martedì 30 giugno 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) L’inno di lode del Cardinale Saraiva a Suor Lucia: “Vi racconto chi era, cosa ci ha lasciato in eredità e come convinse Wojtyla a celebrare a Fatima la beatificazione di Giacinta e Francesco” - di Gianluca Barile
2) Nuove scoperte. Perché a san Paolo fu dato il volto di un filosofo - La più antica raffigurazione dell'apostolo è stata ritrovata a poca distanza dalla sua tomba, anch'essa oggetto di nuovi accertamenti. La Chiesa volle rappresentarlo come il Platone cristiano. Una decisione audace. E ancor oggi attualissima - di Sandro Magister
3) Se i medici diventano “politici” sul fine vita - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 29 giugno 2009 - Lo scopo dell’alimentazione è nutrire e quindi a differenza di ciò che è indicato nel documento non può mai considerarsi una terapia, perché è un sostegno vitale e non può essere interrotta.
4) NELLE UNIVERSITÀ E NELLA RICERCA - A QUELLA DENUNCIA DI IMMORALITÀ CHI DARÀ SEGUITO? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 30 giugno 2009
5) RIFLESSIONE CHE GLI ADULTI NON AMANO - Le scelte dei genitori sull’equilibrio dei figli - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 30 giugno 2009
6) DOPO I RINVENIMENTI LO SAPPIAMO ANCORA DI PIÙ - Cristò affidò la sua Chiesa a uomini in carne e ossa - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 giugno 2009
7) intervista/García - «Armonia fra tradizione e i riscontri scientifici» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 30 giugno 2009
8) lettera pastorale: «Per capire il vero cuore del cristianesimo necessarie ascesi e sobrietà» Aprendo l’Anno Sacerdotale ieri a Genova il cardinale Bagnasco ha presentato la sua nuova - «Impariamo a riconoscere il volto di Dio» - DA GENOVA ADRIANO TORTI – Avvenire, 30 giugno 2009


L’inno di lode del Cardinale Saraiva a Suor Lucia: “Vi racconto chi era, cosa ci ha lasciato in eredità e come convinse Wojtyla a celebrare a Fatima la beatificazione di Giacinta e Francesco” - di Gianluca Barile
CITTA’ DEL VATICANO - Fatima: luogo d’incanto e di preghiera. Fatima: terra baciata dal Signore e illuminata dall’apparizione della Vergine a tre piccoli pastorelli nel 1917. Fatima: insieme a Lourdes, il perno della devozione mariana nel mondo. Fatima: nome dolce e soave. Fatima: dolce come una carezza e pronunciato come una poesia, questo nome esce dalle labbra del Cardinale José Saraiva Martins più armonioso di una melodia. Non a caso, fu proprio questo illustre porporato, nobile figlio del Portogallo e grande devoto della Madonna di Fatima, a recare l’annuncio al mondo intero, lo scorso 13 Febbraio (dopo aver già contribuito nel 2000, in maniera determinante, come Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, a portare all’aonore degli altari Francesco e Giacinta sotto il pontificato di Giovanni Paolo II), che Benedetto XVI aveva acconsentito ad avviare con due anni di anticipo sul quinquennio previsto, l’iter di beatificazione di Suor Lucia, l’ultima dei tre veggenti (scomparsa nel 2005) che ebbero modo di ricevere e custodire i Messaggi della Madre di Dio alla Cova da Iria. Ma quale eredità ha trasmesso Suor Lucia alla Chiesa e al mondo? ‘Petrus’ ha deciso di tracciare un ritratto fedele della mistica portoghese attraverso le parole dello stesso Cardinal Saraiva.
Eminenza, cosa ci ha donato Suor Lucia?
“Ha lasciato alla Chiesa e al mondo un esempio e un’eredità ricchissimi. Essi consistono essenzialmente nella sua profonda spiritualità e nell’esercizio straordinario delle virtù cristiane, tra le quali emergono la sua Fede, semplice ma forte, non teorica ma pratica, non astratta ma concreta, vissuta, esistenziale; il suo aredente amore per Dio, per il ‘Gesù del Tabernacolo’ e per i poveri; la sua fiducia, assoluta e totale, nella ‘Signora più bianca del sole’ che le era apparsa; e la sua personale identificazione con i Messaggi della Madonna, tra i quali spiccano i ripetuti appelli alla conversione e alla pace, oggi più attuali che mai. Ecco la preziosa eredità lasciataci dall’umile monaca carmelitana, che ha avuto il privilegio di vedere e di parlare con la Vergine”.
Lei faceva parte del seguito che accompagnò Giovanni Paolo II a Fatima nel 2000 per la beatificazione dei pastorelli Giacinta e Francesco. Il Pontefice come visse l’avvenimento?
“Il Papa affrontò questo evento con una intima e profonda gioia, che non nascondeva. Sono infatti molteplici i legami di Giovanni Paolo II con gli eventi di Fatima: la sua tenera e filiale devozione alla Madonna della Cova da Iria, a cui, come è noto, attribuì la sua salvezza in occasione dell’attentato del 1981 in Piazza San Pietro, tanto che l’anno seguente si recò proprio a Fatima per ringraziarla; i rapporti tra lui e Suor Lucia; la corrispondenza tra i due e altro ancora. Sono sicuro che il Pontefice abbia considerato l’elevazione agli altari dei due pastorelli come una grazia fattagli da Colei che nel 1917 era loro apparsa”.
In occasione della beatificazione dei piccoli veggenti, venne data lettura del cosiddetto ‘Terzo Segreto’ di Fatima, che secondo la Santa Sede si era compiuto con l’attentato allo stesso Giovanni Paolo II. Eppure c’è chi parla con insistenza di un quarto segreto tenuto nascosto.
“Per quanto riguarda il ‘Segreto di Fatima’, tutto è stato reso pubblico il 13 Maggio del 2000, alla fine della cerimonia di beatificazione dei veggenti. Alcuni hanno parlato, dopo quella data, di una quarta parte del segreto che non sarebbe stata rivelata. Mi è stato riferito, qualche tempo fa, che un giorno una precisa domanda è stata fatta a Suor Lucia, e che lei avrebbe risposto: ‘Se qualcuno ha il testo, ce lo faccia vedere…’. Dunque, è assolutamente inconsistente la tesi che esista un quarto segreto di Fatima”.
Sono numerose le Sue visite Suor Lucia: cosa La colpiva maggiormente di questa donna?
“Ho incontrato diverse volte Suor Lucia nel suo Monastero di Coimbra. Ciò avveniva in genere il 15 Agosto, festa dell’Assunzione della Madonna. Ma durante i nostri colloqui non abbiamo mai parlato né dei cugini beatificati né del ‘Segreto’ di Fatima. Quello che mi ha colpito di più nella veggente, è stata la sua umiltà, la sua semplicità, la sua intelligenza pratica, la profondità della sua spiritualità, il suo grande amore per la Chiesa e la sua attenzione ai problemi della Chiesa di oggi. Di Suor Lucia, inoltre, mi hanno colpito la grande cordialità e i bellissimi rapporti con le consorelle del Monastero. Parlando proprio di questo, lei mi disse una volta, con un dolcissimo sorriso sulle labbra: Eminenza, le mie consorelle sono molto buone, mi vogliono molto bene e anche io gliene voglio”.
Cardinal Saraiva, chissà quanti aneddoti avrà da raccontare…
“Era una persona dotata di un grande senso dell’umorismo. Durante uno dei nostri incontri, Le dissi scherzosamente: ‘Perché non cambia il suo bastone con quello di Giovanni Paolo II?’. La risposta della Suora non si fece attendere: ‘Prima il Papa mi mandi il suo, e poi io gli manderò il mio. Non sia che, alla fine, rimanga senza il mio e senza il suo’. Sempre in chiave umoristica, il 15 Agosto del 1999, parlando della beatificazione di Giacinta e Francesco prevista per il 13 Maggio dell’anno seguente, Suor Lucia mi domandò di chiedere al Papa di celebrare il rito non a Roma, com’era consuetudine, ma a Fatima: ‘Sarà per la maggior gloria di Dio’, disse. E aggiunse scherzosamente: ‘Se il Papa non mi darà ascolto, non gli manderò più rosari’. Negli ultimi anni, infatti, Suor Lucia era dedita alla realizzazione di rosari che, in buona parte, inviava al Santo Padre Giovanni Paolo II”.
A Suo avviso, Suor Lucia ha continuato a vedere e a parlare con la Madonna negli anni di clausura a Coimbra?
“Non lo escludo, ma con lei non ho mai parlato di questo argomento”.
Si sa della devozione speciale di Giovanni Paolo II per Fatima, ma anche Benedetto XVI è molto legato a questo luogo. Dopo Lourdes, ritiene possibile che il Santo Padre possa recarsi a Fatima?
“E’ vero che anche Benedetto XVI è molto legato a Fatima. Nel 1996 è stato proprio l’allora Cardinale Joseph Ratzinger a presiedere il grande pellegrinaggio mondiale del 13 Ottobre. Perciò, una visita dell’attuale Pontefice a Fatima sarebbe un grande dono per la Chiesa portoghese, particolarmente legata al successore di Pietro. Mi auguro, dunque, che in un futuro prossimo, il desiderio dei cattolici lusitani possa essere soddisfatto”.
Eminenza, cosa rappresenta Fatima per Lei?
“Per me Fatima è un luogo privilegiato. E’ stata battezzata l’Altare del Mondo, ed io aggiungerei che essa è altresì la ‘Cattedra del Mondo’, perché è stato il luogo scelto dalla Madonna per trasmettere all’uomo contemporaneo alcuni capitoli fondamentali del Messaggio cristiano, come l’appello all’amore, alla conversione, alla Pace. Da un punto di vista personale, poi, io mi sento intimamente legato a Fatima, perché sin da bambino la mia mamma ha inculcato in me una fifliale devozione alla Madonna di Fatima e ai tre pastorelli. Ogni anno nel periodo delle mie vacanze a Lisbona, vado a Fatima per sostare un po’ e pregare nella Cappellina delle Apparizioni”.
A proposito di apparizioni mariane: fanno molto discutere quelle che, secondo alcuni, avverrebbero a Medjugorje. Quale opinione ha su questa vicenda? Nei ‘Sacri Palazzi’ serpeggia scetticismo…
“L’atteggiamento della Chiesa di fronte ad eventi come quello di Medjugorje è stato sempre di grande prudenza. Finchè la Chiesa non approvi ufficialmente un’Apparizione privata, essa non può essere ritenuta, pertanto, come vera Apparizione. Questo è il principio generale da sempre seguito dalla Santa Sede”.
Piccola postilla. Vostra Eminenza è il Presidente Onorario della nostra Associazione. Ci consenta, dunque, di ringraziarLa davvero di cuore, anche dalle colonne di ‘Petrus’, per aver accettato tale incarico ed averci accolto come un Padre buono e generoso.
“Approfitto ben volentieri di questa circostanza per formulare i miei più fervidi auguri alla benemerita Associazione ‘Tu es Petrus’, e augurare che essa raggiunga pienamente lo scopo per il quale è stata fondata. Per il bene della Chiesa e della società”.


Nuove scoperte. Perché a san Paolo fu dato il volto di un filosofo - La più antica raffigurazione dell'apostolo è stata ritrovata a poca distanza dalla sua tomba, anch'essa oggetto di nuovi accertamenti. La Chiesa volle rappresentarlo come il Platone cristiano. Una decisione audace. E ancor oggi attualissima - di Sandro Magister
ROMA, 30 giugno 2009 – L'anno dedicato a san Paolo, a due millenni dalla sua nascita, si è concluso con due importanti scoperte annunciate lo stesso giorno, la vigilia della festa del santo.

La prima scoperta l'ha rivelata Benedetto XVI in persona, nell'omelia dei vespri del 28 giugno, nella basilica romana di San Paolo fuori le Mura:

"Siamo raccolti presso la tomba dell’apostolo, il cui sarcofago, conservato sotto l’altare papale, è stato fatto recentemente oggetto di un’attenta analisi scientifica. Nel sarcofago, che non è stato mai aperto in tanti secoli, è stata praticata una piccolissima perforazione per introdurre una speciale sonda, mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato con oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. È stata anche rilevata la presenza di grani d’incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree. Inoltre, piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo. Ciò sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo Paolo".

Anche per Paolo dunque – come già per l'apostolo Pietro la cui tomba è ormai identificata con sicurezza sotto l'altare maggiore della basilica di San Pietro in Vaticano – si ha l'importante conferma che sia sepolto proprio dove è stato sempre venerato: sotto l'altare maggiore della basilica romana a lui dedicata.

***

La seconda scoperta è stata invece annunciata da "L'Osservatore Romano" nella sua edizione del 28 giugno.

È la scoperta della più antica raffigurazione dell'apostolo Paolo che si conosca, risalente alla fine del IV secolo: la raffigurazione riprodotta sopra in questa pagina.

Questa immagine di Paolo è affiorata il 19 giugno scorso dagli scavi che sono in corso in una catacomba intitolata a santa Tecla, lungo la via Ostiense che porta da Roma al mare, a poca distanza dalla basilica dell'apostolo.

Ripulendo con raggi laser la volta di un cubicolo, gli archeologi hanno visto tornare alla luce una ricca decorazione ad affresco. Al centro della volta è apparsa l'immagine del Buon Pastore, con attorno, in quattro tondi, le figure di Paolo, la meglio conservata, di Pietro e probabilmente di altri due apostoli.

Gli archeologi Fabrizio Bisconti e Barbara Mazzei, in due ampi resoconti sul giornale della Santa Sede, hanno fornito tutti i dettagli della scoperta. Ma c'è un elemento che colpisce più di altri. E riguarda i motivi che portarono a raffigurare l'apostolo Paolo così come lo vediamo in questo affresco e poi in tanti altri successivi: con l'aspetto di un filosofo, lo sguardo pensoso, la fronte alta, la calvizie incipiente, la barba appuntita.

In effetti, in una mostra d'arte dedicata a san Paolo inaugurata pochi giorni fa in un'ala dei Musei Vaticani, sono esposte le teste scolpite in epoca romana di due filosofi – uno dei quali probabilmente è Plotino – che presentano forti somiglianze con le antiche raffigurazioni di Paolo, a partire da quella che è stata ora scoperta.

La stessa questione si pone per l'apostolo Pietro, raffigurato tradizionalmente con capigliatura corta, folta e candida, col volto ampio e lo sguardo deciso, con la barba anch'essa corta e piena. E così per altri protagonisti della storia sacra.

La ritrattistica era diffusissima nell'arte greca e romana. Ma nella cultura ebraica le immagini umane erano interdette e quindi era impensabile che Paolo e gli altri si facessero ritrarre. Solo più tardi la Chiesa accettò di raffigurare i personaggi della fede cristiana.

Ma come? Ecco la suggestiva spiegazione che ha dato il professor Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani e grande storico dell'arte, nel presentare la mostra su san Paolo:

"Il problema si pose fra il III e il IV secolo quando una Chiesa ormai diffusa e strutturata giocò il grande e geniale azzardo che sta alla base di tutta la nostra storia artistica. Accettò e fece proprio il mondo delle immagini e lo accettò nelle forme in cui lo aveva elaborato la tradizione stilistica e iconografica ellenistico-romana. Avvenne così che Cristo buon pastore assumesse il volto di Febo Apollo o di Orfeo, e che Daniele nella fossa dei leoni avesse le sembianze di Ercole, l'atleta nudo vittorioso.

"Ma come rappresentare Pietro e Paolo, i principi degli apostoli, le colonne portanti della Chiesa, i fondamenti della gerarchia e della dottrina? Qualcuno ebbe un'idea felice. Diede ai protoapostoli le sembianze dei protofilosofi. Così Paolo, calvo, barbato, l'aria grave e assorta dell'intellettuale, ebbe il volto di Platone o forse di Plotino, mentre quello di Aristotele fu dato al pragmatico e terrestre Pietro, che ha il compito di guidare nelle insidie del mondo la Chiesa professante e combattente".

Se così avvenne, la Chiesa dei primi secoli non ebbe dunque alcuna timidezza ad attribuire agli apostoli, e in particolare a Paolo, l'aspetto del filosofo, né a tramandare, a studiare, a proclamare il suo pensiero nella sua interezza, certamente non facile ad essere capito e accettato.

Lo stesso si può dire dei Padri della Chiesa. In un a fase di cristianesimo in espansione, in una fase in cui la trasmissione della fede cristiana alle genti era in pieno sviluppo, la Chiesa non pensò mai di annacquare o addomesticare il proprio messaggio per renderlo più accettabile agli uomini del tempo.

Il ritratto di Paolo filosofo è un monito eloquente per chi oggi ritiene inattuale un papa teologo come Benedetto XVI, moderno Padre della Chiesa.


Se i medici diventano “politici” sul fine vita - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 29 giugno 2009 - Lo scopo dell’alimentazione è nutrire e quindi a differenza di ciò che è indicato nel documento non può mai considerarsi una terapia, perché è un sostegno vitale e non può essere interrotta.
Il 13 giugno 2009 l’ordine Fnomceo (Federazione Nazionale Ordine Medici Chirurghi e Odontoiatri) ha votato un documento riguardante il fine vita e il testo di legge Calabrò fermo alla Camera.
La bozza del documento prevedeva di precisare la distinzione degli stati vegetativi dagli stati terminali anche riguardo ad alimentazione ed idratazione, mantenendo però il divieto di interruzione. Si è invece votato un documento il cui punto più discriminante è diventata la differenza tra alimentazione artificiale e naturale, con la possibilità di chiedere l’interruzione della prima con le DAT (Dichiarazione Anticipata di Trattamento).
Innanzi tutto ci stupisce che dei medici discutano la differenziazione tra due tipi di alimentazione, e ne traggano conclusioni diverse a seconda dell’una o dell’altra. Infatti lo scopo dell’alimentazione è nutrire e quindi a differenza di ciò che è indicato nel documento non può mai considerarsi una terapia, perché è un sostegno vitale e non può essere interrotta. Questo documento ha creato divisioni all’interno dell’ordine: non è stato votato da alcuni tra i più importanti e numerosi ordini provinciali. Ci sembra che si sia voluta esprimere una posizione per influenzare la discussione parlamentare, fornendo una base scientifica su cui basare future scelte politiche, ma questo documento non ha una base scientifica. Giustamente qualche giornale ha fatto notare che questa posizione degli ordini medici a favore di una pratica che apre all’eutanasia, come quella dell’interruzione dell’alimentazione, cambierà il rapporto di fiducia medico-paziente. Ne hanno tenuto conto i firmatari e proponitori di questo documento? Inoltre tale documento viola gli articoli 3 e 17 della deontologia medica e il documento di New York sulla Convenzione Onu sui diritti delle persone disabili.
Abbiamo sostenuto fin dall’inizio dell’iter parlamentare la necessità di procedere celermente all’approvazione del ddl per evitare che potessero intervenire modifiche significative e peggiorative, una volta che l’emozione per il caso Eluana fosse scomparsa dalla memoria collettiva. Per motivazioni politiche, quali evitare fratture nella maggioranza durante la campagna elettorale, la discussione alla Camera è stata rinviata. Ora si dovrà procedere alla nomina del deputato che avrà funzione di relatore; questo passo determinerà e orienterà già l’esito e la direzione della discussione. Confidiamo comunque nella fermezza del Governo e del Ministro Sacconi, che ha riaffermato recentemente che l’indisponibilità di idratazione e alimentazione è un punto fermo della legge e non è negoziabile, come prioritario rimane nel ddl riaffermare il dovere di curare, vietare richieste con finalità eutanasiche, escludere richieste che pretendano di imporre al medico pratiche per lui inaccettabili in scienza e coscienza. Principi riaffermati dal codice di deontologia medica ed enunciati dal CNB nel 2003 e 2005 e già presenti nel ddl Calabrò negli articoli 3-4-7 approvati dal Senato.


NELLE UNIVERSITÀ E NELLA RICERCA - A QUELLA DENUNCIA DI IMMORALITÀ CHI DARÀ SEGUITO? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 30 giugno 2009
IL CASO
eri il Corriere della Sera ha pubbli­cato una lettera al Presidente Na­politano di una ricercatrice italiana di prestigio, autrice di scoperte impor­tanti sulle cause genetiche del linfo­ma, che a 47 anni e con tre figli al se­guito ha deciso di andarsene dall’Ita­lia. Rita Clementi, stanca di contratti instabili, di passare come una tarzan della ricerca da un Istituto all’altro, ha gettato la spugna e dice al capo della Nazione: «Qui la ricerca è ammalata, me ne vado».
Nella lettera della signora Clementi c’è rabbia e indignazione. L’esperienza che ha fatto fin qui del nostro mondo universitario le fa dire che è stanca di essere italiana. Sono dell’idea che per voler smettere di essere connazionale di Michelangelo e di Dante Alighieri ci vuole veramente un gran motivo, se e­siste. Ma la denuncia della signora va presa sul serio, e non rubricata velo­cemente sotto l’etichetta ( maledetta come tutte le etichette applicate ai ca­si personali) di: 'fuga dei cervelli'. Qui non si tratta solo di una che fa armi e bagagli perché altrove si potrà trovare meglio. Meglio pagata e meglio rispetta­ta. No, qui c’è u­na donna di va­lore che denun­cia una immora­lità diffusa nel mondo universi­tario e della ri­cerca. Una im­moralità che al di là di questo sin­golo caso è per­cepita diffusa­mente. Una immoralità per così dire di sistema. Il cui esito è una stagnazione nella ricerca in Italia. La signora nella sua lettera racconta la serie di frustra­zioni che hanno segnato una carriera che invece scientificamente aveva co­nosciuto a livello internazionale rico­noscimenti importanti e, quel che più conta, la delusione per una che ha sot­tomesso i propri interessi e la propria vita privata alla missione di aiutare con la ricerca chi soffre.
Non saranno forse molti i casi di que­sto genere. Ma nemmeno pochi. E hanno un grande 'peso specifico' nel­la qualità generale dell’Università. La signora invoca un sistema meritocra­tico, e la rimozione di persone che no­nostante manifesta propensione al 'maneggio' (riconosciuta addirittura dalla magistratura) continuano a se­dere con il consenso dei colleghi nei luoghi dove si decidono posti e car­riere. Una immoralità di singoli che di­viene immoralità di sistema.
Il governo sta pensando di varare una riforma per l’Università che, a quanto è dato di sapere, vorrebbe finalmente intaccare questa situazione. Speria­mo. Forse per la signora Rita è tardi, non lo sia per altri. Del resto il proble­ma della 'immobilità' del sistema u­niversitario non si registra solamente nei campi della ricerca scientifica ap­plicata in ambiti come il biomedico in questione nella lettera. Anche nel campo umanistico ( dalla letteratura alla storia dell’arte) il deficit di capa­cità di ricerca e di trasmissione ade­guata della tradizione alle giovani ge­nerazioni è lampante. Il Presidente si è mostrato in passato sensibile a que­sti temi e lo farà probabilmente anche in questo caso. Ma il problema non può essere risolto neppure dall’impe­gno della più alta carica dello Stato. Occorre un cambio di mentalità ge­nerale, di costume. Il governo può fa­vorirlo, e le leggi possono evitare di cri­stallizzare privilegi e rendite di posi­zione.
Ma sarà solo la valorizzazione della passione e la capacità di sacrificio di più e più persone come Rita Clemen­ti che potrà rendere migliore l’Univer­sità italiana.


RIFLESSIONE CHE GLI ADULTI NON AMANO - Le scelte dei genitori sull’equilibrio dei figli - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 30 giugno 2009
L’agenzia Zenit ha riportato i dati di un re­cente studio canadese, che ha monitorato le ripercussioni, in ter­mini di spesa sociale e ferite psicologiche, delle separazioni, dei divorzi e delle cessazioni delle convivenze. Ad esem­pio, per l’anno finanziario 2005/ 2006, l’impatto da esse prodotto sul bilancio del Canada è stato di circa 4,5 miliardi di euro. La ricerca comprende anche casi di madri single o che non vivono con i padri dei loro figli, bensì con altri uomini, e documenta che i figli vivono in condizioni migliori se crescono nel contesto di una famiglia con due geni­tori sposati, perciò « che le coppie sia­no sposate o no è un elemento straor­dinariamente indicativo per prevedere [ mediamente parlando] le condizioni future dei bambini (...), perfino al net­to dei fattori economici » : i risultati scolastici ed accademici, lo stato di sa­lute e di felicità, l’uso di droghe posso­no essere incisivamente influenzati dall’unione/ disunione dei propri geni­tori. Del resto potremmo citare molti altri monitoraggi. Ad esempio, la ricer­catrice R. O’Neill ha registrato i se­guenti dati: se il 40% dei bambini in­glesi vive in famiglie a basso reddito complessivo, la percentuale sale al 75% tra quelli che vivono con un solo genitore. Tali bambini con un solo ge­nitore, rispetto a quelli che vivono con entrambi, hanno una probabilità tre volte superiore di ottenere cattivi risul­tati a scuola, il doppio dei rischi di contrarre malattie psicosomatiche e di avere la depressione o comportamenti antisociali ed il triplo di probabilità di avere problemi nelle relazioni amicali.
Ancora, M. Fiorin ( La fabbrica dei di­vorzi),
si è concentrato sulle ferite psi­cologiche dei bambini che vivono sen­za il padre. Uno studio del 1995 ha evi­denziato che gli adolescenti che vive­vano con un solo genitore soffrivano più frequentemente di problemi psi­chici rispetto a quelli che vivevano in famiglie intatte ed avevano una proba­bilità maggiore di abusare di alcool e di usare droghe. Negli anni Ottanta, u­na ricerca di tre anni sui bambini pic­coli del reparto di psichiatria dell’o­spedale di New Orleans ha mostrato che nell’ 80% dei casi la patologia era causata dall’assenza del padre. Addi­rittura, il 90% dei bambini fuggito da casa si era allontanato da nuclei affet­tivi di questo tipo. Da tali nuclei prove­niva anche il 71% degli abbandoni scolastici, il 75% degli adolescenti pre­si in cura per tossicodipendenza e il 70% dei minorenni internati in istituti. Infine, negli Usa, durante gli anni Ot­tanta, il 63% dei suicidi dei giovani si è verificato in contesti con il padre as­sente. Da notare che molte di queste rilevazioni sono state svolte su gruppi di figli omogenei dal punto di vista so­ciale e del reddito. Sono dati che do­vrebbero farci riflettere, perché valgo­no analogicamente anche per il nostro Paese e ne ricaviamo ( anche se assai brevemente), almeno due suggeri­menti. Primo, soltanto nelle famiglie dove i litigi sono gravissimi il bambino trae beneficio dall’eliminazione del conflitto, ma tale tipo di conflittualità è rara ( cfr. una ricerca di P. R. Amato e A. Booth), perciò nella stragrande maggioranza dei casi sarebbe meglio per i figli se i genitori, invece di divi­dersi, rimanessero insieme ed affron­tassero i loro problemi per cercare di risolverli. Secondo, tutte le forme al­ternative e concorrenziali al matrimo­nio ( pacs e simili) indeboliscono il ma­trimonio, cioè il legame che, pur nella sua attuale crisi, è – anche qui dati alla mano – il più stabile e dunque propi­zio per i figli.


DOPO I RINVENIMENTI LO SAPPIAMO ANCORA DI PIÙ - Cristò affidò la sua Chiesa a uomini in carne e ossa - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 giugno 2009
«Tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato con oro zecchino...
Grani di incenso rosso...
Piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14... risultati appartenere a persona vissuta fra il I e il II secolo». Le parole di Benedetto XVI nella Basilica di San Paolo fuori le Mura descrivono minutamente l’inventario di ciò che una sonda ad alta tecnologia introdotta nel sarcofago sotto l’altare ha trovato. Lino color della porpora, intessuto di oro: quel defunto era stato avvolto in un sudario da imperatore. Sepolto come un re, sulla strada verso Ostia, sul luogo noto per il martirio di Paolo. «Ciò – dice il Papa dopo un istante di pausa – sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo». Il corpo di Paolo. Le sue ossa, incenerite da due millenni; la sua ultima veste drappeggiata sulle membra straziate, che ancora, nel buio sigillato della tomba, luccicano d’oro e di porpora, il colore del martirio. In qualcuno, nella folla dei fedeli, e tra quanti il giorno dopo hanno saputo, un tonfo al cuore.
Paolo è lì. Così come Pietro, in Vaticano. La tomba di Pietro è stata identificata, quasi sessant’anni fa, in un’edicola funeraria esattamente sottostante l’altare centrale della basilica. Sulla lapide era inciso, in greco: Petros enì,
Pietro è qui. E anche di Pietro furono rintracciate, dall’archeologa Margherita Guarducci, le ossa: frammenti d’ossa avvolti in porpora e oro. Fu Paolo VI, il 26 giugno 1968, a dichiarare: Pietro è qui. Ma, potrebbe obiettare un non credente o un cristiano distratto, avete bisogno di queste ossa? A cosa serve, nella dinamica della Chiesa e della fede, quel povero cumulo d’ossa prosciugate dal tempo? Paolo, Pietro, non contano forse per ciò che ci hanno lasciato? Sì, certo. E tuttavia il corpo, tuttavia la carne è cosa straordinariamente rilevante, in questa storia di terra e di radici su cui sono piantate, come cose vive, le basiliche della cristianità. È la ragione per cui la basilica di San Pietro sorge sulla verticale di quella tomba, anche se poi la lapide e i graffiti vennero dimenticati per secoli. L’altare centrale è esattamente sopra quella piccola edicola, e la verticale della cupola cade proprio su quel punto del sottosuolo – come un raggio tagliente, o una ferita, fra la terra e il cielo di Roma. In alto, dentro all’anello da cui si affacciano attoniti i turisti, sta scritto: «Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo aecclesiam meam». Super hanc petram,
su questa pietra; su questa, e non altrove. E ora anche a San Paolo fuori le Mura le sonde e il carbonio 14 ricostruiscono composizione chimica e età del contenuto di una tomba. Un uomo vissuto nel primo secolo, sepolto con gli onori di un re. I resti di Paolo. Ha bisogno il cristianesimo di queste ossa? A stretto rigore si potrebbe dire di no. E tuttavia Cristo ha affidato la sua Chiesa a degli uomini, uomini di carne e di ossa. Non a discorsi, non a eteree parole ha consegnato il suo mandato: ma a uomini, che da una generazione all’altra lo trasmettessero ai figli. E noi, cronologicamente di questi figli gli ultimi, siamo emozionati e commossi dal sapere che, sotto le pietre delle nostre basiliche, ci sono i corpi dei primi dei santi. I loro volti, le loro mani, le instancabili forti gambe di Paolo: certo, polverizzate dai secoli, e però resti di carne. Vuol dire una gran cosa, quella tomba, quelle tombe, lì, e non altrove: vuol dire che crediamo in un fatto che è storia, storia carnale di uomini, e non leggenda, filosofia, o, come tristemente si equivoca oggi, astratti 'valori'. Crediamo in un Dio uomo che ha scelto Pietro, e che ha mandato Paolo, il suo persecutore, a annunciarlo. È storia.
Sui luoghi del martirio restano tombe con incensi e ori. E noi, uomini di ossa e carne, siamo grati di questi segni; perché, da uomini, abbiamo bisogno di toccare.

intervista/García - «Armonia fra tradizione e i riscontri scientifici» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 30 giugno 2009
Una dimostrazione ulteriore che tra tradizio­ne cristiana e riscontri scientifici «vi è armo­nia ». E una nuova prova che il cristianesimo è una religione «che riguarda persone, fatti e avveni­menti concreti». José Miguel García, docente alla fa­coltà teologica San Damaso di Madrid, commenta con queste parole l’annuncio di Benedetto XVI ri­guardante la datazione delle ossa ritrovate nel sepol­cro di san Paolo, oggetto di indagini nell’omonima Ba­silica di Roma. García, autore del recente Il protago­nista della storia (Rizzoli), è esperto di cristianesimo delle origini, materia che insegna all’università Com­plutense della capitale spagnola.
Che significato assume per la fede cristiana questa conferma riguardante le spoglie mortali di Paolo?
Si ribadisce l’aspetto fondamentale del cristianesi­mo, ovvero che esso è una fede storica che riguarda persone, fatti e avvenimenti concreti. L’identificazio­ne delle ossa di questa persona del I-II secolo (l’esa­me con il carbonio 14 non può fornire una datazio­ne più precisa) indica che si tratta di un soggetto mol­to venerato e davvero importante per chi lo ha se­polto. Ciò porta ad una conferma della tradizione che identifica in quella tomba il luogo della sepoltura di Paolo. E questo significa, ancora una volta, che il cul­to e la liturgia cristiana fanno sempre riferimento ad un fatto storico. Succede così con la vicenda di Gesù e di san Pietro, ora ne abbiamo conferma con Paolo.
Tale rinvenimento archeo­logico rafforza la statura del­la figura di Paolo?
«La Chiesa non ha paura di sottoporre a verifica i dati di fede che si possono esaminare. È il mondo laico che spesso teme questo confronto»
Di Paolo non è mai stata ne­gata l’esistenza storica: chi lo facesse avrebbe una posizio­ne insostenibile. Di lui ci so­no epistole e documenti sto­rici, come gli Atti degli apo­stoli, nonché altri testi apo­crifi. Le fonti più importanti per la sua vicenda restano comunque le sue lettere. Tut­to quello che lui racconta può essere verificato: i luo­ghi, le località, i viaggi. Ora ciò avviene anche per la sua tomba. La tradizione cristia­na aveva sempre sostenuto che Paolo fosse morto mar­tire durante la persecuzione di Nerone: adesso si può dav­vero notare l’armonia fra tra­dizione e riscontri archeolo­gici. Qui si può fare una con­siderazione più generale: la Chiesa ha sempre cercato u­na conferma alle sue tradi­zioni anche da una prospet­tiva scientifica. Già Pio XII lo fece con le ossa dell’apostolo Pietro, la stessa cosa av­viene con Paolo, visto che il Papa ha preannunciato nuovi studi. Questo indica che la Chiesa non ha e non ha mai avuto paura di sottoporre i dati di fede (quel­li che si possono esaminare) all’indagine scientifica o archeologica. La Chiesa è talmente convinta e cer­ta della verità che propone, che non ha timore di con­frontarsi con la scienza, con la filosofia, con la storia. Semmai bisogna notare che spesso è il mondo mo­derno ad avere paura di questo confronto. Forse per­ché vedrebbe infranto qualche suo pregiudizio…
Il Papa parla di «tracce di un prezioso tessuto di li­no colorato di porpora, laminato con oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di li­no » rinvenuti nella tomba paolina. Che significato rivestono tali riscontri?
Mi auguro che si possano fare ulteriori indagini, co­me è accaduto con il sepolcro di Pietro. Da quello che è stato osservato si può dire che il materiale usato per la sepoltura era di grande valore: l’oro fa riferimento alla divinità, la porpora all’autorità regale. Tutto ci di­ce l’importanza della persona sepolta.
Benedetto XVI ha fatto riferimento anche a una «u­nanime e incontrastata tradizione» che identifica­va nell’attuale luogo il sepolcro dell’Apostolo. Su qua­li basi si fonda questa tradizione?
Si tratta di racconti apocrifi, che indicano nelle Tre Fontane di Roma il luogo del martirio di san Paolo e dicono che il sepolcro è situato non lontano. Fu poi l’imperatore Costantino a far costruire le basiliche di San Pietro e quella di San Paolo sui luoghi dove la tra­dizione aveva tramandato la collocazione delle ri­spettive tombe.


lettera pastorale: «Per capire il vero cuore del cristianesimo necessarie ascesi e sobrietà» Aprendo l’Anno Sacerdotale ieri a Genova il cardinale Bagnasco ha presentato la sua nuova - «Impariamo a riconoscere il volto di Dio» - DA GENOVA ADRIANO TORTI – Avvenire, 30 giugno 2009
I cristiani oggi devono porre sempre più attenzione a «non confondere la 'fede' con la 'religiosità'». Dio, infatti, non è una confusa «energia co­smica », ma «un Tu, un Padre, che si coinvolge con la vita dei suoi figli fino a condividere e riscattare la sofferenza e la morte». Questo il forte richiamo lanciato dall’arcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, che ieri, du­rante la Messa in Cattedrale per la so­lennità dei santi Pietro e Paolo, ha pre­sentato la sua nuova lettera pastorale
Camminare nelle vie dello Spirito. Alle sorgenti della vita spirituale.
Nel testo, consegnato alla comunità ge­novese durante la celebrazione che è stato anche l’atto di apertura dell’Anno Sacerdotale in diocesi, il cardinale e­sorta a compiere un cammino spiri­tuale per conoscere il volto autentico di Dio, seguendo un itinerario nel qua­le sono chiamati in causa «la nostra li­bertà e quindi il nostro personale im­pegno ». Un cammino, sottolinea Bagnasco, che è anche un’ascesi: «Non si può assapo­rare tutto – spiega il cardinale –, la vita quotidiana ci chiede di fare delle scel­te e scegliere significa anche 'rinun­ciare' ». In quest’ottica sono fonda­mentali la «conoscenza di se stessi», la «disciplina dei sentimenti» e la «disci­plina del corpo». «Anche il corpo – ag­giunge il porporato – chiede di essere guidato». Per questo «siamo richiama­ti alla sobrietà nel cibo, nel vestire, nel­l’uso dei beni di consumo e, se siamo onesti, è quanto mai opportuno ricu­perare anche una certa custodia negli sguardi, il dominio dell’istinto sessua­le ». «È necessaria – prosegue Bagnasco – la castità del cuore e la purezza del corpo per imparare ad amare vera­mente e a diventare dono». Infine, il porporato chiede «una nuova partico­lare attenzione nell’uso di internet, per­ché sia strumento di vantaggio nel be- ne e non mercato del peggio».
E gli «strumenti» per seguire il cammi­no alle sorgenti della vita spirituale, so­no la Parola di Dio, la preghiera perso­nale e comunitaria, i Sacramenti, la ca­rità e l’ascesi. Il tema della vita spiri­tuale, spiega ancora il porporato, vuo­le essere un modo per camminare in­sieme durante l’Anno Sacerdotale, «oc­casione di grazia che nessuno deve per­dere o trascurare». Oggi, continua Ba­gnasco, «basta guardarsi attorno e ve­diamo moltitudini che sembrano lan­guire nell’inedia, o altre dibattersi tra violenze di ogni genere, o ancora cer­care disperatamente la speranza. No­nostante il secolarismo che vorrebbe indurre a vivere senza Dio – scrive il por­porato – si avverte una diffusa e a volte confusa esigenza di spiritualità». Un’e­sigenza testimoniata, tra l’altro, da fe­nomeni quali «l’occultismo, la super­stizione, la suggestione delle filosofie orientali, la ricerca di spiritualità eso­teriche, le diverse forme di New Age». Ma l’esigenza di spiritualità, scrive il cardinale, dimostra anche la necessità di «un’educazione integrale della per­sona perché se la persona non si edu­ca nella sua completezza di anima e di corpo, non si ha personalità adulta».
Ogni fedele, aggiunge ancora Bagna­sco, deve avere ben presente quale sia il messaggio fondante del cristianesi­mo, perché «il cristiano è colui che sen­te l’attrattiva di Gesù, e di questo fasci­no vive nonostante fatiche e cadute». Il rischio diffuso oggi, invece, è di pensa­re «il cristianesimo come fatto morale e non innanzitutto soprannaturale, co­a me come riserva di valori, una specie di 'religione civile' e non innanzitutto co­me apertura al mistero». Ai cristiani, quindi, il cardinale chiede di «mettersi alla scuola di Gesù» con gli strumenti della Parola di Dio e del magistero del­la Chiesa senza dimenticare che «la fe­de non può mai essere confinata nella sfera del privato perché coinvolge l’in­tera persona e quindi anche la sua di­mensione pubblica e sociale».
Durante l’omelia della Messa di ieri, il cardinale, rivolgendosi agli oltre 160 sa­cerdoti presenti in Cattedrale, ha par­lato, tra l’altro, del tema della santità. «Dobbiamo lasciarci provocare dalla santità – ha affermato – per la quale, co­me presbiteri, siamo impegnati a tito­lo speciale. Lo dobbiamo al Signore al­la Chiesa, alla nostra gente e al popolo di Dio, che ci guarda con fiducia e af­fetto, ma desidera - e ne ha il diritto ­scorgere in noi i tratti di Gesù buon Pa­store ». Inoltre, ha aggiunto Bagnasco, «lo dobbiamo al mondo che, anche quando si dichiara non credente, guar­da il sacerdote con curiosità, non di ra­do con interesse, sempre con attenzio­ne, forse nella inconfessata speranza di trovare i segni di un modo diverso, più bello, di pensare e di vivere, un modo che rifletta la limpidezza del Cielo». Il cardinale ha ricordato l’importanza della formazione permanente e la ne­cessità degli esercizi spirituali nei tem­pi forti dell’anno liturgico. Infine ha co­municato che la diocesi sta organiz­zando per i sacerdoti diocesani un viag­gio ad Ars che si svolgerà nel giugno del prossimo anno.
Fondamentali sono «la disciplina dei sentimenti e del corpo, il dominio degli istinti e una certa custodia negli sguardi». New age e occultismo mostrano la necessità di un’educazione integrale


lunedì 29 giugno 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: San Paolo, modello di amore per Cristo - Discorso introduttivo alla preghiera dell'Angelus
2) Omelia di Benedetto XVI per la chiusura dell’Anno Paolino
3) Inserto del Il Foglio del 17 giugno 2009 - C’è un Papa che riannoda i fili di fede, ragione e identità. E c’era un filosofo che era tutto il contrario - KARL RAHNER È UNO DEI MAESTRI DELLA CULTURA E DELLO SPIRITO CONCILIARE. IL CARDINALE TETTAMANZI NE RICORDA LO SPIRITO. QUI CERCHIAMO DI CAPIRE PERCHÉ ANCORA FA DISCUTERE
4) RU486: perché commercializzare un farmaco così pericoloso? - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 28 giugno 2009
5) Miracoli tra noi - Autore: Bonalume, Andrea Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 27 giugno 2009
6) Il catechismo della carne - Pigi Colognesi - venerdì 26 giugno 2009 – ilsussidiario.net
7) Il compito della politica - Mario Mauro - lunedì 29 giugno 2009 – ilsussidiario.net
8) CRISTIANESIMO/ San Pietro secondo Auerbach: la forza dirompente di un fatto quotidiano - Laura Cioni - lunedì 29 giugno 2009 – ilsussidiario.net


Benedetto XVI: San Paolo, modello di amore per Cristo - Discorso introduttivo alla preghiera dell'Angelus
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 21 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questa domenica da Benedetto XVI nell'introdurre la preghiera dell’Angelus recitata con i fedeli ed i pellegrini convenuti in piazza San Pietro.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Con la celebrazione dei Primi Vespri dei Santi Pietro e Paolo, che presiederò questa sera nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, si chiude l’Anno Paolino, indetto nel bimillenario della nascita dell’Apostolo delle genti. E’ stato un vero tempo di grazia in cui, mediante i pellegrinaggi, le catechesi, numerose pubblicazioni e diverse iniziative, la figura di san Paolo è stata riproposta in tutta la Chiesa e il suo vibrante messaggio ha ravvivato ovunque, nelle comunità cristiane, la passione per Cristo e per il Vangelo. Rendiamo pertanto grazie a Dio per l’Anno Paolino e per tutti i doni spirituali che esso ci ha portato.
La divina Provvidenza ha disposto che proprio pochi giorni fa, il 19 giugno, solennità del Sacro Cuore di Gesù, sia stato inaugurato un altro anno speciale, l’Anno Sacerdotale, in occasione del 150° anniversario della morte – dies natalis – di Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato d’Ars. Un ulteriore impulso spirituale e pastorale, che – ne sono certo - non mancherà di recare tanti benefici al popolo cristiano e specialmente al clero. Qual è la finalità dell’Anno Sacerdotale? Come ho scritto nell’apposita lettera che ho inviato ai sacerdoti, esso intende contribuire a promuovere l’impegno di interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi. L’apostolo Paolo costituisce, in proposito, un modello splendido da imitare non tanto nella concretezza della vita – la sua infatti fu davvero straordinaria – ma nell’amore per Cristo, nello zelo per l’annuncio del Vangelo, nella dedizione alle comunità, nella elaborazione di efficaci sintesi di teologia pastorale. San Paolo è esempio di sacerdote totalmente identificato col suo ministero – come sarà anche il Santo Curato d’Ars –, consapevole di portare un tesoro inestimabile, cioè il messaggio della salvezza, ma di portarlo in un "vaso di creta" (cfr 2 Cor 4,7); perciò egli è forte e umile nello stesso tempo, intimamente persuaso che tutto è merito di Dio, tutto è sua grazia. "L’amore del Cristo ci possiede" – scrive l’Apostolo, e questo può ben essere il motto di ogni sacerdote, che lo Spirito "avvince" (cfr At 20,22) per farne un fedele amministratore dei misteri di Dio (cfr 1 Cor 4,1-2): il presbitero deve essere tutto di Cristo e tutto della Chiesa, alla quale è chiamato a dedicarsi con amore indiviso, come uno sposo fedele verso la sua sposa.
Cari amici, insieme con quella dei santi Apostoli Pietro e Paolo, invochiamo ora l’intercessione della Vergine Maria, perché ottenga dal Signore abbondanti benedizioni per i sacerdoti durante questo Anno Sacerdotale da poco iniziato. La Madonna, che san Giovanni Maria Vianney tanto amò e fece amare dai suoi parrocchiani, aiuti ogni sacerdote a ravvivare il dono di Dio che è in lui in virtù della santa Ordinazione, così che egli cresca nella santità e sia pronto a testimoniare, se necessario sino al martirio, la bellezza della sua totale e definitiva consacrazione a Cristo e alla Chiesa.


[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto ora i pellegrini di lingua italiana, molti dei quali sono a Roma per la conclusione dell’Anno Paolino. Saluto, in particolare, i fedeli delle parrocchie: S. Maria Assunta in Avio, "Spirito Santo" in Botrugno e Santa Maria di Loreto in Fossano. Saluto il parroco e i fedeli della comunità dell’Annunciazione dell’Eparchia di Latakia-Siria della Chiesa Siro–Maronita, il Vicario Generale e i pellegrini della diocesi di Sapes in Albania, le missionarie e i missionari Identes dell’Istituto di Cristo Redentore. A tutti auguro di trascorrere una buona domenica sotto la speciale protezione dell’apostolo Paolo.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Omelia di Benedetto XVI per la chiusura dell’Anno Paolino
ROMA, domenica, 28 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questa domenica sera, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, la celebrazione dei Primi Vespri della Solennità dei Santi Pietro e Paolo per la chiusura dell’Anno Paolino.
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Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Illustri membri della Delegazione del Patriarcato ecumenico,
Cari fratelli e sorelle,
rivolgo a ciascuno il mio saluto cordiale. In particolare, saluto il Cardinale Arciprete di questa Basilica e i suoi collaboratori, saluto l’Abate e la comunità monastica benedettina; saluto pure la Delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. L’anno commemorativo della nascita di san Paolo si conclude stasera. Siamo raccolti presso la tomba dell’Apostolo, il cui sarcofago, conservato sotto l’altare papale, è stato fatto recentemente oggetto di un’attenta analisi scientifica: nel sarcofago, che non è stato mai aperto in tanti secoli, è stata praticata una piccolissima perforazione per introdurre una speciale sonda, mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato con oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. E’ stata anche rilevata la presenza di grani d’incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree. Inoltre, piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo. Ciò sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo Paolo. Tutto questo riempie il nostro animo di profonda emozione. Molte persone hanno, durante questi mesi, seguito le vie dell’Apostolo – quelle esteriori e più ancora quelle interiori, che egli ha percorso durante la sua vita: la via di Damasco verso l’incontro con il Risorto; le vie nel mondo mediterraneo, che egli ha attraversato con la fiaccola del Vangelo, incontrando contraddizione e adesione, fino al martirio, per il quale appartiene per sempre alla Chiesa di Roma. Ad essa ha indirizzato anche la sua Lettera più grande ed importante. L’Anno Paolino si conclude, ma essere in cammino insieme con Paolo, con lui e grazie a lui venir a conoscenza di Gesù e, come lui, essere illuminati e trasformati dal Vangelo – questo farà sempre parte dell’esistenza cristiana. E sempre, andando oltre l’ambiente dei credenti, egli rimane il “maestro delle genti”, che vuol portare il messaggio del Risorto a tutti gli uomini, perché Cristo li ha conosciuti ed amati tutti; è morto e risorto per tutti loro. Vogliamo quindi ascoltarlo anche in questa ora in cui iniziamo solennemente la festa dei due Apostoli uniti fra loro da uno stretto legame.
Fa parte della struttura delle Lettere di Paolo che esse – sempre in riferimento al luogo ed alla situazione particolare – spieghino innanzitutto il mistero di Cristo, ci insegnino la fede. In una seconda parte, segue l’applicazione alla nostra vita: che cosa consegue a questa fede? Come essa plasma la nostra esistenza giorno per giorno? Nella Lettera ai Romani, questa seconda parte comincia con il dodicesimo capitolo, nei primi due versetti del quale l’Apostolo riassume subito il nucleo essenziale dell’esistenza cristiana. Che cosa dice a noi san Paolo in quel passaggio? Innanzitutto afferma, come cosa fondamentale, che con Cristo è iniziato un nuovo modo di venerare Dio – un nuovo culto. Esso consiste nel fatto che l’uomo vivente diventa egli stesso adorazione, “sacrificio” fin nel proprio corpo. Non sono più le cose ad essere offerte a Dio. È la nostra stessa esistenza che deve diventare lode di Dio. Ma come avviene questo? Nel secondo versetto ci vien data la risposta: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio…” (12, 2). Le due parole decisive di questo versetto sono: “trasformare” e “rinnovare”. Dobbiamo diventare uomini nuovi, trasformati in un nuovo modo di esistenza. Il mondo è sempre alla ricerca di novità, perché con ragione è sempre scontento della realtà concreta. Paolo ci dice: il mondo non può essere rinnovato senza uomini nuovi. Solo se ci saranno uomini nuovi, ci sarà anche un mondo nuovo, un mondo rinnovato e migliore. All’inizio sta il rinnovamento dell’uomo. Questo vale poi per ogni singolo. Solo se noi stessi diventiamo nuovi, il mondo diventa nuovo. Ciò significa anche che non basta adattarsi alla situazione attuale. L’Apostolo ci esorta ad un non-conformismo. Nella nostra Lettera si dice: non sottomettersi allo schema dell’epoca attuale. Dovremo tornare su questo punto riflettendo sul secondo testo che stasera voglio meditare con voi. Il “no” dell’Apostolo è chiaro ed anche convincente per chiunque osservi lo “schema” del nostro mondo. Ma diventare nuovi – come lo si può fare? Ne siamo davvero capaci? Con la parola circa il diventare nuovi, Paolo allude alla propria conversione: al suo incontro col Cristo risorto, incontro di cui nella Seconda Lettera ai Corinzi dice: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (5, 17). Era tanto sconvolgente per lui questo incontro con Cristo che dice al riguardo: “Sono morto” (Gal 2, 19; cfr Rm 6). Egli è diventato nuovo, un altro, perché non vive più per se stesso e in virtù di se stesso, ma per Cristo ed in Lui. Nel corso degli anni, però, ha anche visto che questo processo di rinnovamento e di trasformazione continua per tutta la vita. Diventiamo nuovi, se ci lasciamo afferrare e plasmare dall’Uomo nuovo Gesù Cristo. Egli è l’Uomo nuovo per eccellenza. In Lui la nuova esistenza umana è diventata realtà, e noi possiamo veramente diventare nuovi se ci consegniamo alle sue mani e da Lui ci lasciamo plasmare.
Paolo rende ancora più chiaro questo processo di “rifusione” dicendo che diventiamo nuovi se trasformiamo il nostro modo di pensare. Ciò che qui è stato tradotto con “modo di pensare”, è il termine greco “nous”. È una parola complessa. Può essere tradotta con “spirito”, “sentimenti”, “ragione” e, appunto, anche con “modo di pensare”. La nostra ragione deve diventare nuova. Questo ci sorprende. Avremmo forse aspettato che riguardasse piuttosto qualche atteggiamento: ciò che nel nostro agire dobbiamo cambiare, un precetto di alterazione. Ma no: il rinnovamento deve andare fino in fondo. Il nostro modo di vedere il mondo, di comprendere la realtà – tutto il nostro pensare deve mutarsi a partire dal suo fondamento. Il pensiero dell’uomo vecchio, il modo di pensare comune è rivolto in genere verso il possesso, il benessere, l’influenza, il successo, la fama e così via. Ma in questo modo ha una portata troppo limitata. Così, in ultima analisi, resta il proprio “io” il centro del mondo. Dobbiamo imparare a pensare in maniera più profonda. Che cosa ciò significhi, lo dice san Paolo nella seconda parte della frase: bisogna imparare a comprendere la volontà di Dio, così che questa plasmi la nostra volontà. Affinché noi stessi vogliamo ciò che vuole Dio, perché riconosciamo che ciò che Dio vuole è il bello e il buono. Si tratta dunque di una svolta nel nostro spirituale orientamento di fondo. Dio deve entrare nell’orizzonte del nostro pensiero: ciò che Egli vuole e il modo secondo cui Egli ha ideato il mondo e me. Dobbiamo imparare a prendere parte al pensare e al volere di Gesù Cristo. È allora che saremo uomini nuovi nei quali emerge un mondo nuovo.
Lo stesso pensiero di un necessario rinnovamento del nostro essere persona umana, Paolo lo ha illustrato ulteriormente in due brani della Lettera agli Efesini, sui quali pertanto vogliamo ancora riflettere brevemente. Nel quarto capitolo della Lettera l’Apostolo ci dice che con Cristo dobbiamo raggiungere l’età adulta, un’umanità matura. Non possiamo più rimanere “fanciulli in balia delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina…” (4, 14). Paolo desidera che i cristiani abbiano una fede matura, una “fede adulta”. La parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede “fai da te”, quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il Magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una “fede adulta”. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo. Così fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento, opponendosi con ciò radicalmente al principio della violenza, proprio anche nella difesa delle creature umane più inermi. Fa parte della fede adulta riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore, ristabilito nuovamente da Cristo. La fede adulta non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della moda. Sa che questi venti non sono il soffio dello Spirito Santo; sa che lo Spirito di Dio s’esprime e si manifesta nella comunione con Gesù Cristo. Tuttavia, anche qui Paolo non si ferma alla negazione, ma ci conduce al grande “sì”. Descrive la fede matura, veramente adulta in maniera positiva con l’espressione: “agire secondo verità nella carità” (cfr Ef 4, 15). Il nuovo modo di pensare, donatoci dalla fede, si volge prima di tutto verso la verità. Il potere del male è la menzogna. Il potere della fede, il potere di Dio è la verità. La verità sul mondo e su noi stessi si rende visibile quando guardiamo a Dio. E Dio si rende visibile a noi nel volto di Gesù Cristo. Guardando a Cristo riconosciamo un’ulteriore cosa: verità e carità sono inseparabili. In Dio, ambedue sono inscindibilmente una cosa sola: è proprio questa l’essenza di Dio. Per questo, per i cristiani verità e carità vanno insieme. La carità è la prova della verità. Sempre di nuovo dovremo essere misurati secondo questo criterio, che la verità diventi carità e la carità ci renda veritieri.
Ancora un altro pensiero importante appare nel versetto di san Paolo. L’Apostolo ci dice che, agendo secondo verità nella carità, noi contribuiamo a far sì che il tutto – l’universo – cresca tendendo a Cristo. Paolo, in base alla sua fede, non s’interessa soltanto della nostra personale rettitudine e non soltanto della crescita della Chiesa. Egli s’interessa dell’universo: ta pánta. Lo scopo ultimo dell’opera di Cristo è l’universo – la trasformazione dell’universo, di tutto il mondo umano, dell’intera creazione. Chi insieme con Cristo serve la verità nella carità, contribuisce al vero progresso del mondo. Sì, è qui del tutto chiaro che Paolo conosce l’idea di progresso. Cristo, il suo vivere, soffrire e risorgere è stato il vero grande salto del progresso per l’umanità, per il mondo. Ora, però, l’universo deve crescere in vista di Lui. Dove aumenta la presenza di Cristo, là c’è il vero progresso del mondo. Là l’uomo diventa nuovo e così diventa nuovo il mondo.
La stessa cosa Paolo ci rende evidente ancora a partire da un’altra angolatura. Nel terzo capitolo della Lettera agli Efesini egli ci parla della necessità di essere “rafforzati nell’uomo interiore” (3, 16). Con ciò riprende un argomento che prima, in una situazione di tribolazione, aveva trattato nella Seconda Lettera ai Corinzi: “Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno” (4, 16). L’uomo interiore deve rafforzarsi – è un imperativo molto appropriato per il nostro tempo in cui gli uomini così spesso restano interiormente vuoti e pertanto devono aggrapparsi a promesse e narcotici, che poi hanno come conseguenza un ulteriore crescita del senso di vuoto nel loro intimo. Il vuoto interiore – la debolezza dell’uomo interiore – è uno dei grandi problemi del nostro tempo. Deve essere rafforzata l’interiorità – la percettività del cuore; la capacità di vedere e comprendere il mondo e l’uomo dal di dentro, con il cuore. Noi abbiamo bisogno di una ragione illuminata dal cuore, per imparare ad agire secondo la verità nella carità. Questo, tuttavia, non si realizza senza un intimo rapporto con Dio, senza la vita di preghiera. Abbiamo bisogno dell’incontro con Dio, che ci vien dato nei Sacramenti. E non possiamo parlare a Dio nella preghiera, se non lasciamo che parli prima Egli stesso, se non lo ascoltiamo nella parola, che ci ha donato. Paolo, al riguardo, ci dice: “Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza” (Ef 3, 17ss). L’amore vede più lontano della semplice ragione, è ciò che Paolo ci dice con queste parole. E ci dice ancora che solo nella comunione con tutti i santi, cioè nella grande comunità di tutti i credenti – e non contro o senza di essa – possiamo conoscere la vastità del mistero di Cristo. Questa vastità, egli la circoscrive con parole che vogliono esprimere le dimensioni del cosmo: ampiezza, lunghezza, altezza e profondità. Il mistero di Cristo ha una vastità cosmica: Egli non appartiene soltanto ad un determinato gruppo. Il Cristo crocifisso abbraccia l’intero universo in tutte le sue dimensioni. Egli prende il mondo nelle sue mani e lo porta in alto verso Dio. A cominciare da sant’ Ireneo di Lione – dunque fin dal II secolo – i Padri hanno visto in questa parola dell’ampiezza, lunghezza, altezza e profondità dell’amore di Cristo un’allusione alla Croce. L’amore di Cristo ha abbracciato nella Croce la profondità più bassa – la notte della morte, e l’altezza suprema – l’elevatezza di Dio stesso. E ha preso tra le sue braccia l’ampiezza e la vastità dell’umanità e del mondo in tutte le loro distanze. Sempre Egli abbraccia l’universo – tutti noi.
Preghiamo il Signore, affinché ci aiuti a riconoscere qualcosa della vastità del suo amore. PreghiamoLo, affinché il suo amore e la sua verità tocchino il nostro cuore. Chiediamo che Cristo abiti nei nostri cuori e ci renda uomini nuovi, che agiscono secondo verità nella carità. Amen !
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana. Con aggiunte a braccio a cura di ZENIT]


Inserto del Il Foglio del 17 giugno 2009 - C’è un Papa che riannoda i fili di fede, ragione e identità. E c’era un filosofo che era tutto il contrario - KARL RAHNER È UNO DEI MAESTRI DELLA CULTURA E DELLO SPIRITO CONCILIARE. IL CARDINALE TETTAMANZI NE RICORDA LO SPIRITO. QUI CERCHIAMO DI CAPIRE PERCHÉ ANCORA FA DISCUTERE
Roberto de Mattei è una persona amabile, uno studioso serio, viene dalla destra cattolica, ha un legame forte e militante con la tradizione, senza le asperità e certi ideologismi dei tradizionalisti più radicali, e anima un centro di cultura intitolato alla gloriosa battaglia di Lepanto contro il Turco e una rivista dall’inequivocabile titolo giovanpaolino e ratzingeriano: Radici cristiane.

Il professore scrive per noi da qualche tempo, e l’ultimo suo articolo, chiaro e forte nell’impostazione, era dedicato al teologo Karl Rahner (1904-1984), alla necessità di liberarsi dal suo magistero. Ora, per la cura di Andrea Monda, ospitiamo un risposta molto critica di Giorgia Salatiello, studiosa di filosofia e docente alla Pontificia Università Gregoriana; e una meno univoca ma altrettanto chiara di monsignor Giuseppe Lorizio, studioso del teologo e abate Antonio Rosmini. Chiude la discussione, con un altro brillante esercizio di stile polemico, lo stesso De Mattei.

E’ bene annotare che non si tratta di un dibattito specialistico. Il linguaggio è inevitabilmente quello della teologia, con gli accorgimenti della divulgazione di temi così complicati sulle colonne di un quotidiano, ma la sostanza della discussione riguarda il nostro tempo, il nostro modo di essere, le grandi idee che ci accompagnano dalla seconda metà del Novecento. Da quando un Concilio ecumenico, un secolo circa dopo la rottura fra chiesa cattolica e modernità (il Sillabo di Pio IX), si presentò come una rigenerazione spirituale del cattolicesimo, una nuova Pentecoste, e aprì le porte a grandi bellezze e a notevoli brutture, sottraendo sì la chiesa alla statica e alle inerzie del duello con e contro il mondo, salvo i concordati e le alleanze di potere, ma gettandola anche in una sconfortante confusione e banalizzazione di certe sue altezze, di certa sua potenza e autorità cultuale, dottrinale e culturale.

Per dirla in breve, e grossolanamente, Karl Rahner, la cui opera non si può comprimere in una rapida scheda perché consta di un impressionante numero di dotti volumi teologici, da Uditori della parola (1941) al Corso fondamentale sulla fede (1976), alcuni dei quali a quattro mani con Joseph Ratzinger (prima di una separazione innescata dal diverso giudizio sulla ricezione del Concilio), è uno dei maestri della cultura e dello spirito conciliare, e il suo influsso sulla Gaudium et spes (tra i grandi documenti del Concilio) non potrebbe essere sottovalutato. Decisive alcune sue idee, maturate in un rapporto innovativo con la tradizione e in un commercio intenso ed eterodosso con l’esistenzialismo del filosofo Heidegger, qualificate dagli specialisti come “svolta antropologica”. In particolare, fece furore e sollevò reazioni sconcertate l’idea del “cristiano anonimo”, insomma dell’uomo naturaliter cristiano che non deve stare troppo a badare alla mediazione di Cristo per la grazia e la salvezza in quanto la sua natura è già dall’inizio predisposizione, per così dire, alla grazia.

“Meglio essere cristiani senza dirlo che dirlo senza esserlo”, predica sempre l’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, citando Ignazio di Antiochia, in polemica con noi laici devoti che ci limitiamo con Benedetto Croce a spiegare “perché non possiamo non dirci cristiani”. Ecco l’anonimato cristiano, la fede che ingurgita il pensiero e l’identità. Se Ratzinger ha passato il suo tempo e speso le sue energie a riannodare i fili della ragione dentro l’esperienza di fede e la sequela di Cristo che sono la missione della chiesa, ponendo un problema di identità culturale e di radici dei cristiani che sono terreno d’incontro con l’uomo moderno secolarizzato, Rahner ha sempre intellettualmente e spiritualmente navigato nella opposta direzione di uno scioglimento dei cristiani nell’anonimato universalmente salvifico del mondo. Un pensiero gravido di conseguenze per il nostro modo di essere, che vale la pena discutere e conoscere, con sforzi che eccedono i poteri di comunicazione di un foglio quotidiano. Ma che valgono la pena di essere fatti. (Giuliano Ferrara)
Per “uscire da Rahner” bisogna prima entrarvi. La risposta della filosofa Salatiello alla ricostruzione di De Mattei
Su Rahner l’analisi critica merita di essere portata fino in fondo”, questo è l’unico punto della riflessione di Roberto De Mattei (apparsa il 30 maggio su questo giornale e visibile sul sito www.ilfoglio.it, ndr) con cui concorda la professoressa Giorgia Salatiello, docente di Filosofia della religione presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana ed esperta di Rahner: sulla scrivania nel suo studio campeggia, molto liso dal molto uso e pieno di sottolineature di diversi colori, il classico di Rahner “Uditori della parola”. “Già il titolo di questo famoso saggio rappresenta una smentita alle tesi illustrate da De Mattei” afferma la Salatiello, “le quali si basano sul fatto che Dio si autocomunica in risposta all’uomo che lo interpella.

Bè, allora non si dovrebbe intitolare uditori ma interpellanti; ma per il cattolicesimo, e per Rahner, non è l’uomo che interpella Dio ma è Dio che interpella l’uomo che è solo uditore della parola e, dotato di un’apertura infinita che non delimita i contenuti della Rivelazione, non può nemmeno porre limiti alla libera iniziativa divina”. Con precisione teutonica la professoressa della Gregoriana procede a rispondere, punto per punto, alla ricostruzione di Rahner realizzata da De Mattei, il più delle volte facendosi aiutare dalle parole dello stesso Rahner il quale “proprio nei primi due capitoli del suo capolavoro afferma che Dio può essere conosciuto filosoficamente dalla teologia naturale, che è il vertice dell’ontologia generale, e che il credente conosce Dio con la teologia positiva (auditus fidei) da cui scaturisce la teologia sistematica. Quindi non è vero che Dio non può essere conosciuto dall’uomo, come lascia intendere De Mattei”.

Per la Salatiello, filosofa, poi non è Heidegger il vero maestro di Rahner che “afferma esplicitamente nei ‘Nuovi Saggi’ che il suo unico maestro è Tommaso, a cui si accosta attraverso Maréchal, tomista aperto al pensiero trascendentale. Dell’Aquinate il teologo tedesco riprende tra l’altro anche il tema della reditio completa, il fatto cioè che l’uomo è l’unico essere finito materiale che ritorna continuamente su di sé e si possiede autonomamente.
Questo lo porta ad affermare che l’auto-coscienza è dunque fondata (e non fondante come sostiene De Mattei) sul grado di possesso dell’essere”. Per la Salatiello quindi la “svolta antropologica” di Rahner, equivocata anche da Cornelio Fabro, non mira a sostituire l’uomo a Dio ma ad affrontare il discorso su Dio partendo dall’unico esistente che è in grado di farlo, cioè l’uomo. “Un gatto non può porsi il problema di Dio,” osserva la professoressa della Gregoriana, “e Rahner, in piena coerenza con il realismo di Tommaso, sottolinea l’indisgiungibile unità di spirito e materia nell’uomo, che rende ragione del fatto che l’uomo è spirito finito, e mai e poi mai puro spirito. Qualunque conoscenza intellettuale ha il suo inizio nella recettività della conoscenza sensibile, quella corporeità di cui, dice De Mattei, l’uomo sarebbe spogliato”.
Precisata la questione ontologica, ne consegue che anche la questione etica ha bisogno di un ri-equilibrio per evitare di affermare che Rahner procede alla dissoluzione della morale, come fa De Mattei; al contrario, sostiene la Salatiello, “la comprensione del valore morale di un’azione, secondo Rahner, è indissolubilmente legata alla classica dottrina tomista dell’unità dei trascendentali (ens unum verum et bonum convertuntur) e non c’è quindi alcuna possibilità di contrapporre la libertà, che tende al bene, alla conoscenza del vero. Il bene quindi è manifestativo dell’essere”. Insomma, tutto può dirsi di Rahner ma non che sia il padre del relativismo teologico: “In Rahner non vi è in modo assoluto alcuna presenza di affermazioni relativiste anche per la sua ferma convinzione dell’assoluta unicità della verità; pur riconoscendo che anche in altri percorsi, diversi dal cattolicesimo, vi possano essere germi di verità partecipati dall’unica verità (in piena conformità con la dichiarazione Dominus Jesus del 2000), quindi non germi di una vaga verità, ma germi di verità cioè partecipati dall’unica verità”. Non regge, infine nemmeno la tesi di De Mattei sulla famosa formula rahneriana dei “cristiani anonimi”, per cui la salvezza sarebbe assicurata a tutti. “L’accesso alla salvezza” taglia corto la professoressa della Gregoriana, “che ha il suo unico mediatore in Gesù Cristo, è aperto a tutti gli uomini per la universale volontà salvifica di Dio, ovvero per il dono della grazia che raggiunge tutti. Rahner stesso non ritiene indispensabile l’uso dell’espressione cristiani anonimi ma ritiene importante assicurarne il contenuto, peraltro in piena consonanza con l’enciclica Redemptoris Missio del 1990”. (Andrea Monda)
Per il teologo Lorizio si può e si deve “uscire” non da Rahner, bensì dal rahnerismo, come ha fatto B-XVI
Se la professoressa Salatiello dice semplicemente “no” alla ricostruzione della figura teologica di Karl Rahner realizzata da Roberto De Mattei, di diverso avviso è mons. Giuseppe Lorizio, anch’egli non convinto di quella ricostruzione. In altre parole si può criticare pure Rahner, e soprattutto il “rahnerismo”, ma lo si può fare solo con maggiore calma, precisione e profondità. Giuseppe Lorizio, pugliese, classe ’52, riveste tra gli altri incarichi quello di professore ordinario di Teologia fondamentale alla Lateranense, si è addottorato in Gregoriana con tesi su Rosmini e sul teologo di Rovereto ritorna spesso nella sua riflessione intorno a Rahner. Si può meglio comprendere infatti la famosa “svolta antropologica” di Rahner se si passa per Rosmini: “Rahner raccoglie una istanza fondamentale, che era già stata fatta propria dal beato Antonio Rosmini, il quale ne “Il rinnovamento della filosofia in Italia” scriveva: “La scuola teologica partì dalla meditazione di Dio: io partii semplicemente dalla meditazione dell’uomo, e mi trovai nondimeno pervenuto alle conclusioni medesime”. Né dobbiamo dimenticare a questo proposito la lezione di Maurice Blondel e del suo metodo dell’immanenza, che accoglie ed elabora la stessa istanza alla fine del XIX secolo e nei primi decenni del XX. Sia Rosmini che Blondel non hanno avuto vita facile nella teologia cattolica”.

La vita “difficile” Rahner però un po’ se l’è andata a cercare, secondo Lorizio, perché “se l’istanza è certamente condivisibile, bisogna tuttavia onestamente riconoscere che il pensiero teologico di Rahner – e non mi riferisco alla scolastica rahneriana – presta decisamente il fianco alle critiche e risulta discutibile. Volendo andare al nocciolo
della questione, si tratta di prendere le distanze – come giustamente fa De Mattei - dalla pura e semplice assimilazione umanistica della fede cristiana. Il cristianesimo non si può né si deve ridurre a un umanesimo.

Ci aveva già pensato Erasmo da Rotterdam – che oggi ritorna nelle riflessioni di Fr. Lenoir sul Cristo filosofo – a compiere un’operazione del genere, che di fatto vanifica la specificità della fede stessa e la dissolve nella rete delle strutture antropologiche. Strutture che nella riflessione rahneriana risultano estremamente formali (penso in particolare a ‘Uditori della Parola’).

Qui certo l’uomo viene pensato come luogo di accoglienza della Rivelazione, ma tale ascolto riguarda una ‘eventuale’ Parola di Dio, mettendo in ombra l’evento già accaduto e che non possiamo mettere fra parentesi, se vogliamo pensare correttamente in teologia. Quella di Rahner è insomma una storicità priva della carne e del sangue propri della storia. Il senso della critica che gli rivolge un altro maestro della teologia del Novecento quale H. U. von Balthasar risiede proprio nella rivendicazione dell’irruzione del soprannaturale nella storia e nella sua tensione drammatica con l’umano, che la teologia rahneriana tende a vanificare”.

Anche l’altra formula famosa di Rahner, quella del “cristianesimo anonimo”, ha creato non pochi problemi, secondo Lorizio, a causa della sua ambiguità: “Se si tratta dei ‘semi del Verbo’ presenti in tutte le culture e le religioni, ci aveva già pensato Giustino nel II secolo a rilevarne il senso e al tempo stesso la radicale frammentarietà. Forse
Rahner la intendeva così, ma, esprimendola in questi termini, non aiuta certo a cogliere l’assoluta necessità della fede per la salvezza. Mi piace a questo proposito evocare quanto dice lo starets Giovanni al grande imperatore- anticristo nel racconto di Solovev, quando questi chiede ai cristiani cosa sta loro a cuore: ‘Che tu proclami che Cristo è il Signore…’, infatti è nel suo ‘nome’ che sono salvate tutte le genti.

L’anonimato non ci appartiene come credenti in Cristo e la missione della chiesa consiste nel far sì che ‘nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi’ all’adorazione del Dio unico e vero, in modo che la drammatica domanda ‘il Figlio dell’uomo quando tornerà, troverà la fede sulla terra?’ abbia risposta positiva”.

Dal punto di vista della storia della teologia, senz’altro Rahner è stato e resta, dice Lorizio, uno dei giganti del Novecento proprio per quello spirito d’avventura che in lui viene criticato, ma che invece “non si può né si deve considerare necessariamente pernicioso per la teologia, la quale, come tutte le ‘scienze’, ha bisogno di pionieri che,
anche a prezzo di incomprensioni e possibili derive, sappiano aprire strade nuove, a patto che restino radicati nell’unica Parola che salva.

Nel contesto in cui la teologia di Rahner si è espressa è innegabile che essa ha saputo cogliere una istanza decisiva per la riflessione che nasce dalla fede e di essa si nutre: l’attenzione all’umano e alle sue strutture costitutive, sulle quali si innesta la grazia, che – come diceva Tommaso d’Aquino – non distrugge, ma perfeziona (= perficit) la natura, redimendola. E questa operazione teologica Rahner l’ha compiuta in rapporto critico con il modello neo-scolastico, imperante nella teologia preconciliare, tentando di superarne l’estrinsecismo, ossia quella tendenza a considerare la Rivelazione (e quindi la grazia) come semplicemente sovrapposta alla natura. Il dibattito teologico – anche attuale – è chiamato a interrogarsi sulla riuscita di questa operazione e sui suoi limiti.

Un avvertimento tuttavia necessario a questo riguardo: spesso le polemiche nascono fra esponenti delle diverse ‘scolastiche’ che si generano a partire dalla lezione dei maestri, che risulta sempre molto più complessa rispetto a quella dei loro epigoni, i quali tendono ad estremizzarne, banalizzandole, le posizioni. Ad esempio, quando De Mattei fa di Rahner un pensatore appiattito su Cartesio, Kant, Hegel e Heidegger, non rende ragione al teologo tedesco; ricordo invece, proprio sul cogito cartesiano, una splendida risposta di Rahner che così ribaltava l’assunto: Cogitor ergo sum, sono pensato, dunque sono. Oppure, quando De Mattei cita il discorso sull’ermeneutica del Concilio che il Papa ha rivolto alla Curia romana, bè, in quel discorso non viene mai citato Rahner anche perché non ce n’era bisogno. Il Concilio è evento estremamente complesso e non ha un solo punto di riferimento teologico, tanto è vero che alcuni suoi testi sono stati accusati di ‘compromesso’ fra i diversi punti di vista presenti tra i Padri e i teologi che hanno partecipato. Quella ‘ermeneutica della riforma’ che Papa Ratzinger ha proposto come chiave di lettura più appropriata e coerente del Vaticano II dice anche l’assoluta fedeltà alla dottrina conciliare di questo Pontefice, che pure vi ha partecipato come teologo al seguito del cardinale di Colonia Joseph Frings.

Del resto l’accettazione di tale dottrina conciliare è conditio sine qua non perché i tradizionalisti – al di là della rimozione della scomunica – rientrino pienamente nella chiesa cattolica. Ecco, sono proprio i lefebvriani che non amano Rahner; anzi, lo definiscono, con la solita virulenza, un vero e proprio Anticristo”. Un’ultima questione, anche questa complessa al punto giusto da non poter essere liquidata con poche battute, è proprio il rapporto tra Rahner e Ratzinger. I due hanno scritto diversi libri insieme e il secondo, una volta diventato Papa, ha di recente nominato due vescovi di scuola rahneriana (Ignazio Sanna e Luis Francisco Ladaria).

Secondo Lorizio “De Mattei non ha torto quando esprime, anche se forse in maniera troppo virulenta, la necessità di uscire dal rahnerismo, ossia di superare questo orizzonte di pensiero, che è ormai alle nostre spalle. Ma questo superamento può avvenire solo nella forma di un oltrepassamento che sia in grado di attraversare i testi e i contenuti delle grandi figure del pensiero sia filosofico che teologico, che non si possono semplicemente ignorare o bypassare in maniera disinvolta e sostanzialmente ideologica. Il Ratzinger teologo ha ben intravisto i rischi del rahnerismo e ne ha preso le distanze. A questo riguardo è fondamentale quanto lo stesso Papa dichiara in quel luogo della sua biografia, ripreso giustamente dal cardinal Ruini: “Io, al contrario (di Rahner), proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico”.

Dunque diremmo che siamo di fronte a due prospettive: una – quella rahneriana – prevalentemente formale- speculativa, l’altra – quella ratzingeriana – di carattere storico-positivo, col fondamentale riferimento ai Padri della chiesa e alla liturgia. Scuole di pensiero differenti che nulla hanno a che vedere con la nomina dei vescovi. Non credo che saremmo molto entusiasti di un Papa che chiamasse all’episcopato solo persone appartenenti alla propria cordata teologica. Anche in questo si manifesta – a dispetto della sua equivoca fama giornalistica – la grande apertura dell’attuale Pontefice e il suo profondo rispetto per posizioni diverse dalla propria”. (an.mon.)
Ecco perché il teologo tedesco è il maestro dell’ambiguità che grava sul pensiero cattolico da quarant’anni

Che cosa significa “uscire da Rahner”? Significa innanzitutto uscire dalla cappa di ambiguità che grava sul pensiero cattolico da oltre quarant’anni. Di questa ambiguità Rahner fu maestro, tanto che se gli si dovesse attribuire un titolo, come si usa tra i teologi, potrebbe ben essere definito “doctor ambiguitatis”.

La prima prova di questa ambiguità è data proprio dalla pluralità di interpretazioni possibili del suo pensiero su una stessa pagina di giornale. Il Rahner “tomista” proposto dalla professoressa Salatiello è certamente un Rahner inesistente, che non ha nulla a che fare con quello conosciuto dagli studiosi della sua opera, che ne sottolineano tutti la “discontinuità” con la grande tradizione della Scolastica e il rapporto invece di dipendenza dal pensiero moderno.

Decisiva fu l’influenza di Heidegger, che Rahner salutò pubblicamente con “il rispetto di uno scolaro davanti al grande maestro” (R. Wisser (ed), Martin Heidegger im Gespräch, Friburgo i.B.m 1979, p. 49). Il che nulla toglie alla sua filiazione dal gesuita belga Joseph Maréchal che, malauguratamente per lui, costituì l’anello di congiunzione non con san Tommaso, ma con Kant e con Cartesio. E’ da questo filone immanentista che proviene la fondamentale tesi rahneriana dell’identità tra l’essere e il conoscere.

Per san Tommaso l’essere precede la conoscenza, mentre per Rahner, che si esprime con linguaggio heideggeriano, “conoscere è l’essere-con-sé dell’essere e questo essere con sé è l’essere dell’essente”: è questa la tesi fondamentale di “Spirito del mondo”, un’opera che deve essere letta prima di “Uditori della parola”, per comprendere la natura della “antropologia trascendentale” di Rahner.

Per la Salatiello la “svolta antropologica” di Rahner mira ad affrontare Dio partendo dall’unico esistente che è in grado di farlo, cioè l’uomo. Ma essendoci unità tra essere e conoscenza, tra soggetto conoscente e cosa conosciuta, Dio diventa l’esistente presente nell’uomo, non realmente distinto da esso, in una prospettiva panteista confermata dalla equivoca formula della “autocomunicazione” o “autopartecipazione” divina.

Si può nello sviluppo logico del ragionamento partire dalla “meditazione dell’uomo” invece che dalla “meditazione di Dio”, come voleva Rosmini e ripropone mons. Lorizio, ma a condizione di sottolineare la finitezza e la limitatezza della condizione umana, ferita dal peccato. Per Rahner invece, la grazia non è necessaria alla natura umana per sanarla dal peccato, ma per costituire ciò a cui la “apertura infinita” dell’uomo è strutturalmente ordinata, la sua unità-identità con Dio.

Attraverso Heidegger, si svela sullo sfondo la presenza potente di Hegel, la cui dialettica costituisce il fondamento della anfibologia semantica e concettuale di Rahner. La teologia è la scienza che analizzando e confrontando con i princìpi della ragione i dati della Rivelazione (Scrittura e Tradizione, interpretate dal Magistero della chiesa) tratta di Dio e delle creature in rapporto a Dio, arrivando a formulare conclusioni teologiche.

Per Rahner, al contrario, l’essenza della teologia è di vanificare tutte le conclusioni teologiche raggiunte dal pensiero della chiesa nel corso dei secoli. Ogni formula dogmatica, ogni certezza metafisica e morale, ogni culto e devozione della chiesa, viene problematizzato e ridotto a “mistero”, di cui propriamente non si può neppure parlare. “Gli enunciati teologici – afferma – sono coerenti a se stessi solo in un processo di auto superamento radicale”.

La teologia è “reductio in mysterium”, come dice il titolo di un suo saggio, e più precisamente “in unum mysterium”, quello della “autopartecipazione divina”. Nel febbraio 1984, poco prima della morte, Rahner tenne una conferenza sulle “Esperienze di un teologo cattolico” che è un po’ il suo testamento spirituale. In questo ultimo testo, egli spiega che “non si può affermare niente di Dio in maniera legittima, se non a condizione di aggiungervi una negazione e di mantenere la scomoda oscillazione tra il sì e il no come il vero e unico punto saldo della nostra conoscenza”. Il teologo che parla di Dio, del mondo, dell’uomo, deve esprimersi attraverso affermazioni e negazioni, nella consapevolezza che proprio in questa continua oscillazione consiste la vera conoscenza.

“Che cosa significa oggettivamente, ad esempio, che il Figlio dell’uomo ritornerà sulle nubi del cielo, che egli si dona veramente a noi nelle specie del’eucarestia con la sua carne e il suo sangue, che il Papa è infallibile quando parla ex cathedra, che esiste un inferno eterno (…)?”. Si tratta di affermazioni che vanno inquadrate all’interno di una tensione dialettica tra il sì e il no, tra il possibile e l’impossibile, perché in ultima analisi il mistero divino è inconoscibile all’uomo. “Il teologo – continua Rahner – è veramente tale soltanto lì dove non pensa tranquillamente di parlare con chiarezza e in modo trasparente, bensì estende l’oscillazione analoga tra il sì e il no sull’abisso di incomprensibilità di Dio e nello stesso tempo la sperimenta e la testimonia con gioia”.

L’influsso di Hegel è evidente, ma a differenza della dialettica hegeliana, che si conclude in una sintesi, quella di Rahner si presenta come una dialettica aperta, che fa dell’ambivalenza la principale caratteristica del suo pensiero. Questo atteggiamento è più pericoloso di un’eresia formalmente professata, perché mina i fondamenti della fede cattolica alla radice, attraverso l’assunzione di un relativismo dissolutore. Anche quando Rahner “opta” per la verità, la tratta però come una tesi altrettanto possibile dell’errore, che viene da lui dignificato, anche se non accolto. Il passo per assumerlo è breve e il fatto che a compierlo sia Hans Küng, piuttosto che Karl Rahner, non diminuisce le responsabilità di quest’ultimo. Mons. Lorizio non è un’apologeta di Rahner come la professoressa Salatiello, ma è più rahneriano di quanto non pensi, quando cerca la convivenza dialettica delle correnti o “cordate” teologiche all’interno della chiesa, senza comprendere che qui non si tratta delle tradizionali differenze tra “scuole” unite da una medesima fede, ma di un’aspra battaglia tra teologie incompatibili, in un momento della storia della chiesa in cui non c’è più spazio per la politica del compromesso e del “buonismo” ecclesiale. (Roberto de Mattei)


RU486: perché commercializzare un farmaco così pericoloso? - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 28 giugno 2009
La verità sulla RU486 e sull’aborto chimico, è la sua pericolosità per la salute della donna.
In questi giorni è stato comunicato che entro l’estate l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) potrebbe autorizzare la commercializzazione in Italia della RU486, la pillola abortiva.
Il cosiddetto aborto chimico consiste nell’assunzione della RU486 per impedire l’annidamento o provocare il distacco dell’embrione dalla parete uterina agendo sugli ormoni femminili, e di una seconda pillola, quella del misoprostol, nome commerciale Cytotec, che stimola le contrazioni uterine per l’espulsione del feto. L’AIFA non ha mai registrato il Cytotec come stimolatore dell’utero, ma solo come farmaco antiulcera; verrebbe proposto come abortivo, contro le indicazioni della stessa casa farmaceutica che ha anche ufficialmente messo in guardia dal farlo. Nel sito della Food and Drug Administration (FDA, ente statunitense di vigilanza farmacologica) si legge che fra gli effetti da Cytotec, oltre che emorragie e stati di shock, c’è anche la morte della madre.

La verità sulla RU486 e sull’aborto chimico, è la sua pericolosità per la salute della donna: sono più probabili infezioni batteriche, emorragie e shock settici, in relazione all’infezione dovuta al mancato raschiamento dell’utero dopo l’aborto che quindi rimane ricettivo nei confronti dei batteri. La RU486 danneggia il sistema immunitario della donna. Il tasso di mortalità nelle donne è dieci volte maggiore nell’aborto con l’uso della RU486, infatti il tasso di mortalità è di 1/100.000 contro 1/1.000.000 dell’aborto chirurgico (fonte: New England Medical Journal 2005). Dolori e crampi, nausea, debolezza, cefalea, vertigini sono gli effetti collaterali più comuni riportati. La durata media del sanguinamento dopo l’utilizzo della RU486 è di 14-17 giorni. Proviamo a metterci nei panni di una donna, vi sembrano proprio effetti collaterali trascurabili?

La FDA dichiara i seguenti dati (2006): 950 effetti avversi, 9 casi di pericolo di vita, 116 trasfusioni di sangue, 88 infezioni, 6 eventi trombotici, 232 casi di ospedalizzazione. Nel 2006 sono stati effettuati in Toscana 394 aborti farmacologici che hanno richiesto 65 interventi chirurgici (16,5%). Pensate al dramma di queste donne che comunque alla fine hanno dovuto ricorrere d’urgenza ad un intervento chirurgico.
Per qualsiasi farmaco che nel foglietto illustrativo riportasse tali controindicazioni l’opinione pubblica dovrebbe essere allertata e probabilmente la vicenda susciterebbe molto clamore, invece tutto procede nel quasi generale silenzio della stampa. Si dirà che ne è già consentito l’uso in altre nazioni europee, ma non in tutte; inoltre le due condizioni per il mutuo riconoscimento del farmaco non sono verificate, vista la mancanza di urgenza di cura e il fatto che non mancano alternative; infatti l’aborto è già praticato in Italia, allora non si comprende perché questo dovrebbe spingerci ad adottare un farmaco dotato di tale pericolosità. Perché tutte queste pressioni? Le motivazioni sono a nostro avviso di diverso tipo, c’è sicuramente una componente ideologica e politica di chi continua a voler estendere la pratica dell’aborto, e questo strumento presentato come “facile ed indolore” tende certamente a banalizzare l’aborto, a renderlo un fatto privato, a non considerarlo come un problema sociale; risulterebbe difficile anche quantificare il numero di aborti. C’è poi da considerare il continuo aumento dei medici che si dichiarano obiettori di coscienza, e questo sarebbe un modo per aggirare il problema, ma soprattutto andrebbe nella direzione di una deresponsabilizzazione dei medici e delle strutture sanitarie; l’aborto tornerebbe ad avvenire col passare del tempo al di fuori degli ospedali, con tutti i rischi anche medici sulla salute delle donne.
Certamente significativo è poi l’aspetto economico, che non è certo l’ultimo degli elementi che spingono al riconoscimento di questo farmaco. Ogni tentativo di prevenire l’aborto sarebbe poi impedito dalla mancanza del colloquio preventivo. La donna sarebbe lasciata sola nella decisione di assumere le pillole abortive, e si caricherebbe su di essa tutta la responsabilità dell’aborto gravando psicologicamente sulla donna che ingerita la seconda pillola attenderebbe a casa il drammatico evento dell’espulsione del feto/bambino: nel 56% delle donne si associa ad una maggiore frequenza di effetti psicologici negativi (incubi, flashback, pensieri intrusivi relativi all’esperienza).

È necessario rimettere al centro la verità, è necessario un intervento che ne impedisca la commercializzazione in Italia. Dobbiamo rimettere al centro anche la salute della donna che non viene per nulla tutelata, e la difesa della vita fin dal concepimento.


Miracoli tra noi - Autore: Bonalume, Andrea Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 27 giugno 2009
Martedì 23 giugno 2009 un ragazzo di 12 anni, Andrea Achilli, è morto travolto da un camion presso Casatenovo, in Brianza. Andrea frequentava la prima media ed apparteneva a “Stand by Me”, una comunità di adulti e ragazzi accomunati dalla passione per il significato della realtà. Questo avvenimento così drammatico ha fatto nascere una serie di miracoli attorno alla famiglia e alla comunità degli amici di Andrea.
In questi giorni stanno accadendo grandi miracoli.
Dopo la notizia della morte di Andrea, è nata subito l’esigenza col gruppo di Stand by Me di ritrovarci per sostenerci nella grande domanda di senso che quel terribile fatto ha provocato in noi adulti e nei ragazzini.
La sera del giorno dopo ci siamo dati appuntamento nella sala di un oratorio della Brianza, messaci a disposizione da un nostro amico prete del movimento.
Mi aspettavo al massimo una quarantina di persone: erano almeno il doppio, fra ragazzi e genitori, tutti mossi da un grido e una domanda che feriva il cuore di ciascuno.
Qualche ora prima dell’incontro avevo ricevuto varie telefonate da parte di genitori della scuola che, avendo ricevuto la notizia che “quelli di Stand by Me” si incontravano per pregare e giudicare , mi chiedevano se potevano portare i loro figli, anche se non partecipavano all’esperienza di Stand by Me.
Un fatto del genere aveva fatto venire a galla il cuore di ciascuno, e questo era già il primo miracolo.
L’incontro è iniziato con i canti che spesso ci hanno accompagnato nei momenti drammatici e che ci hanno sempre richiamato al Destino buono che non ci abbandona mai: “Povera voce”, “Noi non sappiamo chi era”, “Vuestra soy”, “Favola”, con quell’ultima stupenda strofa: “Così, quando sarai a quell’ultimo ponte/ con il tempo alle spalle e la vita di fronte/, una mano più grande ti solleverà/
abbandonati a quella/ non temere perché c’è Qualcuno con te.”
Durante l’incontro i ragazzi hanno tirato fuori le domande più vere e drammatiche: “Perché Gesù mi fa soffrire così? Non poteva chiedermi di volergli bene in un altro modo?”
La nostra umanità e quella dei ragazzi ha vibrato in un modo che non era mai accaduto prima. “Il punto - si diceva - non è provare dolore, ma se c’è un senso a quel dolore. Il dolore è il modo con cui Gesù ci sta chiedendo: Mi vuoi bene anche in questa circostanza? Gesù ci fa compagnia in tutto, anche nel dolore, a tal punto da morire e risorgere. Andrea ora è con Gesù. Anche se non capiamo subito, stiamo attaccati a questa compagnia, alla Sua compagnia”.
Abbiamo concluso pregando e ricantando “Favola”.
Alla fine dell’incontro, vedevo i nostri volti già cambiati, lo smarrimento era cambiato in domanda a Cristo.
Nel viaggio di ritorno, mi arriva un messaggio di Giovanni, di terza media:

“Prof tutto è cambiato in noi
la nostra vita ha più senso.
Andrea mi ha reso più consapevole di perché vengo a Stand by Me in 3 anni. A grande prezzo l’ho cominciato a capire.
Grazie perché lei c’è”
Gio


Il 25 giugno si è celebrato il funerale. Quasi duemila persone, un intero popolo. Don Julian Carròn, durante l’omelia afferma: ”Perché non è un’ingiustizia quel che è capitato? Perché Dio non ha risparmiato neanche suo Figlio. Questa è la modalità con cui Dio unisce tutti gli uomini a Lui. Andrea è stato segnato dal battesimo e confermato dalla cresima, cioè legato per sempre a Cristo. Come Cristo è stato risorto dal padre, anche Andrea è stato risorto dal suo Signore. Occorre guardare a Cristo risorto.
Tutto il resto è una modalità ridotta di guardare ad Andrea. Non può prevalere lo sconforto, perché la nostra fede non è un sentimento ma una conoscenza”.
Dopo la benedizione finale, Pietro, un ragazzo di terza media si reca al microfono: “Andrea, vogliamo dedicarti questa canzone che tanto abbiamo cantato nei nostri incontri di Stand by Me. Siamo certi che la canterai anche tu con noi”. Insieme ricantiamo “Favola” di Chieffo. Carròn dall’altare canta in piedi con noi.
Al termine della sepoltura io, alcuni adulti e un gruppettino di ragazzi andiamo a salutare Felice Achilli, il papà di Andrea. Lui mi guarda e mi abbraccia. Io timidamente e con un po’ di timore gli sussurro: “Grazie perché sei una grande testimonianza”.
Lui sorride e mi dà una pacca. Con fare baldanzoso mi risponde: “Ma che testimonianza, Andrea non è mica solo figlio mio! E’ da questi momenti che si capisce a chi si appartiene”.
Io ho guardato negli occhi quest’uomo, ho visto una letizia dell’altro mondo. Quella letizia è segno inequivocabile di una Presenza che ci fa compagnia ora più che mai.


Il catechismo della carne - Pigi Colognesi - venerdì 26 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Consiglio vivamente la lettura dell’ultimo saggio di Timothy Verdon, Il catechismo della carne (Cantagalli 2009). Lo studioso di storia dell’arte cristiana, americano di origine ma residente in Italia da quarant’anni, offre in tre densi capitoli notevoli spunti per comprendere non solo le caratteristiche di una espressione artistica che accompagna la civiltà occidentale da due millenni (e senza della quale quella stessa civiltà risulta meno comprensibile), ma anche la natura stessa del fatto cristiano che a quell’espressione artistica ha dato origine. E la natura del cristianesimo è quella di essere «incarnazionale», cioè fondato sull’accadere di un evento compiutamente «fisico»: l’incarnazione, appunto, di Dio in un corpo umano. Pertanto esso è valorizzatore di ogni «carne», quella dell’uomo, e di ogni «materia», quella del cosmo che circonda l’essere umano. Entrambi sono «chiamati a salvezza», cioè destinati ad una definitiva bellezza, pur dovendo ancora nel tempo dibattersi in quelle che san Paolo chiama «le doglie del parto».
Lascio al lettore il gusto e la soddisfazione di ripercorrere con Verdon l’evolversi della carnalissima arte cristiana, dal superamento della corporeità eroica dell’arte greco-romana all’approfondimento teologico e simbolico del medio evo, dalla rivoluzione affettiva di san Francesco alla reinvenzione del modello classico nel rinascimento, dal dramma barocco alle sue degenerazioni, fino alla strana afasia sul corpo di molta arte sacra contemporanea.
Mi voglio, invece, soffermare su una delle opere analizzate nel volume. Si tratta del michelangiolesco Tondo Pitti, conservato al Bergello di Firenze. Scrive Verdon (che anni fa ha dedicato un saggio a Michelangelo teologo): «Il tondo rappresenta Maria, seduta su un blocco di marmo mentre mostra un libro aperto al bambino Gesù, il quale vi appoggia il braccio destro. Alle spalle di Maria, l’altro bambino che guarda verso Cristo è san Giovanni Battista, sovente raffigurato nell’arte fiorentina in quanto patrono cittadino. Ma l’intuizione teologica principale del tondo è comunicata in un altro particolare: il braccio di Gesù poggiante sul grande libro tenuto da Maria, che comunica l’idea di un’antica cultura “incarnata” nel Verbo fattosi bambino». Perché si tratta di una grande intuizione teologica? Appunto perché il cristianesimo non è una «religione del libro», l’incontro con esso non avviene per riflessione su una teoria e il suo mantenersi nella storia non si realizza perché uno stuolo di scribi commenta e chiosa le parole scritte di una dottrina del passato. Quel braccino di un sorridente bambino è «la vittoria della carne umana sulla parola scritta».
Maria è pensosa, dice Verdon, perché rappresenta tutta l’umanità nel suo sforzo, intenso e un po’ triste, di comprendere il mistero dell’esistenza. E come può farlo? Leggendo un libro, cioè paragonandosi con il meglio che il suo lungo cammino e diuturno sforzo ha saputo produrre e tramandare. «Ma, al posto delle parole, Dio le ha dato il suo Verbo come figlio in carne ed ossa».
Maria, però, è anche la Chiesa. Tra i suoi figli non è mai escluso il pericolo di comportarsi come scribi, sottili interpreti di un libro, dotti esegeti di una teoria, ripetitori di un discorso. Ma il braccio un po’ insolente di quel bambino posato sul libro sta a ricordare che «solo lo stupore conosce» e che l’unico «catechismo» convincente è quello «della carne».


Il compito della politica - Mario Mauro - lunedì 29 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Le ragioni per cui si sceglie un certo mestiere non sono mai facili da spiegare. C’è chi lo fa per vocazione, chi per guadagno, chi per esigenza, chi per circostanza. Tante ragioni per un’avventura che occuperà una parte rilevante della nostra vita, ma un solo vero perché: la passione per un cammino che sentiamo davvero nostro. Il mestiere della politica è anche questo.
Può essere vissuta in vario modo: come un puro esercizio del potere, come desiderio di protagonismo o come appagamento di sé. Un cammino di questo tipo, in qualunque direzione esso vada, non si muoverà mai lungo le direttrici dell’incontro con l’altro e resterà per sempre confinata nell’ideologia e senza alcuna possibilità di incidere veramente sulla vita dei cittadini. Un’idea distorta del fare politica è una delle principali cause che ha portato a una generale sfiducia nei confronti della sfera pubblica. Si arriva addirittura ad affermare che la vita quotidiana è una cosa e le pratiche di governo sono un’altra.
C’è, quindi, una dimensione che esula da questo contesto, ma anche di fronte alla tragicità di fatti che accadono in un momento e che sconvolgono la vita per sempre, la dimensione politica può indicare una via, non tanto per togliere il dolore, quanto per dare un aiuto concreto nei momenti di difficoltà. L’abbiamo visto, ad esempio, nel caso delle martoriate terre d’Abruzzo dove l’Unione europea ha stanziato 493 milioni di euro per far fronte all'emergenza del terremoto.
Nel mondo potremmo citare numerosi esempi, basti pensare ai recenti scontri in Iran all’ormai secolare stato di crisi africana, alle bufere economiche di cui fanno le spese i ceti più deboli, per arrivare ad alcuni agghiaccianti fatti di cronaca che sconvolgono l’opinione pubblica. A questi però si aggiungono accadimenti quotidiani altrettanto tragici, che nel loro piccolo, possono cambiare il corso della nostra esistenza. La morte prematura di una persona cara, l’esperienza della malattia, la perdita del lavoro, le difficoltà familiari non sono solo episodi che restano legati a una sfera esclusivamente privata, ma piccoli tasselli che compongono la realtà e che riguardano tutti noi da vicino.
La politica ha un peso specifico anche in queste situazioni. Deve saper dare cioè un contributo dignitoso per sostenere la fatica del vivere. La politica non dà un senso alle cose, è vero, ma può contribuire ad approfondirne il significato, contribuendo a dare un supplemento di riflessione e, quando è condotta fino in fondo, può dare il giusto peso e la giusta direzione allo scorrere degli eventi. Assistere i malati, difendere le famiglie, avere cura dell’istruzione dei più giovani, dare una nuova fiducia al mondo del lavoro possono essere percorsi che rendono possibili le piccole e grandi sfide quotidiane.
Se la politica non s’incrocia con la vita, se non è capace di tessere con essa una relazione significa che non è in ascolto dei veri bisogni della persona e che non si sta battendo realmente per la felicità dell’uomo. Per chi fa questo mestiere è fondamentale sapersi giocare fino in fondo su questo terreno, senza lasciarsi scoraggiare o travolgere dai fatti, ma cercando sempre di esserne protagonisti facendo delle scelte dettate dal desiderio di amore e di bene verso il prossimo.


CRISTIANESIMO/ San Pietro secondo Auerbach: la forza dirompente di un fatto quotidiano - Laura Cioni - lunedì 29 giugno 2009 – ilsussidiario.net
L’apostolo Pietro – che oggi si festeggia insieme a Paolo, quest’anno più alla ribalta per l’anno che gli è stato dedicato - è un uomo affascinante: il pescatore di Galilea, rude e tenero, impulsivo e a tratti quasi infantile, ha spesso spinto gli artisti a illustrarne il carattere, sbozzato in pochi tratti dal Vangelo. Un momento centrale e drammatico della sua vita è costituito dal rinnegamento. Dopo l’arresto di Gesù Pietro lo segue e viene riconosciuto come uno della sua cerchia, ma egli nega di conoscere il Signore.
Erich Auerbach commenta l’episodio in Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale, scegliendo la versione dell’evangelo di Marco, composto nella cerchia dei discepoli di Pietro e quasi coevo degli scritti di Petronio e di Tacito, con i quali viene messo in relazione. Il suo metodo critico si basa sul commento e sul confronto di pagine letterarie significative allo scopo di rintracciare le strutture culturali portanti di un’epoca e di una civiltà. Non è superfluo ricordare l’origine ebraica di Auerbach, costretto ad abbandonare la Germania nazista, riparato prima a Istanbul e poi negli Stati Uniti, dove insegnò romanistica all’università di Yale.
Egli ha lasciato il paese e il mestiere, ha seguito il suo maestro a Gerusalemme e per primo l’ha riconosciuto come messia; quando era venuta la catastrofe, egli era stato più coraggioso degli altri, s’era avviato a seguir Cristo anche questa volta. Però questo è soltanto un avvio, un seguirlo a mezzo e con paura, forse determinato dalla confusa speranza che potesse ancora avvenire il miracolo per cui il messia avrebbe annientato i suoi nemici. Perché crede profondamente, ma non abbastanza, a lui accade la cosa peggiore che possa accadere a un credente, pochi momenti prima ancora entusiasta: trema per la sua povera vita.
Una figura tragica che ha tale origine, un eroe di tanta debolezza, che proprio dalla sua debolezza trae la forza maggiore, tali oscillazioni sono inconciliabili con lo stile illustre della letteratura antica. Ma anche il modo e il luogo del conflitto stanno completamente al di fuori della cornice dell’antichità classica. Si tratta, guardando le cose dal di fuori, di una operazione di polizia, la quale si svolge in tutto e per tutto fra persone comuni del popolo; qualche cosa del genere avrebbe fatto pensare agli antichi a una farsa o a una commedia. Perché non fu così? Perché suscita la partecipazione più seria e più commossa? Perché rappresenta quanto non è stato mai rappresentato né dalla poesia né dalla storiografia antica: la nascita d’un movimento spirituale nelle profondità della vita spirituale del popolo, che con ciò acquista un’importanza mai raggiunta nella letteratura antica. Davanti ai nostri occhi si risvegliano un cuore e uno spirito nuovi.
Quanto è detto qui si riferisce a tutti i fatti che sono raccontati nel Nuovo Testamento; in essi si tratta sempre della stessa questione, sempre dello stesso conflitto, che si presenta fondamentale per ogni uomo e che con ciò è aperto e infinito.
Per gli scrittori del Nuovo Testamento questa storia contemporanea che si svolge entro una cornice quotidiana costituisce un avvenimento rivoluzionario nella storia del mondo, e in seguito diventa tale per ciascuno. Si rivela quale moto e forza storica perché in qualsiasi persona vengono esemplificati gli effetti della dottrina, della persona e del destino di Gesù.