domenica 3 maggio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) VOCAZIONI, DISCORSO DURO CONSENTIRE A DIO DI FARE IL SUO MESTIERE - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 3 maggio 2009
2) PRIMO MAGGIO/ Che senso ha il lavoro per donne malate di Aids che spaccano sassi in Uganda? - INT. Rose Busingye - venerdì 1 maggio 2009 – ilsussidiario.net
3) Romano Amerio risponde ad Enzo Bianchi - Sono reduce dalla lettura dell’ultimo libro di Enzo Bianchi, "Per un’etica condivisa" (Einaudi), e non posso non riflettere sulla spaventosa distanza che esiste tra il pensiero di questo famoso monaco mediatico e l’ortodossia cattolica… - di Francesco Agnoli – Il Foglio, 26 aprile 2009
4) MESSAGGIO DEL SANTO PADRE - PER LA XLVI GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LE VOCAZIONI. - 3 MAGGIO 2009 - IV DOMENICA DI PASQUA - Tema: «La fiducia nell’iniziativa di Dio e la risposta umana.»
5) Storia di un apologeta americano convertito dal protestantesimo - Intervista allo scrittore e conferenziere Steve K. Ray - di Luca Marcolivio
6) "Tutto scorre" di V. Grossman - Autore: Papa, Rosa Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it
7) Travisamenti del pensiero di Benedetto XVI - Se il Papa è scomodo - Anticipiamo stralci di uno degli articoli del numero in uscita de "La Civiltà Cattolica". - di Giandomenico Mucci – L’Osservatore Romano 3 maggio 2009
8) L'irruzione della fiction nel racconto della Shoah - La stanchezza della memoria - Il 7 maggio esce il nuovo numero della rivista "Vita e Pensiero". Pubblichiamo in anteprima ampi stralci di uno degli articoli. di Anna Foa – L’Osservatore Romano, 3 maggio 2009
9) PRIMO MAGGIO/ Perché festeggiare? - Pigi Colognesi - venerdì 1 maggio 2009 – ilsussidiario.net
10) BIOETICA/ L’ago instabile dei cattolici nella bilancia della sinistra - Angelo Campodonico - sabato 2 maggio 2009 – ilsussidiario.net
11) DIARIO DA L'AQUILA/ Quei bambini bielorussi e la Carità che vince il terremoto - Redazione - domenica 3 maggio 2009 – ilsussidiario.net
12) LETTURE / Montale e la possibile speranza dal «mal chiuso portone» .- Redazione - sabato 2 maggio 2009 – ilsussidiario.net
13) Magris: ripartire da Maritain – Avvenire, 28 aprile 2009
14) Ratzinger, teologia dell’Assoluto – Avvenire, 30 aprile 2009
15) IL DIBATTITO DI «LIBERI PER VIVERE » - Alzare la soglia etica servizio a tutta la società - BENEDETTO IPPOLITO – Avvenire, 3 maggio 2009
16) IL MONDO SI COMMUOVE PER LA GIOVANE DARABI - Il patibolo come vetrina. Teheran non cambia canale - ELIO MARAONE – Avvenire, 3 maggio 2009


VOCAZIONI, DISCORSO DURO CONSENTIRE A DIO DI FARE IL SUO MESTIERE - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 3 maggio 2009
La vocazione è un colpo di genio di Dio. È Lui che prende l’inizia­tiva. Come illustra, con profondità e immediatezza, il capolavoro di Ca­ravaggio, la chiamata di san Matteo. Mentre noi, come i protagonisti di quel quadro, ce ne stiamo lì a gioca­re a carte, a cercar di vincere una chiarezza circa la nostra vita, tra for­tuna e azzardi, ecco il gesto di Gesù. Che chiama. La vocazione è seguire quel gesto, che ci sorprende in mez­zo a tutti i giochi o tutti i pensieri che possiamo fare per capire quale è il nostro posto, il compito nel mondo. La questione della vocazione ri­guarda tutti. Ognuno è chiamato a leggere senza barare – come si potrebbe fare al ta­volo da gioco – i segni che Gesù gli fa. Il fatto che si celebri una giorna­ta delle voca­zioni sacer­dotali è un invito anche per chi sa­cerdote non è a com­prendere co­sa è la pro­pria vocazio­ne. Infatti, prima anco­ra della que­stione di quale sia la forma a cui ci porta la vocazione – laica, matrimoniale, o consacrata o sacerdotale – o la vocazione di me­dico o di artista o quale che sia, oc­corre aprire il cuore e la mente alla potenza e alla libertà di Dio che fa quel gesto. Insomma occorre avere fede. E lasciare a lui l’iniziativa. Che nel mondo, anche di oggi, è fanta­siosa e vasta. Nascono vocazioni di consacrazione totale a Dio in tutto il mondo. E questo favorisce, in un pianeta globalizzato sotto molti a­spetti, anche lo scambio e l’aiuto. Ad esempio la crisi di vocazioni sacer­dotali, che sta svuotando i seminari italiani e che costringerà a pensare diversamente alle parrocchie, è in parte arginata dalla presenza nel no­stro paese di sacerdoti e religiosi di nazioni lontane.
Ma se questa crisi deve da un lato far meditare su quante opacità in uo­mini del clero scoraggiano e non in­vitano i giovani a seguire la loro stra­da, dall’altro deve far ricordare che l’iniziativa della vocazione è di Dio. Che con questa crisi numerica ci sta pure indicando un nuovo modo di pensare alla vita della Chiesa in que­ste terre dove la secolarizzazione e molti altri fenomeni della vita han­no modificato il tessuto sociale e la vita della gente. Ma più radicalmen­te ci interroga sulla disponibilità a considerare la vita non come un pos­sesso per sé. Il gesto di Cristo sor­prende Matteo. Lasciare tutto per se­guire la presenza che pretende e poi mostra di essere la più cara e neces­saria è un atto di grande libertà. Pa­ri a quella con cui Dio fa il primo pas­so. La vocazione sono due libertà che si incontrano. Questa giornata cade nelle ultime settimane dell’anno di Paolo. Lui non era un eroe. Sapeva bene di non avere grandi qualità. Ma mise la sua debolezza liberamente al seguito di Colui che l’aveva scel­to. La sua vocazione, non la sua bra­vura incendiò e ancora dà fuoco di fede e carità al mondo. La 'qualità' di Paolo fu tutta nella disponibilità. Che è la qualità dei semplici.
Chiedere a Dio che mandi pastori al suo gregge non significa chiedere truppe di eroi. Ma chiedere che con­tinui a toccare il cuore di gente sem­plice. Di gente pronta. Lo chiedia­mo con passione ma senza ansia. Perché ci rivolgiamo a Uno che sa fa­re il suo mestiere di Dio.


PRIMO MAGGIO/ Che senso ha il lavoro per donne malate di Aids che spaccano sassi in Uganda? - INT. Rose Busingye - venerdì 1 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Troppo spesso abbiamo un’idea un po’ convenzionale del lavoro: l’ufficio, le giornate passate di fretta, le telefonate. Ma la dimensione del lavoro è qualcosa di molto più profondo, e valido in qualunque circostanza. Ad esempio: che cosa significa lavorare per una donna malata di Aids che vive in Uganda e passa la giornata a spaccare le pietre?
Non è un esempio inventato: è la realtà della maggior parte delle donne del Meeting Point International di Kampala, donne sieropositive che hanno trovato in questo luogo un motivo per affrontare con gioia la fatica del vivere. E l’incontro con il significato della vita ha per queste donne un nome preciso: è Rose Busingye, fondatrice e ora presidente del Meeting Point Kampala Association.
Rose, oggi è la festa del lavoro: una festa che spesso qui da noi è segnata da una certa connotazione politica e ideologica. Qual è per te il senso del lavoro?
Innanzitutto una persona lavora bene e con soddisfazione solo quando sa chi è e sa a chi appartiene. Questa consapevolezza rende la vita avvincente, e permette di affrontare il lavoro sapendo il perché della propria fatica; quando una persona scopre il senso del vivere, allora anche il lavoro diventa espressione di questo. E ciò vale naturalmente in qualsiasi circostanza: sia per chi sta davanti al computer tutto il giorno, sia per chi, come molte delle donne del Meeting Point di Kampala, passa la giornata spaccando sassi. Non c’è differenza, perché il lavoro più grande è far venire a galla il valore della singola persona.
Che cosa spinge le donne del Meeting Point, malate di Aids, a continuare ad impegnarsi nel lavoro, anziché abbandonare tutto e lasciarsi andare?
Innanzitutto le donne che lavorano qui scoprono il fatto che la loro vita non è definita dalla malattia, ma da qualcosa di più grande. Da qui nasce l’impegno a lavorare anche duramente per migliorarla questa vita, che è così preziosa: nasce una grande responsabilità su sé stessi. È solo un io così, costituito da qualcosa di più grande, che può affrontare ogni giorno le fatiche e le crisi, sia personali, sia dovute alla malattia.
Prima accennavi al fatto che il tipo di lavoro di queste donne è molto duro: potresti spiegarci bene che cosa fanno?
Sì, come dicevo, molte delle donne che sono qui ospitate al Meeting Point di lavoro spaccano i sassi, riducono le pietre in pezzi piccoli e poi li vendono ai costruttori. E lavorano tutti i giorni, tranne il giovedì, che è una giornata di canti, di danze e di lavori manuali, quindi più leggera. Ma lo spaccare i sassi è comunque un lavoro che devono continuare a fare, altrimenti non hanno letteralmente da mangiare. Sono mamme, con figli che vanno a scuola mentre loro lavorano; le spese scolastiche vengono per la maggior parte finanziate con le adozioni a distanza. Un’altra cosa importante che caratterizza il loro lavoro è che stanno in gruppo, fanno tutto insieme, e si danno una mano vicendevolmente.
Che cos’è che unisce queste donne, così da aiutarsi anche sul lavoro?
Le nostre donne sono come una vera e propria banda. Pensate: addirittura è capitato che una volta è venuta la polizia per cercare una delle donne. Prima ancora di sapere il perché, le donne si sono schierate davanti ai poliziotti dicendo: “non vi diamo la nostra sorella”. Si difendono proprio come tra fratelli. E poi accolgono anche i bambini orfani, li portano a casa e danno loro da mangiare quello che danno ai propri figli.
Tra le tante storie di queste donne, ne hai qualcuna in particolare che secondo te merita di essere raccontata?
Sono tutte importanti, ed è quasi impossibile raccontare una storia singola, diversa dalle altre: loro sono come una tribù, vanno insieme ovunque, non solo al lavoro, ma anche all’ospedale per prendere le medicine. E le persone che le vedono dicono: queste stanno meglio di noi, anche noi vogliamo stare qua e vivere con loro. Persone sane e ricche dicono questo di donne povere e malate di Aids. Questo accade perché vedono persone cambiate, in cui la fede è penetrata nei tratti profondi della vita, arrivando dove si forma la percezione di sé e delle cose. La fede redime, nel senso che permette di stare di fronte a un sasso da spaccare sapendo che quello non ti definisce. In questo senso la cultura diventa una bellezza di vivere; ma devi incontrare qualcuno che ti dà questo senso.
Eppure rimangono persone povere, che continuano a vivere in una grandissima difficoltà.
Racconto un episodio, per spiegare bene questo punto. Quando è venuto l’ambasciatore italiano, una donna parlandogli ha detto: “non pensare che noi siamo poveri, perché in realtà siamo più ricchi degli altri”. L’ambasciatore a sentire questo si è commosso. Queste donne non sono povere perché hanno scoperto che c’è qualcuno che le ama, e quindi sentono di avere quello che molte altre persone non hanno. E questa constatazione non è solo spirituale, ma arriva fino agli aspetti più concreti, al punto che in alcuni casi hanno voluto anche donare un po’ di soldi ad altre persone in difficoltà.
Cioè?
Quando ad esempio c’è stato l’uragano Katrina negli Stati Uniti hanno voluto raccogliere un po’ di soldi per mandarli alle persone in difficoltà. E anche adesso con il terremoto in Abruzzo hanno avuto una reazione straordinaria, e totalmente spontanea. Hanno detto: «quelle persone ci appartengono, sono dei nostri, perché sono della “tribù di don Giussani”!». E hanno raccolto un po’ di soldi: sono pochi, ma hanno un valore immenso. Anche perché la persona che è in difficoltà non sente tanto il bisogno dei soldi, quanto il fatto che dentro quel gesto possa avvertire la presenza di qualcuno che dice: non piangere, io sono con te.


Romano Amerio risponde ad Enzo Bianchi - Sono reduce dalla lettura dell’ultimo libro di Enzo Bianchi, "Per un’etica condivisa" (Einaudi), e non posso non riflettere sulla spaventosa distanza che esiste tra il pensiero di questo famoso monaco mediatico e l’ortodossia cattolica… - di Francesco Agnoli – Il Foglio, 26 aprile 2009
Sono reduce dalla lettura dell’ultimo libro di Enzo Bianchi, Per un’etica condivisa (Einaudi), e non posso non riflettere sulla spaventosa distanza che esiste tra il pensiero di questo famoso monaco mediatico e l’ortodossia cattolica. L’errore di fondo, che inficia tutto il ragionamento di Bianchi, è quell’ottimismo mondano che si è insinuato profondamente nel pensiero ecclesiastico e cattolico nell’epoca del post Concilio. Mondano, intendo, perché ignora o sminuisce del tutto l’esistenza del peccato. “Quando la Chiesa, scriveva parecchi anni fa il Cardinal Journet al cardinal Siri, prenderà coscienza sino a che punto lo spirito del mondo è penetrato dentro essa, si spaventerà”.
Ma come è penetrato questa mentalità, di cui Bianchi è oggi uno dei massimi alfieri? A mio modo di vedere all’epoca del Concilio, allorchè in molti si diffuse l’idea che col mondo, inteso in senso evangelico, occorresse trovare un modus vivendi pacifico e conciliante, sempre e comunque. Bisognerebbe anzitutto ritornare a quegli anni, per evitare di costruire leggende e miti come quelli che piacciono ai vari Melloni, Mancuso e, appunto, a Enzo Bianchi: il concilio non fu una pacifica e simpatica riunione di vescovi e periti, tutti in perfetto accordo tra loro, ma fu una lotta dura, che vide la presenza di posizioni problematiche e critiche, rispetto alla volontà di “aggiornamento” e “innovazione”, di molti uomini di grande spessore, dal cardinal Siri, più volte papabile, ai cardinali Ottaviani, Ruffini, Bacci, sino al Coetus Internationalis patrum, formato da centinaia di padri conciliari, e raccolto intorno a mons. Marcel Lefebvre.
I documenti conciliari sorsero dunque in mezzo alla tempesta, agli scontri, talora veramente aspri, tra “conservatori” e “progressisti”, con correzioni, emendamenti, e ambiguità, inevitabili laddove un documento nasca come mediazione, come compromesso tra posizioni divergenti. A mio modo di vedere, l’ambiguità più grande fu quella sull’atteggiamento da tenere, appunto, rispetto al mondo, allo spirito moderno e alle sue filosofie. Il concilio volle essere pastorale, e quindi soffermarsi proprio e soprattutto, in questo caso senza godere dell’infallibilità, sui modi, le strategie, per una nuova evangelizzazione, efficace e fruttuosa. Il principio guida, che fu indicato da Giovanni XXIII, fu quello di utilizzare, rispetto alla “severità” del passato, la “medicina della misericordia”.
Ci fu insomma un cambio di passo, che Romano Amerio, oggi riscoperto e finalmente ristampato da Fede & Cultura, commentò tra l’altro con queste profetiche parole: “Questo annuncio del principio della misericordia contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della Chiesa, la condanna stessa dell'errore è opera di misericordia, poiché, trafiggendo l'errore, si corregge l'errante e si preserva altrui dall'errore. Inoltre verso l'errore non può esservi propriamente misericordia o severità, perché queste sono virtù morali aventi per oggetto il prossimo, mentre all'errore l'intelletto repugna con un atto logico che si oppone a un giudizio falso. La misericordia essendo, secondo S. theol., II, II, q. 30, a. 1, dolore della miseria altrui accompagnato dal desiderio di soccorrere, il metodo della misericordia non si può usare verso l'errore, fatto logico in cui non vi può essere miseria, ma soltanto verso l'errante, a cui si soccorre proponendo la verità e confutando l'errore. Il Papa peraltro dimezza un tale soccorso, perché restringe tutto l'officio esercitato dalla Chiesa verso l'errante alla sola presentazione della verità: questa basterebbe per sé stessa, senza venire a confronto con l'errore, a sfatare l'errore. L'operazione logica della confutazione sarebbe omessa per dar luogo a una mera didascalia del vero, fidando nell'efficacia di esso a produrre l'assenso dell'uomo e a distruggere l'errore” (Romano Amerio, Iota unum, Fede & Cultura).
Questo brano magistrale mi sembra possa essere utile per far fronte anche oggi a questo ottimismo mondano, che nasce all’interno del mondo cattolico, e che si presenta con alcune caratteristiche costanti: la condanna più o meno aspra delle decisioni e della pastorale della Chiesa del passato; il ripudio della Tradizione e il tentativo di presentare il Vaticano II come una sorta di nuova Pentecoste, di vero e proprio atto di nascita della cosiddetta “Chiesa conciliare”. Ottimismo mondano di cui il citato Bianchi costituisce uno degli esempi più solari, in quanto espressione di un tipo di cattolicesimo adulterato che ritiene che l’essenziale sia raggiungere una posizione condivisa, una mediazione, un punto di incontro, quale esso sia, tra la Verità di Cristo e le posizioni, anticristiche, del mondo. Se analizziamo il libro citato ne troviamo subito, nell’incipit, il significato di fondo: Bianchi vuole fare pulizia, anzitutto all’interno del mondo cattolico, mettere i puntini sulle i, spiegare quale debba essere il comportamento dei suoi fratelli di fede. Costoro, scrive Bianchi, debbono smetterla di riunirsi in “gruppi di pressione (sic) in cui la proposta della fede non avviene nella mitezza e nel rispetto dell’altro, per diventare intransigenza e arrogante contrapposizione a una società giudicata malsana e priva di valori”. La lettura del seguito fa capire bene il significato di queste parole, del tutto simili a quelle di un Augias o di un Odifreddi: esse sono una condanna chiara, anche se un po’ ipocrita nelle modalità, della posizione della Chiesa e dei cattolici, riguardo al referendum sulla legge 40 e alla questione dei pacs-dico.
Una condanna, in generale, di ogni tentativo legale e leale da parte dei cattolici, e non solo, di affermare valori non negoziabili in politica. Bianchi lo ripete più volte, spiegando quello che è ovvio, e cioè che “il futuro della fede non dipende da leggi dello stato”, ma dimenticando che i cattolici, come tutti gli altri cittadini, sono chiamati ad esprimere la loro visione di società, qui e oggi, e non a ritirarsi nelle sagrestie. Il cattolicesimo che Bianchi vorrebbe è invece insignificante e inesistente sul piano culturale e politico, e finisce addirittura per delineare una religiosità amorfa, astratta, spiritualista, che è lontanissima dall’idea originaria del cattolicesimo.
Ogni scontro e polemica attuale, ogni rinascita odierna dell’anticlericalismo, continua il monaco, è sempre colpa dei credenti, “è sempre una reazione a un clericalismo che si nutre di intransigenza, di posizioni difensive e di non rispetto dell’interlocutore non cristiano”. A parte che non si capisce bene, a leggere queste parole, a quale dibattito abbia assistito Bianchi in questi anni, il punto centrale è un altro: nel togliere al cristianesimo la sua capacità di incarnarsi nella realtà, per plasmarla concretamente, Bianchi finisce per negare cittadinanza al cristianesimo stesso e per scegliere come punto di riferimento assoluto e ingiudicabile, quasi metafisico, la Costituzione repubblicana. Da essa deriverebbe, udite, udite, “l’assoluto diritto dello stato di legiferare su tutte quelle realtà sociali fondate o meno sul matrimonio (sia religioso che civile)”. “Diritto assoluto”, scrive Bianchi: una affermazione, a ben vedere, che oggi, dopo l’esperienza delle statolatrie totalitarie, neppure il più laicista tra i giuristi arriverebbe, almeno nella teoria, a sostenere. In tutto il suo argomentare Bianchi annulla il concetto di Verità, affermando un relativismo pieno; sostiene la perfetta equivalenza tra fede e ateismo (“l’uomo può essere umanamente felice senza credere in Dio, così come può esserlo un credente”); nega di fatto in più passaggi, con linguaggio equivoco, ma chiaro, il primato petrino, a vantaggio del “primato del Vangelo”, e propone come unico riferimento del suo argomentare, da buon protestante, solo e soltanto la bibbia, la sua “lettura personale e diretta” (sic), etsi Ecclesia non daretur.
“Per un’etica condivisa” è appunto un inno ad un “modo”, ad uno “stile”, al “come”, con cui i cristiani dovrebbero presentarsi oggi ai non credenti: un modo, uno “stile”, inaugurato dal Concilio Vaticano II, che sarebbe “importante quanto il messaggio”. Coerentemente, in tutto il libro manca, appunto, il messaggio! Non vi è mai una affermazione chiara di una verità teologica o morale: si parla di “etica condivisa”, si lanciano sfrecciatine piuttosto velenose ai cattolici, al centro destra, a Berlusconi, a Maroni, a Mel Gibson, a Ferrara, come fossero loro i problemi della cristianità, ma poi non si arriva mai ai contenuti: tutto puro stile, buonismo a buon mercato, mai una parola, una posizione, quale che sia, sulla clonazione, la fecondazione artificiale, le famiglia, l’eutanasia, la sessualità, e tutti i problemi più scottanti dell’etica odierna. Al massimo qualche vago riferimento alla pace, e un accenno, velatissimo, per carità, alla 194, la legge che legalizza l’aborto, ricordando però, anzitutto e soprattutto, che i cattolici dovrebbero rispettare ogni legge nata dal “confronto democratico”, e proclamata, lo si ricordi, da quello Stato che ha potere “assoluto” di vita e di morte.
A Bianchi sfugge, come avrebbe detto Amerio, che lo stile è questione secondaria, nel senso che viene dopo, logicamente e non cronologicamente, perché l’Amore procede dalla Verità, e non viceversa. Gli sfugge, inoltre, che il suo irenismo indifferentista e relativista è stato già bollato da san Pio X, allorché deprecava quanti alla sua epoca si adoperavano per un “adattamento ai tempi in tutto, nel parlare, nello scrivere e nel predicare una carità senza fede, tenera assai per i miscredenti”, all’apparenza, ma in realtà priva di vera misericordia, perché spoglia di verità. A chi continuava a sponsorizzare una “conciliazione della fede con lo spirito moderno”, Pio X indicava il crocifisso, e ricordava che certe idee “conducono più lontano che non si pensi, non soltanto all’affievolimento, ma alla perdita totale della fede”. Perché se io non fossi un credente, e leggessi, per cercavi una parola di verità, il libro di Bianchi, arriverei alla conclusione che la verità non esiste, e che la mia sete di verità è roba da persone senza “stile”. Caro Bianchi, la verità, nella carità, mi dice sempre un’amica pro life, ma: la verità, per carità! Questo è l’unico stile, della Chiesa, di Cristo e del suo Evangelo, cioè della buona novella (vede che la novella, il messaggio, è importante?).
Il Foglio, 26 aprile 2009


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE - PER LA XLVI GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LE VOCAZIONI. - 3 MAGGIO 2009 - IV DOMENICA DI PASQUA - Tema: «La fiducia nell’iniziativa di Dio e la risposta umana.»
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
In occasione della prossima Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni al sacerdozio ed alla vita consacrata, che sarà celebrata il 3 maggio 2009, Quarta Domenica di Pasqua, mi è gradito invitare l’intero Popolo di Dio a riflettere sul tema: La fiducia nell’iniziativa di Dio e la risposta umana. Risuona perenne nella Chiesa l’esortazione di Gesù ai suoi discepoli: “Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Mt 9,38). Pregate! Il pressante appello del Signore sottolinea come la preghiera per le vocazioni debba essere ininterrotta e fiduciosa. Solamente se animata dalla preghiera infatti, la comunità cristiana può effettivamente “avere maggiore fede e speranza nella iniziativa divina” (Esort. ap. postsinodale Sacramentum caritatis, 26).
La vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata costituisce uno speciale dono divino, che si inserisce nel vasto progetto d’amore e di salvezza che Iddio ha su ogni uomo e per 1’intera umanità. L’apostolo Paolo, che ricordiamo in modo speciale durante quest’Anno Paolino nel bimillenario della sua nascita, scrivendo agli Efesini afferma: “Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo, in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,3-4). Nell’universale chiamata alla santità risalta la peculiare iniziativa di Dio, con cui sceglie alcuni perché seguano più da vicino il suo Figlio Gesù Cristo, e di lui siano ministri e testimoni privilegiati. Il divino Maestro chiamò personalmente gli Apostoli “perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,14-15); essi, a loro volta, si sono associati altri discepoli, fedeli collaboratori nel ministero missionario. E così, rispondendo alla chiamata del Signore e docili all’azione dello Spirito Santo, schiere innumerevoli di presbiteri e di persone consacrate, nel corso dei secoli, si sono poste nella Chiesa a totale servizio del Vangelo. Rendiamo grazie al Signore che anche oggi continua a convocare operai per la sua vigna. Se è pur vero che in talune regioni della terra si registra una preoccupante carenza di presbiteri, e che difficoltà e ostacoli accompagnano il cammino della Chiesa, ci sorregge l’incrollabile certezza che a guidarla saldamente nei sentieri del tempo verso il compimento definitivo del Regno è Lui, il Signore, che liberamente sceglie e invita alla sua sequela persone di ogni cultura e di ogni età, secondo gli imperscrutabili disegni del suo amore misericordioso.
Nostro primo dovere è pertanto di mantenere viva, con preghiera incessante, questa invocazione dell’iniziativa divina nelle famiglie e nelle parrocchie, nei movimenti e nelle associazioni impegnati nell’apostolato, nelle comunità religiose e in tutte le articolazioni della vita diocesana. Dobbiamo pregare perché 1’intero popolo cristiano cresca nella fiducia in Dio, persuaso che il “padrone della messe” non cessa di chiedere ad alcuni di impegnare liberamente la loro esistenza per collaborare con lui più strettamente nell’opera della salvezza. E da parte di quanti sono chiamati si esige attento ascolto e prudente discernimento, generosa e pronta adesione al progetto divino, serio approfondimento di ciò che è proprio della vocazione sacerdotale e religiosa per corrispondervi in modo responsabile e convinto. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda opportunamente che la libera iniziativa di Dio richiede la libera risposta dell’uomo. Una risposta positiva che presuppone sempre 1’accettazione e la condivisione del progetto che Dio ha su ciascuno; una risposta che accolga 1’iniziativa d’amore del Signore e diventi per chi è chiamato un’esigenza morale vincolante, un riconoscente omaggio a Dio e una totale cooperazione al piano che Egli persegue nella storia (cfr n. 2062).
Contemplando il mistero eucaristico, che esprime in modo sommo il libero dono fatto dal Padre nella Persona del Figlio Unigenito per la salvezza degli uomini, e la piena e docile disponibilità di Cristo nel bere fino in fondo il “calice” della volontà di Dio (cfr Mt 26,39), comprendiamo meglio come “la fiducia nell’iniziativa di Dio” modelli e dia valore alla “risposta umana”. Nell’Eucaristia, il dono perfetto che realizza il progetto d’amore per la redenzione del mondo, Gesù si immola liberamente per la salvezza dell’umanità. “La Chiesa - ha scritto il mio amato predecessore Giovanni Paolo II - ha ricevuto l’Eucaristia da Cristo suo Signore non come un dono, pur prezioso fra tanti altri, ma come il dono per eccellenza, perché dono di se stesso, della sua persona nella sua santa umanità, nonché della sua opera di salvezza” (Enc. Ecclesia de Eucharistia, 11).
A perpetuare questo mistero salvifico nei secoli, sino al ritorno glorioso del Signore, sono destinati i presbiteri, che proprio in Cristo eucaristico possono contemplare il modello esimio di un “dialogo vocazionale” tra la libera iniziativa del Padre e la fiduciosa risposta del Cristo. Nella celebrazione eucaristica è Cristo stesso che agisce in coloro che Egli sceglie come suoi ministri; li sostiene perché la loro risposta si sviluppi in una dimensione di fiducia e di gratitudine che dirada ogni paura, anche quando si fa più forte 1’esperienza della propria debolezza (cfr Rm 8,26-30), o si fa più aspro il contesto di incomprensione o addirittura di persecuzione (cfr Rm 8,35-39).
La consapevolezza di essere salvati dall’amore di Cristo, che ogni Santa Messa alimenta nei credenti e specialmente nei sacerdoti, non può non suscitare in essi un fiducioso abbandono in Cristo che ha dato la vita per noi. Credere nel Signore ed accettare il suo dono, porta dunque ad affidarsi a Lui con animo grato aderendo al suo progetto salvifico. Se questo avviene, il “chiamato” abbandona volentieri tutto e si pone alla scuola del divino Maestro; ha inizio allora un fecondo dialogo tra Dio e l’uomo, un misterioso incontro tra l’amore del Signore che chiama e la libertà dell’uomo che nell’amore gli risponde, sentendo risuonare nel suo animo le parole di Gesù: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16).
Questo intreccio d’amore tra l’iniziativa divina e la risposta umana è presente pure, in maniera mirabile, nella vocazione alla vita consacrata. Ricorda il Concilio Vaticano II: “I consigli evangelici della castità consacrata a Dio, della povertà e dell’obbedienza, essendo fondati sulle parole e sugli esempi del Signore, e raccomandati dagli Apostoli, dai Padri, dai dottori e dai pastori della Chiesa, sono un dono divino, che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore e con la sua grazia sempre conserva” (Cost. Lumen gentium, 43). Ancora una volta, è Gesù il modello esemplare di totale e fiduciosa adesione alla volontà del Padre, a cui ogni persona consacrata deve guardare. Attratti da lui, fin dai primi secoli del cristianesimo, molti uomini e donne hanno abbandonato famiglia, possedimenti, ricchezze materiali e tutto quello che umanamente è desiderabile, per seguire generosamente il Cristo e vivere senza compromessi il suo Vangelo, diventato per essi scuola di radicale santità. Anche oggi molti percorrono questo stesso esigente itinerario di perfezione evangelica, e realizzano la loro vocazione con la professione dei consigli evangelici. La testimonianza di questi nostri fratelli e sorelle, nei monasteri di vita contemplativa come negli istituti e nelle congregazioni di vita apostolica, ricorda al popolo di Dio “quel mistero del Regno di Dio che già opera nella storia, ma attende la sua piena attuazione nei cieli” (Esort. ap. postsinodale Vita consecrata, 1).
Chi può ritenersi degno di accedere al ministero sacerdotale? Chi può abbracciare la vita consacrata contando solo sulle sue umane risorse? Ancora una volta, è utile ribadire che la risposta dell’uomo alla chiamata divina, quando si è consapevoli che è Dio a prendere l’iniziativa ed è ancora lui a portare a termine il suo progetto salvifico, non si riveste mai del calcolo timoroso del servo pigro che per paura nascose sotto terra il talento affidatogli (cfr Mt 25,14-30), ma si esprime in una pronta adesione all’invito del Signore, come fece Pietro quando non esitò a gettare nuovamente le reti pur avendo faticato tutta la notte senza prendere nulla, fidandosi della sua parola (cfr Lc 5,5). Senza abdicare affatto alla responsabilità personale, la libera risposta dell’uomo a Dio diviene così “corresponsabilità”, responsabilità in e con Cristo, in forza dell’azione del suo Santo Spirito; diventa comunione con Colui che ci rende capaci di portare molto frutto (cfr Gv 15,5).
Emblematica risposta umana, colma di fiducia nell’iniziativa di Dio, è l’“Amen” generoso e pieno della Vergine di Nazaret, pronunciato con umile e decisa adesione ai disegni dell’Altissimo, a Lei comunicati dal messo celeste (cfr Lc 1,38). Il suo pronto “si” permise a Lei di diventare la Madre di Dio, la Madre del nostro Salvatore. Maria, dopo questo primo “fiat”, tante altre volte dovette ripeterlo, sino al momento culminante della crocifissione di Gesù, quando “stava presso la croce”, come annota l’evangelista Giovanni, compartecipe dell’atroce dolore del suo Figlio innocente. E proprio dalla croce, Gesù morente ce l’ha data come Madre ed a Lei ci ha affidati come figli (cfr Gv 19,26-27), Madre specialmente dei sacerdoti e delle persone consacrate. A Lei vorrei affidare quanti avvertono la chiamata di Dio a porsi in cammino nella via del sacerdozio ministeriale o nella vita consacrata.
Cari amici, non scoraggiatevi di fronte alle difficoltà e ai dubbi; fidatevi di Dio e seguite fedelmente Gesù e sarete i testimoni della gioia che scaturisce dall’unione intima con lui. Ad imitazione della Vergine Maria, che le generazioni proclamano beata perché ha creduto (cfr Lc 1,48), impegnatevi con ogni energia spirituale a realizzare il progetto salvifico del Padre celeste, coltivando nel vostro cuore, come Lei, la capacità di stupirvi e di adorare Colui che ha il potere di fare “grandi cose” perché Santo è il suo nome (cfr ibid., 1,49).
Dal Vaticano, 20 Gennaio 2009


Il libro dell'«Imitazione di Cristo»
ROMA, sabato, 2 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo scritto da padre Giandomenico Mucci, S.I., e apparso sulla rivista “La Civiltà Cattolica”.



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Il libro dell’Imitazione di Cristo è stato certamente il testo di letteratura religiosa più diffuso da secoli nel popolo cristiano in Occidente. Ha formato schiere di santi (da sant’Ignazio di Loyola a san Carlo Borromeo, da santa Teresa d’Avila a santa Teresa di Lisieux, da san Giuseppe Cottolengo a san Giovanni Bosco e santa Maria Mazzarello) ed è stato raccomandato sempre dai Papi, da san Pio V a san Pio X, da Pio XI al beato Giovanni XXIII. L’hanno apprezzato anche uomini di cultura lontani dalla Chiesa (da Taine a Comte, da Michelet a Carducci e Croce) e letterati e scienziati insigni, da Corneille a Voltaire, da Ampère a Retté, da Papini a Merton. Ben pochi avrebbero dissentito dal celebre giudizio di Fontenelle: «L’Imitation est le plus beau livre sorti de la main des hommes puisque l’Evangile n’en vient pas» (1).
Oggi è ancora così? Malgrado le edizioni e traduzioni del libro presenti presso i librai, cattolici e non, a testimonianza di un interesse mai venuto meno del tutto, sembra che oggi la sua lettura sia sconsigliata, in Italia e in Europa, a quanti sono impegnati nella vita spirituale, laici, sacerdoti, seminaristi e religiosi. Vogliamo qui vedere i motivi di questo fenomeno. Sorvoliamo sulla questione storico-paleografica della paternità del libro (2). Ci basti affermare che esso è nato in ambiente monastico benedettino (3).
Il libro e la dottrina
Il lettore dell’Imitazione avverte fin dalle prime righe che in essa parla un uomo che ha conosciuto la società mondana e ne è rimasto deluso e, postosi nella sequela di Cristo, ha accettato rinunce e sofferenze per configurarsi al Maestro divino secondo la scienza dell’amore. Il testo non contiene una compiuta trattazione dell’ascetica cristiana. È probabile che l’Autore abbia scritto non di getto, cioè con continuità, ma seguendo, a intervalli più o meno lunghi, lo sviluppo intellettuale e affettivo della sua anima. Questo, nell’ipotesi, che sembra la più comune, che unico sia l’Autore del testo, la cui asistematicità sarebbe meglio spiegata se si ammette una pluralità di autori. La dottrina è quella della Chiesa. La diffusa ispirazione alla sacra Scrittura (più di mille citazioni bibliche), ai Padri della Chiesa, specialmente Agostino e Gregorio Magno, ai dottori medievali, soprattutto Bernardo, Bonaventura, Ruysbroeck e Groote, ne ha da sempre garantito l’ortodossia.
Relativamente piccolo di mole, il libro è diviso in quattro parti. La prima («Ammonizioni utili per la vita spirituale») tocca i temi più generali della purificazione del cuore. Caratteristica di questa parte è l’accento sulla vanità sia del mondo sia della scienza umana. L’uomo interiore deve concentrarsi sulle verità della fede e liberarsi della fiducia eccessiva nelle elucubrazioni della ragione riconducibili alla superbia e all’ambizione. La seconda parte («Consigli per la vita interiore») disegna l’inizio della vita interiore con la conversione, la retta intenzione, la conoscenza di sé e la familiare amicizia con Gesù che conduce alla condivisione della sua sofferenza. In queste due parti prevale il tono meditativo, il dettato di un «direttorio spirituale».
La terza parte introduce la forma dialogica tra il discepolo e il Signore («Consolazione interna»): una forma che vuol significare l’amore del cuore umano quando Gesù lo avvolge con la sua tenerezza che dona pace. Sono pagine che condensano un trattato del cuore, le difficoltà e le tentazioni che il cuore sperimenta nella sua ascesa verso l’amore trasformante, l’abbandono e la fiducia in Gesù che neppure la colpa riesce a menomare, perché la stessa corruzione dell’uomo evoca la potenza della grazia, quando si è umili e si ama. L’Autore scrive certamente alla luce della sua esperienza sapienziale e ha qui raggiunto esiti di tale profondità che a ragione e da secoli le sue pagine sono annoverate tra le manifestazioni alte della letteratura spirituale. La quarta parte («Il Sacramento») può essere considerata come il coronamento delle precedenti. L’amore, che ha condotto il discepolo dalla purificazione all’unione, trova la sua realizzazione nell’Eucaristia. Non è facile imbattersi, anche in grandi autori, in pagine pari a queste che educhino il lettore al senso del Sacramento dell’altare e del sacerdozio con un dialogo tra il discepolo e l’Amato semplice e ardente (4).
Centro e cardine di tutta l’Imitazione è Cristo Dio e maestro. Strumento dell’imitazione di lui è la grazia alla quale l’uomo deve aprirsi se vuole ottenere l’imitazione a cui anela. Cristo, grazia, impegno radicale dell’uomo: i tre elementi che fanno dell’Imitazione un libro impregnato della pura dottrina della Chiesa e quasi un commentario della celebre esortazione benedettina a non preferire nulla all’amore di Cristo. Per questo suo fermo cristocentrismo al quale sono finalizzati tutti gli aspetti dell’ascesi, l’«Imitazione» è stata cara a tutti gli iniziatori delle spiritualità apostoliche.
Gli storici della spiritualità della Compagnia di Gesù sono concordi nell’affermare l’influenza dell’«Imitazione» sulla formazione spirituale di sant’Ignazio di Loyola: «La più importante delle influenze umane che hanno contribuito alla formazione della sua spiritualità. È certo infatti [...] che il santo ha fatto di questo libro la sua lettura abituale sin da Manresa [...], ha continuato per tutta la vita a farne il suo nutrimento preferito, se non esclusivo» (5). La concezione ignaziana della santità personale, non l’idea del servizio apostolico, collima con quella dell’Autore dell’«Imitazione». E non è certo per caso che l’«Imitazione» sia l’unico libro di lettura consigliato, con i testi biblici, a chi fa gli Esercizi ignaziani, secondo una precisa indicazione di sant’Ignazio.
Limiti del testo?
Parecchi spiritualisti contestano oggi la validità dell’Imitazione ai fini della formazione spirituale. E oggi sarebbe abbastanza arduo trovare copia di quel libro nelle camere dei giovani seminaristi e religiosi e nei banchi delle cappelle degli Istituti di formazione ecclesiastica. L’orizzonte dell’interiorità, nel quale il libro si muove, lo fa ritenere opera di una mentalità soggettivista e individualista. Alcuni nostri contemporanei gli rimproverano, ingenuamente, l’assenza di ecclesiologia e di mariologia, come se in esso dovesse trovarsi lo sviluppo teologico dei secoli posteriori all’Autore. Se fosse fondata, la medesima critica la si potrebbe rivolgere anche ai Vangeli! E lo stesso si dica per l’assenza, nel testo, di una teologia biblica e liturgica e di un’antropologia che guardi all’uomo non soltanto nella sua tensione verticale ma anche nella sua realtà storica e orizzontale.
«L’Imitazione riflette la mentalità del [suo] secolo con i suoi tipici problemi ai quali si mostra particolarmente sensibile. Essa è completa nel dire quanto le appare essenziale al fine proposto; non pretende altro che additare la possibilità e la necessità di condurre un’autentica vita interiore nonostante l’inevitabile contatto con il mondo, e indicare il cammino per la sua attualizzazione. L’autore non ha voluto intavolare altre questioni. Ogni giudizio equilibrato deve rispettare questa sua intenzionalità e valorizzare l’opera entro i limiti della sua natura e delle dimensioni del suo tempo» (6).
Alcuni accantonano l’Imitazione per effetto di quella loro critica polemizzante nei confronti dei tipi di spiritualità che hanno avuto origine nei secoli XIV e XV. Sarebbero, questi tipi, malati di «privato», di narcisismo, di intimismo, di pietismo e, in quanto tali, venati di pessimismo nella valutazione dei valori mondani e dell’universo creato in generale. Di qui l’attuale reazione «antipietista». Eppure, fa notare un noto storico della spiritualità, l’uomo d’oggi, che disistima o è indifferente al pietismo di libri come l’«Imitazione», decreta un giusto e vivissimo successo a opere come le Passionen di Bach nate nell’ambiente storico del pietismo protestante, anche se l’interesse va forse tutto alla musica e molto meno ai testi e ai sentimenti espressi nelle arie e nei corali del pio Picander (7).
Le tre cause di un oblio
Il fenomeno della disaffezione verso l’Imitazione può essere ricondotto probabilmente a tre cause principali: sociologica, ecclesiologica, psicologica (8). L’ambiente socioculturale incide notevolmente sull’eduzazione religiosa. Ora, il nostro ambiente di inizio secolo resta segnato ancora dai processi convergenti che si sono venuti affermando negli ultimi secoli in Occidente. L’individualismo cerca di neutralizzare le comunità di appartenenza. La massificazione impone comportamenti e modi di vita standardizzati. La desacralizzazione lavora a imporre i presunti vantaggi di un’interpretazione soltanto scientifica del mondo. Dalla teoria della ragione strumentale si è passati alla fiducia totale nell’efficienza della tecnica. Nonostante le crisi e i reflussi, l’uomo si sente sostituto di Dio e, in larghi strati, non ne avverte più la presenza. Un tale uomo non riesce a stimare la dimensione contemplativa della vita e confonde «contemplativo» con «monastico», cioè in un’accezione per lui negativa. E allora comincia a discettare su quei pochi luoghi dell’«Imitazione» che parlano dei pericoli che l’amore alle creature comporta, della dispersione conseguente all’effusione incontrollata negli eventi e nella mentalità non evangelica del mondo. E sorvola sui tanti luoghi nei quali il libro parla di gioia e del dovere di pregare per tutti gli uomini amabili con il cuore di Cristo.
La causa ecclesiologica dipende dall’estremismo di alcuni che considerano nella Chiesa soltanto il suo pur importante aspetto missionario e dimenticano che la Chiesa è specialmente, come ha insegnato l’apostolo Paolo, la comunità di coloro che invocano il Risorto e gli rendono testimonianza con uno stile di vita nel quale svolgono un ruolo determinante la preghiera, la lode, la ricerca contemplativa del Signore. L’«Imitazione» educa a questo stile e non vuol creare una setta di «spirituali». Tutta la quarta parte del libro, che è un’adorante professione di fede nell’Eucaristia, mostra che l’Autore, attraverso l’economia sacramentale, guarda alla vita ecclesiale che a quella economia è inscindibilmente connessa e da essa trae significato e valore. La causa ecclesiologica dipende, quindi, da un’interpretazione riduttiva della natura e della missione della Chiesa che evangelizza contemplando e fa apostolato celebrando e pregando.
Similmente, la causa psicologica si regge su un equivoco anch’esso riduttivo. Lo sostengono coloro che hanno introdotto il modello freudiano nell’analisi della vita spirituale. Il bambino vive nel caldo ambiente familiare, protetto, e gli è facile, istintivo, il transfert dal papà a Dio. Divenuto adolescente, scopre il lato orizzontale della vita nel contatto con gli altri e, superate le crisi dell’età, conosce il senso dell’unione con Cristo. Divenuto infine adulto, può accedere al mistero pasquale liberamente e viverne i gravosi impegni. L’Imitazione, che insegna l’intimità con Cristo e la sicurezza nella fuga dal mondo, sarebbe, in questa prospettiva, un libro per persone ancora infantili o spiritualmente adolescenziali in via verso l’età e la sensibilità religiosa dell’uomo adulto. Ci si dimentica con troppa leggerezza che l’Imitazione, proprio perché educa all’imitazione di Cristo, chiede al lettore di mettersi sulla «via regale della croce», sa bene che ciò «non è un gioco di bambini» e soltanto chi ama il Signore può capire e camminare su quella via.
Insomma, si può essere d’accordo con quelli che dicono che l’Imitazione non contiene ogni aspetto della vita cristiana e ascetica. Ma di questa ha gli elementi essenziali: la presenza e l’azione di Cristo sui cuori, l’intimità salvifica con lui, la carità, la comunione eucaristica. Questa solida pedagogia ha educato intere generazioni cristiane verso il Signore, la sua Parola, la sua croce, il suo Sacramento. Questi elementi non sono cosa del passato. Tutto ciò che in passato ha parlato la lingua del Vangelo è un valore per sempre. In questo senso, il passato non esiste perché Cristo è l’eterno presente della Chiesa. Altri aspetti, quelli derivanti dall’esperienza spirituale ed ecclesiale contemporanea, potranno, e forse dovranno, completare i temi dell’Imitazione. Lo dirà il tempo. L’Imitazione non è certo un libro insuperabile, ma finora, nel suo genere, non è stato superato.
E c’è un’altra ragione che ce ne fa raccomandare la lettura e la meditazione. I mali che abbiamo brevemente descritto sopra a proposito della causa sociologica che induce a disistimare l’Imitazione sono profondamente radicati nell’uomo d’oggi che Christian Bobin ha definito «colui che non dorme mai» (9). Un uomo così, lo notava già anni fa Sergio Zavoli, è tentato di costruirsi e di fingersi un «Cristo imborghesito» (10). Quale migliore antidoto dell’uomo e di Gesù che dialogano nell’Imitazione?
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1 B. FONTENELLE, Vie de Corneille, vol. II, Amsterdam, 1754, 74.
2 Cfr P. BONARDI - T. LUPO, L’Imitazione di Cristo e il suo autore, 2 voll., Torino, Sei, 1964; GIOVANNA DELLA CROCE, I mistici del Nord, Roma, Studium, 1981, 66 s; F. VANDENBROUCKE, La spiritualità del Medioevo, vol. II, Bologna, Edb, 1991, 351 s; P. POURRAT, La spiritualité chrétienne, vol. II, Paris, Gabalda, 1921, 394-397; G. MUCCI, «L’edizione critica dell’“Imitazione di Cristo”», in Civ. Catt. 1983 III 397-401.
3 Cfr M. VANNINI, Storia della mistica occidentale. Dall’Iliade a Simone Weil, Milano, Mondadori, 2005, 219.
4 Cfr GIOVANNA DELLA CROCE, I mistici del Nord, cit., 67-69.
5 J. DE GUIBERT, La spiritualità della Compagnia di Gesù. Saggio storico, Roma, Città Nuova, 1992, 115.
6 GIOVANNA DELLA CROCE, I mistici del Nord, cit., 70.
7 Cfr F. VANDENBROUCKE, «Perché non si legge più l’“Imitazione di Cristo”?», in Concilium 7 (1971) 1.797 s.
8 Cfr ivi, 1.798-1.803.
9 Cfr C. BOBIN, «Colui che non dorme mai», in ID., La parte mancante, Troina (En), Servitium - Città Aperta, 2007, 43-48.
10 Cfr S. ZAVOLI, «Dio ha bisogno degli uomini», in ID., Sui banchi della vita, Bergamo, Minerva Italica, 1984, 205-207.
© La Civiltà Cattolica 2009 II 139-144 quaderno 3812


Storia di un apologeta americano convertito dal protestantesimo - Intervista allo scrittore e conferenziere Steve K. Ray - di Luca Marcolivio
ROMA, mercoledì, 29 aprile 2009 (ZENIT.org) – Da accanito avversario della Chiesa Cattolica a suo convinto sostenitore e difensore. Nato e battezzato nella chiesa battista, Steve K. Ray si è convertito quindici anni fa al cattolicesimo, divenendo nel giro di qualche tempo uno dei più noti apologeti e conferenzieri americani.
Autore di numerosi libri e documentari a sostegno delle verità della Chiesa di Roma, Ray è curatore del sito web www.catholicconvert.com.
La scorsa settimana, dal 20 al 24 aprile, Steve K. Ray è stato ospite dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA) dove ha tenuto il corso intensivo di apologetica “Le ragioni della fede”, realizzato in collaborazione con il Centro Pascal e l’Istituto Sacerdos.
ZENIT lo ha intervistato a conclusione della sua trasferta romana.
Mr. Ray, quali sono stati i contenuti e le finalità del suo corso?
Ray: Sin dal momento della mia conversione mi sono sempre trovato dinnanzi al confronto tra Chiesa cattolica e Chiese protestanti. Mi rendevo conto della necessità di argomentare, di fornire buone ragioni alla mia scelta. Quando padre Alfonso Aguilar LC (coordinatore del corso, ndr) mi ha proposto di tenere il corso di apologetica “Le ragioni della fede”, ho accettato con molto entusiasmo. Il corso, pur aperto a tutti, è indirizzato soprattutto ai seminaristi di nazionalità statunitense e messicana che studiano teologia all’APRA: quando costoro torneranno in patria da sacerdoti dovranno confrontarsi con le argomentazioni e le critiche dei battisti, degli evangelici e delle varie sette. Chi porta avanti missioni cattoliche in Usa o in Messico corre il rischio inevitabile di essere attaccato per la sua fede. Quindi l’obiettivo del mio corso è stato quello di parlare a questi uomini, soprattutto in vista del loro futuro apostolato nei loro paesi d’origine. Rafforzare la fede di un sacerdote è fondamentale poiché la sua predicazione può cambiare la mente e il cuore di centinaia, anche migliaia di fedeli. I miei corsi e le mie conferenze hanno quindi soprattutto lo scopo di fornire ‘armi e munizioni’ per i futuri sacerdoti e per i cattolici in generale.
Ci vuole raccontare la storia della sua conversione?
Ray: Ho sempre creduto in Gesù e nella cristianità e ho sempre letto e amato la Bibbia, tuttavia vedevo il cattolicesimo come fumo negli occhi. Non riuscivo davvero a trovare nulla di buono nella Chiesa di Roma: per me il Papa era l’Anticristo. Durante le mie conferenze sono solito dire che la Chiesa Cattolica era per me una splendida quercia coperta da una cortina di fumo, quindi invisibile alla mia vista. Diventai cattolico quando mi resi conto delle contraddizioni che dilaniavano la stessa comunità protestante: nessuno di loro era d’accordo su come andava interpretata la Bibbia, nessuno era in grado di dire quale fosse l’autentico messaggio delle Sacre Scritture, non c’era nessun vero maestro tra loro, soltanto molte opinioni differenti con relative diatribe e divisioni. Inoltre nelle Chiese evangeliche c’è solo la predicazione e manca l’Eucaristia. Non mi ero mai reso conto che l’unica vera interpretazione della Bibbia era patrimonio della Chiesa Cattolica. L’altro mio dilemma era di carattere morale: ci sono Chiese evangeliche che accettano il divorzio, l’aborto e la contraccezione, per cui se tu accetti questi principi puoi unirti a loro… Tutta questa confusione etica e dottrinale mi rendeva infelice e frustrato.
Fino a quando uno dei miei migliori amici si convertì al cattolicesimo, dopo essere stato a lungo un predicatore protestante, popolare anche al pubblico radiofonico. Iniziai perciò a polemizzare con lui, argomentando l’erroneità della sua scelta. “Convertirti al cattolicesimo è la cosa più stupida che potevi fare – gli dissi – sei troppo in gamba per diventare cattolico”. Tuttavia, più argomentavo e riflettevo, più mi rendevo conto che la Chiesa Cattolica era dalla parte giusta. Da bambino mi dicevano sempre che la chiesa delle origini era in un certo senso protestante; tuttavia quando ebbi il piacere di leggere le opere dei padri della chiesa (Sant’Ignazio d’Antiochia, San Policarpo e molti altri) mi resi conto che erano davvero cattolici. Ciò mi rese sbigottito e mi mise in crisi. Avevo sempre amato e idealizzato la chiesa delle origini, pertanto avvertivo una contraddizione nella mia appartenenza alla chiesa battista. La mia conversione non fu accettata dai miei amici e con la maggior parte di loro ruppi ogni legame. Mia moglie Janet, che ha fatto il mio stesso cammino, ha avuto gli stessi problemi. Sia io che lei abbiamo litigato con le rispettive famiglie e Janet non ha parlato con suo padre per un anno. La mia conversione ha una data precisa: 1 gennaio 1994. Quel giorno mi misi a leggere la Bibbia e, dopo averla chiusa, con le lacrime agli occhi mi dissi: “sono un cattolico”. La cosa incredibile è che fino a quel giorno non ero mai entrato in una chiesa cattolica, né avevo mai conosciuto alcun sacerdote cattolico. È stata una vera grazia dal Cielo. La più bella cosa che mi sia capitata nella vita, insieme all’aver sposato Janet.
Che differenze nota tra la fede degli americani e la fede degli europei, in particolare degli italiani?
Ray: Le differenze sono notevoli. Gli Stati Uniti rimangono un paese molto religioso, in cui la spiritualità è sempre molto forte. La maggioranza della popolazione crede in Dio e in Gesù Cristo, legge la Bibbia, pur essendoci, anche da noi, una buona percentuale di atei, laicisti e intellettuali che rifiutano la fede. La divisione tra cattolici e protestanti è però altrettanto marcata. In altre parti del mondo questa divisione è meno accentuata: in Turchia, ad esempio, i cristiani sono una piccolissima minoranza e questo favorisce una maggiore solidarietà tra le diverse chiese. Negli Usa i cristiani sono numerosissimi ma assai evidenti sono le dispute e le divisioni al loro interno. In Europa la lacerazione più palese è quella tra laicisti e intellettuali ‘postmoderni’ da un lato e Chiesa Cattolica dall’altro. Anche tra i cattolici stessi sussistono grosse differenze tra i cattolici ‘liberal’ e i cattolici obbedienti al Papa. L’Italia va comunque rievangelizzata: un tempo è stata un paese indubbiamente cattolico ma, anche da voi, la miscredenza e il secolarismo hanno preso piede. C’è chi dice di essere cristiano senza comportarsi come tale. C’è gente che va ad ascoltare il Papa e ad applaudirlo ma, verosimilmente, dissente dall’insegnamento del Santo Padre, approvando l’aborto e la contraccezione, vivendo per il denaro e per i piaceri del mondo. Ovviamente questo è un discorso che vale anche per l’America…
Ci troviamo a Roma, capitale della cristianità, una città carica di simboli, il cui suolo è stato santificato dal sangue dei martiri. Cosa rappresenta per lei, americano e cattolico, questa terra?
Ray: Venni per la prima volta a Roma da protestante, interessandomi solo della storia e dell’arte. La Chiesa Cattolica mi era indifferente, non mi interessavano i suoi simboli religiosi, per me erano pura idolatria. Tutt’altra cosa fu il mio primo pellegrinaggio da cattolico: ogni opera d’arte mi sembrava estremamente ricca, bella ed elegante. Pensare a Roma, per me, è pensare a tutta l’opera degli apostoli, una linea ininterrotta di tradizioni indissolubilmente legata a ciò che credo. Quando vengo a Roma penso a San Pietro e San Paolo, qui martirizzati e sepolti, penso al sangue dei martiri che zampilla ovunque e ha dato vita a nuove generazioni di cristiani. In questa tradizione vedo anche le mie radici. Le chiese, le statue, gli affreschi, le opere d’arte di questa città sono un segno di quanto bella sia la Chiesa Cattolica. La Chiesa è una casa per filosofi, artisti, musicisti ma è in fondo la casa di tutti noi. Ogni volta che vengo qui a Roma ho la sensazione di immergermi in un bagno caldo, di ‘affondare’ nella mia storia personale.


Più di 100 rabbini daranno il benvenuto al Papa su “Haaretz”
In occasione della sua visita in Terra Santa
GERUSALEMME, giovedì, 30 aprile 2009 (ZENIT.org).- Più di cento rabbini delle varie denominazioni firmeranno un messaggio che verrà pubblicato su una pagina del quotidiano israeliano “Haaretz” per dare il benvenuto a Benedetto XVI in Terra Santa e promuovere il dialogo tra ebrei e cristiani.
E' un'iniziativa promossa dal rabbino Jack Bemporad, direttore del Center for Interreligious Understanding (CIU) del New Jersey e membro della International Foundation for Interreligious and Intercultural Education (www.ifiie.org), secondo quanto hanno reso noto a ZENIT i presidenti di questa istituzione, Adalberta e Armando Bernardini.
Il messaggio dei rabbini è intitolato “United in our age”, ispirandosi alla Nostra Aetate, la dichiarazione del Concilio Vaticano II pubblicata il 28 ottobre 1965 che ha costituito una svolta per le relazioni tra ebrei e cattolici.
In particolare, i rabbini citano il numero 4 del documento, che afferma: “Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo”.
Rivolgendosi direttamente al Papa, la pagina pubblicata da “Haaretz” spiegherà: “In questo spirito, noi – rabbini e leader ebraici – diamo un caldo benvenuto a lei e alla sua missione di pace in Israele. Con una sola voce, siamo uniti nel nostro impegno per il dialogo interreligioso ad aprire più sentieri per una maggiore comprensione, e a riconoscere e a rafforzare continuamente l'importante rapporto tra cattolici ed ebrei in tutto il mondo”.
“E quale posto migliore per riaffermare questo impegno della Terra Santa di Israele, un luogo che entrambe le religioni custodiscono come parte di un'eredità condivisa?”, aggiunge il testo firmato dai rabbini, che termina augurando "B’shalom".
Dopo le firme, una nota dice: “Per sapere di più della trasformazione delle relazioni ebraico-cattoliche, dalla storica Nostra Aetate del XX secolo alle risorse del XXI secolo, visitare The Center for Interreligious Understanding su www.faithindialogue.org".
Il rabbino Jack Bemporad, trasferitosi a sei anni dall'Italia negli Stati Uniti per sfuggire all'Olocausto, è stato al centro di molti dei negoziati per migliorare le relazioni tra cristiani ed ebrei.
Tra le altre cose, nel 1992 ha lavorato con il Cardinale Johannes Willebrands e con il Cardinale Edward I. Cassidy per aiutare a garantire piene relazioni diplomatiche tra il Vaticano e lo Stato di Israele. Nel 1999 ha pronunciato a San Pietro un discorso alla Conferenza vaticana sulle Relazioni Interreligiose davanti a 50.000 persone, tra cui Papa Giovanni Paolo II, il Dalai Lama e leader religiosi di tutto il mondo.
Nel 2003 è stato l'autore principale della dichiarazione emessa a nome delle religioni mondiali in un simposio vaticano sulle “Risorse spirituali delle religioni per la pace”.
Per i suoi sforzi per promuovere il dialogo interreligioso ha ricevuto il prestigioso Premio Luminosa del Movimento dei Focolari e riconoscimenti dalla Fondazione Raoul Wallenberg e dalla Pave The Way Foundation.
Attualmente Bemporad è docente di Studi Interreligiosi presso l'Angelicum di Roma.


"Tutto scorre" di V. Grossman - Autore: Papa, Rosa Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it
Ripubblicata, con "Vita e Destino", un'altra importante opera del grande romanziere russo. (Adelphi 2008 € 19,00)
E’ una “non-storia”, incentrata dapprima su due collaboratori del regime sovietico (Nikolaj e sua moglie), in cui si mostra la loro apparente buona fede, che si trasforma poi a poco a poco, quasi insensibilmente, in malafede. Tutto questo si traduce in imbarazzo, quando torna dal gulag in Siberia un loro cugino, Ivan Grigorievic, che viene apparentemente accolto, in realtà lasciato da parte per paura.
Quest’ultimo si affeziona ad Anna Sergeevna, vedova con un figlio ormai non più giovanissimo, e si innamora di lei, ma non riuscirà neppure a dirglielo, perché Anna si ammalerà di tumore e morirà in ospedale.
Possiamo parlare di una “non-storia”, perché sembra che Grossman voglia mostrarci i “tipi” della società sovietica degli Anni Trenta con le loro vicende, e anche perché le parti esclusivamente teoriche, soprattutto negli ultimi capitoli dell’opera, sono numerose.
Attraverso i “flash-back” su Anna Sergeevna, veniamo a conoscere la storia della grande carestia degli anni Trenta soprattutto in Ucraina (Holodomor), come se la stessimo vivendo noi. Prima Anna era a capo del Comitato Comunista, ma poi se ne distacca, dopo tutto ciò che ha visto accadere nel “partito”.
Accanto alla sua storia, Grossman ci fa vivere le vicende di altre persone che muoiono di fame: intere famiglie e interi villaggi.
Non è stato solo lo sterminio dei kulaki, ma “l’ascia s’è abbattuta sulla gente di campagna tutta intera quanta è”. Tutto questo ci è mostrato da vicino, soprattutto attraverso una famiglia che ci viene presentata in uno squarcio di vita e nella sua terribile, lenta fine.
Poi, attraverso un altro “flash-back”, lo scrittore ci narra l’internamento di Ivan Grigorievic nel gulag, introducendoci in questo terribile mondo.
Nei gulag sovietici erano imprigionate persone di ogni tipo: “Nessuno di questi uomini (neanche i persecutori ndr.) morì di morte naturale”.
Il racconto di questi fatti comunica tangibilmente la certezza che non c’è nessuna differenza tra l’Olocausto degli Ebrei e quello che è successo nella Russia stalinista: carestie e gulag; nessuna differenza neppure nel modo di morire, perché la morte per fame è una delle peggiori torture, se non la peggiore.
Il titolo “Tutto scorre” si riferisce al fatto che tutto muta: dopo Lenin c’è Stalin, dopo la fame il gulag, la corruzione, le esecuzioni sommarie...
Purtroppo nell’ultima parte l’Autore insiste, come già detto, quasi esclusivamente su questioni teoriche, la prima delle quali è dedicata all’anima russa, schiava fin dai tempi degli zar e dei servi della gleba; in seguito si descrivono la collettivizzazione forzata, la figura di Lenin, poi quella di Stalin. Di conseguenza questa parte dell’opera offre spunti interessanti, ma è di faticosa lettura, a differenza della precedente.
Uno dei temi chiave di tutto il libro è senz’altro il tentativo del Potere di uccidere la libertà e l’impossibilità di riuscirci, perché la libertà e l’essere uomini non muoiono neanche nel lager e nella fame, in qualunque circostanza, come è accaduto a Ivan Grigorievic, che non viene piegato da anni di lager e si mantiene libero e umano dentro.
Comunque, rispetto al capolavoro di Grossman, “Vita e Destino”, il valore artistico di questo libro, scritto tra il 1955 e il 1963, è senz’altro inferiore, mentre è (forse) superiore il valore documentario e storico su quanto è accaduto in Russia sotto Stalin.


Travisamenti del pensiero di Benedetto XVI - Se il Papa è scomodo - Anticipiamo stralci di uno degli articoli del numero in uscita de "La Civiltà Cattolica". - di Giandomenico Mucci – L’Osservatore Romano 3 maggio 2009
I cattolici sanno bene che esiste, in Italia e in Europa, una ostilità a priori contro la dottrina della Chiesa, specialmente nel campo dell'etica. La stampa, che è espressione di poteri e interessi forti, è un'ottima propagatrice di tale ostilità. Questa pregiudiziale negativa si attenua o si blocca dinanzi a quelle scelte pastorali e sociali che, pur sempre guidate dalla dottrina cristiana, sono condivisibili sul piano pratico dal fronte "laico". Per ovvi motivi, quell'apriori ostile ha per oggetto il Papa, che rappresenta e propone la dottrina della Chiesa con il massimo grado di autorevolezza. Contro di lui si esercitano costantemente l'ipercritica, il fastidio, il disagio dinanzi al suo magistero e alla sua persona. L'allora cardinale Ratzinger era descritto come il Rottweiler del pontificato di Giovanni Paolo II, l'inflessibile e freddo controllore della dottrina, lui che da chi lo conosce da anni è stimato "uomo di grande gentilezza, di profonda intensità spirituale, di grande curiosità intellettuale e, soprattutto, di serena tranquillità interna", secondo Richard John Neuhaus su "il Foglio". La campagna mediatica tendente a screditare il Papa trova alimento nelle più stravaganti interpretazioni date agli interventi pontifici. Parecchi sono ormai gli episodi osservati con lenti preconcette. A noi interessa mostrare al lettore la regia culturale che fa di quella campagna una sezione della più vasta campagna che, a livello universale, tende a screditare la Chiesa cattolica. Questa insistenza provoca una perdita di consensi? Renato Mannheimer ha dichiarato a suo tempo che i fatti della Sapienza hanno portato la popolarità del Papa oltre il 90 per cento, cioè oltre una quota che i sondaggisti sanno essere già abitualmente la più elevata tra quelle che riguardano i personaggi pubblici. Certo, il Papa non propone l'antropologia di Claude Lévi-Strauss. Offre piuttosto un progetto etico che mira alla formazione della persona nel suo complesso, un progetto culturale e spirituale chiaro e fermo nella dottrina ispiratrice, indulgente verso le cadute dei singoli individui. La gente avverte nelle sue parole la presenza dell'esperienza comune quotidiana nella quale dominano la schiavitù della droga, la violenza sui deboli, le vite che nascono e sono rifiutate, l'affievolimento del senso dell'umanità e della solidarietà. È stato notato che tra coloro che gettano discredito sul Papa ci sono alcuni che una volta si sono distinti per essere stati culturalmente conniventi con regimi totalitari e oggi accusano di totalitarismo culturale la Chiesa che, con la difesa dei diritti umani e la testimonianza fattiva a favore degli indifesi e dei poveri nel mondo, ha acquisito una singolare autorevolezza. Gli stessi saggisti chiedono spesso alla Chiesa di contribuire a formare buoni cittadini e poi la accusano, senza coerenza, di violare la laicità dello Stato o di coartare la coscienza dei cittadini, quando parla della vita, della famiglia, della malattia. Non manca qualche illustre studioso che, in particolari occasioni, dà rilievo alla capacità di comunicazione mediatica dimostrata dal Papa mediante alcuni gesti simbolici. Ma, generalmente, il magistero di Benedetto XVI è letto come il tentativo di un interlocutore che si colloca sempre sulla difensiva e, per giunta, in un'ottica pessimistica, nel dialogo con la posizione di relativismo e nichilismo preponderanti nella cultura occidentale. Da queste posizioni, alle quali non è estraneo l'interesse politico, proviene la sistematica ostilità al Papa che non saprebbe dialogare con la società, allontanerebbe i fedeli verso i quali mancherebbe di misericordia, renderebbe afono il laicato cattolico con il suo dogmatismo. Ogni osservatore onesto e libero saprà valutare come merita una così grossa mistificazione. La stampa italiana tende a veicolare un'immagine del Papa quasi sempre in termini ipercritici, quasi fosse un giudizio consolidato. Invece, non mancano voci autorevoli che non pensano affatto che Benedetto XVI sia un Papa scomodo. Guido Guastalla, per esempio, assessore alla Cultura nella Comunità ebraica di Livorno, esprime stima e ammirazione per il Papa. Valutazioni molto positive sul ruolo che il Papa sta svolgendo con il suo ministero vengono da due storici inglesi. Michael Burleigh, già professore alle Università di Oxford e Harvard e alla London School of Economics, contrappone l'insegnamento di Benedetto XVI alle "banalità di un multiculturalismo ormai discreditato esistente soltanto nelle università di sinistra e in alcune amministrazioni locali, nessuna delle quali è all'avanguardia del pensiero europeo". E nota: "Al posto della religione, le élite liberal preferiscono la recita incessante, a mo' di mantra, di alcune parole d'ordine come "diversità", "diritti umani" e "tolleranza", quasi fossero state loro a inventarle, e inconsapevoli di quanto esse siano collegate in realtà a una più profonda cultura cristiana. Una cultura basata su idee e strutture in cui siamo talmente immersi da non riuscire quasi a riconoscerle". Secondo Paul Johnson, che è stato anche direttore del settimanale "New Statesman", la stragrande maggioranza dell'umanità riconosce alla religione la funzione di una dimensione vitale nelle esistenze degli uomini. E il Papa è impegnato a sostenere l'aggancio della ragione al trascendente. Ma "tutte le forze della società moderna sono contro di lui". Contro di lui non è André Glucksmann che non ha esitato a dichiararsi a favore delle posizioni del Papa con il quale condivide l'opposizione a qualsiasi forma di relativismo postmoderno. Questi autori sono esponenti di diversi ambienti culturali, ma hanno in comune la constatazione del progetto esausto del neoilluminismo laicista e il convincimento che non può esistere un fondato conflitto tra religione e scienza, tra attività della ragione e apertura alla trascendenza. Pertanto vedono nel Papa non un personaggio scomodo, ma l'annunciatore di un nuovo umanesimo. In Italia, il fronte laicista ha certamente radicalizzato il suo confronto con la Chiesa. I suoi uomini si compiacciono di descrivere regolarmente una Chiesa e un cattolicesimo in difficoltà. A qualcuno, questa strategia si configura come rivelatrice, oltre che di acredine di antico stampo, di un nervosismo segreto, quasi un caso di psicologia adolescenziale, quando il figlio non riesce a staccarsi dai genitori e la sua personalità si afferma soltanto continuando a parlarne. Peraltro, i "laici" tacciono sempre su quelle attività, come la sussidiarietà e i servizi sociali, che quasi non esisterebbero se non fossero alimentate dalla dottrina della Chiesa istituzionale incarnata dal laicato cattolico. Il magistero di Benedetto XVI riflette limpidamente quello del Vaticano II e, al di là dei singoli pronunciamenti che vanno contestualizzati, manifesta una preoccupazione di fondo per gli sviluppi di quella cultura alla quale si affidano i suoi contestatori. Il Papa - come ha chiarito l'8 dicembre del 2005 nell'omelia della Santa Messa celebrata nel quarantesimo anniversario della conclusione del Concilio - guarda all'uomo contemporaneo come a colui che, erede di una storia secolare, "cova il sospetto che Dio gli tolga qualcosa della sua vita, che Dio sia un concorrente che limita la nostra libertà e che noi saremo pienamente esseri umani soltanto quando l'avremo accantonato. (...). (L'uomo) non vuole contare sull'amore che non gli sembra affidabile; egli conta unicamente sulla conoscenza, in quanto essa gli conferisce il potere (...) col quale vuole prendere in mano in modo autonomo la propria vita". "Alcuni - ha precisato il Pontefice nel Discorso alla Plenaria della Pontificia Commissione Bibilica del 27 aprile 2006 - sono arrivati a teorizzare un'assoluta sovranità della ragione e della libertà nell'ambito delle norme morali: tali norme costituirebbero l'ambito di un'etica solamente "umana", sarebbero cioè l'espressione di una legge che l'uomo autonomamente dà a se stesso: i fautori di questa "morale laica" affermano che l'uomo, come essere razionale, non solo può ma addirittura deve decidere liberamente il valore dei suoi comportamenti". La preoccupazione del Papa si estende dall'ambito culturale a quello pastorale: "La secolarizzazione - ha sottolineato il Santo Padre nel Discorso alla Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura l'8 marzo del 2008 - non è soltanto una minaccia esterna per i credenti, ma si manifesta già da tempo in seno alla Chiesa stessa. Snatura dall'interno e in profondità la fede cristiana e, di conseguenza, lo stile di vita e il comportamento quotidiano dei credenti. Essi vivono nel mondo e sono spesso segnati, se non condizionati, dalla cultura dell'immagine che impone modelli e impulsi contraddittori, nella negazione pratica di Dio: non c'è più bisogno di Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui. Inoltre, la mentalità edonistica e consumistica predominante favorisce, nei fedeli come nei pastori, una deriva verso la superficialità e un egocentrismo che nuoce alla vita ecclesiale. (...). C'è il rischio di cadere in un'atrofia spirituale e in un vuoto del cuore".
(©L'Osservatore Romano - 2-3 maggio 2009)


L'irruzione della fiction nel racconto della Shoah - La stanchezza della memoria - Il 7 maggio esce il nuovo numero della rivista "Vita e Pensiero". Pubblichiamo in anteprima ampi stralci di uno degli articoli. di Anna Foa – L’Osservatore Romano, 3 maggio 2009
Il successo di pubblico dei libri sulla Shoah non accenna a diminuire. In Italia, in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti gli scaffali delle librerie si affollano di memorie, racconti, romanzi centrati sulla Shoah o scritti da sopravvissuti, libri recenti o libri recuperati all'oblio. Lo straordinario successo del romanzo di Jonathan Littell, Le benevole, vincitore in Francia del prestigioso premio Goncourt, tradotto in molte lingue e venduto a centinaia di migliaia di copie, ne è l'ultimo esempio. Un libro assai controverso, che ha trovato tra i critici sostenitori convinti e altrettanto accesi denigratori. Ma ci induce a qualche riflessione anche il successo di un libro sconosciuto finora al grande pubblico, come lo straordinario Vita e destino di Vassilij Grossman, pubblicato per la prima volta in edizione ridotta a Losanna nel 1980. È un fenomeno che dura ormai da molti decenni, e che non è quindi marginale o estemporaneo, ma ha radici profonde nella cultura e nell'identità delle generazioni nate dopo la Shoah: conoscere le forme che il Male ha assunto nella storia del Novecento, riconoscerne i germi e le modalità. All'intreccio inestricabile tra memoria e romanzo, che caratterizza i primi autori (come nel caso di Primo Levi e del suo romanzo Se non ora quando?), si affianca sempre più la narrativa di pura fiction, in generale opera di sopravvissuti di seconda o di terza generazione. Ma abbiamo ora, con Littell, anche un romanzo di pura invenzione, scritto da un ebreo americano che non può essere considerato un sopravvissuto, e che per di più è scritto non dalla parte delle vittime, ma da quella dei carnefici: la storia di un nazista, il suo percorso di assassino, i suoi personali turbamenti. Il Male, insomma, visto dal di dentro. In realtà, questa letteratura rappresenta il sintomo più scoperto di un percorso memoriale collettivo complesso, mai uniforme. È, insomma, legata alle metamorfosi della memoria, al modo in cui essa si è trasformata e continua a mutare nella nostra società occidentale. E il passaggio dalla memorialistica alla fiction corrisponde a quella difficile fase, individuata da David Bidussa nel suo recente Dopo l'ultimo testimone, della crisi odierna della memoria della Shoah. E così, il proliferare di letteratura, film, teatro non ci appare come un sintomo di crescente consapevolezza, ma può anzi essere letto come quello di una stanchezza della memoria. La letteratura di fiction sulla Shoah non è, in realtà, lo dicevamo, un fenomeno nuovo, ma accompagna tutto il percorso della costruzione della memoria, un percorso che è opera prevalente delle memorie dei sopravvissuti, delle deposizioni processuali dei carnefici, dei film e fin dei serial televisivi, e non della ricostruzione storica in sé. Pensiamo al libro di André Schwarz-Bart, L'ultimo dei giusti, che appare nel 1960, pensiamo a La casa delle bambole di Ka Tzetnik, pensiamo appunto a Se non ora quando? di Levi o a Badenheim 1939 di Aharon Appelfeld, un altro scrittore importante e poco riconosciuto che il pubblico italiano sta cominciando ad amare. A parte poche eccezioni, tuttavia, essa si tiene ai margini del campo, racconta momenti precedenti alla vera e propria deportazione o successivi alla liberazione: è scritta all'ombra della Shoah ma senza entrarne nei dettagli, quasi la descrizione dello sterminio richiedesse un sigillo di autenticità incompatibile con la fiction. Quanto alla memorialistica, cioè alla descrizione fedele dell'esperienza concentrazionaria, anch'essa si afferma però solo sulla capacità letteraria di trasmettere, e su un attento dosaggio di razionalità, emozione, riflessione. Non è un caso che molta parte delle memorie abbiano avuto vita effimera e solo quelle che hanno rivestito una forma letteraria "alta" abbiano avuto ampia diffusione e influenza profonda sull'animo collettivo. Fin dall'inizio, quindi, il rapporto tra testimonianza e narrativa si pone come un problema, carico di implicazioni sulla credibilità della testimonianza, ma anche sulla necessità di filtrare la mera testimonianza per trasformarla in insegnamento, monito, memoria. Inizialmente, a parlare sono sempre i sopravvissuti, anche quando la loro testimonianza si affida alla letteratura, forse per un bisogno di distanza, fors'anche solo per dare spazio alla scrittura. È negli anni Settanta e Ottanta che comincia ad affacciarsi la figura del testimone di seconda generazione, di quanti raccontano la loro testimonianza di figli di sopravvissuti, di testimoni dei testimoni, come nel libro di Helen Epstein, Figli dell'Olocausto. Ma la stessa Epstein, a distanza di trent'anni da questo suo libro, si è recentemente cimentata in una scrittura molto più letteraria, a metà fra romanzo e memoria familiare, ripercorrendo in un altro splendido libro, Di madre in figlia, la storia di tre generazioni di donne, sua madre, sua nonna e la sua bisnonna. Anche in questo caso, dunque, il passaggio è dalla testimonianza verso una rielaborazione letteraria della memoria. Un altro esempio molto noto e di grande successo è il fumetto di Art Spiegelman, Maus, in cui i protagonisti assumono forma animale, quella del gatto i nazisti, quella del topo gli ebrei. È una testimonianza di seconda generazione: il padre, il sopravvissuto, è sollecitato a raccontarsi dal figlio. Il ghetto, il campo, appaiono solo nelle sue parole. Il figlio rielabora nel disegno, trasformando in arte la memoria. Un'opera straordinaria, che pure al suo apparire suscitò reazioni sconcertate e addirittura scandalizzate. La forma del fumetto, le immagini animali, mal si adattavano a una storia che poteva rivestire solo forma "alta", appunto di tragedia. Un'antica contesa, questa, se la commedia possa dar voce a vicende tragiche e terribili, che riapparirà nei dibattiti suscitati da film come La vita è bella, o Train de vie. Si può scherzare con l'orrore assoluto? Si può dare un messaggio rasserenante, di fronte alla morte realizzata? Consideriamo i tre scrittori che hanno avuto negli anni più recenti maggior successo di pubblico, Irène Némirovsky, Vasilij Grossman, Jonathan Littell. La prima è una straordinaria scrittrice, che però, essendo un sommerso e non un salvato, non racconta - e come potrebbe? - i campi di sterminio. Il suo Suite française - un bellissimo romanzo pubblicato nel 2004 dopo il ritrovamento del manoscritto rimasto inedito - non appartiene in senso stretto al genere della letteratura sulla Shoah. Eppure la morte della sua autrice ad Auschwitz rende tale il suo libro agli occhi dei suoi lettori, quasi i suoi scritti fossero una premonizione letteraria del suo tragico destino. Vasilij Grossman è un grandissimo scrittore, morto nel 1964 dopo che il suo libro era stato sequestrato dal Kgb. È una storia di nazismo ma anche e soprattutto di gulag: è la storia di Stalingrado e di Stalin, dei massacri delle Eisentzgruppen in Ucraina e del gulag. Ed è evidente che all'origine dell'oblio di Grossman non sono state solo le difficoltà del percorso memoriale della Shoah, bensì la repressione del regime sovietico, che ha tentato di mettere a tacere Grossman e di far sparire i suoi scritti come farà poco dopo con Solgenitsyn, e ha coperto della sua censura. Sia Némirovskj che Grossman scrivono in anni in cui la Shoah era ancora un oggetto indefinito, o perché era ancora in corso, o perché non era ancora stata costruita come oggetto di memoria. Ciò che li avvicina a Littell è il numero dei lettori di oggi che li scelgono: il successo, insomma. Infatti, Le benevole è un'altra cosa. Innanzitutto cerca di immedesimarsi nella parte dei carnefici, e questo rappresenta una novità nel nostro panorama. Avevamo memorie, interviste, come quella di Gitta Sereny a Hoess, e le testimonianze dei processi. E devo confessare che la lettura del libro dello storico americano Christopher Browning, Uomini comuni, basato sulle testimonianze processuali di un battaglione di Einsatzgruppen, mi ha dato molto meno disagio di quello di Littell, che pure è un libro di estremo rigore dal punto di vista storico, senza sbavature. Lo stesso disagio che è forse al fondo delle stroncature che il libro ha subito da più parti, anche nella sua recente apparizione negli Stati Uniti. In effetti, il libro sembra mettere in luce tutti gli aspetti più inquietanti della nostra costruzione memoriale. Innanzitutto il filone di sadismo che vi appare, un sadismo che non è certo una novità, ma che finora ha trovato poco spazio per esprimersi nella narrativa e nella memorialistica, a parte Ka Tzetnik, l'autore di La casa delle bambole, il testimone al processo Eichmann, colui che ha più insistito sugli aspetti di orrore e violenza sessuale. Nonostante tutto, infatti, l'immagine dei nazisti che si è più affermata è quella di chi compie il male per conformismo, obbedienza, adesione ideologica, non per puro piacere. La famosa scena della ragazza e del comandante del campo in Schindler's List, ad esempio, carica di attrazione sessuale e sadismo, o quella in cui il nazista spara per divertimento sui prigionieri, ci apparve infatti allora una sbavatura di fronte all'immagine dei nazisti come ragionieri della morte prevalente nel nostro immaginario. Ora l'attenzione dei lettori sembra privilegiare i toni accesi del sangue. In Littell questo filone horror appare chiaro, e le vicende del protagonista Aue ci ricordano quelle, recentemente rivelate, della strage di molte centinaia di ebrei compiuta durante un festino nella sontuosa villa dei Thyssen-Bornemisza, nel marzo 1945: il male come perversione, insomma, e non come banalità. È possibile che questa scelta non sia però solo dovuta a motivi di adesione alla realtà storica in tutta la sua complessità. C'è anche una volontà di spettacolarizzazione. In questo senso, il libro di Littell può essere accostato ad Acido solforico di Amélie Nothomb: "Venne il momento in cui la sofferenza altrui non li sfamò più: ne pretesero lo spettacolo". Nel libro di Nothomb, anch'esso un best seller, il campo di sterminio viene ricreato a scopo di intrattenimento televisivo, le sue vittime prese a caso per strada, e la morte diventa spettacolo, come nei giochi del circo dell'antica Roma. Ma perché la morte non ci basta più, o almeno perché la morte di Auschwitz, che abbiamo visto in tante immagini documentarie, non ci basta più? Perché questo riaffiorare voyeuristico di sadismo in romanzi e letteratura di fiction? Potremmo ipotizzare che la morte ideologica non interessi più nessuno, che per spiegare l'animo dei carnefici ci voglia almeno, come nel romanzo di Littell, il trauma di un incesto. O che, forse, si tratti di una risposta inconsapevole al dilagare del negazionismo: eccoti sangue e torture, nudità e morte visibile, a iosa. Come puoi negare ancora? O, forse, che tale sia ormai l'abitudine alla morte da richiedere per i nostri palati distratti che sia cucinata in sempre nuove salse. L'onda lunga dell'eredità di Auschwitz ancora ci sommerge. Perché ancora dobbiamo capire fino in fondo cosa rappresenti, in noi eredi della rottura della civiltà rappresentata dalla Shoah, questa fame di sangue, questa assuefazione ai cadaveri, questa bramosia di letture accompagnata da tutta questa infantile e pervicace volontà di negare la storia, la realtà, solo perché troppo condivisa. E mi inquieta la notizia, apparsa sui giornali in questi giorni, dell'ultimo film di Quentin Tarantino: un manipolo di coraggiosi e sanguinari ebrei americani alla ricerca, nella seconda guerra mondiale, degli scalpi dei nazisti.
(©L'Osservatore Romano - 2-3 maggio 2009)


PRIMO MAGGIO/ Perché festeggiare? - Pigi Colognesi - venerdì 1 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Primo maggio, festa del lavoro. Perché il lavoro merita di essere festeggiato? Se ne rende conto di sicuro chi, con la crisi che c’è, il lavoro l’ha perso o se lo vede decurtato dalla cassa integrazione. Si festeggia il lavoro prima di tutto perché «chi non lavora non mangia». Ma anche perché, nonostante ci venga proposto il sogno di una eterna vacanza, sappiamo bene che senza lavorare perdiamo qualcosa di noi stessi. Non è sempre stato così.
Questa nobilitazione del lavoro come fondamentale espressione dell’io è un portato della cultura ebraico-cristiana. Lo ha ricordato Benedetto XVI nel famoso discorso parigino del 12 settembre dello scorso anno: «Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito». Al contrario i monaci benedettini hanno fatto del lavoro una dimensione essenziale della loro regola di vita. E ciò per una considerazione molto semplice: Dio stesso «lavora sempre», dai misteriosi inizi nei quali ha creato il mondo al suo permanente intervento nella storia. «Così - ha proseguito il Papa - il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo».
Lavoro, dunque, non è azione da schiavi, ma espressione di una alta dignità della persona. Per questo vale la pena festeggiarlo. Magari pensando a quell’oscuro falegname di Nazareth che faticava per guadagnare il pane per sé e per una moglie che non era propriamente sua moglie e un figlio che non era propriamente suo figlio; la Chiesa ha fissato proprio oggi la festa di san Giuseppe lavoratore.
Ma il realismo cristiano non si è mai nascosta un’altra dimensione del lavoro: la fatica. Infatti la «somiglianza» dell’uomo con l’Eterno Lavoratore non è perfetta; l’uomo vive, direbbero i medievali, nella «regio dissimilitudinis», in un tempo e in uno spazio dove quella somiglianza viene ostacolata e deve quindi essere continuamente e faticosamente riaffermata. In merito al lavoro, ciò significa che «col sudore della fronte guadagnerai il tuo pane». Lavorare implica fatica, condizionamenti da accettare, contraddizioni da superare, fallimenti e riprese. Questo scandalizza chi sogna un lavoro che sia soltanto espressività e creatività personali. Il monaco orientale che dipingeva icone non firmava mai il frutto delle sue fatiche. Esso confluiva in un disegno più grande di lui, dove la questione decisiva era, per usare ancora le parole di Benedetto XVI, «la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione».


BIOETICA/ L’ago instabile dei cattolici nella bilancia della sinistra - Angelo Campodonico - sabato 2 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Viviamo in un mondo accelerato quale non è mai stato in passato a motivo degli sviluppi tecnologici e delle loro conseguenze sulla vita di tutti. Quando formula giudizi sul mondo, chi non vive il presente con attenzione e non è educato a ciò, oggi più di ieri, rischia di sbagliare bersaglio. È come se in un tiro a segno uno sparasse a sagome in veloce movimento. Crede di colpire una sagoma, ma quella è già passata e colpisce a vuoto.
Il mondo degli intellettuali cattolici italiani, assai più della base, ha nutrito, da dopo la guerra in avanti, una simpatia, credo in parte inizialmente spiegabile, per la sinistra nelle sue varie forme. Il tipo umano prevalente in essa conservava spesso forti tratti dell’antropologia e dell’etica cristiane. Basti ricordare l’esperienza del ’68.
L’imperativo cristiano della carità, interpretato moralisticamente, portava ad assumere il metodo marxista di analisi. Ma dalla carità, attraverso la lotta, si è passati al buonismo un po’ estenuato e nichilista di oggi. Qualcuno ha notato che la sinistra ha vinto culturalmente, ma non politicamente. Nessuno (nemmeno Storace) rifiuta a priori istanze e temi della sinistra che sono ormai “politically correct”, ma la sinistra non riesce a fare proposte concrete credibili sul piano politico e quindi a vincere elettoralmente. Soprattutto è venuta meno in Italia e nel mondo la grande divaricazione fra proposte economiche di destra e di sinistra che c’era una volta. Così accade che la sinistra moderata possa apparire talora più liberista del centro destra.
Il problema della sinistra è quindi: che cosa significa essere di sinistra? Quale è l’identità della sinistra oggi? Che cosa rivendicare? Contro chi combattere?
In questa situazione per avere un’identità, e quindi voti, la sinistra è tendenzialmente costretta a far sue le proposte di carattere libertario nichilista che sono diffuse nel mondo di oggi. Essa, per di più, come sociologismo (esito del marxismo), come ha mostrato Del Noce, non ha in se stessa gli strumenti per resistere a queste proposte. Dal marxismo (speranza + scienza) si dissocia o la mera speranza (ritorno alla fede cristiana o almeno kantiana) o, più spesso, la mera scienza assolutizzata (sociologismo-relativismo-nichilismo). La Chiesa è l’unica istituzione del passato che resiste in qualche misura ed è, perciò, il bersaglio ideale di un nichilistico andar contro per affermarsi e trovare riconoscimento e identità. Probabilmente l’uomo che ha avuto in Italia più peso da cinquant’anni a questa parte, soprattutto sui ceti intellettuali, in questo graduale passaggio della sinistra al radicalismo libertario, è Eugenio Scalfari.
Potremmo leggere la richiesta impazzita di diritti (autodeterminazione ecc.) e la lotta contro le discriminazioni, come suggerisce René Girard, come la ricerca di riconoscimento in un mondo occidentale postcristiano in cui Dio si è dileguato, ma è rimasta in forme anche anarchiche la richiesta impellente, ma inesaudita di un “tu” in grado di riconoscere ogni uomo.
La componente cattolica nella sinistra in parte resiste a questa tendenza libertaria. Il partito democratico in difficoltà non può per il momento ridimensionare la componente cattolica (perdere altri voti?), ma la linea di tendenza che pare inevitabile è questa: farsi portavoce in prima istanza delle battaglie per la laicità (o laicismo) e per i diritti civili. Ciò mette in difficoltà i cattolici del centro sinistra. In questo contesto politico nasce il bisogno di mediare fra le diverse componenti del partito democratico e della sinistra in genere, trovando punti di convergenza. Si veda prima il caso del DICO utilizzati come strumento identitario e dopo la vicenda Englaro. In questa luce si spiegherebbe la preferenza di certi temi da parte di quegli intellettuali cattolici che hanno in genere simpatia per quella parte politica o che vedono in essa l’interlocutore per eccellenza dotato tradizionalmente di dignità culturale e l’adozione di un atteggiamento procedurale (carità procedurale?).
In fondo non è strano che anche quando si condividono principi comuni, i giudizi sul particolare siano condizionati dal contesto, da ciò che leggiamo e, soprattutto, da chi stimiamo e consideriamo nostro interlocutore privilegiato. Non a caso il consilium (donde il consiglio da parte di altri) s’identifica nel pensiero classico con il momento della deliberazione che precede la scelta. In sostanza i nostri giudizi, soprattutto su fatti che non ci riguardano in prima persona, su evidenze fenomenologiche che vanno interpretate, sono inevitabilmente condizionati dai contesti culturali che da tempo privilegiamo e che incidono sulla nostra sensibilità morale. Quando giudichiamo non siamo mai soli, siamo sempre “con altri”. La vicenda Englaro insegna.


DIARIO DA L'AQUILA/ Quei bambini bielorussi e la Carità che vince il terremoto - Redazione - domenica 3 maggio 2009 – ilsussidiario.net
Quindici bambini bielorussi da anni, ogni anno, vengono a L’Aquila a trascorrere quasi tre mesi di vacanza. Torneranno anche quest’anno. Le famiglie che li accolgono, a cui ogni anno se ne aggiungono altre che vogliono condividere questa esperienza, non vogliono rinunciare in questo momento di difficoltà a regalare dei momenti di gioia a piccoli senza famiglia, che riescono ad allontanarsi per un po’ dagli orfanotrofi dove vivono. L’amore non ha confini, nel tempo e nello spazio. Supera le avversità. La conferma che la carità rende felici. Troveranno una casa accogliente i bambini bielorussi, non vivranno in tendopoli. Forse saranno loro a regalare serenità alle famiglie aquilane, piuttosto che il contrario.
Oggi ho visto colonne di mezzi di soccorso ripartire, tornare da dove erano venuti. Ciò lascia pensare che dalla prossima settimana le cose potranno cambiare, che la situazione degli aquilani dentro le tendopoli potrebbe diventare più difficile. L’unica cosa buona di oggi è che la pioggia non si è vista, anzi il sole ha scaldato. Purtroppo le previsioni per i prossimi giorni ancora non sono positive.
Quello che più mi ha colpito, questa mattina è stato vedere decine di persone rivestite a festa. Una coppia di sposi hanno celebrato il matrimonio all’interno di un tendone, nella tendopoli di Coppito. Un giorno di festa. Uomini in giacca e cravatta, donne civettuolamente rivestite tra le tende, con la terra ancora un po’ fangosa. La volontà di vivere normalmente come si farebbe in un giorno di festa. Dopo la cerimonia religiosa anche il lancio del riso, sicuramente beneaugurate. E vicino alle tende, a corollario, anche quelle persone vestite da clown che animano le ore per i più piccoli. Uno scenario quasi felliniano. La certezza che c’è la volontà di guardare al futuro.
Come quei vecchietti che in una tendopoli, non si sa come, sono riusciti addirittura a costruirsi un campo di bocce. Utilizzando alcuni sacchi di sabbia che erano stati portati per far fronte alle piogge incessanti. Adesso hanno il loro punto di ritrovo, lo svago, il motivo di vivaci discussioni. Soprattutto la voglia di stare insieme. Sono questi i lati belli che la gente scopre come forse non aveva mai fatto. Quella silenziosa e fredda vita di città, che porta a cancellare i rapporti umani, è sepolta sotto le macerie del terremoto. Adesso ci si cerca, ci si sostiene.
Certamente ci sono anche gli aspetti negativi. Come ovunque. Ci sono persone che del terremoto ne fatto arte di vittimismo, ci sono persone per cui tutto sembra dovuto a scatenare i nervi dei volontari. Richieste assurde in momenti difficili. Ma si parla di sparute minoranze. Con il passare dei giorni chi nelle tendopoli non sa come impegnare il tempo si trova in difficoltà. Fortunate le famiglie che accolgono i bambini bielorussi. Verranno ripagate d’amore, scopriranno che donare è ricevere.
(Fabio Capolla - Giornalista de Il Tempo)


LETTURE / Montale e la possibile speranza dal «mal chiuso portone» .- Redazione - sabato 2 maggio 2009 – ilsussidiario.net
La recente rievocazione dei trent’anni dalla pubblicazione dell’enciclica Redemptor hominis di papa Giovanni Paolo II ha riproposto all’attenzione l’appello iniziale del suo pontificato: «Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo». Questo invito mi ha ricondotto, con sorpresa, ma anche con entusiasmo al finale della lirica I limoni di Eugenio Montale.
Strana coincidenza, ma, se pur frutto di una singolare e forse ardita lettura, non indebita e non inattuale.
Il poeta ligure è agli inizi della sua attività poetica, quasi in apertura della raccolta Ossi di seppia del 1922, eppure il tratto è già ben delineato e il contenuto profondo.
«Io per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere mezzo seccate, agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla:/ le viuzze che seguono i ciglioni,/ discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni»: un contesto dimesso, riarso, non il rigoglio di una natura sofisticata, come aveva espresso nei versi precedenti, ma densa di una “segreta” ricchezza: «qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza/ ed è l’odore dei limoni». Perché segreta? Perché non appare immediatamente; ci sono indizi, segni; l’occhio guarda, il cuore presente, ma l’enigma resta tale: «Vedi, in questi silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità. / Lo sguardo fruga d’intorno, / la mente indaga accorda disunisce / nel profumo che dilaga / quando il giorno più languisce».
Deve esserci un pertugio, sembra voler dire Montale, che permetta di raggiungere il cuore, la consistenza ultima del reale; qui è «l’anello che non tiene», altrove è «una maglia rotta nella rete» o la «via di fuga» oppure «il varco è qui?». O ancora «Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato / non può fallire nel ritrovarti».
Molto si è dibattuto riguardo ad un possibile svelarsi del segreto; l’illusione sembra oscurare la limpidezza di una scoperta, di un incontro, ma la questione esorbita dal semplice esempio di lettura, che queste righe vogliono offrire.
Di fatto, però, la lirica si conclude quasi suggerendo un altro livello delle cose, non più quello della riflessione, dell’indagine, ma quello dell’accadimento, di qualcosa di imprevisto che sopraggiunge. «Quando un giorno da un mal chiuso portone / tra gli alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni; e il gelo del cuore si sfa, / in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della solarità».
È intrigante e suggestivo al tempo stesso quel «mal chiuso portone»: se il cuore dell’uomo, cui Giovanni Paolo faceva appello, solo un po’ si dischiude può entrare una speranza insospettata, un bagliore di luce, che illumina e scalda.
(Maria Rita Casalboni)


Magris: ripartire da Maritain – Avvenire, 28 aprile 2009
Jacques Maritain? Non ha dubbi lo scrittore Claudio Magris: «Io credo che il filosofo francese sia più che mai attuale, col suo umanesimo integrale, con la straordinaria capacità di dimostrare la forza razionale, la laicità del pensiero religioso». Di più. Magris è convinto che Maritain sia «un grande umanista» e al tempo stesso «un grande uomo di fede». Tanto, appunto, da «far sentire con mano che tra fede e ragione non c’è nessun contrasto». A Treviso lo scrittore triestino ha ricevuto il premio Maritain, dall’istituto che porta il suo nome, in quanto dà voce, «più autorevolmente di ogni altro», all’umanesimo integrale studiato e, soprattutto, promosso dall’autore francese. Ma che cosa si deve intendere per umanesimo integrale, soprattutto nelle condizioni di oggi? Risponde Magris: «Significa il rispetto amoroso per l’umano che è superiore alle configurazioni culturali, alle gerarchiche intellettuali che sono necessarie per organizzare la realtà, ma che sono meno importanti della realtà. E questo pochissime persone nella nostra epoca l’hanno fatto capire come Maritain».

E perché proprio il filosofo francese? Magris ha la spiegazione pronta: perché è la certificazione della «grandissima forza di un pensiero religioso, della fede che fa i conti con la materia». «Maritain è un esempio di filosofia calata veramente nella vita, nel senso epico e nella vastità della vita ­puntualizza Magris - che ha pochi riscontri nella filosofia della nostra epoca, che ha avuto grandissimi risultati ma spesso esasperando la vitalità in un modo così immediato, così selvaggio, facendocela fuggire fra le dita oppure perdendola in astrazione». Insomma, per Magris ci sono pochi filosofi che si possono leggere anche come narratori.

Lo è Maritain, lo è stato Platone: «Uomini che cercano la verità, ma la cercano concretamente, non solo in alcune formule». Mettendo in conto il possibile scontro tra fede e ragione? No, perché non c’è nessuno scontro, ribadisce il romanziere e saggista. «Si può avere o non avere la fede, ma la ragione non consiste nell’averla o non nell’averla, bensì nel modo in cui si articola (con le forze che ci sono state date). Il laico non è chi non crede, laico è chi credendo o non credendo sa distinguere ciò che è oggetto di fede da ciò che è oggetto di ragione ­approfondisce Magris -. Noi non possiamo dimostrare alcune verità che una religione propone come verità e saremmo degli idolatri se credessimo di poterlo fare». Maritain, dunque, ha avuto lo «straordinario merito di far toccare con mano l’umanesimo integrale, di far sentire che c’è un filo diretto tra l’universale, intorno a cui l’uomo si arrovella, e quella realtà della Garonna in cui lui si era così radicato e che giustamente amava». La capacità, quindi, di amare il concreto vedendo l’universalità? Proprio così, secondo Magris. Che cita Chesterton.

«C’è una cosa che contraddistingue le grandi religioni dalle pacchiane superstizioni. Il loro genuino, concreto materialismo. Il Verbo si è fatto carne. Ecco perché le grandi religioni sono umanistiche, non hanno nulla a che vedere con le pacchianerie paranormali fumesticamente misticheggianti che, come diceva Chesterton, fanno buio soltanto per far credere che ci sia chissà che cosa e per nascondere invece che non c’è niente». Il Maritain religioso e quello umano. Magris lo ricorda con commozione. «Leggendolo ricava la sensazione di una vita profondamente radicata negli affetti, sulla terrestrità, sulla carnalità degli affetti, sulla bontà della finitezza, della fisicità. E’ una vita in cui l’affettività, la sensualità, la famiglia, non sono chiuse ma aperte. E’ straordinaria la biografia di Maritain perché si vede questa unione coniugale che si apre agli altri, in cui l’amicizia, l’aiuto agli altri è l’opposto di quello che noi intendiamo 'far casetta', chiudendoci magari in una linda ed orrida pulizia, ma escludendo naturalmente gli altri».

E sottolinea ancora l’intreccio tra il filosofo e l’umanista, Magris evidenzia il rigore intellettuale «mai a spese della immediatezza sensibile». «Credo a questa capacità che è delle grandi religioni ed di chi sa viverle intensamente e di chi ha avuto la fortuna di viverle. E’ la capacità di far sentire l’eterno, ciò che trascende, nel tempo. Questo tempo fugace, perituro, però estremamente amabile, godibile, tenero, che ci incanta, che ci innamora». Il tempo della globalizzazione, quindi dei grandi rimescolamenti. Un tempo di grandi dialoghi, ma che proprio per questo esige, secondo Magris, «di stabilire un quantum irriducibile di universalismo etico, quindi di diritto naturale, di valori non più negoziabili, sui quali il dialogo è chiuso, nel senso che è improponibile.

Discutiamo, ad esempio, se è lecito violentare un bambino? Evidentemente no, non si può più discutere, abbiamo già deciso di non farlo. La fede in alcuni valori universali costituisce una base fondamentale da cui non si può prescindere».
Francesco Dal Mas


Ratzinger, teologia dell’Assoluto – Avvenire, 30 aprile 2009
Il teologo e poi cardinale Joseph Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, si è occupato di teologia praticamente per tutta la sua vita ed è certamente una delle voci più alte e significative della teologia contemporanea, che con l’elezione al soglio pontificio ha acquisito un ulteriore, straordinario motivo di autorevolezza. È buona norma, quando cerchiamo di cogliere il senso complessivo di una grande impresa intellettuale e umana, informarci anzitutto di come la concepisca il suo autore. Assai indicative al riguardo sono due brevi affermazioni di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. La prima è contenuta nel libro La mia vita (pp. 92-93): differenziando la sua teologia da quella di Karl Rahner, Ratzinger scrive: «Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico».

Molto più recente è la seconda affermazione, che si può leggere nella prefazione di Benedetto XVI al primo volume della sua Opera omnia: «La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita, ed è diventata […] anche il centro del mio lavoro teologico. Come materia specifica ho scelto la teologia fondamentale, perché volevo innanzitutto andare fino in fondo alla domanda: perché crediamo? Ma in questa domanda era inclusa fin dall’inizio l’altra sulla giusta risposta da dare a Dio, e quindi anche la domanda sul servizio divino».

Sacra Scrittura, Padri della Chiesa e liturgia sono dunque l’humus vitale della riflessione teologica di Ratzinger, ma proprio a partire da qui egli affronta, senza sconti, la questione della verità – e della bellezza e «vivibilità» – della fede cristiana, nell’attuale situazione storica e in rapporto alle forme di razionalità e ai modi di intendere la vita oggi prevalenti. Fin dalla sua prima prolusione accademica, tenuta all’Università di Bonn nel giugno 1959 e dedicata al Dio della fede e al Dio dei filosofi, Ratzinger dà forma ed espressione al nucleo fondamentale della sua teologia: l’Assoluto, che i filosofi greci avevano in qualche modo riconosciuto, ritenendolo però inaccessibile agli uomini, è in realtà il Dio degli uomini, il Dio che ci parla e ci ascolta, il Dio che in Gesù Cristo si è dato totalmente per noi. Tra fede e ragione vige pertanto un rapporto profondo e indistruttibile, e il cristianesimo può a buon diritto presentarsi come la «religione vera». Inoltre, come il Logos divino è identicamente l’Agape, l’Amore originario e la misura dell’amore autentico, così la verità cristiana trova la sua espressione concreta nell’etica dell’amore del prossimo, nella cura dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni differenza di condizioni sociali. La forza che ha permesso l’espansione missionaria del cristianesimo risiede dunque nella sintesi che esso ha saputo realizzare tra ragione, fede e prassi della vita.

Questa sintesi, e la connessa rivendicazione di verità del cristianesimo, hanno retto attraverso i secoli e il passaggio delle culture, ma con l’epoca moderna sembrano sempre più superate. «Al termine del secondo millennio – scriveva il cardinale Ratzinger in Fede Verità Tolleranza (p. 170) – il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua diffusione originaria, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa di verità». L’impegno centrale del lavoro teologico dell’attuale Pontefice è essenzialmente rivolto a uscire da questa crisi.

A tal fine egli ha analizzato a più riprese le ragioni storiche delle attuali difficoltà, non nascondendo affatto quelle interne al cristianesimo e alla Chiesa: con il passare dei secoli, infatti, il cristianesimo era purtroppo diventato in larga misura tradizione umana e religione di Stato, contrariamente alla propria natura. È pertanto merito dell’Illuminismo aver riproposto, per lo più in polemica con la Chiesa, quei valori di razionalità e libertà che trovano alimento nella fede cristiana. Ma lo sguardo di Ratzinger, più che all’analisi del passato, è rivolto ad aprire alla fede le strade del futuro. «Allargare gli spazi della razionalità» è la formula che indica la fondamentale direzione di marcia.

La razionalità scientifica, basata sull’esperimento e sul calcolo, e la critica storica, per quanto importanti e irrinunciabili, da sole non bastano infatti a soddisfare il nostro desiderio di conoscere e a dare un senso e una direzione alla nostra esistenza. In concreto Ratzinger contesta sia la pretesa di fare della teoria dell’evoluzione una spiegazione almeno potenzialmente universale e autosufficiente di tutta la realtà sia la tendenza della critica storica a ridurre la figura di Gesù a un’evanescente sommatoria di ipotesi storiografiche. È necessario invece aprirsi, in un atteggiamento di «ascolto umile», a Dio che ci interpella attraverso la creazione e che, soprattutto, ci ha manifestato il suo volto in Gesù Cristo. Anche oggi, inoltre, il cristianesimo deve mostrarsi come proposta di vita buona e autentica, come la migliore opportunità che è offerta all’uomo di trovare speranza, felicità e gioia.

Perciò la teologia di Ratzinger-Benedetto XVI si occupa in modo approfondito delle grandi problematiche etiche e storiche del nostro tempo. Le sue analisi del relativismo e della sua «dittatura», che minaccia di essiccare la linfa vitale della civiltà europea, e d’altra parte l’impegno a proporre in termini idonei al contesto attuale la grande eredità morale e culturale che ci viene dalla nostra storia, rappresentano un contributo straordinariamente rilevante offerto non solo ai credenti ma a chiunque voglia affrontare responsabilmente le sfide che stanno davanti a noi.

Quanto mai suggestiva e feconda è in particolare la proposta formulata da Ratzinger nella relazione tenuta a Subiaco il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II. Egli cioè propone a coloro che non riescono a credere di «vivere come se Dio esistesse»: «Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno». Abbiamo visto come la liturgia sia sempre stata per Benedetto XVI l’attività centrale della sua vita e il centro del suo lavoro teologico. Anche nel trattare le problematiche etiche e storiche egli non indulge mai a un moralismo che affiderebbe il superamento delle difficoltà principalmente allo sforzo morale del singolo o della collettività.

Decisiva rimane sempre l’azione gratuita di Dio, la presenza nella nostra vita del suo amore e della sua misericordia. Perciò la preghiera, in particolare la preghiera liturgica in cui la Chiesa unita a Cristo prega e loda Dio, rimane la risorsa più grande di cui, anche oggi, l’umanità possa disporre.
Camillo Ruini


IL DIBATTITO DI «LIBERI PER VIVERE » - Alzare la soglia etica servizio a tutta la società - BENEDETTO IPPOLITO – Avvenire, 3 maggio 2009
Il 21 marzo è stato presentato a Roma, dall’Associazione Scienza & Vita, dal Forum delle famiglie a da Retinopera, un importante Manifesto etico dal titolo 'Liberi per Vivere'. Si tratta di una proposta culturale sintetica ed efficace, ormai abbastanza conosciuta, che si propone come scopo la diffusione di una cultura favorevole alla vita umana.
Leggendo tra le righe le tesi richiamate nel breve programma, si rimane colpiti soprattutto dall’elevata universalità dei contenuti, senza alcuna parzialità e senza alcun richiamo diretto alla fede. Si parla esplicitamente della vita umana come un fine, del significato trascendente che ha la singola esistenza personale, considerando, senza mezzi termini, la struggente situazione di disagio e di dolore dei malati, soprattutto nei casi estremi di sofferenza e solitudine. Ai tre Sì programmatici principali - alla vita, alla medicina palliativa e all’umanizzazione dei malati - si affianca un rilievo costante e preciso a favore di un insieme vasto e universale di valori antropologici.
D’altra parte, considerando i diritti fondamentali della persona, e in primo luogo l’intangibile indisponibilità individuale d’ogni vita umana, è difficile pensare che qualcuno possa sentirsi escluso dal novero della citazione. Sembrerebbe perfino inutile richiamarsi - come giustamente avviene nel documento - alla Costituzione, giacché la prospettiva è l’umanità nel suo insieme, e non una singola comunità nazionale.
È curioso notare, tuttavia, come di solito in queste battaglie culturali sacrosante intervengano, tranne rare eccezioni, sempre i 'soliti noti', ossia sempre le consuete associazioni cattoliche e gli abituali protagonisti, e come contemporaneamente dilaghi nella coscienza comune una crescente indifferenza e uno scarso coinvolgimento personale. È sufficiente, per esempio, che qualcuno sbandieri la libertà di morire in Tv, magari davanti ad un caso umano lacerante e intollerabile, per riscontrare poco dopo grandi consensi generalizzati a favore dell’eutanasia.
Mentre, per contro, il normale diritto alla vita di un malato terminale che lotta contro la morte nell’anonimato di una corsia d’ospedale cade regolarmente in secondo piano, ricordato da pochi stravaganti obiettori di coscienza, di cui s’ignorano, alla fine, le vere motivazioni ideali.
A rendere questo paradosso addirittura clamoroso in questi giorni ci ha pensato l’atteggiamento coerente assunto dalla studiosa statunitense Mary Ann Glendon - ex ambasciatore Usa presso la Santa Sede e attuale presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali - la quale ha rifiutato di ricevere un premio alla Notre Dame University, solo perché lo stesso giorno è conferita la laurea onoris causa al presidente degli Stati Uniti Obama, notoriamente impegnato a favore di aborto ed eutanasia.
Viva il coraggio della verità, viene di dire. Quanti di noi, però, sarebbero disposti a fare una cosa del genere? Sarebbe bello, viceversa, che in futuro vi fossero più testimonianze di questo tipo anche da parte nostra, specialmente quando ad essere messi in discussione sono concretamente alcuni riferimenti etici d’inestimabile valore umano. D’altronde, il disappunto può emergere anche solo per l’orgoglio di essere cittadini, e non esclusivamente per la responsabilità di essere credenti. E il Manifesto per la vita costituisce, in definitiva, un’ottima occasione propizia per riaccendere di passione etica la società, iniziando da una maggiore consapevolezza democratica del bene universale rappresentato dalla tutela dei diritti umani fondamentali.


IL MONDO SI COMMUOVE PER LA GIOVANE DARABI - Il patibolo come vetrina. Teheran non cambia canale - ELIO MARAONE – Avvenire, 3 maggio 2009
«Stanno per impiccarmi.
Aiutatemi... » . Dovreb­bero bastare il senso e l’immaginabile tono di questa e­strema invocazione telefonica, lanciata alla madre dalla 23enne Delara Darabi in una prigione ira­niana, per spingere il regime di Teheran a rivedere comunque la confusa vicenda processuale che l’altro giorno ha portato all’impic­cagione della giovane e, soprattutto, a rinviare, se non a sospendere per sempre, la pratica delle ese­cuzioni capitali che vede l’Iran al secondo posto dopo la Cina. Ma sino a questo momento, e nono­stante i ripetuti interventi di organizzazioni uma­nitarie, di autorità religiose e di organismi politici ( ieri la presidenza ceca dell’Unione europea ha e­spresso una « forte condanna » per l’esecuzione della Darabi), l’Iran insiste nella rigida applicazio­ne della sharia, la legge islamica che prevede la pe­na di morte non soltanto per i delitti di sangue, ma anche, e tra l’altro, per l’adulterio e l’apostasia.
Sicché, e a meno che , come può accadere nei fatti di sangue, non intervenga il perdono dei familiari delle vittime, la forca continua a lavorare, talvolta sostituita dalla più arcaica e crudele pratica della lapidazione dei colpevoli.
Questi usi spietati non sono esclusivi dell’Iran, ca­ratterizzano per esempio l’amministrazione della giustizia in Arabia Saudita e Yemen, ma si sperava da qualche tempo – ossia da quando ha sottoscrit­to la Convenzione che vieta la condanna a mor­te di minori al tempo del reato – che l’Iran fosse di­venuto più sensibile agli appelli alla clemenza, e più in generale a una mi­tigazione delle pene, nel quadro di un ammoder­namento dei codici e del sistema giudiziario. Purtroppo, niente è cambiato.
Delara Darabi è stata impiccata perché riconosciu­ta colpevole ( in un processo di dubbia attendibi­lità) dell’omicidio di una parente, omicidio avve­nuto cinque anni fa, quando la giovane aveva 17 anni. Come se non bastasse, l’esecuzione è avve­nuta prima della scadenza dell’annunciata so­spensione di due mesi della pena, e senza darne comunicazione neppure all’avvocato difensore ( come vorrebbe la legge). Forse è eccessivo dire che la decisione di impiccare Delara nasca dalla volontà di aggirare la mobilitazione internazionale in suo favore, ma è certo che il regime iraniano, dal quale tutto dipende, continua imperterrito sulla sua vecchia strada: lo ha fatto con il discusso pia­no di sviluppo nucleare, lo fa mantenendo la con­danna per spionaggio a favore degli Stati Uniti del­la giornalista iraniano- americana Roxana Saberi, anche se proprio ieri il regime ha annunciato un possibile ripensamento della sentenza.
Tutto questo accade sullo sfondo delle tormentate relazioni fra l’Iran e l’Occidente, per non parlare di quelle conflittuali con Israele, che il regime del presidente Mahmoud Ahmadinejad continua a de­siderare « cancellato dalla carta geografica » . Il pre­sidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha adotta­to con Teheran la politica della mano tesa, ma si­nora le mosse distensive, sue e più in generale dell’Occidente, sono state bene accolte formal­mente dall’Iran, ma nella sostanza, e specialmente per quanto riguarda diritti umani e programma nucleare, lasciate cadere senza apprezzabili conse­guenze.
Che fare? Aprire e tenere aperto un dialogo rimane una scelta irrinunciabile, anche perché dovremmo ormai sapere che l’Iran non si piega facilmente alle pressioni internazionali, mentre un indurimento politico- militare ( sanzioni più dure, raid aerei...) a­vrebbe risultati negativi, se non micidiali. Al mo­mento, e in conclusione, non ci resta che affidarci a una diplomazia occidentale razionale e paziente, sperando in risposte razionali da parte dell’Iran.
Continua a prevalere la rigida applicazione della sharia. Le chances della diplomazia occidentale