ospedali di Pata e Alka. L'interno della Cattedrale si presentava pieno di macchie di sangue, di bruciature, di segni di devastazione".
Secondo alcuni testimoni oculari, la bomba potrebbe essere stata collocata da una donna vestita con un sari nero. Aveva due borse che ha lasciato nel tempio chiedendo a uno dei fedeli di "custodirle per un minuto", e poi è uscita.
Il Nepal ha circa 27 milioni di abitanti, per oltre l'80% induisti. I cattolici sono 7.000, e ci sono circa 300 nuovi battezzati ogni anno. La comunità religiosa del Nepal è formata da 65 sacerdoti e 155 suore e gestisce 27 scuole in tutto il Paese, frequentate da più di 17.000 studenti.
Il forte impegno anche nel servizio sociale fa sì che la Chiesa cattolica sia molto apprezzata dalla popolazione nepalese.
A scuola di predicazione da Filippo Neri - Semplici ed efficaci per andare dritti al cuore - di Edoardo Aldo Cerrato - Procuratore generale degli oratoriani – L’Osservatore Romano, 26 maggio 2009
Nella preghiera litanica che il cardinale John Henry Newman compose delineando il volto e la missione di san Filippo Neri, l'invocazione Sancte Philippe, qui Verbum Dei cotidianum distribuisti esprime l'amore di Filippo per la Parola di Dio, ma anche la novità della predicazione quotidiana in un'epoca in cui essa era piuttosto occasionale, tanto che Antonio Gallonio, autore della prima biografia del santo, poté scrivere che Filippo "fu il primo che introdusse in Roma la parola di Dio cotidiana". Ciò che attirava all'Oratorio un numero crescente di persone, era, comunque, la semplicità e il modo familiare con cui egli, con evidente distanza dallo stile ampolloso e pieno di artifici retorici della sua epoca, trasmetteva ogni giorno la Parola di Dio. La preziosa eredità filippiana fu codificata negli Instituta della congregazione, approvati da Paolo V nel 1612: "Coloro che sono stati scelti per questo ufficio nutrono l'anima degli ascoltatori con un genere di predicazione veramente fruttuoso, adattando soprattutto le parole, con ordinata successione, alla comprensione del popolo, senza concedere nulla alla vuota pomposità e al vano applauso; e confermano l'insegnamento particolarmente citando gli esempi dei Santi e con fatti storici documentati. Eviteranno inoltre (...) tutti gli argomenti che si addicono più alle scuole che all'Oratorio". Già il primo testo costituzionale (1583) stabiliva che cibo fondamentale nella congregazione oratoriana fosse la Scrittura di cui si chiedeva una conoscenza profonda attraverso un perseverante contatto: percupimus eos qui publicis praedicationibus destinandi erunt Scripturae divinae paginas (...) diurna nocturnaque manu diligentissime pertractare. E gli scritti dei primi oratoriani, con la loro ricchezza di informazione e la penetrazione della Sacra Scrittura, mostrano quanto tale indicazione fosse diligentemente accolta. "Padre Filippo - si legge nell'Itinerario spirituale dell'Oratorio - con il suo metodo creò una vera scuola nell'ambiente di Roma, dove i predicatori ecclesiastici rivaleggiavano con i classici pagani. Il Santo insegnava che per predicare, bisogna prima far molta preghiera, dar molta importanza alla pratica della virtù, avere retta intenzione nello studio e ricorrere frequentemente agli esempi presi dalla vita della Chiesa e dei Santi. Padre Giuliano Giustiniani era solito dire che un prete di Congregazione doveva morire sopra uno di questi "tre legni": la predella dell'altare, il confessionale, la sedia dei ragionamenti". A questo metodo si ispirarono fin da subito i primi che Filippo Neri chiamò a coadiuvarlo nella tractatio Verbi Dei, poiché, come testimonia padre Pompeo Pateri, Filippo "volle che i suoi discepoli si abituassero allo stesso modo a annunciare la Parola di Dio, per ferire più i cuori degli ascoltatori che le orecchie". In qualche caso li educò alla semplicità, alla sincerità e a un rapporto di intima confidenza con gli ascoltatori anche con espedienti curiosi: al padre Agostino Manni, anima poetica e di grande sensibilità artistica, incline a farsi prendere la mano dalla vena letteraria, fece ripetere, ad esempio, per sei volte lo stesso elaborato sermone, tanto che i fedeli pensarono che quel padre non sapesse dir altro; a padre Francesco Maria Tarugi, che in un sermone parlò, con enfasi eccessiva e impeto degno della miglior retorica, sull'utilità della sofferenza, padre Filippo, dopo essersi a lungo agitato sulla sedia per fargli comprendere di rientrare nei giusti confini, disse pubblicamente, al termine, che nessuno di loro aveva ancora versato una goccia di sangue per Gesù Cristo. Per l'attrattiva che esercitava e per i frutti di sincera conversione che produceva, lo stile della predicazione filippiana si diffuse presto anche al di fuori dell'ambiente oratoriano dando il via al rifiorire della predicazione frequente nelle chiese romane: i domenicani della Minerva furono i primi ad assumerlo, fin dal 1562, per iniziativa del loro priore Vincenzo Ercolani, grande amico di padre Filippo; gli scolopi stabilirono nelle loro costituzioni che si usasse la stessa familiare eloquenza "di cui si servono i RR. pp. dell'Oratorio alla Vallicella"; fuori Roma, san Carlo Borromeo lo prescrisse ai padri oblati di Milano e san Vincenzo de Paoli lo raccomandò ai suoi missionari. Interessante, al riguardo, quanto riportato in una deposizione di padre Francesco Bozzio: "Avendo saputo che alcuni religiosi avevano adottato il tipo di predicazione che si faceva nel nostro Oratorio, e poiché un padre diceva che non era lecito usurpare quello che Padre Filippo aveva istituito, il Beato Padre rispose: oh se tutti fossero profeti..." I testi del processo di canonizzazione di Filippo Neri, editi da Giovanni Incisa della Rocchetta e da Nello Vian - verso i quali l'Oratorio conserva, e non solo per questo, un grato ricordo - sono ricchi di testimonianze sul ministero della predicazione di padre Filippo, il quale, già negli anni della giovinezza, aveva suscitato ammirazione parlando nella chiesa romana di San Salvatore in Campo, negli incontri della confraternita della Santissima Trinità. Prima di citarne alcune, merita ricordare quella contenuta in una lettera che egli ricevette da Napoli nel 1588, agli inizi di quell'Oratorio, fondato da padri provenienti dalla Casa di Roma: "Oggi - scrisse padre Antonio Talpa - il padre messer Francesco Maria [Tarugi] ha parlato familiarmente, poi ha parlato messer Giovenale [Ancina]. Io ne ho sentita tanta consolazione che non potrei dir di più: mi è sembrato di vedere l'Oratorio in quella purezza e semplicità che aveva a San Girolamo. (...) Desidererei che Vostra Reverenza non solo gli desse la sua approvazione, ma anche che glielo comandasse (...) Il frutto sarà certamente maggiore e minore la fatica, e, quel che più importa, si conserverà la forma di parlare propria dell'Oratorio e si trasmetterà ai posteri: altrimenti si perderebbe, ed è il bene più grande che la nostra Congregazione possiede". Nella risposta di Filippo Neri - diretta al Tarugi e affidata, come spesso accadeva, alla penna di Niccolò Gigli, molto caro al santo per il candore e la profonda sintonia di spirito - si legge una preziosa indicazione: "Le dico che il Padre ed i Deputati e gli altri sacerdoti di Congregazione si sono rallegrati quando hanno saputo che Vostra Reverenza ha parlato sopra il libro, secondo l'antico costume dell'Oratorio, quando in spiritu et veritate et simplicitate cordis si predicava, lasciando che lo Spirito Santo infondesse le sue virtù in bocca a chi parlava". Francesco M. Tarugi, ne era ben convinto: tracciando le linee programmatiche su cui sviluppare il testo delle Costituzioni, egli affermava infatti: "Si cerchi di mantenere l'Oratorio più con la devozione che con gli ornamenti del parlare"; e già qualche anno prima, scrivendo nel 1579 a Carlo Borromeo, aveva ricordato che l'Oratorio consiste "nel trattare ogni giorno il Verbo di Dio in modo familiare" precisando che la "familiarità" non doveva essere separata dalla "dignità dovuta" e la "semplicità" non doveva confondersi con la povertà dei contenuti, dal momento che scopo principale dell'Oratorio è "formare un uomo cristiano e tenerlo, con l'aiuto della Grazia, continuamente in esercizio". Nelle deposizioni dei testi al processo è presente il ricordo della predicazione di padre Filippo in chiesa, durante le celebrazioni, caratterizzata da fervore e commozione, ma anche da una speciale capacità di leggere negli animi che gli consentiva di parlare a tutti tenendo presente la situazione di ognuno. Vigerio Aquilino, che attesta di averlo sentito spesso sermoneggiare nella Chiesa Nuova, depone: "Una volta, mentre il Padre predicava pubblicamente, e credo che fosse l'anno 1583, raccontò dettagliatamente il caso di un conflitto spirituale molto stravagante, che diceva essere capitato ad un sacerdote. E io, che ero presente ed ero ordinato sacerdote sebbene ancora non avessi celebrato la messa, ho capito che il beato Padre faceva per me questo ragionamento, poiché questo conflitto era quello che si agitava in me, punto per punto, come il Padre lo raccontava. Donde io ne ricevetti ammirazione per il Padre e giovamento per la mia anima". Ciò che ancor più colpiva era però il suo "ragionare" nell'Oratorio: "Chi voglia farsi un'idea del predicare di lui - scrive il cardinale Capecelatro - deve risalire su fino a Gesù Cristo e ricordare la semplicità, la bellezza e la facilità grande delle parabole evangeliche". Marcello Ferro, tra gli altri, descrive gli incontri in cui san Filippo, esponendo la Parola di Dio, come un "Socrate cristiano", coinvolgeva i presenti: "Da quando mi posi nelle sue mani, intorno al 1553, mi sono trovato molte volte presente quando il beato Filippo, cominciava a parlare, o proponeva qualche cosa di spirituale e faceva dire agli astanti il loro parere". Era toccante il fervore di Filippo: "Si vedeva - ricorda un teste - che nel parlare delle cose di Dio andava tutto in spirito, e molte volte l'ho visto che tremava e si muoveva facendo tremare anche il letto (...) a volte sembrava che tremasse la camera stessa". Il fenomeno era iniziato con la misteriosa effusione di Spirito Santo che Filippo ricevette, ancora laico - sarebbe stato ordinato sacerdote solo nel 1551, a trentasei anni - nell'imminenza della Pentecoste del 1544. Di quell'avvenimento egli custodì gelosamente il segreto - secretum meum mihi diceva - fin quasi al termine della sua vita, ma non sempre fu in grado di nascondere gli improvvisi calori, i tremiti, le estasi e le impressionanti palpitazioni del cuore di cui l'esame autoptico evidenziò l'enorme dilatazione. Una prorompente commozione accompagnava spesso il fervore, testimonia, tra i molti, Marcello Vitelleschi - "Io ho visto molte volte il Padre piangere, perché non si poteva trattenere" - e l'abate Marco Antonio Maffa attesta che ciò accadeva anche nella predicazione del Padre in chiesa: "L'ho sentito molte volte predicare (...) e come aveva detto dieci parole incominciava a versare lacrime nel parlare dell'amore di Dio, al punto che doveva interrompersi". Fu questo il motivo per cui, negli ultimi anni della vita, non parlò più in pubblico. L'ultima volta che cercò di predicare è ricordata dai testi con particolare commozione: "Mi ricordo ancora - testimonia Alessandro Illuminati, il 2 settembre 1595 - che, circa sei anni sono, mentre si facevano sermoni nell'oratorio il padre salì su la banca da sermoneggiare con tanto spirito, et venne in tanta dirottura de piangere che non possette dire una parola, et discese giù senza dir altro, et mai più ci è salito". Da quel momento Filippo, che viveva della Parola di Dio, in modo ancor più efficace divenne tacito predicatore del Verbo, ripetendo, fin sul letto di morte: "Cristo mio, Signor mio, tutto è vanità. Chi vuol altro che non sia Cristo non sa quel che si voglia, chi cerca altro che Cristo non sa quel che cerca, chi fa e non per Cristo non sa quel che si faccia". Schola beati Patris sarà detto dal Gallonio e dai primi oratoriani il cammino dei discepoli di padre Filippo ed il metodo dell'Oratorio, che nell'ascolto della Parola di Dio, nella preghiera, nella assidua pratica sacramentale, nell'ascetica dell'umiltà come base per l'esercizio delle virtù ha il proprio punto di forza. Senza proclami ufficiali, in tutta semplicità, l'Oratorio assunse il volto della comunità apostolica descritta dagli Atti, come testimoniano, tra i primi, Cesare Baronio e Francesco M. Tarugi: "Sembrò riapparire, in relazione al tempo presente, il bel volto della comunità apostolica", "la rinnovazione dello spirito che ebbero i cristiani della primitiva Chiesa".
(©L'Osservatore Romano - 25-26 maggio 2009)
L'unica radice di fede e scienza - di Giuseppe Betori Arcivescovo metropolita di Firenze – L’Osservatore Romano, 26 maggio 2006
Sono lieto che a Firenze si svolga il convegno internazionale di studi su "Il Caso Galileo", una rilettura storica, filosofica e teologica, pensato e organizzato dalla Fondazione Niels Stensen dei padri gesuiti, in occasione delle celebrazioni dell'Anno internazionale dell'astronomia indetto per il 2009 dall'Assemblea generale delle Nazioni unite. La rilevanza del convegno è manifestata già dall'adesione di ben 18 istituzioni nazionali e internazionali, dal Pontificio Consiglio della Cultura all'Accademia dei Lincei, dalla Pontificia Accademia delle Scienze e dalla Specola Vaticana alle Università di Firenze, Padova e Pisa e a numerose altre prestigiose istituzioni, storicamente coinvolte nella "vicenda galileiana". Ma anche l'ampiezza dei temi affrontati e la partecipazione dei massimi studiosi mondiali - storici, filosofi e teologi - conferisce al convegno caratteristiche uniche. Vi sono quindi tutte le premesse per un riesame sereno e obiettivo del "Caso Galileo", di quella "tragica reciproca incomprensione" e "doloroso malinteso" - come ribadiva Giovanni Paolo II nel 1992 - che hanno portato alla condanna non solo del fondatore della scienza moderna, ma di una delle menti più geniali dello scorso millennio. Purtroppo questo "doloroso malinteso" è spesso stato erroneamente interpretato come "il riflesso di una opposizione costitutiva tra scienza e fede". Mi auguro che questo evento mostri l'infondatezza di tale opinione. Spero in particolare che la celebrazione dell'anno internazionale dell'astronomia e la memoria della vita, delle opere e dell'ingegno di Galileo, favoriscano una ripresa e una riproposizione creativa del fondamentale dialogo tra ragione e fede, nella prospettiva di una permanente e costruttiva collaborazione tra la Chiesa e le istituzioni di ricerca scientifica, di sviluppo economico e di promozione sociale. La fede non cresce con il rifiuto della razionalità, ma si inserisce su un orizzonte di ragionevolezza più ampio. La stessa ragione, senza la fede, rischia di ridursi a calcolo e a esclusiva valutazione di conflitti di interessi, spesso ignara o cieca di fronte a vitali interrogativi, a fondamentali valori e a drammatiche situazioni umane. Per questo il dialogo tra ragione e fede deve continuare. La natura estremamente complessa e, a volte, inedita delle problematiche etiche, sociali e politiche sollevate dai rapidi sviluppi delle ricerche scientifiche e dalle applicazioni tecnologiche contemporanee, nell'ambito di un processo di crescente globalizzazione e interdipendenza economica, esigono infatti libertà interiore e buona volontà da parte di tutti, credenti e non credenti. In questa prospettiva, l'inaugurazione del convegno internazionale nella solenne maestosità della basilica di Santa Croce, dove risiede la tomba di Galileo, alla presenza del presidente della Repubblica, dei rappresentanti delle istituzioni aderenti e di numerose autorità culturali, politiche e religiose, assume non solo un'alta valenza culturale e simbolica, ma indica che sussistono le condizioni per una costruttiva condivisione di responsabilità, nella consapevolezza dei rispettivi ruoli e compiti.
(©L'Osservatore Romano - 25-26 maggio 2009)
DIBATTITO/ Giannino: ma quale etica, a Milano servono uomini - Oscar Giannino - martedì 26 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Caro direttore,
l’appello del cardinale di Milano ha suscitato vasti echi, ma contemporaneamente ha confermato un’elevata incomunicabilità. Un’incomunicabilità che è ormai “storica”, per molti versi. Che cosa voglio dire? Intendo questo: il punto non è rispondere al cardinale se Milano abbia o meno una forza residua purchessia di etica pubblica e privata, nella vita delle sue istituzioni come nella pluralità di attività messe in campo dal privato sociale di ogni ispirazione, forma e risorse. Il punto, come al solito quando si parla di cristianesimo e di ruolo della Chiesa, è di fare una cosa che da un paio di secoli non siamo più abituati a fare, soprattutto quando si hanno titoli di studio elevati e si esercitano professioni di spicco: cioè prenderlo alla lettera. Dire testualmente se si reputi fondata oppure no l’analisi del pastore secondo il quale Milano si è allontanata da tempo e resta oggi troppo lontana da valori e iniziative ispirate non a un’etica pubblica qualunque, ma proprio a quella cristiana. Non ad altre.
Su questo tema, ho letto l’intervento di Giorgio Vittadini e naturalmente non me ne sono stupito, perché ai miei occhi è ovvio che egli colga al volo nel loro senso vero le parole del cardinale. Ho letto la risposta del sindaco Moratti, e naturalmente ho giustificato il fatto che al primo cittadino spetti in qualche modo dare una risposta rassicurante, collettiva e istituzionale, al di là di ogni letterale adesione allo spirito e alla sfida concreta del Cristo e del suo amore per l’uomo. Ma quando poi estendiamo lo sguardo ad altre risposte venute al Cardinal Tettamanzi, allora mi dico che no, non ci siamo proprio. Per farmi intendere, uso apposta l’intervento di colui al quale, pure, sua eminenza aveva esplicitamente dischiuso la porta con un grande ed esplicito riconoscimento: parlo di Marco Vitale.
Nel lungo e ispirato articolo di Vitale, ho ritrovato l’afflato di chi considera acquisito che la Milano morale da riscoprire sia naturalmente quella illuminista dei fratelli Verri. E figuratevi se posso avere qualcosa io in contrasto, cresciuto come sono a bozze compilate e corrette di Giovanni Spadolini su tutti i più sacri temi della storia patria milanese, dall’illuminismo appunto all’epopea del risorgimento. Epperò come si fa a negarlo, che l’eclisse della Milano pubblica negli ultimi decenni è vissuta e si è consolidata proprio dell’esangue scomparsa di figure capaci di incarnare quella tradizione? Chi la rappresenterebbe, oggi? Umberto Veronesi, medico e benefattore di vaglia ma cosmopolita scient-eticista? Quali banchieri schiettamente milanesi, sarebbero oggi il simbolo di un “fare finanza” incentrata sull’uomo? Gli economisti anglo-wasp della Bocconi? Le archi-star che edificano nel mondo opere e progetti nessuno dei quali si lega intimamente a un’idea “nostra” dell’uomo, e della sua necessità di condivisione?
Potrei continuare a lungo nell’elenco, ma ci siamo capiti. Il punto è che all’intellettualità milanese, che resta di primo livello nelle sue espressioni accademiche e professionali, come al comunque ricchissimo mondo dell’impresa e del commercio, viene facile rispondere al cardinale parlando in generale di eticismo più che di etica, e di meticciato multiculturale contro ogni eccesso leghista. Ma tutto ciò si nutre appunto di un relativismo condiviso. Quello che il pastore della Chiesa di Milano parli appunto in nome di un’etica qualunque, ridotta a legalità solidale contro legalità indifferente dell’uomo in quanto ossessionata dalla sicurezza.
Mi piace di pensare che il pastore di Milano, sempre così prudente, abbia messo da parte la tradizionale circospezione per vedere cosa sarebbe accaduto. Un appello quasi per “snidare” l’assenza del cristianesimo. Prima della miglior edificazione delle due città agostiniane, quella laica e quella di Dio, occorre ribadire che cosa per l’uomo con la “u” minuscola abbia comportato quello con la “U” maiuscola. Forse in questo modo si potrebbero scorticare ancora più a fondo le coscienze.
Oscar Giannino
MILANO/ Vittadini: la borghesia si deve svegliare - INT. Giorgio Vittadini - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Milano smarrita, senza cuore? Giorgio Vittadini, professore di Statistica alla Bicocca, fondatore della Compagnia delle Opere, oggi presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, ha un lieve sussulto. «Milano non è la Lombardia, non sono le valli, non è la Brianza. Il senso di solidarietà che c’è a Milano forse non c’è in tutta la regione».
Ha ragione il cardinale. C’è tanta generosità ma è sparita la borghesia?
La borghesia si deve svegliare. Se è illuminata, se è quella di prima, non disprezzi quello che nasce dal basso. L’appello del cardinale sarà ascoltato se questa borghesia si renderà conto dell’esistenza di un luogo che non ha generato lei stessa, e penso alle centinaia di associazioni sparpagliate in ogni periferia, e sarà capace di valorizzarlo.
Non vuole o non sa vedere?
È sempre più comodo non vedere. Se mi rendo conto del cambiamento, devo cambiare anch’io.
Dov’è il cambiamento?
Nelle periferie, soprattutto. Mentre dal dopo tangentopoli, c’è stata una paralisi totale, nell’illusione che bastasse una moralità costruita calata dall’alto, senza il coinvolgimento delle persone, per rinnovare la città, è dal basso che è nato il vero cambiamento. Con i don Colmegna, e non c’è n’è uno solo; il banco alimentare; i quartieri che erano degradati e ora sono al centro della rinascita della responsabilità nata dal basso.
Quindi?
Anche le istituzioni dovrebbero imparare a leggere chi si muove, catturare dal basso.
Milano è xenofoba o meticcia?
Assolutamente meticcia. Certi fenomeni, certe idee un po’ xenofobe, non sono di questa città. La nostra è la cultura del meticciato che prima ha fatto di noi persone in cui il milanese e il meridionale si confondono. E oggi per molti aspetti anche gli extracomunitari. Penso a quante parrocchie di rumeni, cattolici ortodossi, armeni, coreani, filippini che qui si raggruppano e hanno accoglienza.
Oggi si scivola sui temi come immigrazione, integrazione e povertà.
Milano è sempre stata la città della conciliazione delle idee e delle ideologie. Ed è un mondo che sente l’immigrazione e l’integrazione come una risorsa. E sente che la povertà va affrontata. Ma ha un approccio molto pragmatico.
Anche per l’Expo?
Spero non perda l’occasione di dare prova del suo pragmatismo. Abbiamo la soluzione qui per arrivare a tanti dei temi che stanno a cuore ad altri paesi. E se non siamo coscienti di questa ricchezza potenziale, facciamo harakiri.
(Pubblicato su Il Corriere della Sera ed. Milano del 23 maggio 2009)
MILANO/ I protagonisti invisibili di una città in pezzi - Luca Doninelli - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Sono stato colpito dalle parole che il card. Tettamanzi ha detto nell’intervista uscita sul “Corriere” alcuni giorni fa. Mi è parso che l’Arcivescovo di Milano spingesse la discussione sulla città – una discussione sicuramente più vivace rispetto a qualche anno fa, e questa è comunque una notizia positiva – un passo oltre certe ristrettezze di sguardo, che dominano spesso in questi casi: polemiche su particolari in fondo secondari, tecnicismi da burocrati, disegni astratti, e sempre, immancabilmente, gli “esperti” a dire la loro, come se uno sguardo umano sul destino della città fosse un problema da specialisti.
Le parole di Tettamanzi, misurate e lucide, tratteggiano una città fatta di pezzi lontani tra loro, senza una classe (in altri tempi era stata la borghesia a farsene carico) capace di prendersi cura dell’intera città. Una città che nel frattempo è cambiata radicalmente, in cui parole come “centro”, “periferia”, “hinterland” hanno cambiato significato. Una città, soprattutto, nella quale convivono novantotto etnie diverse (un record, a quanto dicono).
Quest’idea della lontananza domina l’immagine attuale della città. Non si tratta di un problema semplicemente amministrativo: si tratta di un problema antropologico. Gli amministratori possono fare molto, anche se spesso proprio gli amministratori sembrano essere i primi a non accorgersi della situazione. Un piano urbanistico, una riforma dei trasporti, la progettazione di nuove infrastrutture dipendono dall’idea di città che gli amministratori si sono fatta. Ma se spesso questa idea appare confusa (lo si vede dall’incertezza che domina proprio nei casi appena citati) è segno che il problema sta più a monte. Un amministratore sa dove deve andare quando percepisce una città che, a sua volta, sa dove vuole andare.
Questo, come vado dicendo da anni, è il malessere di una città, per altri aspetti magnifica, come Milano. Milano fa fatica a conoscersi, a conoscere il proprio presente. La mancanza di una classe capace di farsi carico dell’insieme, la mancanza di uomini, di facce, di esperienze nelle quali l’intera città si può riconoscere: questo è il suo tallone d’Achille.
Ascoltando l’amico Giovanni Oggioni, eccellente urbanista, mentre parlava a un gruppo di studenti, mi colpiva la sua insistenza su un concetto semplice: la necessità che tutti i punti della città siano raggiungibili in diversi modi, che il monocentrismo (cui si ispira ancora, ad esempio, la rete dei trasporti urbani) lasci il posto a una pluralità di “centri” cittadini, così che i cuori pulsanti della città siano molti e nessun punto (via, quartiere ecc.) sia distante da uno o più centri.
Questa idea del ravvicinamento mi ha molto colpito. Dicevo tra me: non si tratta solo di un principio urbanistico, ma di un principio di ordine generale. I singoli cittadini sono, in fondo, anche loro come quartieri. C’è chi è in contatto con tutta la città e la sa “usare” e chi ha difficoltà, è solo, spaesato, o perché anziano, o perché disoccupato, o perché straniero, e così via. Magari queste due tipologie così diverse vivono nello stesso palazzo, ai due lati dello stesso pianerottolo, e tutte le mattine si salutano e si augurano buona giornata. Ma senza nessun incontro.
Io non so offrire nessuna soluzione, ovviamente, a questo problema. C’è però un aspetto culturale della questione sul quale val la pena soffermarsi. Noi siamo tutti figli di una mentalità che ha pensato di poter supportare lo sviluppo della società con offerte sempre più specializzate, di settore. Su questo modello sono sorte iniziative pubbliche, locali per divertirsi, ristoranti, rassegne culturali, e così via. Persino i curricula e i colloqui di lavoro sono improntati a questo principio.
Ma il risultato di tutto questo è una città in cui i percorsi dei singoli intercettano sempre meno quelli degli altri. L’esempio che faccio sempre è quello della Giornata della Colletta Alimentare, che si celebra ogni novembre. In quell’occasione la città si accorge di bisogni che per il resto dell’anno non vede, non per cattiveria o egoismo, ma perché non li incontra.
Perciò, senza pretesa di risolvere problemi così grossi, il mio invito a tutti (a me stesso, a chi vive nel mio quartiere, ai miei amici, agli amministratori, agli intellettuali ecc.) è questo: salvaguardiamo quei luoghi (che sono sempre meno numerosi) nei quali i percorsi si incrociano, determinando – anche visivamente - una “macchia” di diversità nell’uniformità delle nostre solitudini. La progressiva scomparsa dei cinema dal centro cittadino è, per esempio, un cattivo segno, perché dove c’è un cinema c’è mescolanza sociale, e la mescolanza – anche semplice, come in un cinema, o in un bar-tabacchi – è il primo presidio, molto più efficace di mille provvedimenti “dall’alto”, contro il degrado della città
ASTRONOMIA/ Galileo e le carte segrete del Sant’Uffizio, una questione di verità storica - INT. Paolo Ponzio - martedì 26 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Una volta chiarito, come ha fatto Giovanni Paolo II nel celebre discorso del 1992, che quella tra Galileo e la Chiesa del suo tempo è stata «una tragica reciproca incomprensione» e che non c’è «un’opposizione costitutiva tra scienza e fede», restano ancora molti aspetti da studiare e approfondire circa il celebre “caso”. Così almeno ritengono i promotori del convegno internazionale di studi “Il caso Galileo. Una rilettura storica, filosofica, teologica”, che inizia oggi a Firenze e si svolgerà fino al 30 maggio.
Il convegno, che ha avuto l’adesione di 18 Istituzioni nazionali e internazionali, è organizzato dall’Istituto Stensen dei gesuiti di Firenze diretto da Padre Ennio Brovedani sj, ideatore dell’iniziativa e vedrà gli interventi dei massimi esperti e studiosi mondiali del tema (teologi, storici, filosofi), tra i quali George Coyne, Evandro Agazzi, Claus Arnold, Paolo Prodi, Adriano Prosperi, Annibale Fantoli, Jean-Robert Armogathe, Horst Bredekamp, Michele Ciliberto e Paolo Galluzzi. I lavori si terranno nel Palazzo dei Congressi ma avranno oggi un’inaugurazione straordinaria nella suggestiva cornice della basilica di Santa Croce (dove si trova la tomba di Galileo), con le lectiones magistrales di Nicola Cabibbo (presidente della Pontificia Accademia delle Scienze) e Paolo Rossi (professore emerito di Storia della Scienza dell'Università degli Studi di Firenze), alla presenza del capo dello stato Giorgio Napolitano.
Al professor Paolo Ponzio, membro del comitato scientifico del convegno, abbiamo rivolto alcune domande all’inizio di questa intensa settimana.
Un nuovo convegno sul caso Galileo: c’è ancora qualcosa da dire? Ci sono novità nelle ricerche?
Il IV centenario delle osservazioni astronomiche di Galileo, è stato salutato come una ricorrenza interessante per poter mettere di nuovo al centro quale sia stato l’apporto scientifico ed epistemologico dello scienziato italiano più conosciuto al mondo. In particolare, il convegno fiorentino su Galileo ha una specificità del tutto nuova: finalmente dopo anni, anzi secoli di contrapposizione, si è riusciti a far dialogare istituzioni accademiche tra loro distanti e, soprattutto, a far dialogare un tavolo di studiosi che provenivano da differenti estrazioni dottrinali. Nel caso di Galileo, poi, le ricerche sempre più specifiche e analitiche sono caratterizzate non solo da novità di ritrovamenti documentari e filologici, bensì anche da un nuovo approccio all’intero “caso Galileo”. Da questo punto di vista, è innanzitutto una grande novità il poterne parlare senza apparenti steccati o vicendevoli smentite. Certamente in questa direzione non si può dire che vi siano già sintesi interessanti ed esplicative, ma iniziali tentativi.
Quali sono le piste di ricerca storica più interessanti e promettenti di risultati?
Il rinnovarsi degli studi di Galileo, in questi ultimi vent’anni, è stato caratterizzato, da un punto di vista storico, da un evento particolarmente importante: l’apertura dell’Archivio segreto del Sant’Uffizio. Se certamente si può dire, senza ombra di smentite, che i documenti del processo del 1633 erano noti nella loro completezza, non tutto era ancora chiaro agli storici, e tanti fraintendimenti sono ancora nell’opinione di tutti. Un esempio su tutti: nel primo processo del 1616, cosa è realmente accaduto? La chiesa ha condannato il copernicanesimo come eretico? I documenti, ora a nostra disposizione ci indicano che la Chiesa – in quell’occasione – ha saputo leggere i segni dei tempi, non condannando formalmente l’ipotesi eliocentrica, ma mettendo all’indice donec corrigatur (vale a dire, sin tanto che non fosse stato corretto) l’opera copernicana De revolutionibus orbium coelestium. Nessuna procedimento del Sant’Uffizio fu, in quell’occasione, preso nei confronti dello scienziato pisano: solo un ammonimento privato del cardinal Bellarmino (che Galileo chiese gli venisse notificato per iscritto) a non insegnare come reale la dottrina copernicana ma solo come ipotesi. Nei fatti, Galileo fu ben contento di tornarsene a Firenze con quest’unico avvertimento personale.
Lei in particolare di cosa si è occupato più da vicino?
È oramai da più di dieci anni che mi sono imbattuto nel “caso Galileo” e nella sua battaglia pro Copernico, cercando di scorgerne i nessi con la teologia del tempo. Nella storiografia galileiana del XX secolo – forse in conseguenza delle posizioni positiviste dello scorso secolo – le varie interpretazioni proposte hanno da sempre celato al proprio interno una forte debolezza nella novità del giudizio, frutto di una mancanza di serenità e di una scarsa obiettività. La caratteristica di questi studi sembra essere stata la presentazione di argomentazioni che ripropongono, sotto una veste di apparente originalità, vecchie e ormai superate tesi apologetiche. E tale carenza di originalità e rivestimento apologetico sono gli ingredienti non solo di larga parte della storiografia galileiana di matrice cattolica, ma anche - è bene ricordarlo - di quella più propriamente “laica”. Il tentativo che ho cercato sempre di proporre è stato quello di far parlare i documenti a nostra disposizione, intrecciandoli con il contesto generale sia teologico che filosofico, fornendo – per quanto possibile – tutti quegli elementi che facilitassero lettore a formulare un suo giudizio sull’intera vicenda galileiana.
Su cosa verterà il suo intervento al convegno?
L’intervento programmato durante il Convegno verterà su quelle teologie che in modo diretto e indiretto hanno influenzato e interloquito con il processo al copernicanesimo del 1616, attraverso le figure di Roberto Bellarmino, Paolo Antonio Foscarini e Tommaso Campanella. Tre teologi e tre modalità del tutto differenti di risolvere il problema del nesso tra scienza galileiana ed esegesi biblica. Ma, anche qui, occorre forse iniziare con una domanda semplice ma assolutamente decisiva: in che modo le nuove teorie scientifiche entrano all’interno delle dottrine teologiche del tempo? Vi è un problema “Copernico”, o tale questione nasce da ciò che accade all’indomani del Sidereus Nuncius? E quali sono gli strumenti concettuali dei teologi? In che modo si configura il rapporto tra scienza e fede nel XVII secolo? Solo rispondendo a tali domande si potrà, poi, giungere a comprendere scelte e decisioni, a volte, così lontane da quella che è il nostro comune modo di recepire tale problematica.
Come avete articolato il programma della settimana?
Il programma del Convegno è articolato secondo una prospettiva storica. Si inizia mercoledì 27 maggio con le relazioni sul processo del 1616 per concludere venerdì 29 maggio con le recezioni del “caso Galileo” nel XX secolo. I due appuntamenti iniziali e finali – il primo in Santa Croce con le relazioni magistrali di Nicola Cabibbo e Paolo Rossi, e il secondo a Villa Gioiello, ad Arcetri con la tavola rotonda conclusiva – sono state pensate per un pubblico più vasto e sono aperte a tutti.
Cosa si aspetta dall’evento conclusivo, che ha come titolo “Galileo oggi”?
A questa domanda mi piacerebbe rispondere solo al termine del convegno, nella convinzione che la realtà risponde sempre più adeguatamente di ogni discorso preventivo e di ogni aspettativa indefinita. È vero, tuttavia, che il convegno ha avuto una lunga preparazione, non sempre facile, ma – alla fine – condivisa da tutti i componenti del Comitato scientifico. E questo, mi sembra che possa già essere considerato un primo timido risultato. C’è, poi, anche una speranza: che si possa arrivare, col tempo, a una sempre maggiore serenità, giungendo a riconoscere quelle «incomprensioni che hanno causato l’aspro e doloroso conflitto» e alla «composizione onesta e leale dei vecchi contrasti» invocata cui Giovanni Paolo II nel lontano 1979.
a cura di Mario Gargantini
1) Madonna di Medjugorje: messaggio del 25 maggio 2009 - Cari figli, in questo tempo vi invito tutti a pregare per la venuta dello Spirito Santo su ogni creatura battezzata, cosicchè lo Spirito Santo vi rinnovi tutti e conduca sulla via della testimonianza della vostra fede voi e tutti coloro che sono lontani da Dio e dal suo amore. Io sono con voi e intercedo per voi presso l’Altissimo. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
2) Su ilsussidiario.net Segnaliamo il video dell´incontro organizzato dal Centro Culturale di Milano con Don Julian Carron "L´esperienza della famiglia. Una bellezza da conquistare di nuovo"
3) L’Europa di Benedetto - Mario Mauro - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
4) SPAGNA/ Sull’aborto Zapatero prepara una mossa vincente - Redazione - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
5) TESTIMONI/ Quello che non dicono sull’arresto di Aung San Suu Kyi - Paolo Nessi - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
6) Cardinale Bagnasco: non c’è contrasto tra carità e verità - Il Presidente della CEI spiega che la Chiesa è molto di più che un'agenzia umanitaria - di Antonio Gaspari
7) Sgomento in Nepal per una bomba contro una Cattedrale cattolica - Attentato attribuito agli estremisti induisti
8) A scuola di predicazione da Filippo Neri - Semplici ed efficaci per andare dritti al cuore - di Edoardo Aldo Cerrato - Procuratore generale degli oratoriani – L’Osservatore Romano, 26 maggio 2009
9) L'unica radice di fede e scienza - di Giuseppe Betori Arcivescovo metropolita di Firenze – L’Osservatore Romano, 26 maggio 2006
10) DIBATTITO/ Giannino: ma quale etica, a Milano servono uomini - Oscar Giannino - martedì 26 maggio 2009 – ilsussidiario.net
11) MILANO/ Vittadini: la borghesia si deve svegliare - INT. Giorgio Vittadini - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
12) MILANO/ I protagonisti invisibili di una città in pezzi - Luca Doninelli - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
13) ASTRONOMIA/ Galileo e le carte segrete del Sant’Uffizio, una questione di verità storica - INT. Paolo Ponzio - martedì 26 maggio 2009 – ilsussidiario.net
L’Europa di Benedetto - Mario Mauro - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto parla di Benedetto. Quattro anni dopo il celebre “discorso di Subiaco”, quando l’allora Cardinale Ratzinger aveva presentato la sua lectio magistralis sull’Europa, il Santo Padre è tornato ieri a parlare di San Benedetto da Norcia, figura esemplare e Santo patrono dell’Europa. Nel monastero di Montecassino il Papa ha trovato i simboli dell'altro “Benedetto”, padre del monachesimo e propugnatore dell'evangelizzazione nel nostro continente, che oggi può idealmente rappresentare il baluardo a cui è ancorata la nostra tradizione millenaria.
“Ora et labora” dicevano - e dicono tuttora - i benedettini. Su questo concetto il Papa ha intessuto un messaggio che ha toccato i temi più attuali. Nessun salto nel passato, ma una lucida riflessione su quanto sta accadendo oggi. Ha espresso la sua solidarietà verso coloro che più di tutti stanno pagando il dazio imposto dalla crisi: i precari, i disoccupati e i giovani senza lavoro. Ha esortato a creare «nuovi posti di lavoro a salvaguardia delle famiglie, fortemente insidiate nelle radici stesse della loro istituzione».
L’Europa può trovare strategie per risolvere l’emergenza occupazione soltanto se sarà capace di riconoscere le proprie radici, perché per creare nuove possibilità occupazionali e superare l’attuale contesto di crisi occorre soprattutto lottare contro forme di egoismo e cercare di tutelare in primo luogo i giovani e le famiglie.
San Benedetto con una “regola” fatta di lavoro, cultura e preghiera contribuì a tirar fuori l’Europa da un periodo di profonda crisi. Il Papa ha riportato sotto i nostri occhi un valido esempio per rispolverare una strategia semplice ma efficace: guardare alle nostre radici mettendo tutti insieme il peso di cui siamo capaci sulla stessa mattonella perché nessuno rimanga indietro.
La dignità umana, infatti, viene prima di tutto. È per quella dignità che proprio nel nostro continente è stata calpestata milioni di volte dalle atrocità delle ideologie che le istituzioni sono pronte a battersi, facendosi garanti e mai padrone. È per questo motivo, nella memoria delle vite che la guerra ha spezzato, che il Santo Padre ha visitato ai cimiteri di guerra, ricordando così i caduti di tutte le nazioni e di tutti conflitti.
Tutto ciò ha forse a che fare con l’Europa, con le sue istituzioni e con i suoi cittadini? La fedeltà e il riconoscimento delle radici cristiane non potrebbero contribuire nella costruzione di un'Europa unita e solidale, fondata sulla ricerca della giustizia e della pace? Forse, per noi abituati a vivere in un clima privo di conflitti civili o di popoli, la parola pace ha acquisito un significato che diamo ormai per assodato.
Ma c’è un rischio. Se l’Europa non sarà capace di una memoria storica che le permetta di mantenere viva la sua tradizione culturale e religiosa, non potrà nemmeno pretendere di avere un futuro. La miopia non ha mai portato molto lontano. L’Europa è stata veramente se stessa e profondamente grande nel creare forme di autentica civiltà e progresso dei popoli a livello universale, solo nel momento in cui ha trasmesso quei valori costitutivi che le provenivano dalla fede cristiana, dopo averli fatti diventare patrimonio di cultura e identità di popoli.
Purtroppo la storia recente ci ricorda che non sempre le istituzioni sono state capaci di riconoscere il loro percorso pregresso. Ed è una stranezza il fatto che l’Europa rifiuti il riferimento alle sue radici, mentre gli Stati Uniti ad esempio, non hanno mai avuto il problema di riferirsi a Dio.
L’Europa è nata cristiana e solo nella misura in cui rimarrà tale potrà pensare di conservare appieno le proprie idealità e il proprio apporto originale alla costruzione della civiltà contemporanea. Per comprenderlo a fondo è necessario ritornare al IV secolo quando, durante la grave crisi dell’Impero romano, iniziò a svilupparsi la Chiesa, come nuovo soggetto storico, culturale e politico.
Il monastero di Montecassino quattro volte distrutto e quattro volte ricostruito è il simbolo di questa Europa che, pur essendo stata minata più volte alle sue fondamenta, è ancora oggi in piedi. Ha sopportato guerre, ha visto la distruzione, è più volte stata messa in ginocchio, ma oggi è salda ed è stata capace di assicurare a noi e ai nostri figli oltre sessant’anni di pace. È per questo che vogliamo difenderla, anche nel ricordo di San Benedetto.
La visita di Benedetto XVI alla vigilia di un importante appuntamento che coinvolge i cittadini dei Ventisette Stati Membri ci sprona a proseguire sulla strada tracciata dai padri del nostro continente e a batterci affinché, soprattutto ai giovani, sia garantito un avvenire di pace e sviluppo.
SPAGNA/ Sull’aborto Zapatero prepara una mossa vincente - Redazione - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Sul tema dell’aborto, il Psoe ripropone la strategia che gli ha permesso di portare a termine lo Statuto della Catalogna. Alcune voci critiche si cominciano a sentire dentro al partito di Zapatero già all’inizio dell’iter parlamentare. Più avanti arriveranno i cambiamenti opportuni per appianare le discrepanze interne e per accusare l’opposizione di essere retrograda, avendo già modificati i temi per cui si discuteva.
Lo si vede già all’interno del Partito socialista. Che le ragazze di 16 anni non debbano consultare i genitori prima di abortire non piace, tra gli altri, ai presidenti dell’Estremadura e di Castiglia-La Mancha. Lo ha riconosciuto la stessa Leire Pajín (segretaria del Psoe) presentando la campagna socialista per le elezioni europee. Alcuni aspetti possono generare dei dubbi, ha detto, perché forse non sono stati spiegati bene. I punti chiave dello sviluppo della norma li hanno portati avanti sia il segretario generale del gruppo socialista al Congresso, Ramón Jáuregui, sia il ministro dell’Industria, José Blanco. Tutto è possibile e non sono da scartare “mitigazioni”.
Quando lo Statuto della Catalogna fu approvato dal Parlamento catalano, non mancarono voci di socialisti che si lamentavano. Rodríguez Ibarra (allora presidente dell’Estremadura) uscì da una riunione con Zapatero nell’ottobre del 2005 certo che il testo sarebbe cambiato e che la Catalogna non sarebbe stata definita una nazione. L’allora ministro della Difesa José Bono confidava nella capacità del presidente del Governo per non arrivare a un testo incostituzionale. Altri, come l’allora Ambasciatore della Santa Sede Francisco Vázquez, sostenevano che la Catalogna non è una nazione. Cos’è successo dopo? Una riunione tra Zapatero e il presidente del CiU (coalizione nazionalista catalana) sistemò le cose, con una “piroetta” linguistica e l’apparizione del controverso termine nel preambolo dello Statuto.
Cosa possiamo aspettarci quindi dall’iter della legge sull’aborto? Certamente una nuova astuzia scritturale farà sì che risulti conveniente che le adoloscenti che vogliono abortire lo debbano comunicare ai propri genitori, ma a questo si aggiungerà una postilla: andrà rispettata la volontà della ragazza. Chi non sarà d’accordo non potrà farci niente. Alla fine resterà nella legge ciò che aveva generato malumori.
Si usa quindi la stessa strategia per portare avanti due delle leggi più controverse del Governo Zapatero. Nella prima legislatura, una manovra per mettere in crisi la convivenza tra le Regioni. Nella seconda legislatura, un’altra operazione che dimostra che l’umano non trova difesa con l’attuale esecutivo.
(Roberto de la Cruz)
TESTIMONI/ Quello che non dicono sull’arresto di Aung San Suu Kyi - Paolo Nessi - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Di Aung San Suu Kyi si sta parlando da alcuni giorni. L’ormai nota vicenda ha fatto in modo che balzasse agli onori della cronaca: a causa dell’incursione nella sua abitazione di un bizzarro reduce del Vietnam che ha tentato di portarle una Bibbia, ora lei rischia di passare 5 anni in carcere. Le condizioni degli arresti domiciliari ai quali era sottoposta, (i termini sarebbero scaduti il 27 maggio), le impedivano, infatti, di ricevere ospiti. In ragione di questo episodio, i tg le stanno dedicando quotidianamente alcuni secondi al giorno, i giornali qualche spazio in più. Peccato che i media, in generale, stiano omettendo sbadatamente i particolari più significativi della vicenda e della persona. A iniziare dal contesto in cui tutto ciò avviene.
Della Birmania – oggi Myanmar - si dice, genericamente, che sia un Paese sottoposto a dittatura. Non basta. Dittatura, sì. Ma una delle più feroci al mondo. Lì un cruento regime di sostanziale matrice marxista è al potere da decenni. Il carcere, la tortura e la morte per i dissidenti politici sono all’ordine del giorno. Alla “normale amministrazione” comune a tutti i regimi si aggiungono alcune pratiche che lo rendono particolarmente scellerato. Per dirne una, ogni famiglia birmana deve destinare almeno un proprio membro ai lavori forzati. Sia pure una donna o un bambino.
Il padre di Suu Kyi era il ”Bogyoke” (maggior-generale) Aung San. Nel 1942 costituì l’Esercito d’Indipendenza Birmano e liberò il Paese dal giogo britannico, prima, e giapponese più tardi. Amatissimo dalla popolazione che lo considera tuttora il padre della moderna Birmania, fu assassinato nel ‘47. Suu Kyi entra in gioco nell’’88. Conduceva da anni una serena esistenza in Inghilterra, pluri-laureata, sposata con un professore di Oxford e madre di due bambini. Tornata in patria per passare gli ultimi giorni con la madre morente, assistette all’instaurazione del regime militare che impose la via birmana al socialismo. Quell’anno i soldati spararono su una folla immensa di manifestanti inermi, uccidendone migliaia. Il generale Aung San morì quando lei era troppo piccola per averne dei ricordi. Ma il semplice fatto di essere figlia di suo padre la faceva sentire responsabile della propria gente.
Decise di rimanere in Birmania. Fondò un partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, che il 27 maggio del ‘90 ottenne una maggioranza schiacciante all’assemblea costituente: 392 membri, su un totale di 485. A quel punto lo Slorc (Consiglio di restaurazione della legge e dell’ordine di stato), con l’avallo dell’esercito, invalidò sfacciatamente le elezioni. Tutti i membri dell’Nld furono incarcerati e Suu Kyi messa agli arresti domiciliari. Liberata e incarcerata a più riprese, ogni volta che poteva, girava in lungo e in largo il suo Paese. Incontrava la gente nei villaggi per esortarli a non avere paura e teneva dalla sua casa di Rangoon i “discorsi della Domenica” di fronte a migliaia di sostenitori. Al primo erano presenti mezzo milione di ascoltatori.
E in tutta la sua attività politica o nei suoi scritti, la stessa inaspettata nota dominante: la religione e la tradizione come elemento di unità della Birmania. Per il suo popolo Suu Kyi diventa una sorta di guida spirituale. E, in quanto tale, un capo politico. Questo può far specie nell’Occidente secolarizzato. Ma la forza della leader birmana sta nel non aver mai respinto dalla propria vita pubblica riferimenti alla fede e alla trascendenza. «Per garantire al popolo la frescura protettrice della pace e della sicurezza, i governati devono osservare i precetti di Buddha», scrisse in un saggio intitolato In Quest of Democracy. Tutto ciò è insolito per la mentalità europea, abituata a considerare valori e ideali come frutto di processi storici. Una visione, invece, quella di Suu Kyi, che ha sempre considerato l’uomo nell’integralità dei suoi fattori, senza esaurirlo nelle proprie componenti sociali o economiche. «La dimensione spirituale» disse in uno dei suoi discorsi «diventa particolarmente importante in una lotta in cui convinzione profonda e impegno mentale sono le armi principali contro la repressione armata».
Religiosa e devota alla propria storia. E per questo in grado di elaborare un laicissimo pensiero politico: «La fonte del coraggio e della resistenza di fronte al potere scatenato è generalmente una salda fede nella sacralità dei principi etici combinata con la certezza storica che, malgrado tutte le sconfitte, la condizione umana abbia per fine ultimo il progresso spirituale e materiale. Non si possono accantonare come obsoleti concetti quali verità, giustizia e solidarietà, quando questi sono gli unici baluardi che si ergono contro la brutalità del potere». scrisse in Liberi dalla Paura, uno dei suoi saggi più noti. A che è valso tutto ciò? Per lo meno cinquanta milioni di Birmani credono ancora nella libertà. E sono convinti che prima o poi assumerà la forma politica della democrazia.
Cardinale Bagnasco: non c’è contrasto tra carità e verità - Il Presidente della CEI spiega che la Chiesa è molto di più che un'agenzia umanitaria - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 25 maggio 2009 (ZENIT.org).- Nel corso della prolusione alla 59a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), il Presidente dell'episcopato italiano, il Cardinale Angelo Bagnasco, ha spiegato che non c’è contrasto tra le opere di carità e l’affermazione dei principi dottrinali.
Intervenendo a Roma, questo lunedì, l’Arcivescovo di Genova ha riportato la domanda che alcuni fanno: “se non sia opportuno concentrarci sul terreno della carità, dove s’incontrano facili consensi, piuttosto che in quello assai più contrastato della bioetica”.
Ed ha risposto sottolineando che “la carità e la verità sull’uomo” si ritrovano nella persona di Gesù, “il suo essere buon samaritano della storia e per ciò stesso rivelatore della cifra inconfondibile di ogni esistenza umana”.
Il Presidente della CEI ha messo in guardia nei confronti di “fraintendimenti e deviazioni” se non si è costantemente richiamati al valore incomparabile della dignità umana, che è “minacciata dalla miseria e dalla povertà almeno quanto è minacciata dal disconoscimento del valore di ogni istante e di ogni condizione della vita”.
“Non si può assolutizzare una situazione di povertà a discapito delle altre; ma non si può nemmeno distinguere tra vita degna e vita non degna”, ha ribadito.
Secondo il porporato, “non c’è contraddizione tra mettersi il grembiule per servire le situazioni più esposte alla povertà e rivolgere ai Responsabili della democrazia un rispettoso invito affinché in materia di fine vita non si autorizzi la privazione dell’acqua e del nutrimento vitale a chi è in stato vegetativo”.
“È una questione di coerenza - ha rilevato il Cardinale Bagnasco - rispetto alle diverse stazioni della 'via crucis' che l’uomo di oggi affronta, la Chiesa non fa selezioni (…) non usa l’ideale della fede in vista di un potere” le interessa piuttosto ampliare i punti di incontro tra razionalità e disegno divino sulla vita per una società veramente umana”.
A questo proposito il Presidente della CEI ha denunciato “il rischio strisciante di eugenetica che potrebbe insinuarsi nel nostro costume a causa di interpretazioni della legge 40/2004, che forzosamente vengono avanzate sul piano della prassi come su quello giurisprudenziale”.
Dopo aver ribadito il sostegno al serio impegno del laicato circa il manifesto “Liberi per vivere”, l’Arcivescovo di Genova ha affermato che “il morire non può diventare un diritto che taluno invoca per sé o per altri” perchè se tale pretesa dovesse approdare nella legislazione e da qui attecchire nella mentalità corrente, le conseguenze “sarebbero fatali” anzitutto sul piano di “quegli autentici diritti umani che costituiscono il portato di una intera civiltà. Tra il cosiddetto 'diritto a morire' e gli altri diritti non vi è infatti alcuna omogeneità ontologica”.
“Se accettassimo l’accennata idea di un cattolicesimo inteso come religione civile - ha continuato il porporato -, o come 'agenzia umanitaria', e se completassimo tale visione con l’idea di una fede nuda, scevra da qualunque implicazione antropologica, allora davvero priveremmo la comunità umana di un apporto fondamentale e originale in ordine alla edificazione della stessa città dell’uomo”.
“Saremmo più poveri noi e sarebbe più povera la società - ha precisato il Presidente della CEI -. Ma soprattutto tradiremmo la consegna del Signore Gesù che è passato per le strade della Palestina 'beneficando e sanando' i bisognosi, come dicendo anche: Sta scritto: 'Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio' (Mt 4,4)”.
Per il Cardinale Bagnasco il destino della Chiesa è di “portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro fino a 'raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza'”.
Mentre, ha spiegato, “nella tendenza a ridurre il compito ecclesiale, e considerare le funzioni sociali come più rilevanti di quelle religiose, è difficile non vedere in azione una sorta di secolarismo edulcorato, ma non per questo forse meno subdolo, che – foss’anche senza volerlo – da una parte lusinga i cattolici e dall’altra li emargina”.
Riprendendo le parole di Benedetto XVI, l’Arcivescovo di Genova ha rilevato come la visione a-religiosa della vita e del pensiero porti alla marginalizzazione del cristianesimo, e mina le basi stesse della convivenza umana.
Si tratta di un fenomeno che “non lascia del tutto immuni le comunità cristiane” e “può cedere facilmente il passo ad un’atrofia ecclesiale e a un vuoto del cuore”
Il Presidente della CEI si è detto convinto che alla base di simili posizioni un po’ disincarnate, “s’annidi una cultura neo-illuministica per la quale Dio in realtà c’entra poco – forse nulla – con la vita pubblica: lo si lascia al massimo sopravvivere nella dimensione privata ed intima delle persone”.
“Ma il Vangelo annuncia che Gesù è Dio fatto uomo - ha aggiunto -, è pertinente alla storia e interessato al mondo. Ben lontano dall’essere allergico all’uomo e alla sua ragione, Egli è il suo più grande e fedele alleato: Cristo è veramente il grande 'sì' di Dio agli uomini!”
“Ecco, dunque - ha concluso il Cardinale Bagnasco -, perché vediamo con grande piacere l’iniziativa che, nella forma di un convegno internazionale sul tema 'Dio oggi', è stata messa in cantiere per il prossimo mese di dicembre dal Comitato per il Progetto culturale presieduto dal Cardinale Camillo Ruini”.
Sgomento in Nepal per una bomba contro una Cattedrale cattolica - Attentato attribuito agli estremisti induisti
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 25 maggio 2009 (ZENIT.org).- Dolore e sgomento sono i sentimenti che ha provocato questo sabato l'esplosione di una bomba durante la Messa nella Cattedrale dell'Assunzione a Dhobighat, alla periferia di Kathmandu (Nepal).
In quel momento nella chiesa c'erano circa 300 persone. Un adolescente e una donna sono morti, e i fedeli feriti sono più di una dozzina.
Si ritiene che l'attentato sia opera degli estremisti che chiedono la fine della libertà religiosa in Nepal, spiega la Caritas in un comunicato inviato a ZENIT.
Sulla scena del crimine sono stati infatti trovati degli opuscoli di un piccolo gruppo militante induista chiamato National Defence Army (Esercito di Difesa Nazionale), che ha rivendicato anche l'assassinio del sacerdote salesiano p. John Prakash, avvenuto nel luglio scorso nella zona orientale del Nepal. Il gruppo lotta per la restaurazione della monarchia induista, abolita nel 2008.
Il direttore di Caritas Nepal, p. Silas Bogati, stava celebrando la Messa al momento dell'attentato. "Non avremo mai immaginato che qualcuno potesse perpetrare un atto così codardo e uccidere e ferire tante persone. In Nepal c'è una buona armonia religiosa, ma qualche gruppo estremista sta cercando di disturbare questa realtà".
L'attacco è stato condannato dal Governo entrante e da molti partiti politici, così come da attivisti per i diritti umani, Chiese e gruppi religiosi.
La Chiesa ha organizzato preghiere congiunte questa domenica per cristiani, induisti, buddisti e musulmani.
"Preghiamo per esprimere la nostra solidarietà e la nostra tolleranza religiosa", ha detto p. Bogati. "L'attacco ha provocato paura tra i cristiani. Alcuni gruppi armati stanno cercando di disturbare l'armonia religiosa in Nepal, ma non ci riusciranno mai".
P. Pius Perumana, pro-Vicario Apostolico del Nepal, ha confessato all'agenzia Fides che la piccola comunità cattolica "è triste, amareggiata e scioccata. Siamo una comunità non violenta, pacifica, che ama il suo Paese".
"Quello che ci sorprende è che l'attentato sia stato realizzato senza alcun motivo, senza alcuna provocazione, senza alcun avvertimento. Crediamo che dietro questo gesto vi sia il tentativo di creare tensione fra le diverse comunità etniche e religiose del Nepal e aggiungere caos alla già difficile situazione sociale e politica in cui versa il Paese", ha aggiunto.
"La bomba aveva un forte potenziale di deflagrazione: le persone sono state sbalzate dal loro posto, i vetri della chiesa, distanti 15 metri dall'ordigno, sono andati in frantumi, gli arredi distrutti".
"Il boato dell'esplosione è stato udito fino a molto lontano - ha proseguito -. La gente era sotto shock, ha iniziato a fuggire, nella totale confusione. Nessuno comprendeva cosa stesse accadendo. La polizia è giunta subito sul luogo e ha formato un cordone per consentire i soccorsi e appurare che non vi fossero altri ordigni. La gente è stata subito evacuata dalla chiesa e i feriti condotti agli ospedali di Pata e Alka. L'interno della Cattedrale si presentava pieno di macchie di sangue, di bruciature, di segni di devastazione".
Secondo alcuni testimoni oculari, la bomba potrebbe essere stata collocata da una donna vestita con un sari nero. Aveva due borse che ha lasciato nel tempio chiedendo a uno dei fedeli di "custodirle per un minuto", e poi è uscita.
Il Nepal ha circa 27 milioni di abitanti, per oltre l'80% induisti. I cattolici sono 7.000, e ci sono circa 300 nuovi battezzati ogni anno. La comunità religiosa del Nepal è formata da 65 sacerdoti e 155 suore e gestisce 27 scuole in tutto il Paese, frequentate da più di 17.000 studenti.
Il forte impegno anche nel servizio sociale fa sì che la Chiesa cattolica sia molto apprezzata dalla popolazione nepalese.
A scuola di predicazione da Filippo Neri - Semplici ed efficaci per andare dritti al cuore - di Edoardo Aldo Cerrato - Procuratore generale degli oratoriani – L’Osservatore Romano, 26 maggio 2009
Nella preghiera litanica che il cardinale John Henry Newman compose delineando il volto e la missione di san Filippo Neri, l'invocazione Sancte Philippe, qui Verbum Dei cotidianum distribuisti esprime l'amore di Filippo per la Parola di Dio, ma anche la novità della predicazione quotidiana in un'epoca in cui essa era piuttosto occasionale, tanto che Antonio Gallonio, autore della prima biografia del santo, poté scrivere che Filippo "fu il primo che introdusse in Roma la parola di Dio cotidiana". Ciò che attirava all'Oratorio un numero crescente di persone, era, comunque, la semplicità e il modo familiare con cui egli, con evidente distanza dallo stile ampolloso e pieno di artifici retorici della sua epoca, trasmetteva ogni giorno la Parola di Dio. La preziosa eredità filippiana fu codificata negli Instituta della congregazione, approvati da Paolo V nel 1612: "Coloro che sono stati scelti per questo ufficio nutrono l'anima degli ascoltatori con un genere di predicazione veramente fruttuoso, adattando soprattutto le parole, con ordinata successione, alla comprensione del popolo, senza concedere nulla alla vuota pomposità e al vano applauso; e confermano l'insegnamento particolarmente citando gli esempi dei Santi e con fatti storici documentati. Eviteranno inoltre (...) tutti gli argomenti che si addicono più alle scuole che all'Oratorio". Già il primo testo costituzionale (1583) stabiliva che cibo fondamentale nella congregazione oratoriana fosse la Scrittura di cui si chiedeva una conoscenza profonda attraverso un perseverante contatto: percupimus eos qui publicis praedicationibus destinandi erunt Scripturae divinae paginas (...) diurna nocturnaque manu diligentissime pertractare. E gli scritti dei primi oratoriani, con la loro ricchezza di informazione e la penetrazione della Sacra Scrittura, mostrano quanto tale indicazione fosse diligentemente accolta. "Padre Filippo - si legge nell'Itinerario spirituale dell'Oratorio - con il suo metodo creò una vera scuola nell'ambiente di Roma, dove i predicatori ecclesiastici rivaleggiavano con i classici pagani. Il Santo insegnava che per predicare, bisogna prima far molta preghiera, dar molta importanza alla pratica della virtù, avere retta intenzione nello studio e ricorrere frequentemente agli esempi presi dalla vita della Chiesa e dei Santi. Padre Giuliano Giustiniani era solito dire che un prete di Congregazione doveva morire sopra uno di questi "tre legni": la predella dell'altare, il confessionale, la sedia dei ragionamenti". A questo metodo si ispirarono fin da subito i primi che Filippo Neri chiamò a coadiuvarlo nella tractatio Verbi Dei, poiché, come testimonia padre Pompeo Pateri, Filippo "volle che i suoi discepoli si abituassero allo stesso modo a annunciare la Parola di Dio, per ferire più i cuori degli ascoltatori che le orecchie". In qualche caso li educò alla semplicità, alla sincerità e a un rapporto di intima confidenza con gli ascoltatori anche con espedienti curiosi: al padre Agostino Manni, anima poetica e di grande sensibilità artistica, incline a farsi prendere la mano dalla vena letteraria, fece ripetere, ad esempio, per sei volte lo stesso elaborato sermone, tanto che i fedeli pensarono che quel padre non sapesse dir altro; a padre Francesco Maria Tarugi, che in un sermone parlò, con enfasi eccessiva e impeto degno della miglior retorica, sull'utilità della sofferenza, padre Filippo, dopo essersi a lungo agitato sulla sedia per fargli comprendere di rientrare nei giusti confini, disse pubblicamente, al termine, che nessuno di loro aveva ancora versato una goccia di sangue per Gesù Cristo. Per l'attrattiva che esercitava e per i frutti di sincera conversione che produceva, lo stile della predicazione filippiana si diffuse presto anche al di fuori dell'ambiente oratoriano dando il via al rifiorire della predicazione frequente nelle chiese romane: i domenicani della Minerva furono i primi ad assumerlo, fin dal 1562, per iniziativa del loro priore Vincenzo Ercolani, grande amico di padre Filippo; gli scolopi stabilirono nelle loro costituzioni che si usasse la stessa familiare eloquenza "di cui si servono i RR. pp. dell'Oratorio alla Vallicella"; fuori Roma, san Carlo Borromeo lo prescrisse ai padri oblati di Milano e san Vincenzo de Paoli lo raccomandò ai suoi missionari. Interessante, al riguardo, quanto riportato in una deposizione di padre Francesco Bozzio: "Avendo saputo che alcuni religiosi avevano adottato il tipo di predicazione che si faceva nel nostro Oratorio, e poiché un padre diceva che non era lecito usurpare quello che Padre Filippo aveva istituito, il Beato Padre rispose: oh se tutti fossero profeti..." I testi del processo di canonizzazione di Filippo Neri, editi da Giovanni Incisa della Rocchetta e da Nello Vian - verso i quali l'Oratorio conserva, e non solo per questo, un grato ricordo - sono ricchi di testimonianze sul ministero della predicazione di padre Filippo, il quale, già negli anni della giovinezza, aveva suscitato ammirazione parlando nella chiesa romana di San Salvatore in Campo, negli incontri della confraternita della Santissima Trinità. Prima di citarne alcune, merita ricordare quella contenuta in una lettera che egli ricevette da Napoli nel 1588, agli inizi di quell'Oratorio, fondato da padri provenienti dalla Casa di Roma: "Oggi - scrisse padre Antonio Talpa - il padre messer Francesco Maria [Tarugi] ha parlato familiarmente, poi ha parlato messer Giovenale [Ancina]. Io ne ho sentita tanta consolazione che non potrei dir di più: mi è sembrato di vedere l'Oratorio in quella purezza e semplicità che aveva a San Girolamo. (...) Desidererei che Vostra Reverenza non solo gli desse la sua approvazione, ma anche che glielo comandasse (...) Il frutto sarà certamente maggiore e minore la fatica, e, quel che più importa, si conserverà la forma di parlare propria dell'Oratorio e si trasmetterà ai posteri: altrimenti si perderebbe, ed è il bene più grande che la nostra Congregazione possiede". Nella risposta di Filippo Neri - diretta al Tarugi e affidata, come spesso accadeva, alla penna di Niccolò Gigli, molto caro al santo per il candore e la profonda sintonia di spirito - si legge una preziosa indicazione: "Le dico che il Padre ed i Deputati e gli altri sacerdoti di Congregazione si sono rallegrati quando hanno saputo che Vostra Reverenza ha parlato sopra il libro, secondo l'antico costume dell'Oratorio, quando in spiritu et veritate et simplicitate cordis si predicava, lasciando che lo Spirito Santo infondesse le sue virtù in bocca a chi parlava". Francesco M. Tarugi, ne era ben convinto: tracciando le linee programmatiche su cui sviluppare il testo delle Costituzioni, egli affermava infatti: "Si cerchi di mantenere l'Oratorio più con la devozione che con gli ornamenti del parlare"; e già qualche anno prima, scrivendo nel 1579 a Carlo Borromeo, aveva ricordato che l'Oratorio consiste "nel trattare ogni giorno il Verbo di Dio in modo familiare" precisando che la "familiarità" non doveva essere separata dalla "dignità dovuta" e la "semplicità" non doveva confondersi con la povertà dei contenuti, dal momento che scopo principale dell'Oratorio è "formare un uomo cristiano e tenerlo, con l'aiuto della Grazia, continuamente in esercizio". Nelle deposizioni dei testi al processo è presente il ricordo della predicazione di padre Filippo in chiesa, durante le celebrazioni, caratterizzata da fervore e commozione, ma anche da una speciale capacità di leggere negli animi che gli consentiva di parlare a tutti tenendo presente la situazione di ognuno. Vigerio Aquilino, che attesta di averlo sentito spesso sermoneggiare nella Chiesa Nuova, depone: "Una volta, mentre il Padre predicava pubblicamente, e credo che fosse l'anno 1583, raccontò dettagliatamente il caso di un conflitto spirituale molto stravagante, che diceva essere capitato ad un sacerdote. E io, che ero presente ed ero ordinato sacerdote sebbene ancora non avessi celebrato la messa, ho capito che il beato Padre faceva per me questo ragionamento, poiché questo conflitto era quello che si agitava in me, punto per punto, come il Padre lo raccontava. Donde io ne ricevetti ammirazione per il Padre e giovamento per la mia anima". Ciò che ancor più colpiva era però il suo "ragionare" nell'Oratorio: "Chi voglia farsi un'idea del predicare di lui - scrive il cardinale Capecelatro - deve risalire su fino a Gesù Cristo e ricordare la semplicità, la bellezza e la facilità grande delle parabole evangeliche". Marcello Ferro, tra gli altri, descrive gli incontri in cui san Filippo, esponendo la Parola di Dio, come un "Socrate cristiano", coinvolgeva i presenti: "Da quando mi posi nelle sue mani, intorno al 1553, mi sono trovato molte volte presente quando il beato Filippo, cominciava a parlare, o proponeva qualche cosa di spirituale e faceva dire agli astanti il loro parere". Era toccante il fervore di Filippo: "Si vedeva - ricorda un teste - che nel parlare delle cose di Dio andava tutto in spirito, e molte volte l'ho visto che tremava e si muoveva facendo tremare anche il letto (...) a volte sembrava che tremasse la camera stessa". Il fenomeno era iniziato con la misteriosa effusione di Spirito Santo che Filippo ricevette, ancora laico - sarebbe stato ordinato sacerdote solo nel 1551, a trentasei anni - nell'imminenza della Pentecoste del 1544. Di quell'avvenimento egli custodì gelosamente il segreto - secretum meum mihi diceva - fin quasi al termine della sua vita, ma non sempre fu in grado di nascondere gli improvvisi calori, i tremiti, le estasi e le impressionanti palpitazioni del cuore di cui l'esame autoptico evidenziò l'enorme dilatazione. Una prorompente commozione accompagnava spesso il fervore, testimonia, tra i molti, Marcello Vitelleschi - "Io ho visto molte volte il Padre piangere, perché non si poteva trattenere" - e l'abate Marco Antonio Maffa attesta che ciò accadeva anche nella predicazione del Padre in chiesa: "L'ho sentito molte volte predicare (...) e come aveva detto dieci parole incominciava a versare lacrime nel parlare dell'amore di Dio, al punto che doveva interrompersi". Fu questo il motivo per cui, negli ultimi anni della vita, non parlò più in pubblico. L'ultima volta che cercò di predicare è ricordata dai testi con particolare commozione: "Mi ricordo ancora - testimonia Alessandro Illuminati, il 2 settembre 1595 - che, circa sei anni sono, mentre si facevano sermoni nell'oratorio il padre salì su la banca da sermoneggiare con tanto spirito, et venne in tanta dirottura de piangere che non possette dire una parola, et discese giù senza dir altro, et mai più ci è salito". Da quel momento Filippo, che viveva della Parola di Dio, in modo ancor più efficace divenne tacito predicatore del Verbo, ripetendo, fin sul letto di morte: "Cristo mio, Signor mio, tutto è vanità. Chi vuol altro che non sia Cristo non sa quel che si voglia, chi cerca altro che Cristo non sa quel che cerca, chi fa e non per Cristo non sa quel che si faccia". Schola beati Patris sarà detto dal Gallonio e dai primi oratoriani il cammino dei discepoli di padre Filippo ed il metodo dell'Oratorio, che nell'ascolto della Parola di Dio, nella preghiera, nella assidua pratica sacramentale, nell'ascetica dell'umiltà come base per l'esercizio delle virtù ha il proprio punto di forza. Senza proclami ufficiali, in tutta semplicità, l'Oratorio assunse il volto della comunità apostolica descritta dagli Atti, come testimoniano, tra i primi, Cesare Baronio e Francesco M. Tarugi: "Sembrò riapparire, in relazione al tempo presente, il bel volto della comunità apostolica", "la rinnovazione dello spirito che ebbero i cristiani della primitiva Chiesa".
(©L'Osservatore Romano - 25-26 maggio 2009)
L'unica radice di fede e scienza - di Giuseppe Betori Arcivescovo metropolita di Firenze – L’Osservatore Romano, 26 maggio 2006
Sono lieto che a Firenze si svolga il convegno internazionale di studi su "Il Caso Galileo", una rilettura storica, filosofica e teologica, pensato e organizzato dalla Fondazione Niels Stensen dei padri gesuiti, in occasione delle celebrazioni dell'Anno internazionale dell'astronomia indetto per il 2009 dall'Assemblea generale delle Nazioni unite. La rilevanza del convegno è manifestata già dall'adesione di ben 18 istituzioni nazionali e internazionali, dal Pontificio Consiglio della Cultura all'Accademia dei Lincei, dalla Pontificia Accademia delle Scienze e dalla Specola Vaticana alle Università di Firenze, Padova e Pisa e a numerose altre prestigiose istituzioni, storicamente coinvolte nella "vicenda galileiana". Ma anche l'ampiezza dei temi affrontati e la partecipazione dei massimi studiosi mondiali - storici, filosofi e teologi - conferisce al convegno caratteristiche uniche. Vi sono quindi tutte le premesse per un riesame sereno e obiettivo del "Caso Galileo", di quella "tragica reciproca incomprensione" e "doloroso malinteso" - come ribadiva Giovanni Paolo II nel 1992 - che hanno portato alla condanna non solo del fondatore della scienza moderna, ma di una delle menti più geniali dello scorso millennio. Purtroppo questo "doloroso malinteso" è spesso stato erroneamente interpretato come "il riflesso di una opposizione costitutiva tra scienza e fede". Mi auguro che questo evento mostri l'infondatezza di tale opinione. Spero in particolare che la celebrazione dell'anno internazionale dell'astronomia e la memoria della vita, delle opere e dell'ingegno di Galileo, favoriscano una ripresa e una riproposizione creativa del fondamentale dialogo tra ragione e fede, nella prospettiva di una permanente e costruttiva collaborazione tra la Chiesa e le istituzioni di ricerca scientifica, di sviluppo economico e di promozione sociale. La fede non cresce con il rifiuto della razionalità, ma si inserisce su un orizzonte di ragionevolezza più ampio. La stessa ragione, senza la fede, rischia di ridursi a calcolo e a esclusiva valutazione di conflitti di interessi, spesso ignara o cieca di fronte a vitali interrogativi, a fondamentali valori e a drammatiche situazioni umane. Per questo il dialogo tra ragione e fede deve continuare. La natura estremamente complessa e, a volte, inedita delle problematiche etiche, sociali e politiche sollevate dai rapidi sviluppi delle ricerche scientifiche e dalle applicazioni tecnologiche contemporanee, nell'ambito di un processo di crescente globalizzazione e interdipendenza economica, esigono infatti libertà interiore e buona volontà da parte di tutti, credenti e non credenti. In questa prospettiva, l'inaugurazione del convegno internazionale nella solenne maestosità della basilica di Santa Croce, dove risiede la tomba di Galileo, alla presenza del presidente della Repubblica, dei rappresentanti delle istituzioni aderenti e di numerose autorità culturali, politiche e religiose, assume non solo un'alta valenza culturale e simbolica, ma indica che sussistono le condizioni per una costruttiva condivisione di responsabilità, nella consapevolezza dei rispettivi ruoli e compiti.
(©L'Osservatore Romano - 25-26 maggio 2009)
DIBATTITO/ Giannino: ma quale etica, a Milano servono uomini - Oscar Giannino - martedì 26 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Caro direttore,
l’appello del cardinale di Milano ha suscitato vasti echi, ma contemporaneamente ha confermato un’elevata incomunicabilità. Un’incomunicabilità che è ormai “storica”, per molti versi. Che cosa voglio dire? Intendo questo: il punto non è rispondere al cardinale se Milano abbia o meno una forza residua purchessia di etica pubblica e privata, nella vita delle sue istituzioni come nella pluralità di attività messe in campo dal privato sociale di ogni ispirazione, forma e risorse. Il punto, come al solito quando si parla di cristianesimo e di ruolo della Chiesa, è di fare una cosa che da un paio di secoli non siamo più abituati a fare, soprattutto quando si hanno titoli di studio elevati e si esercitano professioni di spicco: cioè prenderlo alla lettera. Dire testualmente se si reputi fondata oppure no l’analisi del pastore secondo il quale Milano si è allontanata da tempo e resta oggi troppo lontana da valori e iniziative ispirate non a un’etica pubblica qualunque, ma proprio a quella cristiana. Non ad altre.
Su questo tema, ho letto l’intervento di Giorgio Vittadini e naturalmente non me ne sono stupito, perché ai miei occhi è ovvio che egli colga al volo nel loro senso vero le parole del cardinale. Ho letto la risposta del sindaco Moratti, e naturalmente ho giustificato il fatto che al primo cittadino spetti in qualche modo dare una risposta rassicurante, collettiva e istituzionale, al di là di ogni letterale adesione allo spirito e alla sfida concreta del Cristo e del suo amore per l’uomo. Ma quando poi estendiamo lo sguardo ad altre risposte venute al Cardinal Tettamanzi, allora mi dico che no, non ci siamo proprio. Per farmi intendere, uso apposta l’intervento di colui al quale, pure, sua eminenza aveva esplicitamente dischiuso la porta con un grande ed esplicito riconoscimento: parlo di Marco Vitale.
Nel lungo e ispirato articolo di Vitale, ho ritrovato l’afflato di chi considera acquisito che la Milano morale da riscoprire sia naturalmente quella illuminista dei fratelli Verri. E figuratevi se posso avere qualcosa io in contrasto, cresciuto come sono a bozze compilate e corrette di Giovanni Spadolini su tutti i più sacri temi della storia patria milanese, dall’illuminismo appunto all’epopea del risorgimento. Epperò come si fa a negarlo, che l’eclisse della Milano pubblica negli ultimi decenni è vissuta e si è consolidata proprio dell’esangue scomparsa di figure capaci di incarnare quella tradizione? Chi la rappresenterebbe, oggi? Umberto Veronesi, medico e benefattore di vaglia ma cosmopolita scient-eticista? Quali banchieri schiettamente milanesi, sarebbero oggi il simbolo di un “fare finanza” incentrata sull’uomo? Gli economisti anglo-wasp della Bocconi? Le archi-star che edificano nel mondo opere e progetti nessuno dei quali si lega intimamente a un’idea “nostra” dell’uomo, e della sua necessità di condivisione?
Potrei continuare a lungo nell’elenco, ma ci siamo capiti. Il punto è che all’intellettualità milanese, che resta di primo livello nelle sue espressioni accademiche e professionali, come al comunque ricchissimo mondo dell’impresa e del commercio, viene facile rispondere al cardinale parlando in generale di eticismo più che di etica, e di meticciato multiculturale contro ogni eccesso leghista. Ma tutto ciò si nutre appunto di un relativismo condiviso. Quello che il pastore della Chiesa di Milano parli appunto in nome di un’etica qualunque, ridotta a legalità solidale contro legalità indifferente dell’uomo in quanto ossessionata dalla sicurezza.
Mi piace di pensare che il pastore di Milano, sempre così prudente, abbia messo da parte la tradizionale circospezione per vedere cosa sarebbe accaduto. Un appello quasi per “snidare” l’assenza del cristianesimo. Prima della miglior edificazione delle due città agostiniane, quella laica e quella di Dio, occorre ribadire che cosa per l’uomo con la “u” minuscola abbia comportato quello con la “U” maiuscola. Forse in questo modo si potrebbero scorticare ancora più a fondo le coscienze.
Oscar Giannino
MILANO/ Vittadini: la borghesia si deve svegliare - INT. Giorgio Vittadini - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Milano smarrita, senza cuore? Giorgio Vittadini, professore di Statistica alla Bicocca, fondatore della Compagnia delle Opere, oggi presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, ha un lieve sussulto. «Milano non è la Lombardia, non sono le valli, non è la Brianza. Il senso di solidarietà che c’è a Milano forse non c’è in tutta la regione».
Ha ragione il cardinale. C’è tanta generosità ma è sparita la borghesia?
La borghesia si deve svegliare. Se è illuminata, se è quella di prima, non disprezzi quello che nasce dal basso. L’appello del cardinale sarà ascoltato se questa borghesia si renderà conto dell’esistenza di un luogo che non ha generato lei stessa, e penso alle centinaia di associazioni sparpagliate in ogni periferia, e sarà capace di valorizzarlo.
Non vuole o non sa vedere?
È sempre più comodo non vedere. Se mi rendo conto del cambiamento, devo cambiare anch’io.
Dov’è il cambiamento?
Nelle periferie, soprattutto. Mentre dal dopo tangentopoli, c’è stata una paralisi totale, nell’illusione che bastasse una moralità costruita calata dall’alto, senza il coinvolgimento delle persone, per rinnovare la città, è dal basso che è nato il vero cambiamento. Con i don Colmegna, e non c’è n’è uno solo; il banco alimentare; i quartieri che erano degradati e ora sono al centro della rinascita della responsabilità nata dal basso.
Quindi?
Anche le istituzioni dovrebbero imparare a leggere chi si muove, catturare dal basso.
Milano è xenofoba o meticcia?
Assolutamente meticcia. Certi fenomeni, certe idee un po’ xenofobe, non sono di questa città. La nostra è la cultura del meticciato che prima ha fatto di noi persone in cui il milanese e il meridionale si confondono. E oggi per molti aspetti anche gli extracomunitari. Penso a quante parrocchie di rumeni, cattolici ortodossi, armeni, coreani, filippini che qui si raggruppano e hanno accoglienza.
Oggi si scivola sui temi come immigrazione, integrazione e povertà.
Milano è sempre stata la città della conciliazione delle idee e delle ideologie. Ed è un mondo che sente l’immigrazione e l’integrazione come una risorsa. E sente che la povertà va affrontata. Ma ha un approccio molto pragmatico.
Anche per l’Expo?
Spero non perda l’occasione di dare prova del suo pragmatismo. Abbiamo la soluzione qui per arrivare a tanti dei temi che stanno a cuore ad altri paesi. E se non siamo coscienti di questa ricchezza potenziale, facciamo harakiri.
(Pubblicato su Il Corriere della Sera ed. Milano del 23 maggio 2009)
MILANO/ I protagonisti invisibili di una città in pezzi - Luca Doninelli - lunedì 25 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Sono stato colpito dalle parole che il card. Tettamanzi ha detto nell’intervista uscita sul “Corriere” alcuni giorni fa. Mi è parso che l’Arcivescovo di Milano spingesse la discussione sulla città – una discussione sicuramente più vivace rispetto a qualche anno fa, e questa è comunque una notizia positiva – un passo oltre certe ristrettezze di sguardo, che dominano spesso in questi casi: polemiche su particolari in fondo secondari, tecnicismi da burocrati, disegni astratti, e sempre, immancabilmente, gli “esperti” a dire la loro, come se uno sguardo umano sul destino della città fosse un problema da specialisti.
Le parole di Tettamanzi, misurate e lucide, tratteggiano una città fatta di pezzi lontani tra loro, senza una classe (in altri tempi era stata la borghesia a farsene carico) capace di prendersi cura dell’intera città. Una città che nel frattempo è cambiata radicalmente, in cui parole come “centro”, “periferia”, “hinterland” hanno cambiato significato. Una città, soprattutto, nella quale convivono novantotto etnie diverse (un record, a quanto dicono).
Quest’idea della lontananza domina l’immagine attuale della città. Non si tratta di un problema semplicemente amministrativo: si tratta di un problema antropologico. Gli amministratori possono fare molto, anche se spesso proprio gli amministratori sembrano essere i primi a non accorgersi della situazione. Un piano urbanistico, una riforma dei trasporti, la progettazione di nuove infrastrutture dipendono dall’idea di città che gli amministratori si sono fatta. Ma se spesso questa idea appare confusa (lo si vede dall’incertezza che domina proprio nei casi appena citati) è segno che il problema sta più a monte. Un amministratore sa dove deve andare quando percepisce una città che, a sua volta, sa dove vuole andare.
Questo, come vado dicendo da anni, è il malessere di una città, per altri aspetti magnifica, come Milano. Milano fa fatica a conoscersi, a conoscere il proprio presente. La mancanza di una classe capace di farsi carico dell’insieme, la mancanza di uomini, di facce, di esperienze nelle quali l’intera città si può riconoscere: questo è il suo tallone d’Achille.
Ascoltando l’amico Giovanni Oggioni, eccellente urbanista, mentre parlava a un gruppo di studenti, mi colpiva la sua insistenza su un concetto semplice: la necessità che tutti i punti della città siano raggiungibili in diversi modi, che il monocentrismo (cui si ispira ancora, ad esempio, la rete dei trasporti urbani) lasci il posto a una pluralità di “centri” cittadini, così che i cuori pulsanti della città siano molti e nessun punto (via, quartiere ecc.) sia distante da uno o più centri.
Questa idea del ravvicinamento mi ha molto colpito. Dicevo tra me: non si tratta solo di un principio urbanistico, ma di un principio di ordine generale. I singoli cittadini sono, in fondo, anche loro come quartieri. C’è chi è in contatto con tutta la città e la sa “usare” e chi ha difficoltà, è solo, spaesato, o perché anziano, o perché disoccupato, o perché straniero, e così via. Magari queste due tipologie così diverse vivono nello stesso palazzo, ai due lati dello stesso pianerottolo, e tutte le mattine si salutano e si augurano buona giornata. Ma senza nessun incontro.
Io non so offrire nessuna soluzione, ovviamente, a questo problema. C’è però un aspetto culturale della questione sul quale val la pena soffermarsi. Noi siamo tutti figli di una mentalità che ha pensato di poter supportare lo sviluppo della società con offerte sempre più specializzate, di settore. Su questo modello sono sorte iniziative pubbliche, locali per divertirsi, ristoranti, rassegne culturali, e così via. Persino i curricula e i colloqui di lavoro sono improntati a questo principio.
Ma il risultato di tutto questo è una città in cui i percorsi dei singoli intercettano sempre meno quelli degli altri. L’esempio che faccio sempre è quello della Giornata della Colletta Alimentare, che si celebra ogni novembre. In quell’occasione la città si accorge di bisogni che per il resto dell’anno non vede, non per cattiveria o egoismo, ma perché non li incontra.
Perciò, senza pretesa di risolvere problemi così grossi, il mio invito a tutti (a me stesso, a chi vive nel mio quartiere, ai miei amici, agli amministratori, agli intellettuali ecc.) è questo: salvaguardiamo quei luoghi (che sono sempre meno numerosi) nei quali i percorsi si incrociano, determinando – anche visivamente - una “macchia” di diversità nell’uniformità delle nostre solitudini. La progressiva scomparsa dei cinema dal centro cittadino è, per esempio, un cattivo segno, perché dove c’è un cinema c’è mescolanza sociale, e la mescolanza – anche semplice, come in un cinema, o in un bar-tabacchi – è il primo presidio, molto più efficace di mille provvedimenti “dall’alto”, contro il degrado della città
ASTRONOMIA/ Galileo e le carte segrete del Sant’Uffizio, una questione di verità storica - INT. Paolo Ponzio - martedì 26 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Una volta chiarito, come ha fatto Giovanni Paolo II nel celebre discorso del 1992, che quella tra Galileo e la Chiesa del suo tempo è stata «una tragica reciproca incomprensione» e che non c’è «un’opposizione costitutiva tra scienza e fede», restano ancora molti aspetti da studiare e approfondire circa il celebre “caso”. Così almeno ritengono i promotori del convegno internazionale di studi “Il caso Galileo. Una rilettura storica, filosofica, teologica”, che inizia oggi a Firenze e si svolgerà fino al 30 maggio.
Il convegno, che ha avuto l’adesione di 18 Istituzioni nazionali e internazionali, è organizzato dall’Istituto Stensen dei gesuiti di Firenze diretto da Padre Ennio Brovedani sj, ideatore dell’iniziativa e vedrà gli interventi dei massimi esperti e studiosi mondiali del tema (teologi, storici, filosofi), tra i quali George Coyne, Evandro Agazzi, Claus Arnold, Paolo Prodi, Adriano Prosperi, Annibale Fantoli, Jean-Robert Armogathe, Horst Bredekamp, Michele Ciliberto e Paolo Galluzzi. I lavori si terranno nel Palazzo dei Congressi ma avranno oggi un’inaugurazione straordinaria nella suggestiva cornice della basilica di Santa Croce (dove si trova la tomba di Galileo), con le lectiones magistrales di Nicola Cabibbo (presidente della Pontificia Accademia delle Scienze) e Paolo Rossi (professore emerito di Storia della Scienza dell'Università degli Studi di Firenze), alla presenza del capo dello stato Giorgio Napolitano.
Al professor Paolo Ponzio, membro del comitato scientifico del convegno, abbiamo rivolto alcune domande all’inizio di questa intensa settimana.
Un nuovo convegno sul caso Galileo: c’è ancora qualcosa da dire? Ci sono novità nelle ricerche?
Il IV centenario delle osservazioni astronomiche di Galileo, è stato salutato come una ricorrenza interessante per poter mettere di nuovo al centro quale sia stato l’apporto scientifico ed epistemologico dello scienziato italiano più conosciuto al mondo. In particolare, il convegno fiorentino su Galileo ha una specificità del tutto nuova: finalmente dopo anni, anzi secoli di contrapposizione, si è riusciti a far dialogare istituzioni accademiche tra loro distanti e, soprattutto, a far dialogare un tavolo di studiosi che provenivano da differenti estrazioni dottrinali. Nel caso di Galileo, poi, le ricerche sempre più specifiche e analitiche sono caratterizzate non solo da novità di ritrovamenti documentari e filologici, bensì anche da un nuovo approccio all’intero “caso Galileo”. Da questo punto di vista, è innanzitutto una grande novità il poterne parlare senza apparenti steccati o vicendevoli smentite. Certamente in questa direzione non si può dire che vi siano già sintesi interessanti ed esplicative, ma iniziali tentativi.
Quali sono le piste di ricerca storica più interessanti e promettenti di risultati?
Il rinnovarsi degli studi di Galileo, in questi ultimi vent’anni, è stato caratterizzato, da un punto di vista storico, da un evento particolarmente importante: l’apertura dell’Archivio segreto del Sant’Uffizio. Se certamente si può dire, senza ombra di smentite, che i documenti del processo del 1633 erano noti nella loro completezza, non tutto era ancora chiaro agli storici, e tanti fraintendimenti sono ancora nell’opinione di tutti. Un esempio su tutti: nel primo processo del 1616, cosa è realmente accaduto? La chiesa ha condannato il copernicanesimo come eretico? I documenti, ora a nostra disposizione ci indicano che la Chiesa – in quell’occasione – ha saputo leggere i segni dei tempi, non condannando formalmente l’ipotesi eliocentrica, ma mettendo all’indice donec corrigatur (vale a dire, sin tanto che non fosse stato corretto) l’opera copernicana De revolutionibus orbium coelestium. Nessuna procedimento del Sant’Uffizio fu, in quell’occasione, preso nei confronti dello scienziato pisano: solo un ammonimento privato del cardinal Bellarmino (che Galileo chiese gli venisse notificato per iscritto) a non insegnare come reale la dottrina copernicana ma solo come ipotesi. Nei fatti, Galileo fu ben contento di tornarsene a Firenze con quest’unico avvertimento personale.
Lei in particolare di cosa si è occupato più da vicino?
È oramai da più di dieci anni che mi sono imbattuto nel “caso Galileo” e nella sua battaglia pro Copernico, cercando di scorgerne i nessi con la teologia del tempo. Nella storiografia galileiana del XX secolo – forse in conseguenza delle posizioni positiviste dello scorso secolo – le varie interpretazioni proposte hanno da sempre celato al proprio interno una forte debolezza nella novità del giudizio, frutto di una mancanza di serenità e di una scarsa obiettività. La caratteristica di questi studi sembra essere stata la presentazione di argomentazioni che ripropongono, sotto una veste di apparente originalità, vecchie e ormai superate tesi apologetiche. E tale carenza di originalità e rivestimento apologetico sono gli ingredienti non solo di larga parte della storiografia galileiana di matrice cattolica, ma anche - è bene ricordarlo - di quella più propriamente “laica”. Il tentativo che ho cercato sempre di proporre è stato quello di far parlare i documenti a nostra disposizione, intrecciandoli con il contesto generale sia teologico che filosofico, fornendo – per quanto possibile – tutti quegli elementi che facilitassero lettore a formulare un suo giudizio sull’intera vicenda galileiana.
Su cosa verterà il suo intervento al convegno?
L’intervento programmato durante il Convegno verterà su quelle teologie che in modo diretto e indiretto hanno influenzato e interloquito con il processo al copernicanesimo del 1616, attraverso le figure di Roberto Bellarmino, Paolo Antonio Foscarini e Tommaso Campanella. Tre teologi e tre modalità del tutto differenti di risolvere il problema del nesso tra scienza galileiana ed esegesi biblica. Ma, anche qui, occorre forse iniziare con una domanda semplice ma assolutamente decisiva: in che modo le nuove teorie scientifiche entrano all’interno delle dottrine teologiche del tempo? Vi è un problema “Copernico”, o tale questione nasce da ciò che accade all’indomani del Sidereus Nuncius? E quali sono gli strumenti concettuali dei teologi? In che modo si configura il rapporto tra scienza e fede nel XVII secolo? Solo rispondendo a tali domande si potrà, poi, giungere a comprendere scelte e decisioni, a volte, così lontane da quella che è il nostro comune modo di recepire tale problematica.
Come avete articolato il programma della settimana?
Il programma del Convegno è articolato secondo una prospettiva storica. Si inizia mercoledì 27 maggio con le relazioni sul processo del 1616 per concludere venerdì 29 maggio con le recezioni del “caso Galileo” nel XX secolo. I due appuntamenti iniziali e finali – il primo in Santa Croce con le relazioni magistrali di Nicola Cabibbo e Paolo Rossi, e il secondo a Villa Gioiello, ad Arcetri con la tavola rotonda conclusiva – sono state pensate per un pubblico più vasto e sono aperte a tutti.
Cosa si aspetta dall’evento conclusivo, che ha come titolo “Galileo oggi”?
A questa domanda mi piacerebbe rispondere solo al termine del convegno, nella convinzione che la realtà risponde sempre più adeguatamente di ogni discorso preventivo e di ogni aspettativa indefinita. È vero, tuttavia, che il convegno ha avuto una lunga preparazione, non sempre facile, ma – alla fine – condivisa da tutti i componenti del Comitato scientifico. E questo, mi sembra che possa già essere considerato un primo timido risultato. C’è, poi, anche una speranza: che si possa arrivare, col tempo, a una sempre maggiore serenità, giungendo a riconoscere quelle «incomprensioni che hanno causato l’aspro e doloroso conflitto» e alla «composizione onesta e leale dei vecchi contrasti» invocata cui Giovanni Paolo II nel lontano 1979.
a cura di Mario Gargantini