Nella rassegna stampa di oggi:
1) ELEZIONI 2009/ Mauro: la netta vittoria del PPE è una speranza per l’Europa – ilsussidiario.net - Mario Mauro - martedì 9 giugno 2009
2) Il Papa difende il diritto dei Vescovi venezuelani di partecipare alla vita pubblica - Per irradiare la luce del Vangelo nella vita sociale
3) In India, ferve la lotta per la libertà di coscienza - Intervista al Cardinale Telesphore Toppo - di Alessandra Nucci
4) Esposizione fotografica sulla Chiesa perseguitata - Promossa da Aiuto alla Chiesa che Soffre a Barcellona
5) Per tutta la vita Eugène Ionesco ha ricercato la verità ultima che non ha mai chiamato in altro modo che Dio - E alla fine del diario scrisse: «Prego il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo» - di Alain Besançon – L’Osservatore Romano 8-9 giugno 2009
6) ELEZIONI 2009/ Giannino: dieci domande per il dopo-voto - Oscar Giannino - martedì 9 giugno 2009 – ilsussidiario.net
7) SOCIETÀ/ Definire l’indefinibile, quando il mondo pretende di “dettar pace” - Sante Maletta - martedì 9 giugno 2009 – ilsussidiario.net
8) A PARTIRE DALLA TRINITÀ IL P APA DÀ INDICAZIONI FASCINOSE - Mistero ragionevole che spiega come siamo fatti - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 9 giugno 2009
9) INTERVISTA. Da Dawkins a Hitchens a Harris, i nipotini di Nietzsche smantellati dal teologo americano John Haught, autore di un pamphlet - Scienza e fede, il flop dei «nuovi atei» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 9 giugno 2009
10) Florenskij, il Pascal delle steppe – inedito: Una delle ultime lezioni di padre Aleksandr Men’, il pope russo assassinato nel settembre 1990, fu dedicata al «collega» fucilato dai comunisti nel 1937 - DI ALEKSANDR MEN’ – Avvenire, 9 giugno 2009
ELEZIONI 2009/ Mauro: la netta vittoria del PPE è una speranza per l’Europa – ilsussidiario.net - Mario Mauro - martedì 9 giugno 2009
Gli europei di fronte al voto hanno scelto di dare nuovamente fiducia al Partito Popolare Europeo, riconfermandolo come gruppo più numeroso dell’Europarlamento. L’Europa dei Ventisette ha scelto, dunque, di non smentirsi e di continuare a credere nel nostro progetto politico. Mentre esce con le ossa rotte il Partito Socialista Europeo, perdente praticamente su tutti i fronti con un risultato che si aggira attorno al meno 6% rispetto alle scorse elezioni, gli elettori europei con una maggioranza davvero ampia hanno decretato non solo la vittoria del PPE, ma hanno scelto la strada migliore per puntare a cinque anni di pace, di sviluppo e di innovazione riconfermando i Popolari come maggiore forza politica a Bruxelles e a Strasburgo, le sedi in cui potranno vantare un numero di deputati pari a 267 seggi contro i 159 dei socialisti.
La tendenza generale in Europa è andata riconfermando le previsioni della vigilia che vedevano il PPE nettamente in vantaggio in Europa. La panoramica generale dei paesi ci mostra che questo trend è stato confermato, superando in molti casi le più rosee aspettative.
In Gran Bretagna, ad esempio, dove c’è stato un vero proprio tracollo del laburista Gordon Brown, che ha ottenuto soltanto il 16% dei consensi, mentre i Tories, con il 27%, sono oggi la prima forza politica britannica, seguiti al 17% dall’Ukip e dai liberaldemocratici al 14%. In Germania la Cdu/Csu della Merkel ha raggiunto il 38% battendo i socialdemocratici della Spd fermi al 20,8% e i verdi con il 12%. In Francia, invece, Sarkozy: non teme rivali e vince con il 27,70%; socialisti sconfitti col 16,76%. Sorpresa con Europa Ecologia di Daniel Conh-Bendit (16,2%), che è testa a testa con i socialisti e che sbaraglia il centrista Bayrou (8,49%).
A riconfermare la débacle socialista il duro colpo a Zapatero che prende il 38,51 contro i popolari di Rajoy che raggiungono 42,23%. In Olanda il partito populista di Geert Wilders, erede di Pim Fotuyn col 17% triplica i voti delle politiche del 2006, assicurandosi quattro seggi a Strasburgo. Anche in Austria hanno vinto i popolari con il 29,7%; i socialdemocratici si fermano, invece, al 23,9%.
In Lettonia e Lituania sostanzialmente hanno tenuto le coalizioni di governo, mentre in Estonia la principale forza d'opposizione, il partito di centro, batte il partito delle riforme del premier Andrus Ansip. Se a Malta trionfa il partito laburista, che conquista il 55% dei consensi contro il 40,49% del partito nazionalista e conservatore al governo dell'isola, a Cipro continua a prevalere il partito di centrodestra.
Anche l’Italia non poteva tradire questo patto di fiducia nei confronti del PPE. Certamente, il Popolo della Libertà era dato per favorito. Anche l’affluenza alle urne, seppure in calo rispetto al 2004, è stata tra le più alte in Europa segno che gli italiani credono davvero nell’Europa. Il PdL – che lo ricordiamo è una nuova formazione politica – ha ottenuto un buon risultato in tutti i collegi, soprattutto in Lombardia, ad è stato penalizzato soltanto da una scarsa affluenza in alcune regioni. Con una visione d’intenti corale e con uno scenario compatto come quello che emerge a due giorni dal voto si può ben immaginare come il Partito Popolare Europeo grazie al contributo del nostro paese e della formazione del PdL nei prossimi cinque anni potrà avere terreno fertile per gettare semi di pace e sviluppo per il bene di tutti i cittadini europei.
Il Papa difende il diritto dei Vescovi venezuelani di partecipare alla vita pubblica - Per irradiare la luce del Vangelo nella vita sociale
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 8 giugno 2009 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha difeso il diritto e il dovere dei Vescovi venezuelani di illuminare la vita pubblica del loro Paese con pronunciamenti basati sul Vangelo.
Ricevendo questo lunedì i presuli del Paese in visita "ad limina apostolorum", il Santo Padre ha evitato di addentrarsi nelle difficoltà che incontrano con il Governo del Presidente Hugo Chávez, concentrandosi piuttosto sull'incoraggiarli perché illustrino i motivi della loro speranza.
Il Pontefice ha difeso l'opera svolta dai Vescovi: “Apprezzo il vostro impegno per irradiare la luce del Vangelo sugli avvenimenti di maggior rilievo che riguardano il vostro Paese, senza cercare nessun altro interesse se non la diffusione dei più autentici valori cristiani, in vista anche di favorire la ricerca del bene comune, la convivenza armonica e la stabilità sociale”, ha detto loro.
Per quanto riguarda l'azione politica, ha ricordato che si tratta di un impegno che spetta soprattutto ai laici, che, “come discepoli e missionari di Cristo, sono chiamati a illuminare e ordinare le realtà temporali affinché rispondano al disegno amoroso di Dio”.
“Perciò, c'è bisogno di un laicato maturo, che testimoni fedelmente la sua fede e senta la gioia della sua appartenenza al Corpo di Cristo, al quale è necessario offrire, tra l'altro, un'adeguata conoscenza della dottrina sociale della Chiesa”, ha dichiarato.
Il Papa ha affidato in particolare ai Vescovi “i bisognosi”.
“Continuate a promuovere le molteplici iniziative di carità della Chiesa in Venezuela, affinché i nostri fratelli più bisognosi possano sperimentare la presenza tra di loro di Colui che ha dato la sua vita sulla Croce per tutti gli uomini”, ha concluso.
In India, ferve la lotta per la libertà di coscienza - Intervista al Cardinale Telesphore Toppo - di Alessandra Nucci
KKOTTONGNAE, lunedì, 8 giugno 2009 (ZENIT.org).- Alla Conferenza internazionale “Amore in azione” organizzata in questi giorni dall’ICCRS (International Catholic Charismatic Renewal Services) a Kkottongnae, in Corea del Sud, ha partecipato anche il Cardinale Telesphore Toppo, Arcivescovo di Ranchi e Presidente della Conferenza Episcopale Indiana.
ZENIT lo ha intervistato.
Qual è lo stato della fede in India?
Toppo: Risponderò con una frase del padre della patria, il Pandit Nehru: “In India, il cristianesimo è antico quanto il cristianesimo stesso”. Il popolo indiano è un popolo religioso, tanto più lo sono i cristiani che conoscono Gesù: non c’è nessuno come lui.
Quanti sono oggi i cattolici?
Toppo: L’India è un paese immenso, difficile fotografarlo per intero. La fede è arrivata con l’Apostolo Tommaso, ma nel mio Stato, ad esempio, nel 1885, quando arrivò dal Belgio il missionario Constant Lievens, di cattolici ce n’erano solo 56. Sette anni dopo, quando Lievens dovette ripartire, lasciò 80mila battezzati e oltre 20mila catecumeni, un’esplosione di fede incredibile, nota come “il miracolo di Chotanagpur”.
Qual è la consistenza e il ruolo del Rinnovamento carismatico?
Toppo: E’ dappertutto, a livello diocesano e regionale, e hanno anche dei centri per i ritiri. Uno dei frutti più apprezzabili di questa presenza è che ha portato fra i fedeli l’amore per la Parola di Dio, che prima non era molto sentita dai cattolici.
Cosa pensa dell’esito delle ultime elezioni nazionali?
Toppo: E’ stato un successo fenomenale, che ha segnato la sconfitta dei fondamentalisti. Il nuovo governo è formato da persone che seguono i principi del Mahatma Gandhi, che incarnava la parte migliore dell’induismo. Se l’India oggi può vantare la più grande democrazia del mondo è grazie alla fede della sua gente, un popolo composito che ha in comune la fiducia in Dio e nel prossimo.
Potranno mettere fine alla persecuzione dei cristiani?
Toppo: La persecuzione è difficile da contenere, è come un cancro. Temo anzi che potrà anche aumentare, perché adesso che i fondamentalisti non possono più infiltrare la burocrazia e i posti di comando, studieranno ogni modo di mettere in imbarazzo il governo. Quando fui fatto Cardinale, nel 2003, il leader di uno di questi gruppi fondamentalisti disse “perché dovremmo accettare questa laurea straniera? I cristiani devono andarsene dall’India”. Io vengo da un paese tribale, il Jharkhand, per cui risposi: “Se ne vada prima lui. Io vengo da una delle prime tribù dell’India, quindi sono più indiano io di lui”.
Aboliranno le leggi anti-conversione?
Toppo: A dire il vero anche il Partito del Congresso approvò delle leggi anti-conversione - si sa, in politica si deve accontentare un po’ tutti - ma non erano così rigide. Che facciano pure le leggi, i cristiani sono i più obbedienti e ligi di tutti.
Perché i cristiani sono presi di mira?
Toppo: Agli occhi dei fondamentalisti anche i musulmani sono nemici dell’India, ma i musulmani contrattaccano, per cui oggi li lasciano in pace. I cristiani li sentono invece come una minaccia eliminabile. A essere presi di mira sono in particolare i membri di tribù, perché il maggior numero di conversioni avvengono fra di loro, e fra i dalit, o “intoccabili”. I popoli tribali infatti, nonostante le molte persecuzioni della storia, hanno conservato la propria lingua e il proprio sistema sociale, per cui se si convertono possono formare un ceto medio, catalizzatore fra i dalit e i ceti superiori.
E’ chiaro che se si convertissero i 100milioni di dalit e i 70 milioni di tribali, si produrrebbe uno spostamento sociale e politico immenso.
Eppure l’induismo è considerato la religione della tolleranza e della pace…
Toppo: Ci può essere pace con il sistema delle caste? Quando non si attribuisce pari dignità al proprio simile? Il Mahatma Gandhi liberò l’India dall’imperialismo britannico, ma quella liberazione non è stata completata. Lui rappresentava l’universalità, un’idea assolutamente cristiana. Se fosse vissuto più a lungo avrebbe abolito le caste, il matrimonio minorile, il sistema della dote, la messa a morte delle spose. L’India deve liberarsi da tutti questi mali e anche dai fondamentalisti, una piccola parte del paese, appena l’11 per cento, ma che ha le stesse idee che avevano Hitler e Mussolini. Insomma, c’è ancora molto da fare, la lotta condotta da Gandhi per la liberazione continua. E’ in questo contesto che va vista la persecuzione. Fa parte della lotta per la libertà: la libertà di coscienza.
Esposizione fotografica sulla Chiesa perseguitata - Promossa da Aiuto alla Chiesa che Soffre a Barcellona
BARCELLONA, lunedì, 8 giugno 2009 (ZENIT.org).- Un'esposizione fotografica sui cristiani perseguitati oggi nel mondo è visitabile da questo lunedì fino all'8 luglio nella sede dell'associazione caritativa cattolica Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) a Barcellona.
Le fotografie, inedite e realizzate da collaboratori di ACS, riflettono “la situazione in cui molti sacerdoti e missionari svolgono la loro opera pastorale e caritativa in ambienti ostili alla libertà religiosa delle persone e al vivere la fede”.
Lo segnala un comunicato di ACS inviato a ZENIT, che spiega come attualmente più di 300 milioni di cristiani nel mondo subiscano persecuzioni a causa della loro fede.
“Da più di 2.000 anni, la collettività umana più perseguitata è stata e continua ad essere quella cristiana, oltre ad altre di carattere sociale, razziale o religioso”, osserva.
“Ad ogni modo, il dolore e l'ingiustizia che subiscono questi esseri umani non trovano un'eco mediatica equilibrata con altre collettività”.
Come risposta, ACS ha organizzato questa esposizione che cerca di aumentare la consapevolezza della società civile di fronte alle numerose violazioni di uno degli articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, che impegna gli Stati a garantire la libertà religiosa dell'individuo.
Giornalisti e fotografi hanno scattato le fotografie accompagnando il personale di ACS che ha risposto alle “richieste di aiuto di numerosi missionari e religiose in luoghi dove arrivano solo loro in aiuto dei più deboli”.
L'organizzazione prevede che questa esposizione diventi poi itinerante e mostri in altri luoghi le persecuzioni che la Chiesa continua a subire.
Per ulteriori informazioni: www.ain-es.org
Per tutta la vita Eugène Ionesco ha ricercato la verità ultima che non ha mai chiamato in altro modo che Dio - E alla fine del diario scrisse: «Prego il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo» - di Alain Besançon – L’Osservatore Romano 8-9 giugno 2009
Le immagini che conservo di Ionesco non sono tante quanto avrei voluto. Ma sono nitide e non si cancelleranno dalla memoria. Da quale cominciare? Era il 1983. La Romania era a quel tempo sotto il potere di una coppia di rinoceronti a due corna, i Ceausescu. Noi eravamo in California, nei pressi del lago Tahoe. Le strade che s'inerpicavano verso quel vasto lago di montagna erano costeggiate da alti cumuli di neve e lungo il cammino c'era un posto - del quale non ricordo il nome - con un motel e una sala riunioni. Non so quale organizzazione aveva deciso di rendervi omaggio a Eugène Ionesco. Forse l'American Romanian Academy. Alcune studentesse americane, alte e belle, inscenarono per noi diverse opere brevi, o piuttosto degli sketch. Si divertivano da morire e la loro recitazione era piena di brio e di freschezza. Non eravamo in molti. Io ero l'unico della mia nazione, con Eugène e Rodica, contrariamente a quanto era stato detto a Ionesco, che si aspettava un pubblico internazionale. Tutti gli altri erano romeni, emigrati negli Stati Uniti che, nella maggior parte dei casi, insegnavano non so bene cosa, in università poco prestigiose. Uomini e donne isolati, non ricchi, non noti, che sopportavano la crudeltà dell'esilio, perché l'aria di libertà - per amore della quale avevano varcato con difficoltà le mura che circondavano il loro Paese - non basta a rendere felici quando ci si ritrova persi in un angolo sperduto delle grandi solitudini americane. Ma lì erano felici grazie a Ionesco. Chi era Ionesco per loro? Un uomo libero che era sempre stato dalla parte della libertà contro i regimi di oppressione e che non si faceva scrupolo di dire e di scrivere che il comunismo sovietico, romeno, francese - di dove non importa - era un orrore per quanti lo subivano e una vergogna per quanti lo professavano o ne approfittavano. Trent'anni fa una simile opinione non era ben vista persino negli ambiti universitari americani dove la moderazione era di rigore. Si veniva presto giudicati semplicisti, viscerali, rabbiosi. Nei riguardi del comunismo Ionesco forse non provava rabbia rabbioso perché era una persona dolce, né semplicista perché era intelligente e informato. Piuttosto era semplice, perché di quella realtà aveva una conoscenza globale frutto di una visione semplice, e "viscerale". Sì, lo era, fino al dolore. Vedere il mondo così com'è - ci ritorneremo - era la sofferenza principale di Ionesco, la sua croce. I romeni presenti non erano probabilmente tutti ancora in lotta per la libertà, al contrario, e Ionesco ne era un po' dispiaciuto. La libertà ora l'avevano, e con essa nuove preoccupazioni, ma avevano sotto i loro occhi un eroe di una causa che ricordava loro vecchie battaglie. Ionesco era anche un grande scrittore, noto in tutto il mondo. In America si cade facilmente in un anonimato senza fondo. Non si sa molto bene dove si trova l'Europa, soprattutto in California. Quanto alla Romania... L'immigrazione romena era allora poco consistente. Ma ecco che Ionesco, illustre, conosciuto in tutte le università, "soggetto di tesi" di innumerevoli studenti, portava gloria al suo popolo. Quel popolo povero - così era considerato in quel luogo banale - ne era fiero; ne traeva lustro e conforto. E poi c'era la personalità di Ionesco. Dire che era modesto è poco. Incredibilmente timido, non sapeva di fatto dove mettersi. Riceveva come poteva gli omaggi infinitamente calorosi dei suoi compatrioti. Non era questo a fargli piacere, ma sentiva il bene che la sua presenza faceva loro, e ne traeva gioia. Aveva dunque la sua espressione abituale, un po' clownesca e malinconica. Il suo eloquio era piuttosto lento, le parole gli uscivano con difficoltà, come se la sua lingua fosse un po' troppo grossa per la sua bocca, eppure era eloquente e il suo stile era originale anche quando diceva cose molto comuni. L'umile pubblico presente percepiva la sua bontà e si sentiva consolato. Ionesco è sempre, credo, etichettato dai manuali di letteratura come il fondatore del "teatro dell'assurdo". Viene regolarmente messo in concorrenza con Beckett o con Adamov. Sapeva bene di avere scoperto prima di loro una nuova forma teatrale, e nel suo giornale lo afferma con orgoglio. Ma ciò che contesto radicalmente è la nozione di "assurdo" applicata al suo teatro. Si addice meglio a Beckett, che apparentemente nega qualsiasi senso all'esistenza e trae il suo pathos dalla messa in scena del nulla. I dialoghi del teatro di Ionesco hanno su di me tutt'altro effetto. Sebbene siano pieni di battute, di giochi di parole, s'involino in tutte le direzioni, e girino a vuoto - come si dice di un bullone che non si avvita più, o di una vite sulla quale il cacciavite non ha più presa - provocano il riso e nello stesso tempo stringono il cuore poiché introducono alla realtà. Se non riguardasse il reale, il teatro di Ionesco sarebbe assurdo e non ci interesserebbe. In ogni caso non a me. Noi parliamo tutti più o meno come i personaggi di questo teatro, ma non ce ne rendiamo conto. Ionesco ce lo mette sotto il naso, ce ne rimanda l'eco. Quando noi parliamo, le parole che pronunciamo sono avvolte, come lo sono gli organi del nostro corpo, da un tessuto connettivo neutro, che serve da riempimento. "Parole superflue" che non importa cosa dicano, ma che aiutano gli altri a definirci. Noi crediamo di esprimerci perché udiamo solo la nostra voce, ma i nostri interlocutori percepiscono anche un'altra cosa, una sorta di sfondo sul quale inserire le nostre parole e nel quale indovinano bene o male ciò che pensano di sapere di noi. Di fatto, Ionesco traspone questo continuum della parola, recupera il suo "eccesso", il suo traboccare, e lo trasforma in poesia. "Direi persino che il linguaggio alla fine esplode nel silenzio della non comprensione, lo fa brillare, lo infrange per ricomporlo in altro modo. Un linguaggio più puro che è giunto fino alla frontiera, fino ai confini del silenzio". Quello che mi ha sempre colpito nel suo teatro, e che mi stupisce, è che introduce alla vita in modo molto concreto e diretto. In questo è un classico. I personaggi di Andromaca o di Fedra, ad esempio, parlano una lingua strana, una lingua che nessuno ha mai parlato - neanche ai tempi di Racine, neppure a corte - e inoltre parlano in versi alessandrini con cesura al sesto piede e alternanza delle rime maschili e femminili. Allora perché si dice di Racine che ci rivela il cuore umano, la forza delle nostre passioni, gli orrori dell'amore, l'imminenza della morte, e non lo si dice di Ionesco che ci rivela la stessa cosa per mezzo di un linguaggio da lui inventato, ma che noi comprendiamo spontaneamente, senza sforzo, e che ci commuove? Senza aver preso lezioni. Il reale che ci rivela non è il nulla. Ionesco può essere considerato sia allegro che triste. Non credo sia tragico. Le sue opere non sono del tutto comiche, anche quando fanno ridere, né del tutto tragiche, anche quando ci lasciano in una desolazione straziante. L'intenzione del comico è di guarire, mostrando allo spettatore i suoi difetti e le conseguenze grottesche e odiose che comportano, l'avarizia, la misantropia, la lussuria, la pigrizia. Ma Ionesco non pretende di guarire. I difetti, i lati ridicoli, le cattiverie di ognuno, li presenta come parte del mondo comune. Guarda a loro con l'indulgenza costernata che ha Dio quando acconsente di contemplare il mondo che ha creato piuttosto che se stesso. Il tragico si basa su un gioco di passioni e di circostanze che conduce inevitabilmente alla morte. Fa nascere una paura dalla quale ci libera con la sua stessa rappresentazione. Ma per Ionesco, la morte sopraggiunge in ogni caso, vi siano o no passioni, vi siano o no circostanze. Per questo le opere comiche fanno ridere, ma contengono una tristezza di fondo e le opere tragiche non gettano nella disperazione perché si concludono con una morte normale e inevitabile che bisogna accettare. Né comiche, né tragiche; che cosa allora? Ebbene, diciamo "drammatiche", in mancanza di meglio. Nel dramma ci sono andirivieni, ribaltamenti, ripensamenti del personaggio, possibilità di pentirsi, tempo per un'eventuale conversione. Così sono molte opere spagnole, il teatro di Corneille, in generale il teatro cristiano. In ambito cristiano, l'esito tragico è raramente possibile, perché sarebbe la dannazione, e la dannazione eterna è più che tragica, insopportabile nel teatro. Racine, autore tragico, ha trasposto le sue opere nell'antichità dove la posta in gioco era meno grave perché non ci si dannava. Prendiamo ad esempio Il re muore. La moglie Margherita dice al re all'inizio dell'opera: "Morirai fra un'ora e mezza, morirai alla fine dello spettacolo". E il re: "Cosa dici, mia cara? Non è divertente". Invece lo è, e anche molto. Questo annuncio è fatto all'inizio. Il programma è annunciato. Non vi è suspense. Il resto dell'opera consiste nella lunga preparazione spirituale di questo re scellerato, grottesco, stupido, alla sorte comune degli uomini. La sua morte non è nobile e grande come si confà alla tragedia, ma è come quella di tutti, morte umile, normale, spaventosa naturalmente, ma non più di qualsiasi altra. Siamo dunque in un dramma, con ruoli da farsa. Il re si mostra abominevole, veramente atroce e folle. Ma la situazione gli sfugge e perde tutto, la vanitas vanitatum di tutta la sua vita. Non è la seconda moglie ad accompagnarlo fino alla fine, ma la prima, la vecchia, la legittima, l'abbandonata. "Calma! Non avrai più bisogno di queste scarpe di ricambio. Né di questa carabina, né di questo mitra... Né di questa cassetta degli arnesi... Né di questa sciabola". E alla fine di un mirabile monologo di diverse pagine Margherita gli dice con dolcezza: "Abbandona a me il braccio destro, il braccio sinistro. Ecco, non hai più la parola, il tuo cuore non ha più bisogno di battere, non devi più sforzarti di respirare. È un'agitazione inutile, no?" Mi si permetta di paragonare Il re muore a La scarpina di raso. Immagino che il paragone sembrerà terribilmente forzato. Eppure, nei due casi si tratta di un cammino spirituale di due eroi che, sul punto di morire, al termine di una lunga "conversione", si abbandonano alle cose, al destino, alla provvidenza. Margherita è tanto brutta quanto Prouhèze è bella, e il re è tanto sordido quanto Rodrigo è nobile. Le due donne sono nondimeno lo strumento predestinato a "liberare le anime prigioniere", l'anima spezzata di Rodrigo e l'anima spregevole del re, due anime umane tuttavia, "a uguale distanza da Dio", come diceva Ranke a proposito delle civiltà o dei secoli diversi e imparagonabili. So che Ionesco ammirava immensamente Claudel e in particolare La scarpina di raso. Penso non vi sia stata la minima influenza di questa opera su Il re muore. Sono tuttavia a modo loro due drammi sacri, due autos sacramentales. Figureranno per sempre nel repertorio del teatro francese come due capolavori, a mio parere i più grandi che il ventesimo secolo abbia prodotto. È forse la loro eccezionale grandezza che isolandole invita a paragonarle. Bisogna ora penetrare maggiormente nell'intimità di Ionesco. Mi occuperò di tre aspetti: l'infanzia, l'angoscia, l'amore. Eugène Ionesco era nato nel 1909 a Slatina, a 150 chilometri da Bucarest. Il padre era romeno e la madre, Thérèse, francese, figlia di un ingegnere che lavorava per le ferrovie dello Stato romeno. Il padre aveva un carattere difficile ed era spesso assente. La famiglia si stabilì in Francia, ma il padre, nel 1916 l'abbandonò e ritornò in Romania. Là ottenne il divorzio e si risposò senza neanche informare la sua ex moglie, né d'altronde la nuova. Thérèse, rimasta in Francia, visse due anni - a quel tempo Eugène ne aveva dieci - in un paese della Mayenne, La Chapelle-Anthenaise, vicino a Laval. "Tutto era presente. Una giornata, un'ora mi sembrava lunga, senza limiti. Non ne vedevo la fine. Quando mi parlavano del prossimo anno avevo la sensazione che il prossimo anno non sarebbe mai arrivato. Quando ero a La Chapelle-Anthenaise, vivevo fuori dal tempo, dunque in una sorta di paradiso. Verso undici o dodici anni, non prima, ho iniziato ad avere l'intuizione della fine". Questa pienezza, questa beatitudine atemporale non tornerà mai più. Fu il punto luminoso, il momento di grazia di una vita che non smise fino alla fine di essere dolorosa. La vita successiva di Ionesco, il ritorno a tredici anni in Romania, dove non smise di sentirsi in esilio, gli inizi letterari a Bucarest, i vincoli di amicizia che vi stabilì, le letture che vi fece, i primi scritti - come sono riportati dalle biografie e dall'esterno - non sembrano distinguersi dal modello comune, quello di un giovane scrittore che cerca la sua strada nell'ambiente letterario all'apparenza abbastanza intenso della Romania degli anni Venti. Tornato in Francia nel 1938 - considerandosi ormai francese - divenne, attraverso le comuni difficoltà che incontravano allora gli artisti nella vasta Parigi dell'anteguerra, uno scrittore di lingua francese, che preparava vagamente una tesi su "Il tema del peccato e della morte nella poesia francese dopo Baudelaire". È nel 1950 - Ionesco ha poco più di trent'anni - che fa rappresentare, nel teatro des Noctambules, La cantatrice calva, inizio di una notorietà, poi della gloria. Non è dall'esterno che bisogna guardare Ionesco. Il suo sguardo era volto verso l'interno, verso la vita della sua anima che gli interessava molto di più di qualsiasi successo, a cui tuttavia non era insensibile in quanto lo rassicurava e lo confortava. Il punto luminoso era sempre l'infanzia, non più per un attaccamento sentimentale al paese normanno - che immagino alquanto banale - ma come parametro di una visione del mondo innocente e perennemente stupita dalla presenza della cattiveria, della stupidità, del male, soprattutto della morte. Lo stupore è il passo iniziale della filosofia. Ma in Ionesco il punto di partenza è lo stupore del bambino. È il punto di vista che può avere un bambino sensibile, ferito, scioccato, fragile. Il bambino vede più di quello che comprende, più di quello che ha di fronte agli occhi. Ionesco fece a undici anni una lettura decisiva che impresse una direzione alla sua vita interiore, quella di Un cuore semplice. Felicité vede, o sente, alla luce dell'infanzia le cose nascoste ai saggi e ai sapienti. Ionesco invidiava la felicità di Felicité. Ha spesso ricordato le parole evangeliche perché corrispondevano esattamente alla sua esperienza intima. Quest'ultima, trasformata, coscientemente metabolizzata, è la fonte della sua arte, l'inesauribile serbatoio della sua fantasia e della sua poesia. Ma lasciamolo parlare: "C'è innanzitutto il primo stupore: presa di coscienza dell'esistenza, uno stupore nella gioia e nella luce, uno stupore puro, senza giudizio sul mondo. Un secondo stupore si è innestato sul primo. Un giudizio stupito, constatazione che il male esiste o, più semplicemente, che le cose vanno male (...) Voglio semplicemente dire che in quanto scrittore, l'infelicità universale è una questione che mi riguarda personalmente e intimamente (...) Poiché non c'è nulla da fare, perché siamo votati alla morte, siamo allegri! Ma non lasciamoci ingannare". E cita l'esempio del suo amico Cioran, che viveva nel pessimismo come nel suo elemento naturale, che ne faceva quasi una professione, e tuttavia era allegro. Allegro, però, io Ionesco non l'ho mai visto. L'angoscia era il fardello straordinariamente pesante che dovette portare fino alla fine. Un'angoscia, a quanto pare, atroce. C'era sicuramente una parte di malattia, di quelle che si curano con gli ansiolitici, che però al suo tempo non c'erano. Dubito che sarebbero stati efficaci. La sua angoscia proveniva da una realtà più profonda della chimica alterata delle proteine. "A quattro o cinque anni mi sono reso conto che stavo divenendo sempre più vecchio, che sarei morto. Intorno ai sette od otto anni, mi dicevo che mia madre un giorno sarebbe morta". È ciò che scrive all'inizio del suo primo diario. Alla fine del secondo appare una litania della morte che occupa cinque o sei pagine: "1) È morto all'alba. 2) È morto la notte nel sonno. 3) Era notte. Fu prima risvegliato da un terribile incubo, urlò, poi si addormentò per sempre". La litania continua, non finisce: "65) Per una scheggia di granata. 66) Per una bomba. 67) Seppellito dalla terra in un terremoto. 68) Sotterrato vivo prima di essere seppellito". Si ha la sensazione che abbia vissuto sensibilmente questi 68 modi di morire. È un'ossessione, è anche uno strano tour de force. Mi fa pensare alla litania dei giochi infantili in Gargantua. I giochi infantili contrapposti ai giochi della morte, in Rabelais e Ionesco. Il parallelismo non gli sarebbe dispiaciuto. Era un uomo che con lo spirito di un bambino sopportava un eterno scandalo. La menzogna comunista, la persecuzione degli innocenti, l'umiliazione dei piccoli, lo ferivano. Non li sopportava. L'angosciavano. Il male ultimo, descritto da san Paolo, il nemico supremo, è la morte. Man mano che la sua vita andava avanti, si distaccava dalla letteratura, anche dalla sua: "La qualità letteraria che mi appassionava tanto un tempo (che m'interessava in primo luogo), oggi mi è indifferente". Inner-oriented, Ionesco non si richiudeva però in se stesso. Non si separava dall'umana condizione: "Che lo vogliano o no, gli uomini capiscono tutti gli altri uomini: la fame, la sete, la morte, l'amore, l'odio, l'angoscia, la paura, l'avarizia, l'invidia e la gelosia, la curiosità, il desiderio di possedere o di farsi da parte, il bisogno di Dio, tutto si capisce, degli uni da parte degli altri (...) Si capiscono come si capiscono i bambini". Grazie a ciò, nelle sue opere egli non si racconta, ma si fa trasportare. Il clima di angoscia, che pervade anche le opere di carattere comico, è il suo e s'introduce naturalmente, senza nulla di artificiale, di applicato, di sistematico. Nel suo teatro Ionesco è allo stesso tempo fuori e dentro. Lavorava tantissimo. Come drammaturgo, la sua produzione è più abbondante di quella di Racine, di Molière e di Claudel. Questo lavoro enorme era un rimedio all'angoscia. Ma ne aveva un altro, assolutamente vitale, l'amore. L'amore. Ne ha avuto tanto quanto era possibile averne. Ionesco sta per sposarsi: "Mia madre andò dalla mia fidanzata e quando questa le aprì la porta, mia madre la guardò un istante". Rodica rispose allo sguardo di Teresa. "Era una comunicazione muta, una sorta di rituale breve che riscoprivano spontaneamente e che doveva essere stato loro trasmesso dai secoli dei secoli: era una sorta di passaggio di poteri. In quel momento mia madre cedeva il suo posto, e cedeva anche me, alla mia futura moglie". Un passaggio d'amore, bisognerebbe dire. Thérèse morì tre mesi dopo il matrimonio, ma Ionesco non soffrì per la sua morte perché aveva una nuova famiglia: "Ero accolto, ero al riparo, sistemato, reinserito". Rodica gli diede una figlia, Marie France. Loro tre formavano, agli occhi degli amici, una sorta di "sacra famiglia" inseparabile, in un reciproco bagno d'amore. Senza dubbio Eugène ne assorbiva più di quanto ne donava, tanto ne aveva bisogno, ma ne donava quanto poteva. Questa intercomunione familiare, fedele e amorosa, non è frequente nella storia della letteratura del xx secolo e indica anch'essa a modo suo l'originalità dello scrittore. Nell'immagine che conservo di Ionesco, vedo saldata a lui la minuta Rodica, con il suo aspetto un po' cinese, che emana un'autorità e una dignità impressionanti, e quella sorta di grandezza che conferisce un amore di totale dedizione. Resistette fino alla morte di suo marito, e un po' oltre. Quelli che si sono fatti un'idea di Ionesco come di un divertente autore di vaudevilles, farebbero bene a leggere i suoi scritti non teatrali. Pochi scrittori del suo tempo si sono dedicati a letture così serie e difficili. La sua biblioteca era piuttosto quella di un filosofo e di un teologo. Questo perché per tutta la vita è stato alla ricerca della verità ultima, della verità assoluta che non ha mai chiamato in altro modo che Dio. In questo ambito, il Dio personale che Ionesco cercava era un interlocutore difficile da conoscere, un Dio nascosto, e noi non sappiamo cosa Egli pensava di Ionesco. E neppure Ionesco lo sapeva, il che era per lui un cammino d'inquietudine e insieme un cammino di guarigione. Ionesco leggeva dunque libri di spiritualità, in particolare quelli che maggiormente disorientano quanti non sono abituati a percorrere certe strade. Innanzitutto san Giovanni della Croce, la Filocalia, Caterina da Siena, la grande e la piccola Teresa, i mistici spagnoli, fiamminghi e tedeschi. Soprattutto quelli che sviluppano la cosiddetta mistica negativa. Per esprimersi semplicemente, coloro che pongono Dio al di là di ogni visione possibile, che lo dichiarano al di là della bontà, al di là del sapere, e infine al di là dell'essere. Quando si è là, Dio è sul punto di svanire nell'inconoscibilità. Se Egli è al di là dell'essere, è esistente in modo supremo, come ritenevano i mistici ortodossi, o piuttosto non esiste e scompare completamente nella nube della non conoscenza? Ionesco era stato battezzato nella Chiesa ortodossa, con la quale non ruppe mai, sebbene fosse perfettamente consapevole delle vergognose implicazioni di questa Chiesa con lo Stato comunista. Allo stesso tempo era amico della Chiesa cattolica e, una volta divenuto accademico, stabilì un legame molto stretto con uno dei suoi colleghi, il domenicano padre Carré. Da giovane, nel 1936, aveva insegnato il francese nel seminario ortodosso di Curtea de Arges, poi nel liceo san Savva di Bucarest. Per un istante pensò di diventare monaco. Sarebbe stato allora perso per la letteratura e noi ringraziamo il cielo per la decisione che presero insieme e che era, per Ionesco, di rientrare nella vita secolare. La Ricerca intermittente - è il titolo dell'ultimo volume del suo diario - non ha portato a un risultato definitivo. Ionesco non ha mai potuto far affidamento su un'ortodossia dogmatica chiara e sicura. La sua ricerca ha imboccato strade che non conducono da nessuna parte. Mi accorgo che ha letto molto Barruzzi, che lo ha introdotto a san Giovanni della Croce. Barruzzi aveva un'ortodossia e persino una fede piuttosto incerte, per quel che si sa. Uno degli amici più intimi di Ionesco era Mircea Eliade. Questo studioso era un esperto della storia e della sociologia delle religioni. Si era fatto una grande reputazione in quel campo. Ai miei occhi di non esperto, non sono certo che la meritasse così tanto. Eliade, che non aveva l'animo religioso, era decisamente un comparatista, metteva tutte le religioni sullo stesso piano. Osservava fra di esse punti di convergenza o di divergenza. Era forse perché era uno studioso, ma trascinava Ionesco, suo attento lettore, sulle vie del relativismo generalizzato. Insomma, sarebbe improprio fare di Ionesco un parrocchiano tranquillo della Chiesa ortodossa o della Chiesa cattolica. Pregava però il Dio cristiano, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Le ultime righe del suo diario sono: "Pregare il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo". Ionesco morì il 28 marzo 1994. Le esequie ebbero luogo nella chiesa dei Santi Arcangeli, una delle rare vestigia del quartiere latino medievale. Si tratta in effetti della cappella dell'antico collegio di Beauvais, piuttosto in cattivo stato, come ho potuto constatare quel giorno. La liturgia ortodossa era bella, come anche gli inni. Re Michele di Romania era fra i presenti. Da quel giorno, ogni anno, vengo invitato da Marie France al panikhide - un servizio funebre celebrato sulla tomba di Eugène e di Rodica Ionesco - nel cimitero di Montparnasse, non lontano dal loro domicilio su questa terra. Mangiamo la koliva, un dolce speciale per i morti, beviamo un bicchiere di vino, e il sacerdote dice l'ufficio, corto e semplice. È un momento di pace e di gioia.
(©L'Osservatore Romano - 8-9 giugno 2009)
ELEZIONI 2009/ Giannino: dieci domande per il dopo-voto - Oscar Giannino - martedì 9 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Dieci domande, mentre i risultati elettorali amministrativi tendono a stemperare l’effetto “delusione Berlusconi” sul quale è stata misurata dai media la prima lettura del voto europeo.
Che farà D’Alema? L’arretramento generale nelle ridotte del centro Italia avvera quasi matematicamente “l’appenninizzazione” del partito che era stata profetata da Giulio Tremonti. Di fronte a questa prospettiva, D’Alema si deciderà a sostenere un candidato alla leadership incaricato di far tornare i Ds all’accordo con la sinistra antagonista, per la costruzione di un partito che miri al 25-28% dei voti con una più netta scelta socialista e di sinistra, a costo di registrare esodi di ex margheritini verso il centro e l’Udc?
Che farà l’anima più riformista del Pd? Accetterà supinamente la linea-Repubblica che, in nome della lotta a “Berlusconi-corruttore di minorenni”, in realtà ha portato acqua al mulino di Di Pietro? Tenterà di difendere ancora l’ispirazione maggioritaria che portò alla nascita del partito, facendo convergere Ds e Margherita, tentando su questa strada di dialogare con l’Udc, Fini, e la parte moderata che si è astenuta da voto anche perché diffidente delle intemperanze di Berlusconi? Accetterà una eventuale nuova leadership del Pd che sa di ritorno alla rappresentanza sociale culturale classica della sinistra postcomunista, oppure è disposta a eventuale rotture in nome do un nuovo percorso più rischiosamente incardinato verso una prospettiva di riformismo moderato?
Che farà la Cgil? Tutti ora tendono a dimenticarlo. Ma la Cgil resta la più grande organizzazione di massa della sinistra italiana. Il post Epifani terrà la barra inchiodata sul compromesso tra ex riformisti e sinistra antagonista che sin qui ha ispirato tutti i “no” del sindacato – dal nuovo modello contrattuale alla riforma Brunetta, dalle riforme Gelmini al Libro Bianco di Sacconi – e tenterà di “esportare” questo stesso modello nel Pd? Oppure sarà l’evoluzione autonoma del Pd, a influenzare la linea del sindacato di Corso Italia e a ipotecare la successione di Epifani?
E i prodiani? Quanti nel Pd odierno pensano davvero che la via sia quella del ritorno all’Ulivo e al patto con chiunque restando distinti, in nome di un programma di governo che a quel punto tornerebbe a essere dettato dai veti reciproci, più e peggio che in passato?
Come reagirà Berlusconi? La campagna personalizzata contro di lui questa volta non mette nel mirino gli argomenti tradizionali, l’accusa di essere corruttore di giustizia e tycoon che si serve della politica per difendere il suo gruppo. Sotto attacco, ci sono le virtù e la temperanza personale dell’uomo: in altre parole, prendendo atto che da 15 anni le accuse precedenti vengono disconosciute nelle urne come impedimenti a governare, questa volta si mira sotto la linea di galleggiamento della persona, per iniziare ad offuscarne la “quirinabilità”. Cioè la facoltà di candidarsi un domani al Colle più alto, lavorando in serenità per un candidato premier di continuità rispetto alla sua esperienza, leadership e paternità indiscussa della Pdl. Silvio reagirà dando una sterzata ai suoi comportamenti personali e concentrandosi ancor più in risposte efficaci ai problemi del Paese? Oppure accetterà la sfida che Repubblica gli lancia, nella speranza che le sue reazioni vadano sopra le righe e ne incrinino la credibilità?
E Di Pietro, coltiverà da solo un orto che ha tutta l’aria di potersi ancora espandere, puntando tutto sulla lotta senza esclusione di colpi a Berlusconi minaccia per il Paese? Oppure inizierà a pensare che quella strada, elettoralmente anche molto pagante finché si vota con la proporzionale, potrebbe con la legge elettorale delle politiche condurlo a una solitudine molto rischiosa? Le chanches di un accordo separato con la sinistra antagonista sono più apparenti che reali: l’antipolitica e la politica iperideologica sono in realtà, da sempre, più verbose nemiche che silenti alleate.
Esistono davvero, per l’Udc di Casini, possibilità concrete di un superamento del bipolarismo “dal centro”? L’Italia in realtà resta bipolare anche con la proporzionale delle europee, perché la crescita di Di Pietro a sinistra e della Lega nel centrodestra non ne rompono lo schema “con” o “contro” Berlusconi. Sin qui, i timidi tentativi di innervare nell’Udc un terzaforzismo tecnocratico ed elitista, variante Mieli-Montezemolo, sono rimasti sogni appannaggio di minoranze, senza seguito tra gli italiani anche se magari sostenute da prestigiose testate come il Corriere della sera, che però non possono permettersi campagne martellanti unidirezionali come ha – con risultati innegabili – fatto la Repubblica di Ezio Mauro. C’è davvero una variante di crescita del voto cattolico che torni a collocarsi al centro, e capace di un risultato a doppia cifra, pur non potendosi immaginare nel breve un cedimento secco della Pdl che da questa prova esce comunque come solidissimo primo partito italiano con più di un voto su tre?
Bossi saprà misurare le sue nuove richieste, pur se legittime per effetto dell’avanzata elettorale? In veneto, la prova di forza della Lega sulla Pdl è fallita per pochissimo. Sarà sulla Lombardia, che si appunteranno le richieste leghiste, o in alternativa il movimento inizierà a sparare a zero sull’Expò come su Malpensa? Una prima risposta verrà dall’atteggiamento che la lega terrà nei ballottaggi, a cominciare da Milano. Ma Bossi sin qui si è mostrato un politico più fino e misurato di quasi tutti gli altri, checchè si dica. A che futuro pensa? Non è che per caso ritiene di avere in serbo un leader futuro della Pdl, dopo Berlusconi, che per la Lega sarebbe garanzia di una coesistenza con la Pdl ancor più pacifica e conflittuale di quanto sin qui sia stato? Oppure la forte virata a destra europea, verso forme di rappresentanza subnazionale ed euroscettiche, indurrà il movimento a una “riscoperta delle origini”, sinchè non si capisce chi prendesse in futuro il timone della Pdl e per far che?
Fini continuerà, sulla strada imboccata recentemente della delineazione di una leadership futura della Pdl in chiave di “convergenza repubblicana”, su temi come cittadinanza, immigrati e boetica, rispetto alla leadership carismatica e volutamente divisiva che da sempre è la carta di Berlusconi per catalizzare il più dei voti moderati? Oppure diraderà le sue uscite polemiche, dandosi più tempo per capire che cosa bolle nella pentola del Pdl, e che posizione prenderà Casini?
Infine: si giocherà sino in fondo la carta del nuovo peso europeo, che il voto per Strasburgo ha affidato alla Pdl? Nei grandi Paesi fondatori, è il partito di Berlusconi quello che esce dalle urne con il maggior peso. Come confermano anche tutti i maggiori giornali europei, non più accecati dalla campagna di Repubblica, e persino critici inveterati dello stile eterodosso del premier italiano, vedi Wolfgang Munchau del Financial Times. E’ possibile pensare non solo alla guida del parlamento europeo per l’onorevole Mauro. Ma anche a una presenza nella futura Commissione europea con portafogli più importanti di quello attuale, ai Trasporti. Dipende molto da come Berlusconi si muoverà nel prossimo G8 all’Aquila, e dalla piega che in Germania prenderà la sempre più difficile coabitazione tra Angela Merkel e la sconfitta Spd, di qui al voto tedesco del prossimo autunno. Per il prestigio internazionale a Silvio serve misura e moderazione, e sarebbe la miglior risposta alla campagna di delegittimazione personale. O è solo in Italia, che il premier intende giocare la sua partita?
SOCIETÀ/ Definire l’indefinibile, quando il mondo pretende di “dettar pace” - Sante Maletta - martedì 9 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Non passa giorno che non si odano, in qualche parte del globo, squilli di guerra o di rivolta. Chi si aspettava, dopo il crollo del comunismo, un’epoca di pace e prosperità s’è dovuto presto ricredere. Il progetto di un “Nuovo ordine mondiale” ha prodotto la Prima guerra del Golfo già all’inizio degli anni Novanta. E l’11 settembre non ha fatto altro che riproporre quel progetto, legittimato questa volta (più o meno ideologicamente) dalla dottrina dello “scontro di civiltà”.
Ma la pace può essere frutto di un progetto politico e della guerra, più o meno “intelligente” e “umanitaria”? E che cos’è, in fondo, la pace? Non si tratta certo di una mera assenza di guerra: nelle nostre città non c’è guerra eppure non le percepiamo come “in pace”… E che ne è di quella “pace interiore” che tanti cercano spesso inutilmente? Insomma, si può pensare la pace in modo da comprendere tutte queste dimensioni?
Per rispondere a tali interrogativi ci faremo aiutare dai risultati di un workshop che si è svolto a Milano, presso il Museo Diocesano, il 28 maggio scorso. Filosofi, giuristi, storici e psicoanalisti sono partiti dal riconoscimento che il rischio più grosso è quello di oggettivare la pace, di fare un discorso “su” qualcosa concepito come “altro”, come esterno a sé. Non a caso il titolo del workshop (organizzato da Prologos, Associazione S. Anselmo e Communio all’interno del Progetto culturale della CEI) è stato Pensare in pace. Convivenza e giustizia. Non si tratta di “pensare la pace”, dunque, bensì di lasciarsi interrogare in prima persona, nella consapevolezza che si tratta innanzitutto di mettere in questione il rapporto che ognuno ha con se stesso.
Una rilevante conseguenza dell’oggettivazione della pace è l’idea, tipicamente moderna, che essa possa essere istituita attraverso il diritto positivo, senza il quale i vicini divengono inevitabilmente nemici. Allo stesso tempo, tuttavia, i moderni pensano la pace soprattutto attraverso la categoria di fratellanza, la quale è assai difficilmente codificabile dal punto di vista giuridico. Ma che ne è della fratellanza senza il riconoscimento di un padre comune? Non è un caso che tale categoria scompaia ben presto dalle carte costituzionali posteriori alla Rivoluzione francese. Inoltre, da un punto di vista psicoanalitico, che ne è della fratellanza e della sua pace in un’epoca in cui la figura paterna è in profonda crisi e la sua funzione si pluralizza?
È chiaro che con la questione della fratellanza si individua una dimensione pre-giuridica e pre-politica. Di fratellanza parlano le grandi religioni bibliche, le quali però sembrano generare fedi intolleranti e violente. Di ciò si occupò alle soglie della modernità Nicola Cusano – il cui pensiero è stato criticamente ripreso nel workshop. Nel De pace fidei (1453) Cusano immagina un dialogo tra fedeli di diverso “rito”. Se ognuno di loro approfondisce la propria fede scoprirà in essa la fede dell’altro. E tutto ciò è possibile se la fede fa riferimento a qualcosa di non possedibile, vale a dire il Verbo che, non a caso, presiede il simposio. Ciò significa che il prerequisito di un dialogo di pace sta nel mantenimento di un dislivello tra il punto di vista a partire da cui si parla e la Verità. Se i figli sono posti in essere da un Padre, in fondo non si può parlare che nel nome del Padre: la parola vera è la parola dell’Altro.
Se si parte da questo riconoscimento, allora il dialogo è possibile a partire non dagli elementi dottrinali ma bensì dagli effetti che la propria identità produce. È in fondo ciò che Benedetto XVI ha recentemente affermato: «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest'ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari».
In ultima istanza la questione della pace interroga la natura stessa della razionalità: solo se la ragione si riconosce come non-propria, come generata essa stessa da una verità che la precede, da un’alterità che abita la soggettività stessa, allora essa sarà capace di fare spazio al diverso, riconoscendo all’opera in lui la medesima dinamica.
A PARTIRE DALLA TRINITÀ IL P APA DÀ INDICAZIONI FASCINOSE - Mistero ragionevole che spiega come siamo fatti - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 9 giugno 2009
Davvero molto profondo e illuminante, nonostante la brevità, il discorso di Benedetto XVI che ha preceduto l’Angelus di domenica scorsa, festa della Trinità. Diceva il medievale Riccardo di san Vittore che, essendo impossibile essere felici da soli, e dato che Dio è la felicità assoluta, è ragionevole pensare che Dio non sia in se stesso una sola Persona, bensì che sia una comunione amorosa di Persone. In modo simile e complementare, il Papa ha D spiegato che Dio «Non vive in una splendida solitudine», bensì è una realtà di amore in cui «Tre Persone […] sono un solo Dio perché il Padre è amore, il Figlio è amore, lo Spirito è amore. Dio è tutto e solo amore, amore purissimo». E, come ogni Persona divina è Relazione sussistente, così (anche dal punto di vista della fisica), sia nel macrouniverso (i pianeti, le stelle, le galassie), sia nel micro-universo (le cellule, gli atomi, le particelle elementari), «In tutto ciò che esiste», ovviamente in modo diverso, «è in un certo senso impresso il 'nome' della Santissima Trinità, perché tutto l’essere, fino alle ultime particelle, è essere in relazione, e così traspare il Dio-relazione». Ma Benedetto XVI ha sottolineato (nella logica dei De Trinitate;
si pensi per esempio, a s. Agostino) che è soprattutto nell’uomo che si rintraccia il rinvio al Dio Uno e Trino: «La prova più forte che siamo fatti ad immagine della Trinità è questa: solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in relazione per amare e viviamo per essere amati». E, se nei discorsi di Pasqua il Papa aveva attinto dalla fisica, dicendo che l’uomo in comunione con Dio può portare «il giorno di Dio» nelle notti della storia e sperimentare una «nuova forza di gravità» (quella della verità e dell’amore), domenica, con una suggestiva analogia, tratta dalla biologia, ha aggiunto che «l’essere umano porta nel proprio 'genoma' la traccia profonda della Trinità, di Dio-Amore». In tal modo, Benedetto XVI non solo ha indicato (ovviamente in breve) un argomento in favore della ragionevolezza della Trinità, ma ha altresì esposto una teologia da cui ricavare indicazioni esistenziali cruciali per l’essere umano. In effetti, l’infelicità è una condizione di solitudine durevole e continuativa: è vero che abbiamo bisogno di momenti in cui stare da soli, ma un uomo che non intrattiene mai relazioni significative con alcuno è terribilmente infelice. Ci sono uomini soli che vivono in pace con se stessi, ma la loro è meramente una condizione di assenza di turbamento, di eliminazione delle possibili ferite che possono derivare dagli altri.
Tuttavia, se forse è abbastanza chiaro che essere amati da qualcuno (e da Qualcuno) è necessario per essere felici, invece è molto meno chiaro che venire amati non è una condizione sufficiente per la felicità, che ci sfugge se non imitiamo le Persone divine, che si amano reciprocamente e amano l’uomo, ci sfugge se non amiamo a nostra volta: dunque, per essere felici, anche noi dobbiamo amare anzitutto Dio, e, poi, gli altri. Ma l’incomprensione diffusissima e anche la difficoltà, che determina il fallimento di molti rapporti amicali, affettivi e coniugali, riguarda proprio l’amore, che non è solo e principalmente trasporto, attrazione, 'stare bene insieme' (tutte cose che possono sovente venir meno e su cui è errato incentrare i rapporti interpersonali), bensì consiste nel volere e cercare il bene dell’altro, nel donarsi, come fa quel Dio-Trinità che, lo ha ricordato il Papa domenica, è amore «che incessantemente si dona».
INTERVISTA. Da Dawkins a Hitchens a Harris, i nipotini di Nietzsche smantellati dal teologo americano John Haught, autore di un pamphlet - Scienza e fede, il flop dei «nuovi atei» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 9 giugno 2009
I 'nuovi atei'? Sono l’alter ego 'laico' dei creazionisti, i cristiani fondamentalisti convinti che il racconto della Genesi sia un dato scientifico assodato. Richard Dawkins, Sam Harris e Christopher Hitchens (i 'neo laici' di maggior successo) sono 'illogici e incoerenti' rispetto ai grandi pensatori atei del passato, ad esempio Nietzsche e Camus.
Alterna il fioretto dell’argomentazione e la sciabola della polemica John Haught, teologo americano di vaglia, nel suo ultimo convincente lavoro, Dio e il nuovo ateismo (Queriniana, pp. 167, euro 13,80). Senior Fellow al Science & Religion Woodstock Theological Center della Georgetown University di Washington, nei giorni scorsi Haught ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, per la sua pluridecennale ricerca sul rapporto tra teologia e scienza.
Professor Haught, nel suo saggio distingue l’ateismo 'hard-core' di Sartre, Camus e Marx, da quello 'soft-core' di Hitchens, Dawkins e Harris: qual la principale differenza?
«Gli atei 'duri' volevano che si pensasse in maniera logica alle implicazioni dell’ateismo.
Nietzsche, Sartre e Camus insistevano sul fatto che Dio non esiste e quindi non c’è una base eterna ai nostri valori etici. Se Dio non c’è, non esistono nemmeno gli assoluti! Ogni cosa è relativa e noi siamo i creatori dei nostri propri valori. Perciò gli atei 'duri' pensavano che ci volesse una coerenza enorme per essere un
«Sono l’alter ego laico dei creazionisti che mettono sotto accusa. Ma sono illogici e incoerenti e cadono nello stesso errore»
ateo, visto che non esiste più un appoggio morale. Per questo Sartre definiva l’ateismo 'un affare crudele'. La maggior parte della gente non sarebbe capace di essere veramente atea perché troppo debole nel vivere senza valori incondizionati. I 'nuovi atei' credono che certi principi siano assoluti, come la ricerca della verità scientifica oppure i diritti civili. Ma gli atei 'duri' direbbero che questi 'neo-atei' sono deboli e codardi come i credenti in Dio, dato che si aggrappano a valori assoluti».
Lei considera 'simili' i 'nuovi atei' e i creazionisti. Qual è il loro comune errore nell’approcciare il 'problema-Dio'?
«Come i creazionisti, anche Dawkins, Harris e Hitchens considerano la Bibbia incompatibile con la scienza moderna, in particolare con l’evoluzione. Al pari dei cristiani fondamentalisti essi si approcciano ai testi religiosi antichi per provare la loro pertinenza in quanto fonti di informazioni scientifiche. Ma la Bibbia non ha mai voluto essere all’origine di verità scientifiche. Ad Hitchens, ad esempio, fanno problema i racconti dell’infanzia di Gesù in Matteo e Luca. La maggior parte degli studiosi cristiani resta affascinata dall’irriducibilità narrativa di tali passi. Questi ultimi riconoscono che gli evangelisti stanno introducendo con quei testi alcuni temi poi ampliati nel corso delle loro opere. Tali racconti si preoccupano di trasformazioni spirituali, non di informazioni scientifiche. Ma Hitchens si domanda: come possono essere ispirati queste narrazioni se Matteo e Luca non concordano sui fatti storici? E finisce per definirli 'una frode immorale'. Anche Dawkins condivide con Hitchens un certo gusto litteralistico a livello esegetico. Egli però non vedrebbe nessun contrasto tra la Genesi e l’evoluzione se non condividesse con i creazionisti l’aspettativa che una Bibbia veramente ispirata potrebbe essere una fonte di affidabili informazioni scientifiche.
Ancora più penoso il caso di Harris, il quale si domanda come mai la Bibbia, se è 'scritta da Dio', non possa essere 'la fonte più ricca a livello matematico che l’umanità abbia mai conosciuto'. Per lui, se la Bibbia è ispirata, avrebbe dovuto dirci qualcosa 'sull’elettricità, sul Dna o sull’attuale misura dell’universo'».
È preoccupato dalla diffusione di questo 'nuovo ateismo'?
«Il problema è che la maggior parte delle persone non possiede una preparazione teologica per rispondere ai 'nuovi atei'. Gli operatori di media, poi, non sanno come valutare i loro scritti dal momento che non hanno riferimenti teologici o filosofici. I lettori possono facilmente essere d’accordo con i 'nuovi atei' visto che gli scandali tra i preti o gli attentatori suicidi in nome di Dio sono fatti che capitano tutti i giorni. Per molte persone questo è il lato più visibile della religione. Ho scritto il mio libro come un piccolo tentativo per mostrare che c’è molto di più di questo 'lato oscuro' nella religione, e che esistono risposte positive e teologicamente elaborate al 'nuovo ateismo', così come all’ateismo 'duro' di cui si diceva».
A suo giudizio, c’è una risposta specificatamente 'cattolica' ai 'nuovi atei'?
«Sì. Anzitutto, sarebbe necessario che la Chiesa e i suoi membri confessassero il proprio coinvolgimento nei peccati che i 'nuovi atei' elencano in maniera fervorosa (e anche divertita). Una confessione come questa sarebbe una testimonianza potente della
«Ma i cristiani devono essere più avveduti: la maggior parte non ha un’adeguata preparazione teologica e scientifica»
nostra professione di fede più fondamentale, ovvero che il mondo è avvolto in una bontà e in un amore infinito, una bontà che il nostro peccato ha offeso e oscurato: in questo modo il nuovo ateismo troverebbe fiducia e giustificazione.
Però possiamo notare che, ironicamente, gli stessi atei testimoniano questa stessa dimensione di bontà nell’accusare i cristiani di immoralità. In che modo potrebbero esseri sicuri che i credenti sono cattivi senza essere toccati dalla bontà che stabilisce i criteri della loro stessa accusa? I cattolici chiamano Dio la fonte di questa bontà».
Florenskij, il Pascal delle steppe – inedito: Una delle ultime lezioni di padre Aleksandr Men’, il pope russo assassinato nel settembre 1990, fu dedicata al «collega» fucilato dai comunisti nel 1937 - DI ALEKSANDR MEN’ – Avvenire, 9 giugno 2009
Florenskij era legato all’Università di Mosca, ai progetti e agli istituti per l’elettrificazione del Paese, inoltre era professore dell’Accademia teologica di Mosca, docente di Storia della filosofia; al tempo stesso era redattore della rivista
Bogoslovskij vestnik. La molteplicità di interessi era emersa in lui sin dall’infanzia, lo chiamavano « il Leonardo da Vinci russo». Ma quando diciamo Leonardo da Vinci ci viene in mente un maestoso vegliardo, che guarda l’umanità dall’alto dei suoi anni. Florenskij, invece, è morto giovane. Era scomparso. Arrestato nel 1933, era sparito e i suoi familiari, moglie e figli, non sapevano dove fosse, né cosa gli fosse accaduto: lo ignorarono per molto tempo, perché nel 1937 gli avevano tolto il diritto di corrispondenza. Mi ricordo quando con la mamma camminavo per Zagorsk, in tempo di guerra, lei salutava la moglie di Florenskij e diceva: «Questa donna sta portando un’enorme croce». E mi spiegava che non sapeva cosa fosse accaduto al marito. Anche mio padre a quel tempo era appena stato liberato dalla detenzione e io, sebbene fossi abbastanza giovane, capivo cosa voleva dire. In realtà, a quell’epoca Florenskij ormai era già morto. Ai tempi di Chrušcëv, nel 1958, sua moglie aveva chiesto la riabilitazione, e aveva ricevuto un certificato in cui si attestava che Florenskij era morto nel 1943, ossia alla fine della condanna. Infatti nel 1933 gli avevano dato 10 anni, come a un pericoloso delinquente.
Sì, quando io e la mamma parlavamo della sua sorte, lui ormai non c’era già più. Il certificato di morte i familiari l’hanno ricevuto solo nel novembre 1989. «Il cittadino Florenskij Pavel Aleksandrovic è deceduto 1’8 dicembre 1937... Età: 55 anni (non è vero, ne aveva 56). Causa del decesso: fucilazione.
Luogo del decesso: regione di Leningrado». Un uomo che, alcuni mesi prima, trovandosi ai lavori forzati in condizioni infernali, proseguiva attivamente il suo lavoro di ricerca; un uomo che aveva una profonda vita spirituale, intellettuale, che trasmetteva ai figli le sue ricche conoscenze. Fino al 1937, infatti, ebbe il permesso di scrivere, e vi furono persino dei momenti in cui la famiglia poté andarlo a trovare. Di un uomo come lui può andare fiera qualsiasi civiltà: sta sullo stesso piano di Pascal, di Teilhard de Chardin, di molti studiosi e pensatori di tutti i tempi e i popoli.
F ra i filosofi russi, Florenskij era il più apolitico. Tutto immerso nei suoi pensieri, nel suo lavoro, stava sempre un po’ in disparte dalla vita pubblica. Era innocente e il Paese aveva bisogno di lui: come ingegnere, come scienziato, come lavoratore disinteressato. Eppure, preferirono fucilarlo. Assieme al certificato, il Kgb ha consegnato ai familiari la copia della sentenza. C’è anche una fotografia allegata: un uomo con il volto segnato dalle percosse, che ha toccato il fondo, perché lo hanno straziato e torturato. Ecco in che epoca siamo vissuti.
Padre Pavel viveva come in un mondo a sé. Comprendeva più la natura che le persone. Aveva una predilezione per le pietre, le piante, i colori: in questo senso assomiglia molto a Teilhard de Chardin, che pure, da bambino, provava tenerezza per la materia, era, oserei dire, innamorato della materia. Per Florenskij questo era iniziato dall’infanzia. Forse il mondo delle persone gli era persino estraneo e talvolta opprimente. Un certo dottor Bochgol’c, ortodosso fervente, aveva incominciato a compilare con Florenskij un vocabolario dei simboli, e qualcuno gli aveva chiesto che cosa avesse in comune con quell’uomo, e Bochgol’c aveva risposto che nessuno dei due amava gli uomini. Certo, lui parlava per sé, di Florenskij è difficile poter dire una cosa del genere. Oggi, leggendo le lettere di padre Pavel ai propri cari, alla moglie, ai figli, possiamo constatare quale enorme tesoro di tenerezza, di attenzione, di amore autentico e meraviglioso custodisse il suo cuore. E tuttavia, non era un cuore spalancato ma, al contrario, piuttosto chiuso, nel quale più di una volta si erano aperte delle spaccature dolorose.
Almeno tre profonde crisi interiori colpirono la vita di Pavel. La prima fu una crisi salutare, nel periodo della giovinezza, quando Florenskij, cresciuto in una famiglia non religiosa, lontana dalla Chiesa, a un certo punto comprese l’inconsistenza della visione materialistica del mondo e si mise a cercare appassionatamente una via d’uscita. Vi fu un’altra grave crisi, per così dire personale, quando cercò di compiere da sé la propria vita. Per uno come lui non era affatto semplice portare il proprio fardello, il peso di se stesso. U n suo conoscente mi ha raccontato che Florenskij gli aveva detto, scherzando, che dal punto di vista logico era in grado di dimostrare, e in modo molto convincente, cose assolutamente contraddittorie. Il suo intelletto era una macchina colossale, ma al tempo stesso Florenskij non era solo un uomo astratto, era un uomo profondamente appassionato, un teorico. Berdjaev ricorda di aver visto Florenskij da giovane in un monastero, da uno starec dove lo avevano portato alcuni amici devoti: stava in piedi in mezzo alla chiesa e piangeva, singhiozzando... Una vita tutt’altro che semplice, la sua.
Infine, a 42 anni, sopraggiunse un’altra crisi, quando Florenskij stava scrivendo uno studio critico in cui avanzava una serie di tesi che suscitarono la dura reazione dei suoi amici ultraortodossi. La critica lo aveva messo così in subbuglio, che padre Pavel aveva detto: «Non scriverò più niente di teologia». Non doveva essere stato semplice, per un uomo come lui, autore di un libro celebre come La colonna e il fondamento della verità, lasciarsi sfuggire un’espressione del genere.
Era una persona difficile e contraddittoria, padre Pavel. Si era laureato brillantemente in matematica all’Università di Mosca, dove aveva subito ottenuto una cattedra. La matematica era per lui come il fondamento dell’universo. Alla fine, era arrivato a pensare che tutta la natura visibile, in sostanza, può essere ri- dotta a punti d’appoggio invisibili. Per questo amava tanto Platone, infatti per quest’ultimo l’invisibile è la fonte di ciò che è visibile. Florenskij amò, studiò, commentò Platone per tutta la vita.
Negli anni in cui era studente, Florenskij fu molto influenzato da Vladimir Solov’ëv. Bisogna dire che entrambi erano platonici, che a entrambi stava a cuore il problema del fondamento spirituale dell’essere e il tema misterioso della Sofia-Sapienza Divina. Forse per questo Florenskij cercava di prendere le distanze da Solov’ëv, quasi non lo cita e – se lo cita – lo fa in modo critico. Eppure, nella storia del pensiero i due sono molto vicini, molto più di quanto lo stesso Florenskij potesse sospettare.
L a matematica non rimase la sua preferita per tutta la vita. Florenskij abbandonò la scienza, si trasferì a Sergiev Posad ed entrò all’Accademia teologica. Andrej Belyj, che l’aveva conosciuto in quegli anni, parla con tenerezza e ironia di questo giovane dai capelli lunghi; dice che lo chiamavano «il naso coi riccioli », perché Florenskij aveva un viso olivastro, ereditato dalla madre armena, un naso come quello di Gogol’ e lunghi capelli ondulati. Era basso di statura e di costituzione esile. Parlava a bassa voce, soprattutto dopo essersi stabilito nel monastero: senza volere aveva fatto proprio il comportamento monastico. Quando nel 1909 venne inaugurato il monumento a Gogol’, quando fu tolto il drappo un uomo esclamò: «Ma questo è Pavlik!». In effetti, la figura curva, i capelli, il naso somigliavano straordinariamente a quelli di Florenskij.
S Lo scrittore religioso Sergej Fudel’, figlio del noto sacerdote moscovita Iosif Fudel’, da giovane aveva conosciuto Florenskij. Mi descriveva il suo aspetto esteriore, i suoi gesti, e diceva che assomigliava a un affresco egiziano che aveva preso vita. Raccontava che poteva ascoltarlo a lungo quando parlava con suo padre a voce sommessa. Non era sempre chiaro di cosa stessero parlando, nei loro discorsi si mescolavano tanti argomenti: la moda femminile, che era un indicatore preciso dello stile della civiltà del tempo; le esperienze occulte; il mistero dei colori delle icone; i significati profondi delle parole. Florenskij conservò per tutta la vita un interesse filologico e filosofico per il significato delle parole.
ergej Fudel’ mi raccontava che quando, nel 1914, aveva letto La colonna e il fondamento della verità, era ritornato nella Chiesa, interiormente. Perché nello spirito viveva in una sorta di bohème simbolica, e il mondo della Chiesa gli sembrava antiquato, fossilizzato, quasi uscito da una commedia di Ostrovskij. Ma improvvisamente si era accorto che della Chiesa si poteva scrivere in modo raffinato, come facevano i simbolisti, come faceva Andrej Belyj. Posso confermarlo sul mio esempio personale. Ero studente del primo anno, quando lessi per la prima volta La colonna (era l’anno della morte di Stalin). Il libro mi colpì, e mi colpì proprio perché, esattamente come Solov’ëv, Florenskij si presentava come uno che si trova ai vertici della cultura, e non come uno che ci era arrivato per vie traverse e ne usava i frutti per i propri scopi. Come uno che era lui stesso cultura. Florenskij e Solov’ëv erano la cultura stessa fatta persona. E la cultura rende testimonianza alla Chiesa, a Cristo, al cristianesimo.
1) ELEZIONI 2009/ Mauro: la netta vittoria del PPE è una speranza per l’Europa – ilsussidiario.net - Mario Mauro - martedì 9 giugno 2009
2) Il Papa difende il diritto dei Vescovi venezuelani di partecipare alla vita pubblica - Per irradiare la luce del Vangelo nella vita sociale
3) In India, ferve la lotta per la libertà di coscienza - Intervista al Cardinale Telesphore Toppo - di Alessandra Nucci
4) Esposizione fotografica sulla Chiesa perseguitata - Promossa da Aiuto alla Chiesa che Soffre a Barcellona
5) Per tutta la vita Eugène Ionesco ha ricercato la verità ultima che non ha mai chiamato in altro modo che Dio - E alla fine del diario scrisse: «Prego il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo» - di Alain Besançon – L’Osservatore Romano 8-9 giugno 2009
6) ELEZIONI 2009/ Giannino: dieci domande per il dopo-voto - Oscar Giannino - martedì 9 giugno 2009 – ilsussidiario.net
7) SOCIETÀ/ Definire l’indefinibile, quando il mondo pretende di “dettar pace” - Sante Maletta - martedì 9 giugno 2009 – ilsussidiario.net
8) A PARTIRE DALLA TRINITÀ IL P APA DÀ INDICAZIONI FASCINOSE - Mistero ragionevole che spiega come siamo fatti - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 9 giugno 2009
9) INTERVISTA. Da Dawkins a Hitchens a Harris, i nipotini di Nietzsche smantellati dal teologo americano John Haught, autore di un pamphlet - Scienza e fede, il flop dei «nuovi atei» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 9 giugno 2009
10) Florenskij, il Pascal delle steppe – inedito: Una delle ultime lezioni di padre Aleksandr Men’, il pope russo assassinato nel settembre 1990, fu dedicata al «collega» fucilato dai comunisti nel 1937 - DI ALEKSANDR MEN’ – Avvenire, 9 giugno 2009
ELEZIONI 2009/ Mauro: la netta vittoria del PPE è una speranza per l’Europa – ilsussidiario.net - Mario Mauro - martedì 9 giugno 2009
Gli europei di fronte al voto hanno scelto di dare nuovamente fiducia al Partito Popolare Europeo, riconfermandolo come gruppo più numeroso dell’Europarlamento. L’Europa dei Ventisette ha scelto, dunque, di non smentirsi e di continuare a credere nel nostro progetto politico. Mentre esce con le ossa rotte il Partito Socialista Europeo, perdente praticamente su tutti i fronti con un risultato che si aggira attorno al meno 6% rispetto alle scorse elezioni, gli elettori europei con una maggioranza davvero ampia hanno decretato non solo la vittoria del PPE, ma hanno scelto la strada migliore per puntare a cinque anni di pace, di sviluppo e di innovazione riconfermando i Popolari come maggiore forza politica a Bruxelles e a Strasburgo, le sedi in cui potranno vantare un numero di deputati pari a 267 seggi contro i 159 dei socialisti.
La tendenza generale in Europa è andata riconfermando le previsioni della vigilia che vedevano il PPE nettamente in vantaggio in Europa. La panoramica generale dei paesi ci mostra che questo trend è stato confermato, superando in molti casi le più rosee aspettative.
In Gran Bretagna, ad esempio, dove c’è stato un vero proprio tracollo del laburista Gordon Brown, che ha ottenuto soltanto il 16% dei consensi, mentre i Tories, con il 27%, sono oggi la prima forza politica britannica, seguiti al 17% dall’Ukip e dai liberaldemocratici al 14%. In Germania la Cdu/Csu della Merkel ha raggiunto il 38% battendo i socialdemocratici della Spd fermi al 20,8% e i verdi con il 12%. In Francia, invece, Sarkozy: non teme rivali e vince con il 27,70%; socialisti sconfitti col 16,76%. Sorpresa con Europa Ecologia di Daniel Conh-Bendit (16,2%), che è testa a testa con i socialisti e che sbaraglia il centrista Bayrou (8,49%).
A riconfermare la débacle socialista il duro colpo a Zapatero che prende il 38,51 contro i popolari di Rajoy che raggiungono 42,23%. In Olanda il partito populista di Geert Wilders, erede di Pim Fotuyn col 17% triplica i voti delle politiche del 2006, assicurandosi quattro seggi a Strasburgo. Anche in Austria hanno vinto i popolari con il 29,7%; i socialdemocratici si fermano, invece, al 23,9%.
In Lettonia e Lituania sostanzialmente hanno tenuto le coalizioni di governo, mentre in Estonia la principale forza d'opposizione, il partito di centro, batte il partito delle riforme del premier Andrus Ansip. Se a Malta trionfa il partito laburista, che conquista il 55% dei consensi contro il 40,49% del partito nazionalista e conservatore al governo dell'isola, a Cipro continua a prevalere il partito di centrodestra.
Anche l’Italia non poteva tradire questo patto di fiducia nei confronti del PPE. Certamente, il Popolo della Libertà era dato per favorito. Anche l’affluenza alle urne, seppure in calo rispetto al 2004, è stata tra le più alte in Europa segno che gli italiani credono davvero nell’Europa. Il PdL – che lo ricordiamo è una nuova formazione politica – ha ottenuto un buon risultato in tutti i collegi, soprattutto in Lombardia, ad è stato penalizzato soltanto da una scarsa affluenza in alcune regioni. Con una visione d’intenti corale e con uno scenario compatto come quello che emerge a due giorni dal voto si può ben immaginare come il Partito Popolare Europeo grazie al contributo del nostro paese e della formazione del PdL nei prossimi cinque anni potrà avere terreno fertile per gettare semi di pace e sviluppo per il bene di tutti i cittadini europei.
Il Papa difende il diritto dei Vescovi venezuelani di partecipare alla vita pubblica - Per irradiare la luce del Vangelo nella vita sociale
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 8 giugno 2009 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha difeso il diritto e il dovere dei Vescovi venezuelani di illuminare la vita pubblica del loro Paese con pronunciamenti basati sul Vangelo.
Ricevendo questo lunedì i presuli del Paese in visita "ad limina apostolorum", il Santo Padre ha evitato di addentrarsi nelle difficoltà che incontrano con il Governo del Presidente Hugo Chávez, concentrandosi piuttosto sull'incoraggiarli perché illustrino i motivi della loro speranza.
Il Pontefice ha difeso l'opera svolta dai Vescovi: “Apprezzo il vostro impegno per irradiare la luce del Vangelo sugli avvenimenti di maggior rilievo che riguardano il vostro Paese, senza cercare nessun altro interesse se non la diffusione dei più autentici valori cristiani, in vista anche di favorire la ricerca del bene comune, la convivenza armonica e la stabilità sociale”, ha detto loro.
Per quanto riguarda l'azione politica, ha ricordato che si tratta di un impegno che spetta soprattutto ai laici, che, “come discepoli e missionari di Cristo, sono chiamati a illuminare e ordinare le realtà temporali affinché rispondano al disegno amoroso di Dio”.
“Perciò, c'è bisogno di un laicato maturo, che testimoni fedelmente la sua fede e senta la gioia della sua appartenenza al Corpo di Cristo, al quale è necessario offrire, tra l'altro, un'adeguata conoscenza della dottrina sociale della Chiesa”, ha dichiarato.
Il Papa ha affidato in particolare ai Vescovi “i bisognosi”.
“Continuate a promuovere le molteplici iniziative di carità della Chiesa in Venezuela, affinché i nostri fratelli più bisognosi possano sperimentare la presenza tra di loro di Colui che ha dato la sua vita sulla Croce per tutti gli uomini”, ha concluso.
In India, ferve la lotta per la libertà di coscienza - Intervista al Cardinale Telesphore Toppo - di Alessandra Nucci
KKOTTONGNAE, lunedì, 8 giugno 2009 (ZENIT.org).- Alla Conferenza internazionale “Amore in azione” organizzata in questi giorni dall’ICCRS (International Catholic Charismatic Renewal Services) a Kkottongnae, in Corea del Sud, ha partecipato anche il Cardinale Telesphore Toppo, Arcivescovo di Ranchi e Presidente della Conferenza Episcopale Indiana.
ZENIT lo ha intervistato.
Qual è lo stato della fede in India?
Toppo: Risponderò con una frase del padre della patria, il Pandit Nehru: “In India, il cristianesimo è antico quanto il cristianesimo stesso”. Il popolo indiano è un popolo religioso, tanto più lo sono i cristiani che conoscono Gesù: non c’è nessuno come lui.
Quanti sono oggi i cattolici?
Toppo: L’India è un paese immenso, difficile fotografarlo per intero. La fede è arrivata con l’Apostolo Tommaso, ma nel mio Stato, ad esempio, nel 1885, quando arrivò dal Belgio il missionario Constant Lievens, di cattolici ce n’erano solo 56. Sette anni dopo, quando Lievens dovette ripartire, lasciò 80mila battezzati e oltre 20mila catecumeni, un’esplosione di fede incredibile, nota come “il miracolo di Chotanagpur”.
Qual è la consistenza e il ruolo del Rinnovamento carismatico?
Toppo: E’ dappertutto, a livello diocesano e regionale, e hanno anche dei centri per i ritiri. Uno dei frutti più apprezzabili di questa presenza è che ha portato fra i fedeli l’amore per la Parola di Dio, che prima non era molto sentita dai cattolici.
Cosa pensa dell’esito delle ultime elezioni nazionali?
Toppo: E’ stato un successo fenomenale, che ha segnato la sconfitta dei fondamentalisti. Il nuovo governo è formato da persone che seguono i principi del Mahatma Gandhi, che incarnava la parte migliore dell’induismo. Se l’India oggi può vantare la più grande democrazia del mondo è grazie alla fede della sua gente, un popolo composito che ha in comune la fiducia in Dio e nel prossimo.
Potranno mettere fine alla persecuzione dei cristiani?
Toppo: La persecuzione è difficile da contenere, è come un cancro. Temo anzi che potrà anche aumentare, perché adesso che i fondamentalisti non possono più infiltrare la burocrazia e i posti di comando, studieranno ogni modo di mettere in imbarazzo il governo. Quando fui fatto Cardinale, nel 2003, il leader di uno di questi gruppi fondamentalisti disse “perché dovremmo accettare questa laurea straniera? I cristiani devono andarsene dall’India”. Io vengo da un paese tribale, il Jharkhand, per cui risposi: “Se ne vada prima lui. Io vengo da una delle prime tribù dell’India, quindi sono più indiano io di lui”.
Aboliranno le leggi anti-conversione?
Toppo: A dire il vero anche il Partito del Congresso approvò delle leggi anti-conversione - si sa, in politica si deve accontentare un po’ tutti - ma non erano così rigide. Che facciano pure le leggi, i cristiani sono i più obbedienti e ligi di tutti.
Perché i cristiani sono presi di mira?
Toppo: Agli occhi dei fondamentalisti anche i musulmani sono nemici dell’India, ma i musulmani contrattaccano, per cui oggi li lasciano in pace. I cristiani li sentono invece come una minaccia eliminabile. A essere presi di mira sono in particolare i membri di tribù, perché il maggior numero di conversioni avvengono fra di loro, e fra i dalit, o “intoccabili”. I popoli tribali infatti, nonostante le molte persecuzioni della storia, hanno conservato la propria lingua e il proprio sistema sociale, per cui se si convertono possono formare un ceto medio, catalizzatore fra i dalit e i ceti superiori.
E’ chiaro che se si convertissero i 100milioni di dalit e i 70 milioni di tribali, si produrrebbe uno spostamento sociale e politico immenso.
Eppure l’induismo è considerato la religione della tolleranza e della pace…
Toppo: Ci può essere pace con il sistema delle caste? Quando non si attribuisce pari dignità al proprio simile? Il Mahatma Gandhi liberò l’India dall’imperialismo britannico, ma quella liberazione non è stata completata. Lui rappresentava l’universalità, un’idea assolutamente cristiana. Se fosse vissuto più a lungo avrebbe abolito le caste, il matrimonio minorile, il sistema della dote, la messa a morte delle spose. L’India deve liberarsi da tutti questi mali e anche dai fondamentalisti, una piccola parte del paese, appena l’11 per cento, ma che ha le stesse idee che avevano Hitler e Mussolini. Insomma, c’è ancora molto da fare, la lotta condotta da Gandhi per la liberazione continua. E’ in questo contesto che va vista la persecuzione. Fa parte della lotta per la libertà: la libertà di coscienza.
Esposizione fotografica sulla Chiesa perseguitata - Promossa da Aiuto alla Chiesa che Soffre a Barcellona
BARCELLONA, lunedì, 8 giugno 2009 (ZENIT.org).- Un'esposizione fotografica sui cristiani perseguitati oggi nel mondo è visitabile da questo lunedì fino all'8 luglio nella sede dell'associazione caritativa cattolica Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) a Barcellona.
Le fotografie, inedite e realizzate da collaboratori di ACS, riflettono “la situazione in cui molti sacerdoti e missionari svolgono la loro opera pastorale e caritativa in ambienti ostili alla libertà religiosa delle persone e al vivere la fede”.
Lo segnala un comunicato di ACS inviato a ZENIT, che spiega come attualmente più di 300 milioni di cristiani nel mondo subiscano persecuzioni a causa della loro fede.
“Da più di 2.000 anni, la collettività umana più perseguitata è stata e continua ad essere quella cristiana, oltre ad altre di carattere sociale, razziale o religioso”, osserva.
“Ad ogni modo, il dolore e l'ingiustizia che subiscono questi esseri umani non trovano un'eco mediatica equilibrata con altre collettività”.
Come risposta, ACS ha organizzato questa esposizione che cerca di aumentare la consapevolezza della società civile di fronte alle numerose violazioni di uno degli articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, che impegna gli Stati a garantire la libertà religiosa dell'individuo.
Giornalisti e fotografi hanno scattato le fotografie accompagnando il personale di ACS che ha risposto alle “richieste di aiuto di numerosi missionari e religiose in luoghi dove arrivano solo loro in aiuto dei più deboli”.
L'organizzazione prevede che questa esposizione diventi poi itinerante e mostri in altri luoghi le persecuzioni che la Chiesa continua a subire.
Per ulteriori informazioni: www.ain-es.org
Per tutta la vita Eugène Ionesco ha ricercato la verità ultima che non ha mai chiamato in altro modo che Dio - E alla fine del diario scrisse: «Prego il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo» - di Alain Besançon – L’Osservatore Romano 8-9 giugno 2009
Le immagini che conservo di Ionesco non sono tante quanto avrei voluto. Ma sono nitide e non si cancelleranno dalla memoria. Da quale cominciare? Era il 1983. La Romania era a quel tempo sotto il potere di una coppia di rinoceronti a due corna, i Ceausescu. Noi eravamo in California, nei pressi del lago Tahoe. Le strade che s'inerpicavano verso quel vasto lago di montagna erano costeggiate da alti cumuli di neve e lungo il cammino c'era un posto - del quale non ricordo il nome - con un motel e una sala riunioni. Non so quale organizzazione aveva deciso di rendervi omaggio a Eugène Ionesco. Forse l'American Romanian Academy. Alcune studentesse americane, alte e belle, inscenarono per noi diverse opere brevi, o piuttosto degli sketch. Si divertivano da morire e la loro recitazione era piena di brio e di freschezza. Non eravamo in molti. Io ero l'unico della mia nazione, con Eugène e Rodica, contrariamente a quanto era stato detto a Ionesco, che si aspettava un pubblico internazionale. Tutti gli altri erano romeni, emigrati negli Stati Uniti che, nella maggior parte dei casi, insegnavano non so bene cosa, in università poco prestigiose. Uomini e donne isolati, non ricchi, non noti, che sopportavano la crudeltà dell'esilio, perché l'aria di libertà - per amore della quale avevano varcato con difficoltà le mura che circondavano il loro Paese - non basta a rendere felici quando ci si ritrova persi in un angolo sperduto delle grandi solitudini americane. Ma lì erano felici grazie a Ionesco. Chi era Ionesco per loro? Un uomo libero che era sempre stato dalla parte della libertà contro i regimi di oppressione e che non si faceva scrupolo di dire e di scrivere che il comunismo sovietico, romeno, francese - di dove non importa - era un orrore per quanti lo subivano e una vergogna per quanti lo professavano o ne approfittavano. Trent'anni fa una simile opinione non era ben vista persino negli ambiti universitari americani dove la moderazione era di rigore. Si veniva presto giudicati semplicisti, viscerali, rabbiosi. Nei riguardi del comunismo Ionesco forse non provava rabbia rabbioso perché era una persona dolce, né semplicista perché era intelligente e informato. Piuttosto era semplice, perché di quella realtà aveva una conoscenza globale frutto di una visione semplice, e "viscerale". Sì, lo era, fino al dolore. Vedere il mondo così com'è - ci ritorneremo - era la sofferenza principale di Ionesco, la sua croce. I romeni presenti non erano probabilmente tutti ancora in lotta per la libertà, al contrario, e Ionesco ne era un po' dispiaciuto. La libertà ora l'avevano, e con essa nuove preoccupazioni, ma avevano sotto i loro occhi un eroe di una causa che ricordava loro vecchie battaglie. Ionesco era anche un grande scrittore, noto in tutto il mondo. In America si cade facilmente in un anonimato senza fondo. Non si sa molto bene dove si trova l'Europa, soprattutto in California. Quanto alla Romania... L'immigrazione romena era allora poco consistente. Ma ecco che Ionesco, illustre, conosciuto in tutte le università, "soggetto di tesi" di innumerevoli studenti, portava gloria al suo popolo. Quel popolo povero - così era considerato in quel luogo banale - ne era fiero; ne traeva lustro e conforto. E poi c'era la personalità di Ionesco. Dire che era modesto è poco. Incredibilmente timido, non sapeva di fatto dove mettersi. Riceveva come poteva gli omaggi infinitamente calorosi dei suoi compatrioti. Non era questo a fargli piacere, ma sentiva il bene che la sua presenza faceva loro, e ne traeva gioia. Aveva dunque la sua espressione abituale, un po' clownesca e malinconica. Il suo eloquio era piuttosto lento, le parole gli uscivano con difficoltà, come se la sua lingua fosse un po' troppo grossa per la sua bocca, eppure era eloquente e il suo stile era originale anche quando diceva cose molto comuni. L'umile pubblico presente percepiva la sua bontà e si sentiva consolato. Ionesco è sempre, credo, etichettato dai manuali di letteratura come il fondatore del "teatro dell'assurdo". Viene regolarmente messo in concorrenza con Beckett o con Adamov. Sapeva bene di avere scoperto prima di loro una nuova forma teatrale, e nel suo giornale lo afferma con orgoglio. Ma ciò che contesto radicalmente è la nozione di "assurdo" applicata al suo teatro. Si addice meglio a Beckett, che apparentemente nega qualsiasi senso all'esistenza e trae il suo pathos dalla messa in scena del nulla. I dialoghi del teatro di Ionesco hanno su di me tutt'altro effetto. Sebbene siano pieni di battute, di giochi di parole, s'involino in tutte le direzioni, e girino a vuoto - come si dice di un bullone che non si avvita più, o di una vite sulla quale il cacciavite non ha più presa - provocano il riso e nello stesso tempo stringono il cuore poiché introducono alla realtà. Se non riguardasse il reale, il teatro di Ionesco sarebbe assurdo e non ci interesserebbe. In ogni caso non a me. Noi parliamo tutti più o meno come i personaggi di questo teatro, ma non ce ne rendiamo conto. Ionesco ce lo mette sotto il naso, ce ne rimanda l'eco. Quando noi parliamo, le parole che pronunciamo sono avvolte, come lo sono gli organi del nostro corpo, da un tessuto connettivo neutro, che serve da riempimento. "Parole superflue" che non importa cosa dicano, ma che aiutano gli altri a definirci. Noi crediamo di esprimerci perché udiamo solo la nostra voce, ma i nostri interlocutori percepiscono anche un'altra cosa, una sorta di sfondo sul quale inserire le nostre parole e nel quale indovinano bene o male ciò che pensano di sapere di noi. Di fatto, Ionesco traspone questo continuum della parola, recupera il suo "eccesso", il suo traboccare, e lo trasforma in poesia. "Direi persino che il linguaggio alla fine esplode nel silenzio della non comprensione, lo fa brillare, lo infrange per ricomporlo in altro modo. Un linguaggio più puro che è giunto fino alla frontiera, fino ai confini del silenzio". Quello che mi ha sempre colpito nel suo teatro, e che mi stupisce, è che introduce alla vita in modo molto concreto e diretto. In questo è un classico. I personaggi di Andromaca o di Fedra, ad esempio, parlano una lingua strana, una lingua che nessuno ha mai parlato - neanche ai tempi di Racine, neppure a corte - e inoltre parlano in versi alessandrini con cesura al sesto piede e alternanza delle rime maschili e femminili. Allora perché si dice di Racine che ci rivela il cuore umano, la forza delle nostre passioni, gli orrori dell'amore, l'imminenza della morte, e non lo si dice di Ionesco che ci rivela la stessa cosa per mezzo di un linguaggio da lui inventato, ma che noi comprendiamo spontaneamente, senza sforzo, e che ci commuove? Senza aver preso lezioni. Il reale che ci rivela non è il nulla. Ionesco può essere considerato sia allegro che triste. Non credo sia tragico. Le sue opere non sono del tutto comiche, anche quando fanno ridere, né del tutto tragiche, anche quando ci lasciano in una desolazione straziante. L'intenzione del comico è di guarire, mostrando allo spettatore i suoi difetti e le conseguenze grottesche e odiose che comportano, l'avarizia, la misantropia, la lussuria, la pigrizia. Ma Ionesco non pretende di guarire. I difetti, i lati ridicoli, le cattiverie di ognuno, li presenta come parte del mondo comune. Guarda a loro con l'indulgenza costernata che ha Dio quando acconsente di contemplare il mondo che ha creato piuttosto che se stesso. Il tragico si basa su un gioco di passioni e di circostanze che conduce inevitabilmente alla morte. Fa nascere una paura dalla quale ci libera con la sua stessa rappresentazione. Ma per Ionesco, la morte sopraggiunge in ogni caso, vi siano o no passioni, vi siano o no circostanze. Per questo le opere comiche fanno ridere, ma contengono una tristezza di fondo e le opere tragiche non gettano nella disperazione perché si concludono con una morte normale e inevitabile che bisogna accettare. Né comiche, né tragiche; che cosa allora? Ebbene, diciamo "drammatiche", in mancanza di meglio. Nel dramma ci sono andirivieni, ribaltamenti, ripensamenti del personaggio, possibilità di pentirsi, tempo per un'eventuale conversione. Così sono molte opere spagnole, il teatro di Corneille, in generale il teatro cristiano. In ambito cristiano, l'esito tragico è raramente possibile, perché sarebbe la dannazione, e la dannazione eterna è più che tragica, insopportabile nel teatro. Racine, autore tragico, ha trasposto le sue opere nell'antichità dove la posta in gioco era meno grave perché non ci si dannava. Prendiamo ad esempio Il re muore. La moglie Margherita dice al re all'inizio dell'opera: "Morirai fra un'ora e mezza, morirai alla fine dello spettacolo". E il re: "Cosa dici, mia cara? Non è divertente". Invece lo è, e anche molto. Questo annuncio è fatto all'inizio. Il programma è annunciato. Non vi è suspense. Il resto dell'opera consiste nella lunga preparazione spirituale di questo re scellerato, grottesco, stupido, alla sorte comune degli uomini. La sua morte non è nobile e grande come si confà alla tragedia, ma è come quella di tutti, morte umile, normale, spaventosa naturalmente, ma non più di qualsiasi altra. Siamo dunque in un dramma, con ruoli da farsa. Il re si mostra abominevole, veramente atroce e folle. Ma la situazione gli sfugge e perde tutto, la vanitas vanitatum di tutta la sua vita. Non è la seconda moglie ad accompagnarlo fino alla fine, ma la prima, la vecchia, la legittima, l'abbandonata. "Calma! Non avrai più bisogno di queste scarpe di ricambio. Né di questa carabina, né di questo mitra... Né di questa cassetta degli arnesi... Né di questa sciabola". E alla fine di un mirabile monologo di diverse pagine Margherita gli dice con dolcezza: "Abbandona a me il braccio destro, il braccio sinistro. Ecco, non hai più la parola, il tuo cuore non ha più bisogno di battere, non devi più sforzarti di respirare. È un'agitazione inutile, no?" Mi si permetta di paragonare Il re muore a La scarpina di raso. Immagino che il paragone sembrerà terribilmente forzato. Eppure, nei due casi si tratta di un cammino spirituale di due eroi che, sul punto di morire, al termine di una lunga "conversione", si abbandonano alle cose, al destino, alla provvidenza. Margherita è tanto brutta quanto Prouhèze è bella, e il re è tanto sordido quanto Rodrigo è nobile. Le due donne sono nondimeno lo strumento predestinato a "liberare le anime prigioniere", l'anima spezzata di Rodrigo e l'anima spregevole del re, due anime umane tuttavia, "a uguale distanza da Dio", come diceva Ranke a proposito delle civiltà o dei secoli diversi e imparagonabili. So che Ionesco ammirava immensamente Claudel e in particolare La scarpina di raso. Penso non vi sia stata la minima influenza di questa opera su Il re muore. Sono tuttavia a modo loro due drammi sacri, due autos sacramentales. Figureranno per sempre nel repertorio del teatro francese come due capolavori, a mio parere i più grandi che il ventesimo secolo abbia prodotto. È forse la loro eccezionale grandezza che isolandole invita a paragonarle. Bisogna ora penetrare maggiormente nell'intimità di Ionesco. Mi occuperò di tre aspetti: l'infanzia, l'angoscia, l'amore. Eugène Ionesco era nato nel 1909 a Slatina, a 150 chilometri da Bucarest. Il padre era romeno e la madre, Thérèse, francese, figlia di un ingegnere che lavorava per le ferrovie dello Stato romeno. Il padre aveva un carattere difficile ed era spesso assente. La famiglia si stabilì in Francia, ma il padre, nel 1916 l'abbandonò e ritornò in Romania. Là ottenne il divorzio e si risposò senza neanche informare la sua ex moglie, né d'altronde la nuova. Thérèse, rimasta in Francia, visse due anni - a quel tempo Eugène ne aveva dieci - in un paese della Mayenne, La Chapelle-Anthenaise, vicino a Laval. "Tutto era presente. Una giornata, un'ora mi sembrava lunga, senza limiti. Non ne vedevo la fine. Quando mi parlavano del prossimo anno avevo la sensazione che il prossimo anno non sarebbe mai arrivato. Quando ero a La Chapelle-Anthenaise, vivevo fuori dal tempo, dunque in una sorta di paradiso. Verso undici o dodici anni, non prima, ho iniziato ad avere l'intuizione della fine". Questa pienezza, questa beatitudine atemporale non tornerà mai più. Fu il punto luminoso, il momento di grazia di una vita che non smise fino alla fine di essere dolorosa. La vita successiva di Ionesco, il ritorno a tredici anni in Romania, dove non smise di sentirsi in esilio, gli inizi letterari a Bucarest, i vincoli di amicizia che vi stabilì, le letture che vi fece, i primi scritti - come sono riportati dalle biografie e dall'esterno - non sembrano distinguersi dal modello comune, quello di un giovane scrittore che cerca la sua strada nell'ambiente letterario all'apparenza abbastanza intenso della Romania degli anni Venti. Tornato in Francia nel 1938 - considerandosi ormai francese - divenne, attraverso le comuni difficoltà che incontravano allora gli artisti nella vasta Parigi dell'anteguerra, uno scrittore di lingua francese, che preparava vagamente una tesi su "Il tema del peccato e della morte nella poesia francese dopo Baudelaire". È nel 1950 - Ionesco ha poco più di trent'anni - che fa rappresentare, nel teatro des Noctambules, La cantatrice calva, inizio di una notorietà, poi della gloria. Non è dall'esterno che bisogna guardare Ionesco. Il suo sguardo era volto verso l'interno, verso la vita della sua anima che gli interessava molto di più di qualsiasi successo, a cui tuttavia non era insensibile in quanto lo rassicurava e lo confortava. Il punto luminoso era sempre l'infanzia, non più per un attaccamento sentimentale al paese normanno - che immagino alquanto banale - ma come parametro di una visione del mondo innocente e perennemente stupita dalla presenza della cattiveria, della stupidità, del male, soprattutto della morte. Lo stupore è il passo iniziale della filosofia. Ma in Ionesco il punto di partenza è lo stupore del bambino. È il punto di vista che può avere un bambino sensibile, ferito, scioccato, fragile. Il bambino vede più di quello che comprende, più di quello che ha di fronte agli occhi. Ionesco fece a undici anni una lettura decisiva che impresse una direzione alla sua vita interiore, quella di Un cuore semplice. Felicité vede, o sente, alla luce dell'infanzia le cose nascoste ai saggi e ai sapienti. Ionesco invidiava la felicità di Felicité. Ha spesso ricordato le parole evangeliche perché corrispondevano esattamente alla sua esperienza intima. Quest'ultima, trasformata, coscientemente metabolizzata, è la fonte della sua arte, l'inesauribile serbatoio della sua fantasia e della sua poesia. Ma lasciamolo parlare: "C'è innanzitutto il primo stupore: presa di coscienza dell'esistenza, uno stupore nella gioia e nella luce, uno stupore puro, senza giudizio sul mondo. Un secondo stupore si è innestato sul primo. Un giudizio stupito, constatazione che il male esiste o, più semplicemente, che le cose vanno male (...) Voglio semplicemente dire che in quanto scrittore, l'infelicità universale è una questione che mi riguarda personalmente e intimamente (...) Poiché non c'è nulla da fare, perché siamo votati alla morte, siamo allegri! Ma non lasciamoci ingannare". E cita l'esempio del suo amico Cioran, che viveva nel pessimismo come nel suo elemento naturale, che ne faceva quasi una professione, e tuttavia era allegro. Allegro, però, io Ionesco non l'ho mai visto. L'angoscia era il fardello straordinariamente pesante che dovette portare fino alla fine. Un'angoscia, a quanto pare, atroce. C'era sicuramente una parte di malattia, di quelle che si curano con gli ansiolitici, che però al suo tempo non c'erano. Dubito che sarebbero stati efficaci. La sua angoscia proveniva da una realtà più profonda della chimica alterata delle proteine. "A quattro o cinque anni mi sono reso conto che stavo divenendo sempre più vecchio, che sarei morto. Intorno ai sette od otto anni, mi dicevo che mia madre un giorno sarebbe morta". È ciò che scrive all'inizio del suo primo diario. Alla fine del secondo appare una litania della morte che occupa cinque o sei pagine: "1) È morto all'alba. 2) È morto la notte nel sonno. 3) Era notte. Fu prima risvegliato da un terribile incubo, urlò, poi si addormentò per sempre". La litania continua, non finisce: "65) Per una scheggia di granata. 66) Per una bomba. 67) Seppellito dalla terra in un terremoto. 68) Sotterrato vivo prima di essere seppellito". Si ha la sensazione che abbia vissuto sensibilmente questi 68 modi di morire. È un'ossessione, è anche uno strano tour de force. Mi fa pensare alla litania dei giochi infantili in Gargantua. I giochi infantili contrapposti ai giochi della morte, in Rabelais e Ionesco. Il parallelismo non gli sarebbe dispiaciuto. Era un uomo che con lo spirito di un bambino sopportava un eterno scandalo. La menzogna comunista, la persecuzione degli innocenti, l'umiliazione dei piccoli, lo ferivano. Non li sopportava. L'angosciavano. Il male ultimo, descritto da san Paolo, il nemico supremo, è la morte. Man mano che la sua vita andava avanti, si distaccava dalla letteratura, anche dalla sua: "La qualità letteraria che mi appassionava tanto un tempo (che m'interessava in primo luogo), oggi mi è indifferente". Inner-oriented, Ionesco non si richiudeva però in se stesso. Non si separava dall'umana condizione: "Che lo vogliano o no, gli uomini capiscono tutti gli altri uomini: la fame, la sete, la morte, l'amore, l'odio, l'angoscia, la paura, l'avarizia, l'invidia e la gelosia, la curiosità, il desiderio di possedere o di farsi da parte, il bisogno di Dio, tutto si capisce, degli uni da parte degli altri (...) Si capiscono come si capiscono i bambini". Grazie a ciò, nelle sue opere egli non si racconta, ma si fa trasportare. Il clima di angoscia, che pervade anche le opere di carattere comico, è il suo e s'introduce naturalmente, senza nulla di artificiale, di applicato, di sistematico. Nel suo teatro Ionesco è allo stesso tempo fuori e dentro. Lavorava tantissimo. Come drammaturgo, la sua produzione è più abbondante di quella di Racine, di Molière e di Claudel. Questo lavoro enorme era un rimedio all'angoscia. Ma ne aveva un altro, assolutamente vitale, l'amore. L'amore. Ne ha avuto tanto quanto era possibile averne. Ionesco sta per sposarsi: "Mia madre andò dalla mia fidanzata e quando questa le aprì la porta, mia madre la guardò un istante". Rodica rispose allo sguardo di Teresa. "Era una comunicazione muta, una sorta di rituale breve che riscoprivano spontaneamente e che doveva essere stato loro trasmesso dai secoli dei secoli: era una sorta di passaggio di poteri. In quel momento mia madre cedeva il suo posto, e cedeva anche me, alla mia futura moglie". Un passaggio d'amore, bisognerebbe dire. Thérèse morì tre mesi dopo il matrimonio, ma Ionesco non soffrì per la sua morte perché aveva una nuova famiglia: "Ero accolto, ero al riparo, sistemato, reinserito". Rodica gli diede una figlia, Marie France. Loro tre formavano, agli occhi degli amici, una sorta di "sacra famiglia" inseparabile, in un reciproco bagno d'amore. Senza dubbio Eugène ne assorbiva più di quanto ne donava, tanto ne aveva bisogno, ma ne donava quanto poteva. Questa intercomunione familiare, fedele e amorosa, non è frequente nella storia della letteratura del xx secolo e indica anch'essa a modo suo l'originalità dello scrittore. Nell'immagine che conservo di Ionesco, vedo saldata a lui la minuta Rodica, con il suo aspetto un po' cinese, che emana un'autorità e una dignità impressionanti, e quella sorta di grandezza che conferisce un amore di totale dedizione. Resistette fino alla morte di suo marito, e un po' oltre. Quelli che si sono fatti un'idea di Ionesco come di un divertente autore di vaudevilles, farebbero bene a leggere i suoi scritti non teatrali. Pochi scrittori del suo tempo si sono dedicati a letture così serie e difficili. La sua biblioteca era piuttosto quella di un filosofo e di un teologo. Questo perché per tutta la vita è stato alla ricerca della verità ultima, della verità assoluta che non ha mai chiamato in altro modo che Dio. In questo ambito, il Dio personale che Ionesco cercava era un interlocutore difficile da conoscere, un Dio nascosto, e noi non sappiamo cosa Egli pensava di Ionesco. E neppure Ionesco lo sapeva, il che era per lui un cammino d'inquietudine e insieme un cammino di guarigione. Ionesco leggeva dunque libri di spiritualità, in particolare quelli che maggiormente disorientano quanti non sono abituati a percorrere certe strade. Innanzitutto san Giovanni della Croce, la Filocalia, Caterina da Siena, la grande e la piccola Teresa, i mistici spagnoli, fiamminghi e tedeschi. Soprattutto quelli che sviluppano la cosiddetta mistica negativa. Per esprimersi semplicemente, coloro che pongono Dio al di là di ogni visione possibile, che lo dichiarano al di là della bontà, al di là del sapere, e infine al di là dell'essere. Quando si è là, Dio è sul punto di svanire nell'inconoscibilità. Se Egli è al di là dell'essere, è esistente in modo supremo, come ritenevano i mistici ortodossi, o piuttosto non esiste e scompare completamente nella nube della non conoscenza? Ionesco era stato battezzato nella Chiesa ortodossa, con la quale non ruppe mai, sebbene fosse perfettamente consapevole delle vergognose implicazioni di questa Chiesa con lo Stato comunista. Allo stesso tempo era amico della Chiesa cattolica e, una volta divenuto accademico, stabilì un legame molto stretto con uno dei suoi colleghi, il domenicano padre Carré. Da giovane, nel 1936, aveva insegnato il francese nel seminario ortodosso di Curtea de Arges, poi nel liceo san Savva di Bucarest. Per un istante pensò di diventare monaco. Sarebbe stato allora perso per la letteratura e noi ringraziamo il cielo per la decisione che presero insieme e che era, per Ionesco, di rientrare nella vita secolare. La Ricerca intermittente - è il titolo dell'ultimo volume del suo diario - non ha portato a un risultato definitivo. Ionesco non ha mai potuto far affidamento su un'ortodossia dogmatica chiara e sicura. La sua ricerca ha imboccato strade che non conducono da nessuna parte. Mi accorgo che ha letto molto Barruzzi, che lo ha introdotto a san Giovanni della Croce. Barruzzi aveva un'ortodossia e persino una fede piuttosto incerte, per quel che si sa. Uno degli amici più intimi di Ionesco era Mircea Eliade. Questo studioso era un esperto della storia e della sociologia delle religioni. Si era fatto una grande reputazione in quel campo. Ai miei occhi di non esperto, non sono certo che la meritasse così tanto. Eliade, che non aveva l'animo religioso, era decisamente un comparatista, metteva tutte le religioni sullo stesso piano. Osservava fra di esse punti di convergenza o di divergenza. Era forse perché era uno studioso, ma trascinava Ionesco, suo attento lettore, sulle vie del relativismo generalizzato. Insomma, sarebbe improprio fare di Ionesco un parrocchiano tranquillo della Chiesa ortodossa o della Chiesa cattolica. Pregava però il Dio cristiano, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Le ultime righe del suo diario sono: "Pregare il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo". Ionesco morì il 28 marzo 1994. Le esequie ebbero luogo nella chiesa dei Santi Arcangeli, una delle rare vestigia del quartiere latino medievale. Si tratta in effetti della cappella dell'antico collegio di Beauvais, piuttosto in cattivo stato, come ho potuto constatare quel giorno. La liturgia ortodossa era bella, come anche gli inni. Re Michele di Romania era fra i presenti. Da quel giorno, ogni anno, vengo invitato da Marie France al panikhide - un servizio funebre celebrato sulla tomba di Eugène e di Rodica Ionesco - nel cimitero di Montparnasse, non lontano dal loro domicilio su questa terra. Mangiamo la koliva, un dolce speciale per i morti, beviamo un bicchiere di vino, e il sacerdote dice l'ufficio, corto e semplice. È un momento di pace e di gioia.
(©L'Osservatore Romano - 8-9 giugno 2009)
ELEZIONI 2009/ Giannino: dieci domande per il dopo-voto - Oscar Giannino - martedì 9 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Dieci domande, mentre i risultati elettorali amministrativi tendono a stemperare l’effetto “delusione Berlusconi” sul quale è stata misurata dai media la prima lettura del voto europeo.
Che farà D’Alema? L’arretramento generale nelle ridotte del centro Italia avvera quasi matematicamente “l’appenninizzazione” del partito che era stata profetata da Giulio Tremonti. Di fronte a questa prospettiva, D’Alema si deciderà a sostenere un candidato alla leadership incaricato di far tornare i Ds all’accordo con la sinistra antagonista, per la costruzione di un partito che miri al 25-28% dei voti con una più netta scelta socialista e di sinistra, a costo di registrare esodi di ex margheritini verso il centro e l’Udc?
Che farà l’anima più riformista del Pd? Accetterà supinamente la linea-Repubblica che, in nome della lotta a “Berlusconi-corruttore di minorenni”, in realtà ha portato acqua al mulino di Di Pietro? Tenterà di difendere ancora l’ispirazione maggioritaria che portò alla nascita del partito, facendo convergere Ds e Margherita, tentando su questa strada di dialogare con l’Udc, Fini, e la parte moderata che si è astenuta da voto anche perché diffidente delle intemperanze di Berlusconi? Accetterà una eventuale nuova leadership del Pd che sa di ritorno alla rappresentanza sociale culturale classica della sinistra postcomunista, oppure è disposta a eventuale rotture in nome do un nuovo percorso più rischiosamente incardinato verso una prospettiva di riformismo moderato?
Che farà la Cgil? Tutti ora tendono a dimenticarlo. Ma la Cgil resta la più grande organizzazione di massa della sinistra italiana. Il post Epifani terrà la barra inchiodata sul compromesso tra ex riformisti e sinistra antagonista che sin qui ha ispirato tutti i “no” del sindacato – dal nuovo modello contrattuale alla riforma Brunetta, dalle riforme Gelmini al Libro Bianco di Sacconi – e tenterà di “esportare” questo stesso modello nel Pd? Oppure sarà l’evoluzione autonoma del Pd, a influenzare la linea del sindacato di Corso Italia e a ipotecare la successione di Epifani?
E i prodiani? Quanti nel Pd odierno pensano davvero che la via sia quella del ritorno all’Ulivo e al patto con chiunque restando distinti, in nome di un programma di governo che a quel punto tornerebbe a essere dettato dai veti reciproci, più e peggio che in passato?
Come reagirà Berlusconi? La campagna personalizzata contro di lui questa volta non mette nel mirino gli argomenti tradizionali, l’accusa di essere corruttore di giustizia e tycoon che si serve della politica per difendere il suo gruppo. Sotto attacco, ci sono le virtù e la temperanza personale dell’uomo: in altre parole, prendendo atto che da 15 anni le accuse precedenti vengono disconosciute nelle urne come impedimenti a governare, questa volta si mira sotto la linea di galleggiamento della persona, per iniziare ad offuscarne la “quirinabilità”. Cioè la facoltà di candidarsi un domani al Colle più alto, lavorando in serenità per un candidato premier di continuità rispetto alla sua esperienza, leadership e paternità indiscussa della Pdl. Silvio reagirà dando una sterzata ai suoi comportamenti personali e concentrandosi ancor più in risposte efficaci ai problemi del Paese? Oppure accetterà la sfida che Repubblica gli lancia, nella speranza che le sue reazioni vadano sopra le righe e ne incrinino la credibilità?
E Di Pietro, coltiverà da solo un orto che ha tutta l’aria di potersi ancora espandere, puntando tutto sulla lotta senza esclusione di colpi a Berlusconi minaccia per il Paese? Oppure inizierà a pensare che quella strada, elettoralmente anche molto pagante finché si vota con la proporzionale, potrebbe con la legge elettorale delle politiche condurlo a una solitudine molto rischiosa? Le chanches di un accordo separato con la sinistra antagonista sono più apparenti che reali: l’antipolitica e la politica iperideologica sono in realtà, da sempre, più verbose nemiche che silenti alleate.
Esistono davvero, per l’Udc di Casini, possibilità concrete di un superamento del bipolarismo “dal centro”? L’Italia in realtà resta bipolare anche con la proporzionale delle europee, perché la crescita di Di Pietro a sinistra e della Lega nel centrodestra non ne rompono lo schema “con” o “contro” Berlusconi. Sin qui, i timidi tentativi di innervare nell’Udc un terzaforzismo tecnocratico ed elitista, variante Mieli-Montezemolo, sono rimasti sogni appannaggio di minoranze, senza seguito tra gli italiani anche se magari sostenute da prestigiose testate come il Corriere della sera, che però non possono permettersi campagne martellanti unidirezionali come ha – con risultati innegabili – fatto la Repubblica di Ezio Mauro. C’è davvero una variante di crescita del voto cattolico che torni a collocarsi al centro, e capace di un risultato a doppia cifra, pur non potendosi immaginare nel breve un cedimento secco della Pdl che da questa prova esce comunque come solidissimo primo partito italiano con più di un voto su tre?
Bossi saprà misurare le sue nuove richieste, pur se legittime per effetto dell’avanzata elettorale? In veneto, la prova di forza della Lega sulla Pdl è fallita per pochissimo. Sarà sulla Lombardia, che si appunteranno le richieste leghiste, o in alternativa il movimento inizierà a sparare a zero sull’Expò come su Malpensa? Una prima risposta verrà dall’atteggiamento che la lega terrà nei ballottaggi, a cominciare da Milano. Ma Bossi sin qui si è mostrato un politico più fino e misurato di quasi tutti gli altri, checchè si dica. A che futuro pensa? Non è che per caso ritiene di avere in serbo un leader futuro della Pdl, dopo Berlusconi, che per la Lega sarebbe garanzia di una coesistenza con la Pdl ancor più pacifica e conflittuale di quanto sin qui sia stato? Oppure la forte virata a destra europea, verso forme di rappresentanza subnazionale ed euroscettiche, indurrà il movimento a una “riscoperta delle origini”, sinchè non si capisce chi prendesse in futuro il timone della Pdl e per far che?
Fini continuerà, sulla strada imboccata recentemente della delineazione di una leadership futura della Pdl in chiave di “convergenza repubblicana”, su temi come cittadinanza, immigrati e boetica, rispetto alla leadership carismatica e volutamente divisiva che da sempre è la carta di Berlusconi per catalizzare il più dei voti moderati? Oppure diraderà le sue uscite polemiche, dandosi più tempo per capire che cosa bolle nella pentola del Pdl, e che posizione prenderà Casini?
Infine: si giocherà sino in fondo la carta del nuovo peso europeo, che il voto per Strasburgo ha affidato alla Pdl? Nei grandi Paesi fondatori, è il partito di Berlusconi quello che esce dalle urne con il maggior peso. Come confermano anche tutti i maggiori giornali europei, non più accecati dalla campagna di Repubblica, e persino critici inveterati dello stile eterodosso del premier italiano, vedi Wolfgang Munchau del Financial Times. E’ possibile pensare non solo alla guida del parlamento europeo per l’onorevole Mauro. Ma anche a una presenza nella futura Commissione europea con portafogli più importanti di quello attuale, ai Trasporti. Dipende molto da come Berlusconi si muoverà nel prossimo G8 all’Aquila, e dalla piega che in Germania prenderà la sempre più difficile coabitazione tra Angela Merkel e la sconfitta Spd, di qui al voto tedesco del prossimo autunno. Per il prestigio internazionale a Silvio serve misura e moderazione, e sarebbe la miglior risposta alla campagna di delegittimazione personale. O è solo in Italia, che il premier intende giocare la sua partita?
SOCIETÀ/ Definire l’indefinibile, quando il mondo pretende di “dettar pace” - Sante Maletta - martedì 9 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Non passa giorno che non si odano, in qualche parte del globo, squilli di guerra o di rivolta. Chi si aspettava, dopo il crollo del comunismo, un’epoca di pace e prosperità s’è dovuto presto ricredere. Il progetto di un “Nuovo ordine mondiale” ha prodotto la Prima guerra del Golfo già all’inizio degli anni Novanta. E l’11 settembre non ha fatto altro che riproporre quel progetto, legittimato questa volta (più o meno ideologicamente) dalla dottrina dello “scontro di civiltà”.
Ma la pace può essere frutto di un progetto politico e della guerra, più o meno “intelligente” e “umanitaria”? E che cos’è, in fondo, la pace? Non si tratta certo di una mera assenza di guerra: nelle nostre città non c’è guerra eppure non le percepiamo come “in pace”… E che ne è di quella “pace interiore” che tanti cercano spesso inutilmente? Insomma, si può pensare la pace in modo da comprendere tutte queste dimensioni?
Per rispondere a tali interrogativi ci faremo aiutare dai risultati di un workshop che si è svolto a Milano, presso il Museo Diocesano, il 28 maggio scorso. Filosofi, giuristi, storici e psicoanalisti sono partiti dal riconoscimento che il rischio più grosso è quello di oggettivare la pace, di fare un discorso “su” qualcosa concepito come “altro”, come esterno a sé. Non a caso il titolo del workshop (organizzato da Prologos, Associazione S. Anselmo e Communio all’interno del Progetto culturale della CEI) è stato Pensare in pace. Convivenza e giustizia. Non si tratta di “pensare la pace”, dunque, bensì di lasciarsi interrogare in prima persona, nella consapevolezza che si tratta innanzitutto di mettere in questione il rapporto che ognuno ha con se stesso.
Una rilevante conseguenza dell’oggettivazione della pace è l’idea, tipicamente moderna, che essa possa essere istituita attraverso il diritto positivo, senza il quale i vicini divengono inevitabilmente nemici. Allo stesso tempo, tuttavia, i moderni pensano la pace soprattutto attraverso la categoria di fratellanza, la quale è assai difficilmente codificabile dal punto di vista giuridico. Ma che ne è della fratellanza senza il riconoscimento di un padre comune? Non è un caso che tale categoria scompaia ben presto dalle carte costituzionali posteriori alla Rivoluzione francese. Inoltre, da un punto di vista psicoanalitico, che ne è della fratellanza e della sua pace in un’epoca in cui la figura paterna è in profonda crisi e la sua funzione si pluralizza?
È chiaro che con la questione della fratellanza si individua una dimensione pre-giuridica e pre-politica. Di fratellanza parlano le grandi religioni bibliche, le quali però sembrano generare fedi intolleranti e violente. Di ciò si occupò alle soglie della modernità Nicola Cusano – il cui pensiero è stato criticamente ripreso nel workshop. Nel De pace fidei (1453) Cusano immagina un dialogo tra fedeli di diverso “rito”. Se ognuno di loro approfondisce la propria fede scoprirà in essa la fede dell’altro. E tutto ciò è possibile se la fede fa riferimento a qualcosa di non possedibile, vale a dire il Verbo che, non a caso, presiede il simposio. Ciò significa che il prerequisito di un dialogo di pace sta nel mantenimento di un dislivello tra il punto di vista a partire da cui si parla e la Verità. Se i figli sono posti in essere da un Padre, in fondo non si può parlare che nel nome del Padre: la parola vera è la parola dell’Altro.
Se si parte da questo riconoscimento, allora il dialogo è possibile a partire non dagli elementi dottrinali ma bensì dagli effetti che la propria identità produce. È in fondo ciò che Benedetto XVI ha recentemente affermato: «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest'ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari».
In ultima istanza la questione della pace interroga la natura stessa della razionalità: solo se la ragione si riconosce come non-propria, come generata essa stessa da una verità che la precede, da un’alterità che abita la soggettività stessa, allora essa sarà capace di fare spazio al diverso, riconoscendo all’opera in lui la medesima dinamica.
A PARTIRE DALLA TRINITÀ IL P APA DÀ INDICAZIONI FASCINOSE - Mistero ragionevole che spiega come siamo fatti - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 9 giugno 2009
Davvero molto profondo e illuminante, nonostante la brevità, il discorso di Benedetto XVI che ha preceduto l’Angelus di domenica scorsa, festa della Trinità. Diceva il medievale Riccardo di san Vittore che, essendo impossibile essere felici da soli, e dato che Dio è la felicità assoluta, è ragionevole pensare che Dio non sia in se stesso una sola Persona, bensì che sia una comunione amorosa di Persone. In modo simile e complementare, il Papa ha D spiegato che Dio «Non vive in una splendida solitudine», bensì è una realtà di amore in cui «Tre Persone […] sono un solo Dio perché il Padre è amore, il Figlio è amore, lo Spirito è amore. Dio è tutto e solo amore, amore purissimo». E, come ogni Persona divina è Relazione sussistente, così (anche dal punto di vista della fisica), sia nel macrouniverso (i pianeti, le stelle, le galassie), sia nel micro-universo (le cellule, gli atomi, le particelle elementari), «In tutto ciò che esiste», ovviamente in modo diverso, «è in un certo senso impresso il 'nome' della Santissima Trinità, perché tutto l’essere, fino alle ultime particelle, è essere in relazione, e così traspare il Dio-relazione». Ma Benedetto XVI ha sottolineato (nella logica dei De Trinitate;
si pensi per esempio, a s. Agostino) che è soprattutto nell’uomo che si rintraccia il rinvio al Dio Uno e Trino: «La prova più forte che siamo fatti ad immagine della Trinità è questa: solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in relazione per amare e viviamo per essere amati». E, se nei discorsi di Pasqua il Papa aveva attinto dalla fisica, dicendo che l’uomo in comunione con Dio può portare «il giorno di Dio» nelle notti della storia e sperimentare una «nuova forza di gravità» (quella della verità e dell’amore), domenica, con una suggestiva analogia, tratta dalla biologia, ha aggiunto che «l’essere umano porta nel proprio 'genoma' la traccia profonda della Trinità, di Dio-Amore». In tal modo, Benedetto XVI non solo ha indicato (ovviamente in breve) un argomento in favore della ragionevolezza della Trinità, ma ha altresì esposto una teologia da cui ricavare indicazioni esistenziali cruciali per l’essere umano. In effetti, l’infelicità è una condizione di solitudine durevole e continuativa: è vero che abbiamo bisogno di momenti in cui stare da soli, ma un uomo che non intrattiene mai relazioni significative con alcuno è terribilmente infelice. Ci sono uomini soli che vivono in pace con se stessi, ma la loro è meramente una condizione di assenza di turbamento, di eliminazione delle possibili ferite che possono derivare dagli altri.
Tuttavia, se forse è abbastanza chiaro che essere amati da qualcuno (e da Qualcuno) è necessario per essere felici, invece è molto meno chiaro che venire amati non è una condizione sufficiente per la felicità, che ci sfugge se non imitiamo le Persone divine, che si amano reciprocamente e amano l’uomo, ci sfugge se non amiamo a nostra volta: dunque, per essere felici, anche noi dobbiamo amare anzitutto Dio, e, poi, gli altri. Ma l’incomprensione diffusissima e anche la difficoltà, che determina il fallimento di molti rapporti amicali, affettivi e coniugali, riguarda proprio l’amore, che non è solo e principalmente trasporto, attrazione, 'stare bene insieme' (tutte cose che possono sovente venir meno e su cui è errato incentrare i rapporti interpersonali), bensì consiste nel volere e cercare il bene dell’altro, nel donarsi, come fa quel Dio-Trinità che, lo ha ricordato il Papa domenica, è amore «che incessantemente si dona».
INTERVISTA. Da Dawkins a Hitchens a Harris, i nipotini di Nietzsche smantellati dal teologo americano John Haught, autore di un pamphlet - Scienza e fede, il flop dei «nuovi atei» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 9 giugno 2009
I 'nuovi atei'? Sono l’alter ego 'laico' dei creazionisti, i cristiani fondamentalisti convinti che il racconto della Genesi sia un dato scientifico assodato. Richard Dawkins, Sam Harris e Christopher Hitchens (i 'neo laici' di maggior successo) sono 'illogici e incoerenti' rispetto ai grandi pensatori atei del passato, ad esempio Nietzsche e Camus.
Alterna il fioretto dell’argomentazione e la sciabola della polemica John Haught, teologo americano di vaglia, nel suo ultimo convincente lavoro, Dio e il nuovo ateismo (Queriniana, pp. 167, euro 13,80). Senior Fellow al Science & Religion Woodstock Theological Center della Georgetown University di Washington, nei giorni scorsi Haught ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, per la sua pluridecennale ricerca sul rapporto tra teologia e scienza.
Professor Haught, nel suo saggio distingue l’ateismo 'hard-core' di Sartre, Camus e Marx, da quello 'soft-core' di Hitchens, Dawkins e Harris: qual la principale differenza?
«Gli atei 'duri' volevano che si pensasse in maniera logica alle implicazioni dell’ateismo.
Nietzsche, Sartre e Camus insistevano sul fatto che Dio non esiste e quindi non c’è una base eterna ai nostri valori etici. Se Dio non c’è, non esistono nemmeno gli assoluti! Ogni cosa è relativa e noi siamo i creatori dei nostri propri valori. Perciò gli atei 'duri' pensavano che ci volesse una coerenza enorme per essere un
«Sono l’alter ego laico dei creazionisti che mettono sotto accusa. Ma sono illogici e incoerenti e cadono nello stesso errore»
ateo, visto che non esiste più un appoggio morale. Per questo Sartre definiva l’ateismo 'un affare crudele'. La maggior parte della gente non sarebbe capace di essere veramente atea perché troppo debole nel vivere senza valori incondizionati. I 'nuovi atei' credono che certi principi siano assoluti, come la ricerca della verità scientifica oppure i diritti civili. Ma gli atei 'duri' direbbero che questi 'neo-atei' sono deboli e codardi come i credenti in Dio, dato che si aggrappano a valori assoluti».
Lei considera 'simili' i 'nuovi atei' e i creazionisti. Qual è il loro comune errore nell’approcciare il 'problema-Dio'?
«Come i creazionisti, anche Dawkins, Harris e Hitchens considerano la Bibbia incompatibile con la scienza moderna, in particolare con l’evoluzione. Al pari dei cristiani fondamentalisti essi si approcciano ai testi religiosi antichi per provare la loro pertinenza in quanto fonti di informazioni scientifiche. Ma la Bibbia non ha mai voluto essere all’origine di verità scientifiche. Ad Hitchens, ad esempio, fanno problema i racconti dell’infanzia di Gesù in Matteo e Luca. La maggior parte degli studiosi cristiani resta affascinata dall’irriducibilità narrativa di tali passi. Questi ultimi riconoscono che gli evangelisti stanno introducendo con quei testi alcuni temi poi ampliati nel corso delle loro opere. Tali racconti si preoccupano di trasformazioni spirituali, non di informazioni scientifiche. Ma Hitchens si domanda: come possono essere ispirati queste narrazioni se Matteo e Luca non concordano sui fatti storici? E finisce per definirli 'una frode immorale'. Anche Dawkins condivide con Hitchens un certo gusto litteralistico a livello esegetico. Egli però non vedrebbe nessun contrasto tra la Genesi e l’evoluzione se non condividesse con i creazionisti l’aspettativa che una Bibbia veramente ispirata potrebbe essere una fonte di affidabili informazioni scientifiche.
Ancora più penoso il caso di Harris, il quale si domanda come mai la Bibbia, se è 'scritta da Dio', non possa essere 'la fonte più ricca a livello matematico che l’umanità abbia mai conosciuto'. Per lui, se la Bibbia è ispirata, avrebbe dovuto dirci qualcosa 'sull’elettricità, sul Dna o sull’attuale misura dell’universo'».
È preoccupato dalla diffusione di questo 'nuovo ateismo'?
«Il problema è che la maggior parte delle persone non possiede una preparazione teologica per rispondere ai 'nuovi atei'. Gli operatori di media, poi, non sanno come valutare i loro scritti dal momento che non hanno riferimenti teologici o filosofici. I lettori possono facilmente essere d’accordo con i 'nuovi atei' visto che gli scandali tra i preti o gli attentatori suicidi in nome di Dio sono fatti che capitano tutti i giorni. Per molte persone questo è il lato più visibile della religione. Ho scritto il mio libro come un piccolo tentativo per mostrare che c’è molto di più di questo 'lato oscuro' nella religione, e che esistono risposte positive e teologicamente elaborate al 'nuovo ateismo', così come all’ateismo 'duro' di cui si diceva».
A suo giudizio, c’è una risposta specificatamente 'cattolica' ai 'nuovi atei'?
«Sì. Anzitutto, sarebbe necessario che la Chiesa e i suoi membri confessassero il proprio coinvolgimento nei peccati che i 'nuovi atei' elencano in maniera fervorosa (e anche divertita). Una confessione come questa sarebbe una testimonianza potente della
«Ma i cristiani devono essere più avveduti: la maggior parte non ha un’adeguata preparazione teologica e scientifica»
nostra professione di fede più fondamentale, ovvero che il mondo è avvolto in una bontà e in un amore infinito, una bontà che il nostro peccato ha offeso e oscurato: in questo modo il nuovo ateismo troverebbe fiducia e giustificazione.
Però possiamo notare che, ironicamente, gli stessi atei testimoniano questa stessa dimensione di bontà nell’accusare i cristiani di immoralità. In che modo potrebbero esseri sicuri che i credenti sono cattivi senza essere toccati dalla bontà che stabilisce i criteri della loro stessa accusa? I cattolici chiamano Dio la fonte di questa bontà».
Florenskij, il Pascal delle steppe – inedito: Una delle ultime lezioni di padre Aleksandr Men’, il pope russo assassinato nel settembre 1990, fu dedicata al «collega» fucilato dai comunisti nel 1937 - DI ALEKSANDR MEN’ – Avvenire, 9 giugno 2009
Florenskij era legato all’Università di Mosca, ai progetti e agli istituti per l’elettrificazione del Paese, inoltre era professore dell’Accademia teologica di Mosca, docente di Storia della filosofia; al tempo stesso era redattore della rivista
Bogoslovskij vestnik. La molteplicità di interessi era emersa in lui sin dall’infanzia, lo chiamavano « il Leonardo da Vinci russo». Ma quando diciamo Leonardo da Vinci ci viene in mente un maestoso vegliardo, che guarda l’umanità dall’alto dei suoi anni. Florenskij, invece, è morto giovane. Era scomparso. Arrestato nel 1933, era sparito e i suoi familiari, moglie e figli, non sapevano dove fosse, né cosa gli fosse accaduto: lo ignorarono per molto tempo, perché nel 1937 gli avevano tolto il diritto di corrispondenza. Mi ricordo quando con la mamma camminavo per Zagorsk, in tempo di guerra, lei salutava la moglie di Florenskij e diceva: «Questa donna sta portando un’enorme croce». E mi spiegava che non sapeva cosa fosse accaduto al marito. Anche mio padre a quel tempo era appena stato liberato dalla detenzione e io, sebbene fossi abbastanza giovane, capivo cosa voleva dire. In realtà, a quell’epoca Florenskij ormai era già morto. Ai tempi di Chrušcëv, nel 1958, sua moglie aveva chiesto la riabilitazione, e aveva ricevuto un certificato in cui si attestava che Florenskij era morto nel 1943, ossia alla fine della condanna. Infatti nel 1933 gli avevano dato 10 anni, come a un pericoloso delinquente.
Sì, quando io e la mamma parlavamo della sua sorte, lui ormai non c’era già più. Il certificato di morte i familiari l’hanno ricevuto solo nel novembre 1989. «Il cittadino Florenskij Pavel Aleksandrovic è deceduto 1’8 dicembre 1937... Età: 55 anni (non è vero, ne aveva 56). Causa del decesso: fucilazione.
Luogo del decesso: regione di Leningrado». Un uomo che, alcuni mesi prima, trovandosi ai lavori forzati in condizioni infernali, proseguiva attivamente il suo lavoro di ricerca; un uomo che aveva una profonda vita spirituale, intellettuale, che trasmetteva ai figli le sue ricche conoscenze. Fino al 1937, infatti, ebbe il permesso di scrivere, e vi furono persino dei momenti in cui la famiglia poté andarlo a trovare. Di un uomo come lui può andare fiera qualsiasi civiltà: sta sullo stesso piano di Pascal, di Teilhard de Chardin, di molti studiosi e pensatori di tutti i tempi e i popoli.
F ra i filosofi russi, Florenskij era il più apolitico. Tutto immerso nei suoi pensieri, nel suo lavoro, stava sempre un po’ in disparte dalla vita pubblica. Era innocente e il Paese aveva bisogno di lui: come ingegnere, come scienziato, come lavoratore disinteressato. Eppure, preferirono fucilarlo. Assieme al certificato, il Kgb ha consegnato ai familiari la copia della sentenza. C’è anche una fotografia allegata: un uomo con il volto segnato dalle percosse, che ha toccato il fondo, perché lo hanno straziato e torturato. Ecco in che epoca siamo vissuti.
Padre Pavel viveva come in un mondo a sé. Comprendeva più la natura che le persone. Aveva una predilezione per le pietre, le piante, i colori: in questo senso assomiglia molto a Teilhard de Chardin, che pure, da bambino, provava tenerezza per la materia, era, oserei dire, innamorato della materia. Per Florenskij questo era iniziato dall’infanzia. Forse il mondo delle persone gli era persino estraneo e talvolta opprimente. Un certo dottor Bochgol’c, ortodosso fervente, aveva incominciato a compilare con Florenskij un vocabolario dei simboli, e qualcuno gli aveva chiesto che cosa avesse in comune con quell’uomo, e Bochgol’c aveva risposto che nessuno dei due amava gli uomini. Certo, lui parlava per sé, di Florenskij è difficile poter dire una cosa del genere. Oggi, leggendo le lettere di padre Pavel ai propri cari, alla moglie, ai figli, possiamo constatare quale enorme tesoro di tenerezza, di attenzione, di amore autentico e meraviglioso custodisse il suo cuore. E tuttavia, non era un cuore spalancato ma, al contrario, piuttosto chiuso, nel quale più di una volta si erano aperte delle spaccature dolorose.
Almeno tre profonde crisi interiori colpirono la vita di Pavel. La prima fu una crisi salutare, nel periodo della giovinezza, quando Florenskij, cresciuto in una famiglia non religiosa, lontana dalla Chiesa, a un certo punto comprese l’inconsistenza della visione materialistica del mondo e si mise a cercare appassionatamente una via d’uscita. Vi fu un’altra grave crisi, per così dire personale, quando cercò di compiere da sé la propria vita. Per uno come lui non era affatto semplice portare il proprio fardello, il peso di se stesso. U n suo conoscente mi ha raccontato che Florenskij gli aveva detto, scherzando, che dal punto di vista logico era in grado di dimostrare, e in modo molto convincente, cose assolutamente contraddittorie. Il suo intelletto era una macchina colossale, ma al tempo stesso Florenskij non era solo un uomo astratto, era un uomo profondamente appassionato, un teorico. Berdjaev ricorda di aver visto Florenskij da giovane in un monastero, da uno starec dove lo avevano portato alcuni amici devoti: stava in piedi in mezzo alla chiesa e piangeva, singhiozzando... Una vita tutt’altro che semplice, la sua.
Infine, a 42 anni, sopraggiunse un’altra crisi, quando Florenskij stava scrivendo uno studio critico in cui avanzava una serie di tesi che suscitarono la dura reazione dei suoi amici ultraortodossi. La critica lo aveva messo così in subbuglio, che padre Pavel aveva detto: «Non scriverò più niente di teologia». Non doveva essere stato semplice, per un uomo come lui, autore di un libro celebre come La colonna e il fondamento della verità, lasciarsi sfuggire un’espressione del genere.
Era una persona difficile e contraddittoria, padre Pavel. Si era laureato brillantemente in matematica all’Università di Mosca, dove aveva subito ottenuto una cattedra. La matematica era per lui come il fondamento dell’universo. Alla fine, era arrivato a pensare che tutta la natura visibile, in sostanza, può essere ri- dotta a punti d’appoggio invisibili. Per questo amava tanto Platone, infatti per quest’ultimo l’invisibile è la fonte di ciò che è visibile. Florenskij amò, studiò, commentò Platone per tutta la vita.
Negli anni in cui era studente, Florenskij fu molto influenzato da Vladimir Solov’ëv. Bisogna dire che entrambi erano platonici, che a entrambi stava a cuore il problema del fondamento spirituale dell’essere e il tema misterioso della Sofia-Sapienza Divina. Forse per questo Florenskij cercava di prendere le distanze da Solov’ëv, quasi non lo cita e – se lo cita – lo fa in modo critico. Eppure, nella storia del pensiero i due sono molto vicini, molto più di quanto lo stesso Florenskij potesse sospettare.
L a matematica non rimase la sua preferita per tutta la vita. Florenskij abbandonò la scienza, si trasferì a Sergiev Posad ed entrò all’Accademia teologica. Andrej Belyj, che l’aveva conosciuto in quegli anni, parla con tenerezza e ironia di questo giovane dai capelli lunghi; dice che lo chiamavano «il naso coi riccioli », perché Florenskij aveva un viso olivastro, ereditato dalla madre armena, un naso come quello di Gogol’ e lunghi capelli ondulati. Era basso di statura e di costituzione esile. Parlava a bassa voce, soprattutto dopo essersi stabilito nel monastero: senza volere aveva fatto proprio il comportamento monastico. Quando nel 1909 venne inaugurato il monumento a Gogol’, quando fu tolto il drappo un uomo esclamò: «Ma questo è Pavlik!». In effetti, la figura curva, i capelli, il naso somigliavano straordinariamente a quelli di Florenskij.
S Lo scrittore religioso Sergej Fudel’, figlio del noto sacerdote moscovita Iosif Fudel’, da giovane aveva conosciuto Florenskij. Mi descriveva il suo aspetto esteriore, i suoi gesti, e diceva che assomigliava a un affresco egiziano che aveva preso vita. Raccontava che poteva ascoltarlo a lungo quando parlava con suo padre a voce sommessa. Non era sempre chiaro di cosa stessero parlando, nei loro discorsi si mescolavano tanti argomenti: la moda femminile, che era un indicatore preciso dello stile della civiltà del tempo; le esperienze occulte; il mistero dei colori delle icone; i significati profondi delle parole. Florenskij conservò per tutta la vita un interesse filologico e filosofico per il significato delle parole.
ergej Fudel’ mi raccontava che quando, nel 1914, aveva letto La colonna e il fondamento della verità, era ritornato nella Chiesa, interiormente. Perché nello spirito viveva in una sorta di bohème simbolica, e il mondo della Chiesa gli sembrava antiquato, fossilizzato, quasi uscito da una commedia di Ostrovskij. Ma improvvisamente si era accorto che della Chiesa si poteva scrivere in modo raffinato, come facevano i simbolisti, come faceva Andrej Belyj. Posso confermarlo sul mio esempio personale. Ero studente del primo anno, quando lessi per la prima volta La colonna (era l’anno della morte di Stalin). Il libro mi colpì, e mi colpì proprio perché, esattamente come Solov’ëv, Florenskij si presentava come uno che si trova ai vertici della cultura, e non come uno che ci era arrivato per vie traverse e ne usava i frutti per i propri scopi. Come uno che era lui stesso cultura. Florenskij e Solov’ëv erano la cultura stessa fatta persona. E la cultura rende testimonianza alla Chiesa, a Cristo, al cristianesimo.