Nella rassegna stampa di oggi:
1) 14/06/2009 12:16 – VATICANO - Papa: Corpus Domini, “Pane della vita” e dell'amore; fame nel mondo realtà inaccettabile - La festa del Corpus Domini afferma che in Gesù “l’amore esiste, e poiché esiste, le cose possono cambiare in meglio e noi possiamo sperare”. Essa ha anche dimensioni cosmiche, ricordando l’abbondanza dei frutti dell’estate. Auspici perché all’Onu si affronti la crisi economica in spirito di solidarietà coi Paesi più poveri e per debellare la fame nel mondo. Una preghiera per l’Anno sacerdotale che comincia venerdì 19 giugno, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù.
2) l’evento Macerata-Loreto, 80mila «mendicanti» nella notte - DAL NOSTRO INVIATO A MACERATA - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 14 giugno 2009
3) 13/06/2009 13:14 – VATICANO Papa: la crisi mostra che servono regole per orientare l’economia al bene comune - Benedetto XVI parla della “prossima” pubblicazione della sua enciclica che affronterà i temi economici e del lavoro e ripete le parole di Giovanni Paolo II: “la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti”.
4) In un libro di Benedetto XVI - Coscienza e verità - di Lucetta Scaraffia – L’Osservatore Romano, 14 Giugno 2009
5) Il sacrificio glorioso dell'Eucaristia - Un amore paziente
e intramontabile - -di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 14 Giugno 2009
6) Presentato all'Istituto Sturzo il volume «In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia» - I silenzi degli altri - E Paolo Mieli ripete con forza: «I miei morti non li metto in conto a un non colpevole» - di Raffaele Alessandrini – L’Osservatore Romano, 14 giugno 2009
7) LA DECISIONE DEL TRIBUNALE DI FIRENZE SOLLEVA PROBLEMI VERI - Se il matrimonio è una cosa seria il divorzio non può essere breve - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 giugno 2009
8) Progetto Gemma - «La disperazione di dire a quelle donne che neanche noi possiamo più aiutarle» - DA MILANO – Avvenire, 14 giugno 2009
9) Difesa della vita, strappo dei medici - Sì a maggioranza alla possibilità di dire no alla nutrizione - DAL NOSTRO INVIATO A TERNI ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 14 giugno 2009
14/06/2009 12:16 – VATICANO - Papa: Corpus Domini, “Pane della vita” e dell'amore; fame nel mondo realtà inaccettabile - La festa del Corpus Domini afferma che in Gesù “l’amore esiste, e poiché esiste, le cose possono cambiare in meglio e noi possiamo sperare”. Essa ha anche dimensioni cosmiche, ricordando l’abbondanza dei frutti dell’estate. Auspici perché all’Onu si affronti la crisi economica in spirito di solidarietà coi Paesi più poveri e per debellare la fame nel mondo. Una preghiera per l’Anno sacerdotale che comincia venerdì 19 giugno, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Una riflessione sul “Pane della vita”, il Corpo del Signore che la Chiesa celebra oggi, segno dell’amore di Gesù che trasforma il mondo; un appello all’Onu perché nella prossima conferenza spinga tutte le istituzioni internazionali a debellare la fame sofferta da centinaia di milioni di esseri umani: questi i temi fondamentali delle parole di Benedetto XVI prima e dopo l’Angelus recitato insieme ai circa 15 mila pellegrini presenti oggi in piazza san Pietro.
Il pontefice ha anche domandato a tutti i fedeli di seguire con la preghiera l’Anno sacerdotale, che inizia con la solennità del Sacro Cuore di Gesù, il 19 giugno scorso, festa della santificazione dei sacerdoti.
“Il Corpus Domini – ha detto il papa - è una manifestazione di Dio, un’attestazione che Dio è amore. In un modo unico e peculiare, questa festa ci parla dell’amore divino, di ciò che è e di ciò che fa. Ci dice, ad esempio, che esso si rigenera nel donarsi, si riceve nel darsi, non viene meno e non si consuma – come canta un inno di san Tommaso d’Aquino: ‘nec sumptus consumitur’. L’amore trasforma ogni cosa, e dunque si capisce che al centro dell’odierna festa del Corpus Domini ci sia il mistero della transustanziazione, segno di Gesù-Carità che trasforma il mondo. Guardando Lui e adorandoLo, noi diciamo: sì, l’amore esiste, e poiché esiste, le cose possono cambiare in meglio e noi possiamo sperare. È la speranza che proviene dall’amore di Cristo a darci la forza di vivere e di affrontare le difficoltà. Per questo cantiamo, mentre portiamo in processione il Santissimo Sacramento; cantiamo e lodiamo Dio che si è rivelato nascondendosi nel segno del pane spezzato. Di questo Pane abbiamo tutti bisogno, perché lungo e faticoso è il cammino verso la libertà, la giustizia e la pace”.
Benedetto XVI ha anche spiegato la “dimensione cosmica” della festa del Corpus Domini: “Il Corpus Domini – ha continuato - è un giorno che coinvolge la dimensione cosmica, il cielo e la terra. Evoca prima di tutto – almeno nel nostro emisfero – questa stagione così bella e profumata in cui la primavera volge ormai all’estate, il sole è forte nel cielo e nei campi matura il frumento. Le feste della Chiesa – come quelle ebraiche – hanno a che fare con il ritmo dell’anno solare, della semina e del raccolto. In particolare, questo risalta nella solennità odierna, al cui centro sta il segno del pane, frutto della terra e del cielo. Perciò il pane eucaristico è il segno visibile di Colui nel quale cielo e terra, Dio e uomo sono diventati una cosa sola. E questo mostra che il rapporto con le stagioni non è per l’anno liturgico qualche cosa di meramente esteriore”.
Dopo la preghiera mariana Benedetto XVI ha messo in relazione il “Pane di Vita” che si celebra oggi con un ricordo delle “centinaia di milioni di persone che soffrono la fame”. Questo – ha continuato il pontefice - “è una realtà assolutamente inaccettabile, che stenta a ridimensionarsi malgrado gli sforzi degli ultimi decenni. Auspico, dunque, che in occasione della prossima Conferenza ONU e in sede delle istituzioni internazionali siano assunti provvedimenti condivisi dall’intera comunità internazionale e vengano compiute quelle scelte strategiche, talvolta non facili da accettare, che sono necessarie per assicurare a tutti, nel presente e nel futuro, gli alimenti fondamentali e una vita dignitosa”.
L’appello del papa all’Onu ha un motivo urgente, da lui spiegato: “Nei giorni 24-26 di questo mese si terrà a New York la Conferenza delle Nazioni Unite sulla crisi economica e finanziaria ed il suo impatto sullo sviluppo. Invoco sui partecipanti alla Conferenza, come pure sui responsabili della cosa pubblica e delle sorti del pianeta, lo spirito di sapienza e di umana solidarietà, affinché l’attuale crisi si trasformi in opportunità, capace di favorire una maggiore attenzione alla dignità di ogni persona umana e promuovere un’equa distribuzione del potere decisionale e delle risorse, con particolare attenzione al numero, purtroppo sempre crescente, dei poveri”.
Prima dei saluti nelle diverse lingue, Benedetto XVI ha ricordato a tutti l’inizio dell’Anno sacerdotale, con la solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, il 19 giugno prossimo. L’Anno sacerdotale, voluto dal papa per sostenere la vocazione dei sacerdoti, cade in coincidenza del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars (Giovanni maria Vianney). “Affido alle vostre preghiere – ha detto il papa - questa nuova iniziativa spirituale, che seguirà l’Anno Paolino ormai avviato verso la sua conclusione. Possa questo nuovo anno giubilare costituire un’occasione propizia per approfondire il valore e l’importanza della missione sacerdotale e per domandare al Signore di far dono alla sua Chiesa di numerosi e santi sacerdoti”.
l’evento Macerata-Loreto, 80mila «mendicanti» nella notte - DAL NOSTRO INVIATO A MACERATA - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 14 giugno 2009
«D ite ai giovani di avere tanto coraggio nel guardare al futuro, perché il Signore cammina con loro», aveva detto mercoledì Benedetto XVI in piazza San Pietro, accendendo la fiaccola della pace. La stessa fiaccola che ieri sera, dopo aver percorso il martoriato Abruzzo, ha fatto il suo ingresso tra le mani del tedoforo in un festante stadio Helvia Recina di Macerata, tra gli applausi degli 80mila pellegrini giunti da tutta Italia e dall’estero proprio per mettersi in cammino.
Da molte ore preghiere e canti si alternavano, mentre i pullman riversavano i partecipanti al 31° pellegrinaggio a piedi Macerata Loreto. Appuntamento alle 18 per ritrovarsi tutti assieme, poi ascoltare i testimoni e infine, alle 21, partecipare alla Messa celebrata dall’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe, prima di partire per il lungo cammino notturno: l’arrivo stamani alle 6, dopo quasi trenta chilometri, al Santuario della Santa Casa di Loreto. «Dite ai giovani che il Signore cammina con loro», aveva detto il Papa. E qui giovani sono tutti, anche chi si appresta a marciare per la trentunesima volta e con sé ora porta i nipoti, come sottolinea nell’omelia lo stesso Sepe: «Il pellegrino è giovane dentro prescindendo dall’età anagrafica – dice – perché non si ferma, non si appaga, va alla ricerca di mete che portino per quanto possibile oltre l’umano e il normale». Così il popolo in cammino trova nelle sue parole il senso pieno di ciò che si appresta a fare: «Siete voi, cari giovani, i più autentici protagonisti, per il vostro entusiasmo, per la voglia di scoprire il nuovo, per la caparbietà con la quale sapete raggiungere obiettivi e traguardi». Lo sguardo non può ora non rivolgersi commosso alla «curva» dei tanti pellegrini giunti dalle tendopoli dei terremotati d’Abruzzo: sono loro, quest’anno, a rivestire il ruolo di ospiti d’onore, veri protagonisti della Macerata-Loreto, perché «la fede non crolla ». Struggenti prima della Messa le voci dei loro cori: «Luntane cchiù luntane de li luntane stelle, luce la luce cchiù belle...», avevano promesso a tutti, più lontano delle stelle lontane brilla la Luce più bella. E lo ricanteranno nella notte, mentre il fiume dei pellegrini in viaggio romperà per ore il buio delle tenebre con la luce di quarantamila candele. Particolarmente attesa era la parola dell’arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Molinari, che nemmeno stavolta ha lasciato solo il suo popolo e ha fatto il suo ingresso nello stadio accolto dal saluto di Claudio Giuliodori, vescovo di Macerata-Tolentino Recanati-Cingoli-Treia, insieme ai vescovi della Conferenza episcopale marchigiana presieduti dall’arcivescovo di Fermo, Luigi Conti: «Vi siamo particolarmente vicini con la preghiera e con l’affetto – ha detto Giuliodori –. Ricordiamo con voi le vittime del terremoto e vi sosteniamo nell’impegnativa opera di ricostruzione ». A dare un senso anche alla tragedia, imperscrutabile allo sguardo umano, era stato poco prima un dirigente d’azienda abruzzese, Marco Gentile: «Le circostanze non sono un caso – aveva ammonito, citando le parole di don Julian Carròn, presidente di Comunione e liberazione –. Quando perdi tutto quello che hai, casa, soldi, salute, cari, lavoro, futuro, emerge prepotentemente una domanda di senso per te, cui tu – e te ne rendi conto benissimo – non puoi rispondere. E allora la risposta cominci a cercarla per davvero».
È ciò che hanno fatto anche in questa lunga notte gli 80mila «mendicanti», ovvero coloro che – ha sottolineato Sepe – hanno ancora la capacità «di non sentirsi mai arrivati, ma di rimanere cercatori di una patria lontana». Persone che non si fermano, perché coltivano la grande nostalgia della casa del Padre.
Nel 1978, quando per la prima volta Giancarlo Vecerrica, oggi vescovo di Fabriano-Matelica, ideò il pellegrinaggio di Cl, ad aderire furono in trecento. Il bene sa essere più contagioso del male e oggi sono cresciuti. Su tutti è giunta la benedizione del Papa, «spiritualmente presente» in cammino con loro.
Ha preso il via ieri sera la 31ª edizione del pellegrinaggio.
Con l’arcivescovo Molinari molti partecipanti abruzzesi. Sepe: «Noi, cercatori di una patria lontana, non ci sentiamo mai arrivati»
13/06/2009 13:14 – VATICANO Papa: la crisi mostra che servono regole per orientare l’economia al bene comune - Benedetto XVI parla della “prossima” pubblicazione della sua enciclica che affronterà i temi economici e del lavoro e ripete le parole di Giovanni Paolo II: “la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti”.
Città del Vaticano (AsiaNews) - La crisi economica che ha colpito tutto il mondo, dimostra che vanno superati valori e regole che hanno retto in questi ultimi anni l’economia, a favore di una concezione “rispettosa dei bisogni e dei diritti dei deboli”, tema che Benedetto XVI approfondirà della sua enciclica di “prossima” pubblicazione. E’ stato lo stesso Papa a parlarne, oggi, specificando che nel documento “verranno posti in evidenza quelli che per noi cristiani sono gli obbiettivi da perseguire e i valori da promuovere e difendere instancabilmente, al fine di realizzare una convivenza umana veramente libera e solidale”.
Occasione per Benedetto XVI di tornare ad affrontare il tema della crisi economica globale e soprattutto del modello di sviluppo che l’ha provocata, è stato l’odierno incontro, in Vaticano, con i membri della Fondazione “Centesimus Annus - Pro Pontifice”, al termine della loro annuale riunione.
“L’odierno nostro incontro assume un significato e un valore particolare alla luce della situazione che vive in questo momento l’intera umanità. In effetti, la crisi finanziaria ed economica che ha colpito i Paesi industrializzati, quelli emergenti e quelli in via di sviluppo, mostra in modo evidente come siano da ripensare certi paradigmi economico-finanziari che sono stati dominanti negli ultimi anni”.
“Sono lieto di apprendere – ha proseguito - che avete esaminato, in particolare, le interdipendenze tra istituzioni, società e mercato partendo, in accordo con l’Enciclica Centesimus annus del mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, dalla riflessione secondo la quale l’economia di mercato, intesa quale ‘sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia’ (n. 42), può essere riconosciuta come via di progresso economico e civile solo se orientata al bene comune (cfr n. 43). Tale visione però deve anche accompagnarsi all’altra riflessione secondo la quale la libertà nel settore dell’economia deve inquadrarsi ‘in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale’, una libertà responsabile ‘il cui centro è etico e religioso’ (n. 42). Opportunamente l’Enciclica menzionata afferma: ‘Come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti’ (n. 43)”.
“Come sapete – ha detto infine - verrà prossimamente pubblicata la mia Enciclica dedicata proprio al vasto tema dell’economia e del lavoro: in essa verranno posti in evidenza quelli che per noi cristiani sono gli obbiettivi da perseguire e i valori da promuovere e difendere instancabilmente, al fine di realizzare una convivenza umana veramente libera e solidale”.
In un libro di Benedetto XVI - Coscienza e verità - di Lucetta Scaraffia – L’Osservatore Romano, 14 Giugno 2009
Non è certo una novità che il Papa intervenga per rendere più chiara ai fedeli la comprensione dei problemi del tempo in cui vivono, ma possiamo dire senza timore di esagerare che nessuno l'ha fatto con l'acutezza e la profondità di Benedetto XVI. Al punto che i suoi scritti dedicati alla lettura critica del presente sono ormai considerati dei classici che possono - e dovrebbero - interessare quanti vogliano capire meglio l'epoca in cui vivono, e non solo i cattolici. Proprio per questo sono particolarmente illuminanti i saggi raccolti in un libro da poco pubblicato in Italia (Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, L'elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Siena, Cantagalli, 2009, pagine 175, euro 13,50). Con il consueto stile limpido e semplice, di quella semplicità che raggiunge solo il pensiero sedimentato e profondo, l'autore vi affronta i principali problemi teorici del nostro tempo, denunciandone i limiti e le manipolazioni, e proponendo una risposta chiara, tratta dal tesoro della tradizione cristiana. Tutti gli scritti ruotano intorno a due questioni intimamente legate: la coscienza e la verità, entrambe cancellate dalla cultura contemporanea, che le sostituisce con la soggettività e il relativismo, pensando di garantire in questo modo la libertà individuale, unico vero feticcio moderno. Nel primo saggio, L'elogio della coscienza, viene chiarito un tema complesso e mistificato, quello cioè del ruolo della coscienza. In una cultura che tende a contrapporre una "morale della coscienza" a una "morale dell'autorità", slegando il problema della coscienza da quello della verità, l'unica garanzia di libertà appare essere la giustificazione della soggettività, mentre l'autorità sembra "restringere, minacciare o addirittura negare tale libertà". Qui tocchiamo il punto veramente critico della modernità: "L'idea della verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di progresso" che però, in apparenza esaltato, viene invece privato di ogni direzione. In un mondo senza punti fissi di riferimento, senza verità, non ci sono più direzioni. La rinuncia ad ammettere che, per l'essere umano, sia possibile conoscere la verità conduce al disinteresse per i contenuti, per dare la preminenza alla tecnica, alla formalità. Un esempio chiaro in questo senso è quello dell'arte: oggi "ciò che l'opera esprime è del tutto indifferente: l'unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale". Vivendo in una società che influenza e condiziona gli individui, è difficile sentire quella che veniva considerata "la voce della coscienza", cioè "la presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all'interno del soggetto stesso". Anche se la via alla verità e al bene è stata abbandonata perché ardua, scomoda, considerata troppo difficile da seguire, non per questo dobbiamo rinunciarvi: "dissolveremmo il cristianesimo in un moralismo se non fosse chiaro un annuncio che supera il nostro proprio fare". In queste condizioni, la stessa verità del bene diventa inattingibile, perché l'unico riferimento per ciascuno è ciò che egli può da solo concepire come bene, rinunciando così a quel minimo di diritti oggettivamente fondati, non accordati tramite convenzioni sociali, sui quali soli si può fondare l'esistenza di ogni comunità politica. In sostanza, dove Dio scompare, "scompare anche la dignità assoluta della persona umana", e la dignità di ognuno non viene più a dipendere dal solo fatto di esistere, per essere stato voluto e creato da Dio. Ecco perché "la radice ultima dell'odio e di tutti gli attacchi contro la vita umana è la perdita di Dio". Benedetto XVI rivela una delle sue preoccupazioni principali, che ha varie volte ripetuta: il timore che la nozione moderna di democrazia non sappia emanciparsi dall'opzione relativista, in un mondo in cui il relativismo appare come l'unica garanzia della libertà. Mentre il Papa sa bene e ripete senza sosta che "un fondamento di verità - di verità in senso morale - appare irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia". E non dobbiamo dimenticare che, di fatto, "tutti gli stati hanno attinto le evidenze morali razionali - permettendo loro di dispiegare i propri effetti - dalle tradizioni religiose ad essi preesistenti". Di frequente Benedetto XVI ritorna sul tema della ricerca della verità: "Se Dio è la verità, se la verità è il vero "sacro", la rinuncia alla verità diventa una fuga da Dio". Persino quando avviene all'interno di una confessione religiosa perché - denuncia il Papa - esiste anche un "positivismo fideista" che "ha paura di perdere Dio nell'esporsi alla verità delle creature". La verità è il presupposto fondamentale di ogni morale, ma se invece il criterio dell'utilità o del risultato, sostenuto da correnti di teoria politica affermate, prende il posto della verità, il mondo si frantuma in tante parzialità, perché l'utilità dipende sempre dal punto di vista del soggetto che agisce. Cosa significa allora fare il teologo, in questa situazione culturale? E come si può pensare una nuova evangelizzazione? A queste domande rispondono in modo inedito ed esauriente gli ultimi saggi di un volume che si rivela fondamentale per comprendere il mondo di oggi, e per vivervi da cristiano. Peccato che l'editore a cui si deve l'ammirevole iniziativa di avere raccolto questi testi li abbia pubblicati senza precisare quando sono stati scritti, se dal cardinale Ratzinger o dal Papa. Come se per il lettore questa precisazione fosse irrilevante.
(©L'Osservatore Romano - 14 giugno 2009)
Il sacrificio glorioso dell'Eucaristia - Un amore paziente
e intramontabile - -di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 14 Giugno 2009
L'Eucaristia è il sacramento del sacrificio di Gesù Cristo. Per comprenderla occorre richiamare insieme l'Ultima Cena e l'immolazione della croce con la sua dimensione di gloria. Nell'Ultima Cena Gesù porta a compimento l'antica Pasqua ebraica e la converte nella Pasqua cristiana, dove alla consumazione dell'antico agnello subentra quella del suo "Corpo dato", e il calice del vino è sostituito dal calice del suo "Sangue versato", suggello della nuova alleanza (Luca, 22, 19-20). Nasce, così, il sacramento della "cena del Signore" (I Corinzi, 12, 20), che i discepoli consumeranno in memoria di lui e secondo il suo mandato: "Fate questo in memoria di me" (Luca, 22, 19). Ma, se nell'Ultima Cena il pane spezzato e offerto da Gesù è il suo "Corpo dato", e il calice da lui fatto passare è il calice del "sangue versato" vuol dire che gli apostoli prendono già parte al suo sacrificio, oggettivamente presente in forma "profetica". Storicamente esso non era ancora avvenuto: quella era la "notte in cui veniva tradito" (1 Corinzi, 11, 23); l'immolazione di Gesù sarebbe venuta successivamente sul Calvario. Ed è puntualmente questa immolazione in croce che si deve considerare per comprendere sia la "realtà" del rito eucaristico istituito nella cena pasquale ardentemente desiderata (Luca, 22, 14), sia la ragione della sua ripresentazione sacramentale. Per questo è guida ispirata particolarmente la splendida e acuta Lettera agli Ebrei, con la sua dottrina sulla "perfezione" del sacrificio di Cristo: una dottrina che la teologia forse non ha sufficientemente e coerentemente illustrato. L'immolazione della croce scioglie e consuma il valore transitorio di tutti i sacrifici levitici, per imporsi e risaltare come il sacrificio perfetto e intramontabile. I primi erano precari e destinati a ripetersi: I sacerdoti che li compivano erano, infatti, segnati dalla mortalità (per cui dovevano essere sostituiti) e insieme dalla debolezza (per cui quei sacrifici si esaurivano e dovevano essere ripetuti). Erano sacrifici imperfetti, privi di valore permanente: incapaci di operare una purificazione definitiva, si stemperavano nel tempo. Al contrario, il sacerdote della nuova alleanza, Gesù Cristo, non è attraversato dalla mortalità, non è affetto da debolezza, non è compromesso con il peccato, che, per il suo ripetersi, richiede il rinnovarsi del sacrificio di purificazione. Gesù è un sacerdote - si legge nella Lettera agli Ebrei - "santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli; egli non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso" (Ebrei, 7, 26-27). Nella nuova alleanza il primo sacrificio è abolito e ne è stabilito uno "nuovo" (10, 9), e sia il sacerdote sia il sacrificio risultano perfetti e non passano. Immolando se stesso, Gesù, Sommo Sacerdote, Figlio di Dio, conferisce alla sua offerta, che non è più carnale ma "spirituale", un valore che non si consuma. Essa non è composta di puri elementi storici per loro natura destinati a passare, ma è in grado di oltrepassare la momentaneità: "Noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre" (Ebrei, 10, 10). Questa offerta è dunque inestinguibile, non "catturata" e non prigioniera di un momento del tempo, bensì comprensiva e aperta su tutti i tempi e su tutti i luoghi. Noi diremmo: sempre "attraente" e "trascendente" in quanto procurata da Cristo con "il proprio sangue". Rileggendo e trasformando la liturgia del giorno dell'espiazione, l'autore della Lettera agli Ebrei afferma: "Cristo, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna" (9, 11-12). "Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui" (Ebrei, 9, 24-25); egli "una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso" (v. 26). Quello di Cristo appare, così, un sacrificio "celeste", ossia un sacrificio perennemente presente dinanzi a Dio, un'offerta permanente, che i sacrifici terrestri solo raffiguravano (Ebrei, 9, 23). Commenta un esegeta: "Alla presenza della scekina egli non offre sacrificio nuovo alcuno. Quella donazione, una e unica, continua" (Cesare Marcheselli-Casale). Importa sottolinearlo: l'unico sacrificio di Cristo è quello della croce - "punto d'arrivo di tutto un decorso di esistenza in se stessa già redentiva" - ma esso "già allora portava in sé tutto il potenziale del sacrificio celeste". A essere radicalmente "celeste" è lo stesso sacrificio della croce. "La morte sacrificale di Cristo - osserva un altro esegeta - non è un atto distinto dalla sua comparsa al cospetto di Dio" (Harold Attridge); propriamente Gesù "non celebra ininterrottamente una liturgia celeste poiché il suo sacrificio fu un evento unico. La liturgia "celeste" è in fondo l'unica dimensione interiore e spirituale del suo sacrifico che è del tutto fisico". Non esistono due sacrifici: quello storico e quello glorioso in cielo, ma l'unico sacrificio, quello del Calvario, che è intimamente glorioso, e quindi celeste ed eterno. Se gli mancasse la prerogativa di essere "celeste", il sacrificio della croce svanirebbe. È una fantasia immaginare Gesù risorto da un lato e il suo sacrificio storico, presente nell'Eucaristia, dall'altro; o il Gesù crocifisso, presente nel sacramento, separato e distinto dall'unico Gesù reale vivente, che è il Gesù celeste e glorioso. Errore. Il segnalibro non è definito.Il sacrificio della croce è la persona di Gesù nel suo donarsi. La perennità del sacrificio della croce è la perennità della persona di Gesù in questo amore oblativo. E l'Eucaristia è il sacramento dell'amore paziente e glorioso di Cristo consumato sulla croce e in certo modo confermato con la risurrezione. La risurrezione o la glorificazione di Gesù, infatti, non fanno che rivelare questo valore celeste e glorioso, e per ciò intramontabile, del sacrificio della croce. Il sacrificio della croce è duraturo a motivo della gloria, inclusa nella sua storia. Senza questa dimensione di gloria, non ci sarebbe possibilità di sacramento. Di più: senza questa gloria apparsa con la risurrezione, non ci sarebbe stato neppure il sacrificio della croce, o questo sarebbe stato a sua volta un sacrificio passeggero, irrecuperabile nel sacramento. In altre parole: l'immolazione di Gesù sulla croce è stata senz'altro un sacrificio storico, segnato dal tempo, come professiamo nel credo: "Patì sotto Ponzio Pilato", e collocato in un luogo preciso: il Calvario. Ma, se esso fosse stato esclusivamente storico, avrebbe subìto la sorte di tutti gli eventi che sorgono e avvengono nella storia: sarebbe stato destinato a passare, logorato dal corso temporale, e a vivere solo in un ricordo attenuato. Ciò che rende, invece, singolare e incomparabile il sacrificio della croce è la dimensione assolutamente nuova che il suo avvenimento storico racchiude. Esattamente grazie a essa è possibile la sua memoria "reale". L'immolazione del Calvario è ripresentabile nel convito eucaristico, per il fatto di essere un sacrificio celeste, perfetto, spirituale, secondo le connotazioni che la lettera agli Ebrei riconosce al sacrificio di Cristo. Ne consegue che "quanto continua ad avvenire in terra, sacrifici quotidiani da parte di sacerdoti della nuova alleanza, è solo attualizzazione di quel suo unico sacrificio sacerdotale e redentivo" (Harold Attridge). Senza dubbio, l'aver compreso la messa come "sacramento" del sacrificio della croce, ossia come il sacrificio stesso della croce in una modalità nuova, quella del segno efficace - per il quale essa è ritrovata dentro un nuovo tempo e un nuovo spazio - è stato un traguardo teologico decisivo. In tal modo si sono abbandonate definitivamente tanto le teorie che ricercavano nella messa, a livelli vari e diverse forme, degli elementi sacrificali, quanto le teorie in cui col carattere oblativo non risaltava anche il carattere sacrificale, e per questo la definizione della messa appunto come "sacramento del sacrificio" appare felice. Ma bisogna procedere ulteriormente e dire che il sacrificio della croce è ripresentabile nel sacramento, perché è un sacrificio dove la storia è ricolma di gloria e quindi è un sacrificio celeste, nel senso della Lettera agli Ebrei. Il sacrificio storico della croce è ripresentabile perché glorioso. Ma deve anche apparire chiaro che è, originariamente, Gesù risorto e Signore e non la celebrazione come tale, a rendere presente nell'Eucaristia il sacrificio della croce. Cristo, in virtù della sua signoria e con l'istituzione nell'Ultima Cena, ha legato il suo sacrificio temporale capace di "redenzione eterna" (Ebrei, 9, 11) al nostro spazio e alla nostra storia, perché fosse fruibile mediante i segni da lui istituiti. Il sacramento eucaristico non ripete l'immolazione: questa si ritrova ed è raggiunta nel "sacro convito" a motivo della condiscendenza del Signore, il quale, potendo disporre del sacrificio del suo Corpo e del suo Sangue, incessantemente lo ridona a noi. Questo vale per l'Eucaristia e vale per tutti i sacramenti, i quali, prima che gesti della Chiesa, sono gesti del Signore, vivente in continua e gloriosa intercessione per noi alla destra del Padre. La Chiesa e i suoi ministri non agiscono in nome proprio, ma in nome e per la potestà di Cristo - in persona Christi - in atto in cielo e sulla terra. Ogni volta è dal Crocifisso risuscitato che noi riceviamo il "Corpo dato" e il "Sangue sparso". Per ciò dove c'è l'Eucaristia, là c'è tutto il Paradiso.
(©L'Osservatore Romano - 14 giugno 2009)
Presentato all'Istituto Sturzo il volume «In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia» - I silenzi degli altri - E Paolo Mieli ripete con forza: «I miei morti non li metto in conto a un non colpevole» - di Raffaele Alessandrini – L’Osservatore Romano, 14 giugno 2009
Se lo storico medievista agnostico Léo Moulin (1906-1996) fosse stato tra i presenti che nel tardo pomeriggio di mercoledì 10, a Roma, gremivano la sala Perin del Vaga dell'Istituto Luigi Sturzo, avrebbe approvato e condiviso, con tutta probabilità, molte delle affermazioni ascoltate durante l'incontro dedicato al volume di saggi storici su Papa Pacelli di vari autori - e corredato dalle riflessioni di Benedetto XVI sul suo predecessore - curato dal direttore del nostro giornale Giovanni Maria Vian (In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia, Venezia, Marsilio, 2009, pagine 168, euro 13). E soprattutto lo storico avrebbe applaudito a scena aperta quando il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, intervenendo sui contenuti del dibattito, al quale hanno partecipato testimoni e studiosi profondamente diversi per cultura e per storia personale, non ha mancato di chiamare in causa quanti, guardando al passato, sono soliti mettere sul banco degli accusati la Chiesa cattolica. "Date retta a me, vecchio incredulo che se ne intende: il capolavoro della propaganda anticristiana - aveva infatti detto un giorno Moulin - è l'essere riusciti a creare nei cristiani, nei cattolici soprattutto, una cattiva coscienza; a istillargli l'imbarazzo, quando non la vergogna per la loro storia. A furia di insistere, dalla riforma sino ad oggi, ce l'hanno fatta a convincervi di essere i responsabili di tutti o quasi i mali del mondo (...) E voi, così spesso ignoranti del vostro passato, avete finito per crederci, magari per dar loro manforte. Invece io (agnostico, ma storico che cerca di essere oggettivo) vi dico che dovete reagire, in nome della verità. Spesso, infatti, non è vero. E se qualcosa di vero c'è, è anche vero che in un bilancio di venti secoli di cristianesimo le luci prevalgono di gran lunga sulle ombre. Ma poi: perché non chiedere a vostra volta il conto a chi lo presenta a voi? (...) Da quali pulpiti ascoltate, contriti, certe prediche?". Nel caso specifico si può ben dire come il cardinale segretario di Stato, mercoledì scorso, il "conto" lo abbia presentato ai sostenitori di quella propaganda che ha ridotto la grandiosa figura di Pio XII - nonché la complessità e la ricchezza di un pontificato durato vent'anni - alle fosche mitologie storicizzanti affiorate sul solco tracciato dall'opera teatrale Der Stellvertreter di Rolf Hochhuut (1963), e dai suoi epigoni, quelle del "Papa di Hitler" da additare al pubblico obbrobrio per i presunti silenzi, se non addirittura connivenze, di fronte alla Shoah. "Si potrebbe, e sarebbe ormai davvero ora di fare luce - ha detto invece il cardinal Bertone - su ben altri silenzi. Sia in merito alla persecuzione ebraica sia su altre vicende rivelatrici, quelle sì, di cattiva coscienza. E per stare sull'attualità basti solo pensare al settantesimo anniversario del patto Molotov-Ribbentrop", cioè all'intesa di non aggressione germano-sovietica ratificata nel 1939, la quale, avvenuta nella quasi totale indifferenza delle nazioni, di fatto spianò la strada all'invasione nazista della Polonia e allo scoppio della seconda guerra mondiale. Il discorso evidentemente chiama in causa quanti invocano l'apertura degli archivi degli anni della guerra. Anche in questo campo la Santa Sede è molto più avanti di altre istituzioni. Al di là della monumentale opera, voluta a suo tempo da Paolo vi, della pubblicazione degli Actes et documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale (1939-1945) in dodici volumi (1965-1981), è significativo ricordare quanto per l'occasione ha tenuto a sottolineare il cardinale Bertone sulle carte a disposizione degli studiosi dell'Archivio Segreto Vaticano che a tutt'oggi comprendono l'intero pontificato di Papa Pio xi. Come mai - chiede il porporato - tanti storici così attenti e puntigliosi a vagliare i comportamenti e a processare le intenzioni di Pio XII non si impegnano a fondo sui documenti che testimoniano l'operato del segretario di Stato, primo e più fedele collaboratore di Pio xi, il cardinale Eugenio Pacelli? E questo proprio negli anni in cui il nazionalsocialismo si affermava in Germania e in Austria e - gradualmente ma in termini chiarissimi - dietro il fosco mito della razza e del sangue manifestava le proprie intenzioni totalitarie, l'odio per gli ebrei e per i non ariani? È davvero possibile pensare che Papa Ratti, di solito ricordato proprio per le sue nette e accorte posizioni anche in difesa degli ebrei (così come contro tutte le forme di totalitarismo e contro il capitalismo selvaggio) si affidasse per tanti anni a un uomo lontano dalla sua sensibilità? Al dibattito sul volume curato da Vian, al quale assistevano tra gli altri anche il cardinale archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa Raffaele Farina, gli arcivescovi Pier Luigi Celata, Rino Fisichella e Gianfranco Ravasi, nonché il presidente emerito della Corte costituzionale italiana, Giovanni Maria Flick, hanno preso parte gli storici Giorgio Israel, Paolo Mieli e Roberto Pertici, moderati da Cesare De Michelis, presidente della casa editrice Marsilio. Giorgio Israel ha sottolineato le circostanze in cui suo padre, il biologo e scrittore Saul, ebreo di Salonicco(1897-1981) - trasferito a Roma in giovane età e cittadino italiano dal 1919 - strinse amicizia con il poeta e critico letterario cristiano Giulio Salvadori (morto nel 1928), e poi come negli anni della persecuzione fosse costretto a rifugiarsi prima nel convento di Sant'Antonio a via Merulana e poi a San Giovanni in Laterano. A quel periodo, nell'aprile 1944, risale il toccante testo inedito pubblicato nel libro In difesa di Pio XII. La testimonianza di Saul Israel, ebreo osservante, è indicativa: l'accoglienza nei conventi, il via vai di partigiani cattolici che aiutano e assistono i rifugiati, sono evidentemente segno che questa gigantesca operazione di salvataggio non può avvenire che con l'assenso del Papa. Per Paolo Mieli la vera questione celata dietro le accuse assurde di antisemitismo è da ricercarsi invece nel deciso anticomunismo di Pio XII. Mieli che tiene a ricordare di non essere cattolico e di avere del sangue ebraico nella propria famiglia - "non poco di questo sangue è stato versato nei campi di sterminio" - anzitutto trova inconcepibile l'idea di un Pio XII ridotto dalla leggenda nera a complice di Hitler: "I miei morti non li metto in conto a un non colpevole". Anzi, Papa Pacelli fu tutt'altro che persecutore di ebrei ma li aiutò in modo così straordinario che è difficile, volgendosi indietro, trovare eguali termini di paragone sullo scenario di quel tempo. A rafforzare la propria opinione Mieli ricorda anche la testimonianza riconoscente di un altro grande giornalista, come Arrigo Levi che nel suo ultimo libro Un paese non basta (il Mulino) racconta come ebbe alcuni parenti salvati dall'azione provvidenziale della Chiesa cattolica. E a chi sollevava l'interrogativo - non infrequente - sui motivi che avessero indotto Pio XII a non adottare atteggiamenti esteriori di protesta dopo le deportazioni naziste degli ebrei di Roma, Mieli ricorda come Levi abbia realisticamente osservato che nell'ipotesi di un Papa andato platealmente a stracciarsi le vesti in ghetto "migliaia e migliaia di ebrei rifugiatisi nei conventi, e le suore e i frati che li avevano accolti, non si sarebbero salvati". Quindi Mieli pone in risalto alcuni fatti che anche per gli storici non professionisti dovrebbero essere evidenti: "I vent'anni di pontificato di Papa Pacelli sono complessi e importantissimi". Come è possibile che una figura così rilevante - l'autore di encicliche come la Mystici Corporis, la Divino afflante Spiritu, la Mediator Dei e come la Miranda prorsus, dedicata agli strumenti di comunicazione sociale e ancora oggi straordinariamente viva e attuale - sia stato sottoposto a una così volgare banalizzazione? A questa domanda Mieli ne ha aggiunta una seconda: come dimenticare gli attestati di stima e di omaggio che nel dopoguerra tutte le grandi personalità del mondo ebraico riservarono a Pio XII? I motivi di questa campagna denigratoria, secondo lo storico che per due volte è stato direttore del "Corriere della Sera", sono da rintracciarsi nella coerenza di Papa Pacelli al proprio antitotalitarismo e all'impegno sviluppato dalla Santa Sede per smascherare i crimini comunisti. La stessa accusa dei "silenzi" non regge. Meno ancora quella di collaborazionismo ricorrente nei Paesi dell'Est in chiave anticattolica. Ben altri e più gravi furono ad esempio i silenzi sulla persecuzione ebraica tenuti da Stalin. A ricordarlo è stato Roberto Pertici. Nessuna notizia filtra nell'Unione Sovietica, ad esempio tra il 1939 e il 1941, sulle persecuzioni degli ebrei polacchi. Gli ebrei russi entrati a contatto con le truppe naziste andranno inconsapevoli alla morte. Ma non meno pesanti e gravidi di conseguenze saranno il silenzio e il disinteresse negli anni della guerra per la questione ebraica nei Paesi anglosassoni, come poi avrebbe ammesso lo storico e commentatore americano Arthur Schlesinger. A ciò si aggiunge l'influsso delle correnti storiografiche di stampo marxista o antiromano decise a fare i conti con i passati regimi e con quanto poteva apparire in qualche modo connivente col fascismo o con il nazionalsocialismo. Vi sono pagine oscure da chiudere e la cattiva coscienza di molti riveste sistematicamente di luminoso progresso ogni cultura che ponga la Chiesa cattolica sul banco degli imputati. Di fatto, dal 1963 in poi, gli unici "silenzi" a essere condannati dall'opinione pubblica internazionale saranno quelli di Pio XII.
(©L'Osservatore Romano - 14 giugno 2009)
LA DECISIONE DEL TRIBUNALE DI FIRENZE SOLLEVA PROBLEMI VERI - Se il matrimonio è una cosa seria il divorzio non può essere breve - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 giugno 2009
A pplicando direttamente la legge spagnola sul divorzio 'breve' (in Spagna lo si può richiedere dopo appena tre mesi dalle nozze), fortemente voluto nel 2005 da Zapatero, il Tribunale di Firenze ha sciolto in tempi record il matrimonio tra un’italiana e uno spagnolo. La notizia interessa in prima battuta i giuristi, cui spetta il compito di valutare la correttezza della decisione fiorentina. Ma è evidente che il cuore della notizia più che giuridico, è politico-sociale: sono non poche, almeno sei, le proposte di legge depositate in Parlamento per introdurre anche in Italia il divorzio 'veloce', riducendo drasticamente il periodo minimo di tempo legalmente previsto per poter avanzare la richiesta di scioglimento del matrimonio. È facile prevedere che a seguito di questo evento si riaprirà il dibattito sul periodo di separazione (attualmente tre anni) che da noi è necessario che sia trascorso per ottenere il divorzio. Ed è altrettanto facile prevedere che questo dibattito tornerà ad acquistare la solita coloritura libertaria: nessuno obbliga una coppia a divorziare, ma perché impedire, a chi invece abbia preso atto anche in tempi brevissimi del fallimento irrimediabile del proprio matrimonio, di ottenere lo scioglimento del vincolo? Per i suoi fautori, la pretesa di formalizzare il divorzio 'veloce' è né più né meno che una pretesa di libertà.
L’argomentazione, però, non funziona. Essa si fonda su di un equivoco insanabile: quello secondo il quale, poiché la sostanza del matrimonio sarebbe essenzialmente privata, la gestione del vincolo andrebbe demandata alla volontà insindacabile dei membri della coppia. È vero, invece, esattamente il contrario. I rapporti strettamente privati possono avere una rilevanza psicologica e umana mediocre o altissima, ma in ogni caso la loro rilevanza giuridico-sociale è sempre zero. Il matrimonio, invece, non è un rapporto privato, ma pubblico; il mero fatto che il diritto lo istituzionalizzi dimostra quanto profondo sia l’interesse pubblico al fatto che i matrimoni 'esistano' e che 'durino'. È per questo che il diritto assegna agli sposi uno status socialmente riconosciuto e (malgrado la possibilità del divorzio) 'resistente'; uno status a tal punto giuridicamente formalizzato e registrato, che solo l’intervento di un giudice è legittimato ad alterarlo.
La differenza tra un’unione libera e un’unione matrimoniale è tutta qui ed è una differenza immensa. Ecco perché il matrimonio, come si insegna agli studenti del primo anno di giurisprudenza, non può ammettere né termini né condizioni: la sua è una pretesa in qualche misura definibile come 'assoluta': né più né meno che quella di attivare tra i coniugi una relazione 'totale'. È per questo che, anche solo intuitivamente, siamo tutti convinti che ipotizzare un matrimonio a termine (ad esempio di solo qualche mese) o sottoporre il matrimonio a una condizione (ad esempio la nascita di un figlio maschio) non solo è illegale, ma è ingiusto e ingiustificabile, perché contraddice l’identità stessa del matrimonio, riducendolo a un vincolo funzionale a interessi o ad aspettative individuali.
Non si tratta di negare che in ogni matrimonio si diano interessi e aspettative, ma di riconoscere che queste, se si danno, possiedono un rilievo esclusivamente privato e circoscritto: non possono e non devono essere tali, cioè, da qualificare la natura sociale e totale del rapporto. È per questo che ciò che si nasconde dietro la richiesta di legalizzazione dei divorzi 'veloci' non è semplicemente un’istanza di semplificazione burocratica delle procedure di scioglimento del matrimonio. C’è piuttosto l’intenzione (esplicita o implicita, poco importa) di ridurre al minimo o addirittura dissolvere la dimensione temporale del vincolo coniugale, rendendone quindi la durata priva di significato giuridicosociale. Il che comporta, inevitabilmente, un ulteriore e decisivo passo verso la riduzione del matrimonio a una dimensione strettamente privata. Se questa è la posta in gioco oggi (e io ne sono perfettamente convinto) onestà vorrebbe che venisse pubblicamente discussa: trucchi e scorciatoie, come appunto il divorzio veloce zapateriano, non sono degni di una società che voglia riflettere seriamente sul destino delle proprie istituzioni sociali fondamentali.
Progetto Gemma - «La disperazione di dire a quelle donne che neanche noi possiamo più aiutarle» - DA MILANO – Avvenire, 14 giugno 2009
«Il fondo l’ho toccato con mano venerdì scorso. Ci è arrivata la scheda relativa a una bambina rumena, 12 anni, incinta del suo convivente del quale non sappiamo l’età. I genitori non li ha quasi conosciuti. Lui pretende che lei abortisca, lei piange che vuole il suo bambino. Ho pianto anch’io». Erika Vitale da 7 anni è responsabile del Progetto Gemma, una delle risposte che il Movimento per la Vita dà alle richieste d’aiuto che giungono da tutti i Cav d’Italia, compreso quello della Mangiagalli. «Noi non veniamo in diretto contatto con queste madri – racconta –, riceviamo le schede dai Cav, la nostra commissione le esamina e sceglie chi sostenere. Ma non è facile, ogni no che devi dire è una vita che perdi». D’altra parte sono 315 i Cav, e tutti affannati a correre contro il tempo, a trovare le risorse prima che sia troppo tardi per madre e figlio.
In 15 anni di vita, Progetto Gemma ha così salvato 16mila bambini grazie a un’unica entrata, le donazioni dei privati. «Che però ora vengono drammaticamente meno - è la denuncia della responsabile - . Un po’ per la crisi e un po’ perché giustamente molte offerte quest’anno sono state destinate dai cittadini ai terremotati d’Abruzzo, fatto sta che le entrate sono davvero crollate e siamo a rischio di dover rifiutare oltre un centinaio di Progetti Gemma ad altrettante donne incinte che ci hanno chiesto aiuto. Che cosa faranno se anche noi le lasceremo sole? Ovvio che la via dell’aborto diventa la più percorribile, ai loro occhi. Io non mi do pace».
Ogni Progetto Gemma per seguire una madre per 18 mesi costa 2.880 euro, l’equivalente di 160 euro al mese, la cifra che l’associazione affianca ad ulteriori aiuti concreti, come gli alimenti e tutto ciò che serve per crescere il bambino fino a un anno di vita. Il tutto moltiplicato per le quasi duemila donne che attualmente risultano prese in carico. «Ultimamente però ci è già successo di dover rimandare indietro i nuovi arrivi ed è stato tremendo – dice Erika Vitale –. Il nostro è un lavoro meraviglioso perché ogni giorno si tocca con mano la Provvidenza, ma purtroppo anche la disperazione». Sono tanti i miracoli di generosità che ancora permettono di tirare avanti, basta una piccola rinuncia perché un Progetto Gemma diventi realtà: «Quest’anno abbiamo avuto sposi che hanno rinunciato ai regali di nozze, tre o quattro Prime Comunioni che ci hanno devoluto i soldi delle bomboniere, una laurea, alcuni anniversari di matrimonio, funerali senza costose corone di fiori... E poi parrocchie, gruppi catechistici, eventi sportivi, persino una gara in Vespa a Marsala, in Sicilia, le cui iscrizioni hanno finanziato un Progetto». Latitano invece le istituzioni: in 15 anni solo 18 Comuni hanno adottato una madre...
Anche qui tante le storie, accomunate dalla solitudine e dalla constatazione che per dare una mano a volte basta davvero poco: «Ricevere anche solo quei 160 euro al mese da gente sconosciuta dà come una scossa a queste ragazze – spiega l’esperta –, fa emergere in loro risorse che non conoscevano. E a volte anche nelle famiglie d’origine fa scattare l’orgoglio: se uno sconosciuto aiuta nostra figlia, dicono i genitori, allora dobbiamo farlo anche noi». Già, perché aumentano a dismisura i casi di madri minorenni, troppo spesso scacciate di casa o indotte dagli stessi genitori a liberarsi di quel figlio». L’ultima è di pochi giorni fa: una diciassettenne giunta in lacrime gridando che voleva tenere il bambino. «Aveva già conosciuto un Cav e lì si era sentita capita, poi però aveva ceduto alla volontà altrui ed era già sul lettino dell’aborto quando è scappata per salvarlo ». Tra tante storie tragiche, una di speranza. È quella di Alessia, 17 anni, segnalata da un Cav del Centro Italia: «Saputo di essere incinta, aveva deciso di abortire. Fatta l’ecografia, però, ha scoperto di attendere due gemellini... Uno era pronta a sopprimerlo, due no, era troppo». Per lei un doppio Progetto Gemma e oggi due figli, nati sani e belli. (informazioni sul sito del Movimento per la vita: www.mpv.org).
Lucia Bellaspiga
Difesa della vita, strappo dei medici - Sì a maggioranza alla possibilità di dire no alla nutrizione - DAL NOSTRO INVIATO A TERNI ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 14 giugno 2009
Pare condizionato da pregiudizi ideologici il documento di sette pagine approvato, a larga maggioranza, dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), che a Terni ha riunito il Consiglio nazionale per una tre giorni di approfondimento sul tema delle dichiarazioni anticipate di volontà. Infatti il testo conclusivo - che ha ottenuto il voto favorevole di 85 presidenti su 105, il voto contrario di 5 e l’astensione di 7 - in nome di un’alleanza terapeutica 'paritaria' soggiace al giudizio di chi ritiene che la vita non sia un bene indisponibile e che la volontà del paziente sia da supporre sempre completa e assoluta, potendo il medico solo rifiutare, in scienza e coscienza, di prestare la propria opera. Nello specifico il testo approvato considera la nutrizione artificiale una terapia medica e pertanto rifiutabile in ogni circostanza, sia presente sia futura, attraverso dichiarazioni anticipate di volontà (in contrasto con quanto prevede il ddl Calabrò licenziato dal Senato). «Il nostro lavoro si muove anche nell’auspicio - hanno dichiarato il presidente della Fnomceo Amedeo Bianco e quello dell’Ordine dei medici di Terni, Aristide Paci - che, dopo una pausa di riflessione che coinvolga tutti i soggetti interessati, il confronto riprenda il percorso in un clima più sereno e con un dialogo costruttivo ». Su queste materie «delicate e intime» gli Ordini dei medici chiedono che «il legislatore intervenga formulando un diritto mite, cioè che si limiti esclusivamente a definire la cornice di legittimità giuridica sulla base dei diritti della persona costituzionalmente protetti, senza invadere l’autonomia del paziente e quella del medico». Sembra quindi che il documento - che pure sancisce una spaccatura della Fnomceo - voglia «indicare la linea» al legislatore. I presidenti degli Ordini provinciali dicono infatti: «È nostra convinzione che le previsioni del Codice di Deontologia medica abbiano forza giuridica ed etica e siano di per sé idonee ad orientare e legittimare le deci- sioni assunte in una alleanza terapeutica ma il conflitto tra competenze legislative e competenze giudiziarie che ha fatto seguito alla vicenda Englaro, ha determinato una forte accelerazione del processo legislativo in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) al fine di definirne gli ambiti di efficacia». Viene poi ricordato che «la nutrizione artificiale è trattamento assicurato da competenze mediche e sanitarie ... e richiedente il consenso informato del paziente... La sua capacità di sostenere funzioni vitali... ne motiva l’impiego, in ogni progetto di cura appropriato, efficace e proporzionato, compresi quelli esclusivamente finalizzati ad alleviare le sofferenze. In queste circostanze, le finalità tecniche ed etiche che ne legittimano l’utilizzo definiscono anche i suoi limiti, quelli sui quali può intervenire la scelta informata e consapevole, attuale o dichiarata anticipatamente del paziente e la libertà di scienza e coscienza del medico ». Stupisce infine che la Fnomceo, dopo aver sottolineato il valore fondante del Codice deontologico, abbia però tanto paura di sembrare paternalista da sottolineare che la relazione di cura è «tesa a realizzare un rapporto paritario ed equo» con il paziente e si basi anche sulle opinioni delle associazioni di tutela dei pazienti e dei consumatori: nel dibattito di venerdì uno di questi rappresentanti è arrivato a dire che le Dat sono strumento perché il cittadino possa decidere 'quando' morire.
1) 14/06/2009 12:16 – VATICANO - Papa: Corpus Domini, “Pane della vita” e dell'amore; fame nel mondo realtà inaccettabile - La festa del Corpus Domini afferma che in Gesù “l’amore esiste, e poiché esiste, le cose possono cambiare in meglio e noi possiamo sperare”. Essa ha anche dimensioni cosmiche, ricordando l’abbondanza dei frutti dell’estate. Auspici perché all’Onu si affronti la crisi economica in spirito di solidarietà coi Paesi più poveri e per debellare la fame nel mondo. Una preghiera per l’Anno sacerdotale che comincia venerdì 19 giugno, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù.
2) l’evento Macerata-Loreto, 80mila «mendicanti» nella notte - DAL NOSTRO INVIATO A MACERATA - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 14 giugno 2009
3) 13/06/2009 13:14 – VATICANO Papa: la crisi mostra che servono regole per orientare l’economia al bene comune - Benedetto XVI parla della “prossima” pubblicazione della sua enciclica che affronterà i temi economici e del lavoro e ripete le parole di Giovanni Paolo II: “la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti”.
4) In un libro di Benedetto XVI - Coscienza e verità - di Lucetta Scaraffia – L’Osservatore Romano, 14 Giugno 2009
5) Il sacrificio glorioso dell'Eucaristia - Un amore paziente
e intramontabile - -di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 14 Giugno 2009
6) Presentato all'Istituto Sturzo il volume «In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia» - I silenzi degli altri - E Paolo Mieli ripete con forza: «I miei morti non li metto in conto a un non colpevole» - di Raffaele Alessandrini – L’Osservatore Romano, 14 giugno 2009
7) LA DECISIONE DEL TRIBUNALE DI FIRENZE SOLLEVA PROBLEMI VERI - Se il matrimonio è una cosa seria il divorzio non può essere breve - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 giugno 2009
8) Progetto Gemma - «La disperazione di dire a quelle donne che neanche noi possiamo più aiutarle» - DA MILANO – Avvenire, 14 giugno 2009
9) Difesa della vita, strappo dei medici - Sì a maggioranza alla possibilità di dire no alla nutrizione - DAL NOSTRO INVIATO A TERNI ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 14 giugno 2009
14/06/2009 12:16 – VATICANO - Papa: Corpus Domini, “Pane della vita” e dell'amore; fame nel mondo realtà inaccettabile - La festa del Corpus Domini afferma che in Gesù “l’amore esiste, e poiché esiste, le cose possono cambiare in meglio e noi possiamo sperare”. Essa ha anche dimensioni cosmiche, ricordando l’abbondanza dei frutti dell’estate. Auspici perché all’Onu si affronti la crisi economica in spirito di solidarietà coi Paesi più poveri e per debellare la fame nel mondo. Una preghiera per l’Anno sacerdotale che comincia venerdì 19 giugno, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Una riflessione sul “Pane della vita”, il Corpo del Signore che la Chiesa celebra oggi, segno dell’amore di Gesù che trasforma il mondo; un appello all’Onu perché nella prossima conferenza spinga tutte le istituzioni internazionali a debellare la fame sofferta da centinaia di milioni di esseri umani: questi i temi fondamentali delle parole di Benedetto XVI prima e dopo l’Angelus recitato insieme ai circa 15 mila pellegrini presenti oggi in piazza san Pietro.
Il pontefice ha anche domandato a tutti i fedeli di seguire con la preghiera l’Anno sacerdotale, che inizia con la solennità del Sacro Cuore di Gesù, il 19 giugno scorso, festa della santificazione dei sacerdoti.
“Il Corpus Domini – ha detto il papa - è una manifestazione di Dio, un’attestazione che Dio è amore. In un modo unico e peculiare, questa festa ci parla dell’amore divino, di ciò che è e di ciò che fa. Ci dice, ad esempio, che esso si rigenera nel donarsi, si riceve nel darsi, non viene meno e non si consuma – come canta un inno di san Tommaso d’Aquino: ‘nec sumptus consumitur’. L’amore trasforma ogni cosa, e dunque si capisce che al centro dell’odierna festa del Corpus Domini ci sia il mistero della transustanziazione, segno di Gesù-Carità che trasforma il mondo. Guardando Lui e adorandoLo, noi diciamo: sì, l’amore esiste, e poiché esiste, le cose possono cambiare in meglio e noi possiamo sperare. È la speranza che proviene dall’amore di Cristo a darci la forza di vivere e di affrontare le difficoltà. Per questo cantiamo, mentre portiamo in processione il Santissimo Sacramento; cantiamo e lodiamo Dio che si è rivelato nascondendosi nel segno del pane spezzato. Di questo Pane abbiamo tutti bisogno, perché lungo e faticoso è il cammino verso la libertà, la giustizia e la pace”.
Benedetto XVI ha anche spiegato la “dimensione cosmica” della festa del Corpus Domini: “Il Corpus Domini – ha continuato - è un giorno che coinvolge la dimensione cosmica, il cielo e la terra. Evoca prima di tutto – almeno nel nostro emisfero – questa stagione così bella e profumata in cui la primavera volge ormai all’estate, il sole è forte nel cielo e nei campi matura il frumento. Le feste della Chiesa – come quelle ebraiche – hanno a che fare con il ritmo dell’anno solare, della semina e del raccolto. In particolare, questo risalta nella solennità odierna, al cui centro sta il segno del pane, frutto della terra e del cielo. Perciò il pane eucaristico è il segno visibile di Colui nel quale cielo e terra, Dio e uomo sono diventati una cosa sola. E questo mostra che il rapporto con le stagioni non è per l’anno liturgico qualche cosa di meramente esteriore”.
Dopo la preghiera mariana Benedetto XVI ha messo in relazione il “Pane di Vita” che si celebra oggi con un ricordo delle “centinaia di milioni di persone che soffrono la fame”. Questo – ha continuato il pontefice - “è una realtà assolutamente inaccettabile, che stenta a ridimensionarsi malgrado gli sforzi degli ultimi decenni. Auspico, dunque, che in occasione della prossima Conferenza ONU e in sede delle istituzioni internazionali siano assunti provvedimenti condivisi dall’intera comunità internazionale e vengano compiute quelle scelte strategiche, talvolta non facili da accettare, che sono necessarie per assicurare a tutti, nel presente e nel futuro, gli alimenti fondamentali e una vita dignitosa”.
L’appello del papa all’Onu ha un motivo urgente, da lui spiegato: “Nei giorni 24-26 di questo mese si terrà a New York la Conferenza delle Nazioni Unite sulla crisi economica e finanziaria ed il suo impatto sullo sviluppo. Invoco sui partecipanti alla Conferenza, come pure sui responsabili della cosa pubblica e delle sorti del pianeta, lo spirito di sapienza e di umana solidarietà, affinché l’attuale crisi si trasformi in opportunità, capace di favorire una maggiore attenzione alla dignità di ogni persona umana e promuovere un’equa distribuzione del potere decisionale e delle risorse, con particolare attenzione al numero, purtroppo sempre crescente, dei poveri”.
Prima dei saluti nelle diverse lingue, Benedetto XVI ha ricordato a tutti l’inizio dell’Anno sacerdotale, con la solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, il 19 giugno prossimo. L’Anno sacerdotale, voluto dal papa per sostenere la vocazione dei sacerdoti, cade in coincidenza del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars (Giovanni maria Vianney). “Affido alle vostre preghiere – ha detto il papa - questa nuova iniziativa spirituale, che seguirà l’Anno Paolino ormai avviato verso la sua conclusione. Possa questo nuovo anno giubilare costituire un’occasione propizia per approfondire il valore e l’importanza della missione sacerdotale e per domandare al Signore di far dono alla sua Chiesa di numerosi e santi sacerdoti”.
l’evento Macerata-Loreto, 80mila «mendicanti» nella notte - DAL NOSTRO INVIATO A MACERATA - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 14 giugno 2009
«D ite ai giovani di avere tanto coraggio nel guardare al futuro, perché il Signore cammina con loro», aveva detto mercoledì Benedetto XVI in piazza San Pietro, accendendo la fiaccola della pace. La stessa fiaccola che ieri sera, dopo aver percorso il martoriato Abruzzo, ha fatto il suo ingresso tra le mani del tedoforo in un festante stadio Helvia Recina di Macerata, tra gli applausi degli 80mila pellegrini giunti da tutta Italia e dall’estero proprio per mettersi in cammino.
Da molte ore preghiere e canti si alternavano, mentre i pullman riversavano i partecipanti al 31° pellegrinaggio a piedi Macerata Loreto. Appuntamento alle 18 per ritrovarsi tutti assieme, poi ascoltare i testimoni e infine, alle 21, partecipare alla Messa celebrata dall’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe, prima di partire per il lungo cammino notturno: l’arrivo stamani alle 6, dopo quasi trenta chilometri, al Santuario della Santa Casa di Loreto. «Dite ai giovani che il Signore cammina con loro», aveva detto il Papa. E qui giovani sono tutti, anche chi si appresta a marciare per la trentunesima volta e con sé ora porta i nipoti, come sottolinea nell’omelia lo stesso Sepe: «Il pellegrino è giovane dentro prescindendo dall’età anagrafica – dice – perché non si ferma, non si appaga, va alla ricerca di mete che portino per quanto possibile oltre l’umano e il normale». Così il popolo in cammino trova nelle sue parole il senso pieno di ciò che si appresta a fare: «Siete voi, cari giovani, i più autentici protagonisti, per il vostro entusiasmo, per la voglia di scoprire il nuovo, per la caparbietà con la quale sapete raggiungere obiettivi e traguardi». Lo sguardo non può ora non rivolgersi commosso alla «curva» dei tanti pellegrini giunti dalle tendopoli dei terremotati d’Abruzzo: sono loro, quest’anno, a rivestire il ruolo di ospiti d’onore, veri protagonisti della Macerata-Loreto, perché «la fede non crolla ». Struggenti prima della Messa le voci dei loro cori: «Luntane cchiù luntane de li luntane stelle, luce la luce cchiù belle...», avevano promesso a tutti, più lontano delle stelle lontane brilla la Luce più bella. E lo ricanteranno nella notte, mentre il fiume dei pellegrini in viaggio romperà per ore il buio delle tenebre con la luce di quarantamila candele. Particolarmente attesa era la parola dell’arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Molinari, che nemmeno stavolta ha lasciato solo il suo popolo e ha fatto il suo ingresso nello stadio accolto dal saluto di Claudio Giuliodori, vescovo di Macerata-Tolentino Recanati-Cingoli-Treia, insieme ai vescovi della Conferenza episcopale marchigiana presieduti dall’arcivescovo di Fermo, Luigi Conti: «Vi siamo particolarmente vicini con la preghiera e con l’affetto – ha detto Giuliodori –. Ricordiamo con voi le vittime del terremoto e vi sosteniamo nell’impegnativa opera di ricostruzione ». A dare un senso anche alla tragedia, imperscrutabile allo sguardo umano, era stato poco prima un dirigente d’azienda abruzzese, Marco Gentile: «Le circostanze non sono un caso – aveva ammonito, citando le parole di don Julian Carròn, presidente di Comunione e liberazione –. Quando perdi tutto quello che hai, casa, soldi, salute, cari, lavoro, futuro, emerge prepotentemente una domanda di senso per te, cui tu – e te ne rendi conto benissimo – non puoi rispondere. E allora la risposta cominci a cercarla per davvero».
È ciò che hanno fatto anche in questa lunga notte gli 80mila «mendicanti», ovvero coloro che – ha sottolineato Sepe – hanno ancora la capacità «di non sentirsi mai arrivati, ma di rimanere cercatori di una patria lontana». Persone che non si fermano, perché coltivano la grande nostalgia della casa del Padre.
Nel 1978, quando per la prima volta Giancarlo Vecerrica, oggi vescovo di Fabriano-Matelica, ideò il pellegrinaggio di Cl, ad aderire furono in trecento. Il bene sa essere più contagioso del male e oggi sono cresciuti. Su tutti è giunta la benedizione del Papa, «spiritualmente presente» in cammino con loro.
Ha preso il via ieri sera la 31ª edizione del pellegrinaggio.
Con l’arcivescovo Molinari molti partecipanti abruzzesi. Sepe: «Noi, cercatori di una patria lontana, non ci sentiamo mai arrivati»
13/06/2009 13:14 – VATICANO Papa: la crisi mostra che servono regole per orientare l’economia al bene comune - Benedetto XVI parla della “prossima” pubblicazione della sua enciclica che affronterà i temi economici e del lavoro e ripete le parole di Giovanni Paolo II: “la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti”.
Città del Vaticano (AsiaNews) - La crisi economica che ha colpito tutto il mondo, dimostra che vanno superati valori e regole che hanno retto in questi ultimi anni l’economia, a favore di una concezione “rispettosa dei bisogni e dei diritti dei deboli”, tema che Benedetto XVI approfondirà della sua enciclica di “prossima” pubblicazione. E’ stato lo stesso Papa a parlarne, oggi, specificando che nel documento “verranno posti in evidenza quelli che per noi cristiani sono gli obbiettivi da perseguire e i valori da promuovere e difendere instancabilmente, al fine di realizzare una convivenza umana veramente libera e solidale”.
Occasione per Benedetto XVI di tornare ad affrontare il tema della crisi economica globale e soprattutto del modello di sviluppo che l’ha provocata, è stato l’odierno incontro, in Vaticano, con i membri della Fondazione “Centesimus Annus - Pro Pontifice”, al termine della loro annuale riunione.
“L’odierno nostro incontro assume un significato e un valore particolare alla luce della situazione che vive in questo momento l’intera umanità. In effetti, la crisi finanziaria ed economica che ha colpito i Paesi industrializzati, quelli emergenti e quelli in via di sviluppo, mostra in modo evidente come siano da ripensare certi paradigmi economico-finanziari che sono stati dominanti negli ultimi anni”.
“Sono lieto di apprendere – ha proseguito - che avete esaminato, in particolare, le interdipendenze tra istituzioni, società e mercato partendo, in accordo con l’Enciclica Centesimus annus del mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, dalla riflessione secondo la quale l’economia di mercato, intesa quale ‘sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia’ (n. 42), può essere riconosciuta come via di progresso economico e civile solo se orientata al bene comune (cfr n. 43). Tale visione però deve anche accompagnarsi all’altra riflessione secondo la quale la libertà nel settore dell’economia deve inquadrarsi ‘in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale’, una libertà responsabile ‘il cui centro è etico e religioso’ (n. 42). Opportunamente l’Enciclica menzionata afferma: ‘Come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti’ (n. 43)”.
“Come sapete – ha detto infine - verrà prossimamente pubblicata la mia Enciclica dedicata proprio al vasto tema dell’economia e del lavoro: in essa verranno posti in evidenza quelli che per noi cristiani sono gli obbiettivi da perseguire e i valori da promuovere e difendere instancabilmente, al fine di realizzare una convivenza umana veramente libera e solidale”.
In un libro di Benedetto XVI - Coscienza e verità - di Lucetta Scaraffia – L’Osservatore Romano, 14 Giugno 2009
Non è certo una novità che il Papa intervenga per rendere più chiara ai fedeli la comprensione dei problemi del tempo in cui vivono, ma possiamo dire senza timore di esagerare che nessuno l'ha fatto con l'acutezza e la profondità di Benedetto XVI. Al punto che i suoi scritti dedicati alla lettura critica del presente sono ormai considerati dei classici che possono - e dovrebbero - interessare quanti vogliano capire meglio l'epoca in cui vivono, e non solo i cattolici. Proprio per questo sono particolarmente illuminanti i saggi raccolti in un libro da poco pubblicato in Italia (Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, L'elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Siena, Cantagalli, 2009, pagine 175, euro 13,50). Con il consueto stile limpido e semplice, di quella semplicità che raggiunge solo il pensiero sedimentato e profondo, l'autore vi affronta i principali problemi teorici del nostro tempo, denunciandone i limiti e le manipolazioni, e proponendo una risposta chiara, tratta dal tesoro della tradizione cristiana. Tutti gli scritti ruotano intorno a due questioni intimamente legate: la coscienza e la verità, entrambe cancellate dalla cultura contemporanea, che le sostituisce con la soggettività e il relativismo, pensando di garantire in questo modo la libertà individuale, unico vero feticcio moderno. Nel primo saggio, L'elogio della coscienza, viene chiarito un tema complesso e mistificato, quello cioè del ruolo della coscienza. In una cultura che tende a contrapporre una "morale della coscienza" a una "morale dell'autorità", slegando il problema della coscienza da quello della verità, l'unica garanzia di libertà appare essere la giustificazione della soggettività, mentre l'autorità sembra "restringere, minacciare o addirittura negare tale libertà". Qui tocchiamo il punto veramente critico della modernità: "L'idea della verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di progresso" che però, in apparenza esaltato, viene invece privato di ogni direzione. In un mondo senza punti fissi di riferimento, senza verità, non ci sono più direzioni. La rinuncia ad ammettere che, per l'essere umano, sia possibile conoscere la verità conduce al disinteresse per i contenuti, per dare la preminenza alla tecnica, alla formalità. Un esempio chiaro in questo senso è quello dell'arte: oggi "ciò che l'opera esprime è del tutto indifferente: l'unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale". Vivendo in una società che influenza e condiziona gli individui, è difficile sentire quella che veniva considerata "la voce della coscienza", cioè "la presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all'interno del soggetto stesso". Anche se la via alla verità e al bene è stata abbandonata perché ardua, scomoda, considerata troppo difficile da seguire, non per questo dobbiamo rinunciarvi: "dissolveremmo il cristianesimo in un moralismo se non fosse chiaro un annuncio che supera il nostro proprio fare". In queste condizioni, la stessa verità del bene diventa inattingibile, perché l'unico riferimento per ciascuno è ciò che egli può da solo concepire come bene, rinunciando così a quel minimo di diritti oggettivamente fondati, non accordati tramite convenzioni sociali, sui quali soli si può fondare l'esistenza di ogni comunità politica. In sostanza, dove Dio scompare, "scompare anche la dignità assoluta della persona umana", e la dignità di ognuno non viene più a dipendere dal solo fatto di esistere, per essere stato voluto e creato da Dio. Ecco perché "la radice ultima dell'odio e di tutti gli attacchi contro la vita umana è la perdita di Dio". Benedetto XVI rivela una delle sue preoccupazioni principali, che ha varie volte ripetuta: il timore che la nozione moderna di democrazia non sappia emanciparsi dall'opzione relativista, in un mondo in cui il relativismo appare come l'unica garanzia della libertà. Mentre il Papa sa bene e ripete senza sosta che "un fondamento di verità - di verità in senso morale - appare irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia". E non dobbiamo dimenticare che, di fatto, "tutti gli stati hanno attinto le evidenze morali razionali - permettendo loro di dispiegare i propri effetti - dalle tradizioni religiose ad essi preesistenti". Di frequente Benedetto XVI ritorna sul tema della ricerca della verità: "Se Dio è la verità, se la verità è il vero "sacro", la rinuncia alla verità diventa una fuga da Dio". Persino quando avviene all'interno di una confessione religiosa perché - denuncia il Papa - esiste anche un "positivismo fideista" che "ha paura di perdere Dio nell'esporsi alla verità delle creature". La verità è il presupposto fondamentale di ogni morale, ma se invece il criterio dell'utilità o del risultato, sostenuto da correnti di teoria politica affermate, prende il posto della verità, il mondo si frantuma in tante parzialità, perché l'utilità dipende sempre dal punto di vista del soggetto che agisce. Cosa significa allora fare il teologo, in questa situazione culturale? E come si può pensare una nuova evangelizzazione? A queste domande rispondono in modo inedito ed esauriente gli ultimi saggi di un volume che si rivela fondamentale per comprendere il mondo di oggi, e per vivervi da cristiano. Peccato che l'editore a cui si deve l'ammirevole iniziativa di avere raccolto questi testi li abbia pubblicati senza precisare quando sono stati scritti, se dal cardinale Ratzinger o dal Papa. Come se per il lettore questa precisazione fosse irrilevante.
(©L'Osservatore Romano - 14 giugno 2009)
Il sacrificio glorioso dell'Eucaristia - Un amore paziente
e intramontabile - -di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 14 Giugno 2009
L'Eucaristia è il sacramento del sacrificio di Gesù Cristo. Per comprenderla occorre richiamare insieme l'Ultima Cena e l'immolazione della croce con la sua dimensione di gloria. Nell'Ultima Cena Gesù porta a compimento l'antica Pasqua ebraica e la converte nella Pasqua cristiana, dove alla consumazione dell'antico agnello subentra quella del suo "Corpo dato", e il calice del vino è sostituito dal calice del suo "Sangue versato", suggello della nuova alleanza (Luca, 22, 19-20). Nasce, così, il sacramento della "cena del Signore" (I Corinzi, 12, 20), che i discepoli consumeranno in memoria di lui e secondo il suo mandato: "Fate questo in memoria di me" (Luca, 22, 19). Ma, se nell'Ultima Cena il pane spezzato e offerto da Gesù è il suo "Corpo dato", e il calice da lui fatto passare è il calice del "sangue versato" vuol dire che gli apostoli prendono già parte al suo sacrificio, oggettivamente presente in forma "profetica". Storicamente esso non era ancora avvenuto: quella era la "notte in cui veniva tradito" (1 Corinzi, 11, 23); l'immolazione di Gesù sarebbe venuta successivamente sul Calvario. Ed è puntualmente questa immolazione in croce che si deve considerare per comprendere sia la "realtà" del rito eucaristico istituito nella cena pasquale ardentemente desiderata (Luca, 22, 14), sia la ragione della sua ripresentazione sacramentale. Per questo è guida ispirata particolarmente la splendida e acuta Lettera agli Ebrei, con la sua dottrina sulla "perfezione" del sacrificio di Cristo: una dottrina che la teologia forse non ha sufficientemente e coerentemente illustrato. L'immolazione della croce scioglie e consuma il valore transitorio di tutti i sacrifici levitici, per imporsi e risaltare come il sacrificio perfetto e intramontabile. I primi erano precari e destinati a ripetersi: I sacerdoti che li compivano erano, infatti, segnati dalla mortalità (per cui dovevano essere sostituiti) e insieme dalla debolezza (per cui quei sacrifici si esaurivano e dovevano essere ripetuti). Erano sacrifici imperfetti, privi di valore permanente: incapaci di operare una purificazione definitiva, si stemperavano nel tempo. Al contrario, il sacerdote della nuova alleanza, Gesù Cristo, non è attraversato dalla mortalità, non è affetto da debolezza, non è compromesso con il peccato, che, per il suo ripetersi, richiede il rinnovarsi del sacrificio di purificazione. Gesù è un sacerdote - si legge nella Lettera agli Ebrei - "santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli; egli non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso" (Ebrei, 7, 26-27). Nella nuova alleanza il primo sacrificio è abolito e ne è stabilito uno "nuovo" (10, 9), e sia il sacerdote sia il sacrificio risultano perfetti e non passano. Immolando se stesso, Gesù, Sommo Sacerdote, Figlio di Dio, conferisce alla sua offerta, che non è più carnale ma "spirituale", un valore che non si consuma. Essa non è composta di puri elementi storici per loro natura destinati a passare, ma è in grado di oltrepassare la momentaneità: "Noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre" (Ebrei, 10, 10). Questa offerta è dunque inestinguibile, non "catturata" e non prigioniera di un momento del tempo, bensì comprensiva e aperta su tutti i tempi e su tutti i luoghi. Noi diremmo: sempre "attraente" e "trascendente" in quanto procurata da Cristo con "il proprio sangue". Rileggendo e trasformando la liturgia del giorno dell'espiazione, l'autore della Lettera agli Ebrei afferma: "Cristo, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna" (9, 11-12). "Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui" (Ebrei, 9, 24-25); egli "una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso" (v. 26). Quello di Cristo appare, così, un sacrificio "celeste", ossia un sacrificio perennemente presente dinanzi a Dio, un'offerta permanente, che i sacrifici terrestri solo raffiguravano (Ebrei, 9, 23). Commenta un esegeta: "Alla presenza della scekina egli non offre sacrificio nuovo alcuno. Quella donazione, una e unica, continua" (Cesare Marcheselli-Casale). Importa sottolinearlo: l'unico sacrificio di Cristo è quello della croce - "punto d'arrivo di tutto un decorso di esistenza in se stessa già redentiva" - ma esso "già allora portava in sé tutto il potenziale del sacrificio celeste". A essere radicalmente "celeste" è lo stesso sacrificio della croce. "La morte sacrificale di Cristo - osserva un altro esegeta - non è un atto distinto dalla sua comparsa al cospetto di Dio" (Harold Attridge); propriamente Gesù "non celebra ininterrottamente una liturgia celeste poiché il suo sacrificio fu un evento unico. La liturgia "celeste" è in fondo l'unica dimensione interiore e spirituale del suo sacrifico che è del tutto fisico". Non esistono due sacrifici: quello storico e quello glorioso in cielo, ma l'unico sacrificio, quello del Calvario, che è intimamente glorioso, e quindi celeste ed eterno. Se gli mancasse la prerogativa di essere "celeste", il sacrificio della croce svanirebbe. È una fantasia immaginare Gesù risorto da un lato e il suo sacrificio storico, presente nell'Eucaristia, dall'altro; o il Gesù crocifisso, presente nel sacramento, separato e distinto dall'unico Gesù reale vivente, che è il Gesù celeste e glorioso. Errore. Il segnalibro non è definito.Il sacrificio della croce è la persona di Gesù nel suo donarsi. La perennità del sacrificio della croce è la perennità della persona di Gesù in questo amore oblativo. E l'Eucaristia è il sacramento dell'amore paziente e glorioso di Cristo consumato sulla croce e in certo modo confermato con la risurrezione. La risurrezione o la glorificazione di Gesù, infatti, non fanno che rivelare questo valore celeste e glorioso, e per ciò intramontabile, del sacrificio della croce. Il sacrificio della croce è duraturo a motivo della gloria, inclusa nella sua storia. Senza questa dimensione di gloria, non ci sarebbe possibilità di sacramento. Di più: senza questa gloria apparsa con la risurrezione, non ci sarebbe stato neppure il sacrificio della croce, o questo sarebbe stato a sua volta un sacrificio passeggero, irrecuperabile nel sacramento. In altre parole: l'immolazione di Gesù sulla croce è stata senz'altro un sacrificio storico, segnato dal tempo, come professiamo nel credo: "Patì sotto Ponzio Pilato", e collocato in un luogo preciso: il Calvario. Ma, se esso fosse stato esclusivamente storico, avrebbe subìto la sorte di tutti gli eventi che sorgono e avvengono nella storia: sarebbe stato destinato a passare, logorato dal corso temporale, e a vivere solo in un ricordo attenuato. Ciò che rende, invece, singolare e incomparabile il sacrificio della croce è la dimensione assolutamente nuova che il suo avvenimento storico racchiude. Esattamente grazie a essa è possibile la sua memoria "reale". L'immolazione del Calvario è ripresentabile nel convito eucaristico, per il fatto di essere un sacrificio celeste, perfetto, spirituale, secondo le connotazioni che la lettera agli Ebrei riconosce al sacrificio di Cristo. Ne consegue che "quanto continua ad avvenire in terra, sacrifici quotidiani da parte di sacerdoti della nuova alleanza, è solo attualizzazione di quel suo unico sacrificio sacerdotale e redentivo" (Harold Attridge). Senza dubbio, l'aver compreso la messa come "sacramento" del sacrificio della croce, ossia come il sacrificio stesso della croce in una modalità nuova, quella del segno efficace - per il quale essa è ritrovata dentro un nuovo tempo e un nuovo spazio - è stato un traguardo teologico decisivo. In tal modo si sono abbandonate definitivamente tanto le teorie che ricercavano nella messa, a livelli vari e diverse forme, degli elementi sacrificali, quanto le teorie in cui col carattere oblativo non risaltava anche il carattere sacrificale, e per questo la definizione della messa appunto come "sacramento del sacrificio" appare felice. Ma bisogna procedere ulteriormente e dire che il sacrificio della croce è ripresentabile nel sacramento, perché è un sacrificio dove la storia è ricolma di gloria e quindi è un sacrificio celeste, nel senso della Lettera agli Ebrei. Il sacrificio storico della croce è ripresentabile perché glorioso. Ma deve anche apparire chiaro che è, originariamente, Gesù risorto e Signore e non la celebrazione come tale, a rendere presente nell'Eucaristia il sacrificio della croce. Cristo, in virtù della sua signoria e con l'istituzione nell'Ultima Cena, ha legato il suo sacrificio temporale capace di "redenzione eterna" (Ebrei, 9, 11) al nostro spazio e alla nostra storia, perché fosse fruibile mediante i segni da lui istituiti. Il sacramento eucaristico non ripete l'immolazione: questa si ritrova ed è raggiunta nel "sacro convito" a motivo della condiscendenza del Signore, il quale, potendo disporre del sacrificio del suo Corpo e del suo Sangue, incessantemente lo ridona a noi. Questo vale per l'Eucaristia e vale per tutti i sacramenti, i quali, prima che gesti della Chiesa, sono gesti del Signore, vivente in continua e gloriosa intercessione per noi alla destra del Padre. La Chiesa e i suoi ministri non agiscono in nome proprio, ma in nome e per la potestà di Cristo - in persona Christi - in atto in cielo e sulla terra. Ogni volta è dal Crocifisso risuscitato che noi riceviamo il "Corpo dato" e il "Sangue sparso". Per ciò dove c'è l'Eucaristia, là c'è tutto il Paradiso.
(©L'Osservatore Romano - 14 giugno 2009)
Presentato all'Istituto Sturzo il volume «In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia» - I silenzi degli altri - E Paolo Mieli ripete con forza: «I miei morti non li metto in conto a un non colpevole» - di Raffaele Alessandrini – L’Osservatore Romano, 14 giugno 2009
Se lo storico medievista agnostico Léo Moulin (1906-1996) fosse stato tra i presenti che nel tardo pomeriggio di mercoledì 10, a Roma, gremivano la sala Perin del Vaga dell'Istituto Luigi Sturzo, avrebbe approvato e condiviso, con tutta probabilità, molte delle affermazioni ascoltate durante l'incontro dedicato al volume di saggi storici su Papa Pacelli di vari autori - e corredato dalle riflessioni di Benedetto XVI sul suo predecessore - curato dal direttore del nostro giornale Giovanni Maria Vian (In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia, Venezia, Marsilio, 2009, pagine 168, euro 13). E soprattutto lo storico avrebbe applaudito a scena aperta quando il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, intervenendo sui contenuti del dibattito, al quale hanno partecipato testimoni e studiosi profondamente diversi per cultura e per storia personale, non ha mancato di chiamare in causa quanti, guardando al passato, sono soliti mettere sul banco degli accusati la Chiesa cattolica. "Date retta a me, vecchio incredulo che se ne intende: il capolavoro della propaganda anticristiana - aveva infatti detto un giorno Moulin - è l'essere riusciti a creare nei cristiani, nei cattolici soprattutto, una cattiva coscienza; a istillargli l'imbarazzo, quando non la vergogna per la loro storia. A furia di insistere, dalla riforma sino ad oggi, ce l'hanno fatta a convincervi di essere i responsabili di tutti o quasi i mali del mondo (...) E voi, così spesso ignoranti del vostro passato, avete finito per crederci, magari per dar loro manforte. Invece io (agnostico, ma storico che cerca di essere oggettivo) vi dico che dovete reagire, in nome della verità. Spesso, infatti, non è vero. E se qualcosa di vero c'è, è anche vero che in un bilancio di venti secoli di cristianesimo le luci prevalgono di gran lunga sulle ombre. Ma poi: perché non chiedere a vostra volta il conto a chi lo presenta a voi? (...) Da quali pulpiti ascoltate, contriti, certe prediche?". Nel caso specifico si può ben dire come il cardinale segretario di Stato, mercoledì scorso, il "conto" lo abbia presentato ai sostenitori di quella propaganda che ha ridotto la grandiosa figura di Pio XII - nonché la complessità e la ricchezza di un pontificato durato vent'anni - alle fosche mitologie storicizzanti affiorate sul solco tracciato dall'opera teatrale Der Stellvertreter di Rolf Hochhuut (1963), e dai suoi epigoni, quelle del "Papa di Hitler" da additare al pubblico obbrobrio per i presunti silenzi, se non addirittura connivenze, di fronte alla Shoah. "Si potrebbe, e sarebbe ormai davvero ora di fare luce - ha detto invece il cardinal Bertone - su ben altri silenzi. Sia in merito alla persecuzione ebraica sia su altre vicende rivelatrici, quelle sì, di cattiva coscienza. E per stare sull'attualità basti solo pensare al settantesimo anniversario del patto Molotov-Ribbentrop", cioè all'intesa di non aggressione germano-sovietica ratificata nel 1939, la quale, avvenuta nella quasi totale indifferenza delle nazioni, di fatto spianò la strada all'invasione nazista della Polonia e allo scoppio della seconda guerra mondiale. Il discorso evidentemente chiama in causa quanti invocano l'apertura degli archivi degli anni della guerra. Anche in questo campo la Santa Sede è molto più avanti di altre istituzioni. Al di là della monumentale opera, voluta a suo tempo da Paolo vi, della pubblicazione degli Actes et documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale (1939-1945) in dodici volumi (1965-1981), è significativo ricordare quanto per l'occasione ha tenuto a sottolineare il cardinale Bertone sulle carte a disposizione degli studiosi dell'Archivio Segreto Vaticano che a tutt'oggi comprendono l'intero pontificato di Papa Pio xi. Come mai - chiede il porporato - tanti storici così attenti e puntigliosi a vagliare i comportamenti e a processare le intenzioni di Pio XII non si impegnano a fondo sui documenti che testimoniano l'operato del segretario di Stato, primo e più fedele collaboratore di Pio xi, il cardinale Eugenio Pacelli? E questo proprio negli anni in cui il nazionalsocialismo si affermava in Germania e in Austria e - gradualmente ma in termini chiarissimi - dietro il fosco mito della razza e del sangue manifestava le proprie intenzioni totalitarie, l'odio per gli ebrei e per i non ariani? È davvero possibile pensare che Papa Ratti, di solito ricordato proprio per le sue nette e accorte posizioni anche in difesa degli ebrei (così come contro tutte le forme di totalitarismo e contro il capitalismo selvaggio) si affidasse per tanti anni a un uomo lontano dalla sua sensibilità? Al dibattito sul volume curato da Vian, al quale assistevano tra gli altri anche il cardinale archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa Raffaele Farina, gli arcivescovi Pier Luigi Celata, Rino Fisichella e Gianfranco Ravasi, nonché il presidente emerito della Corte costituzionale italiana, Giovanni Maria Flick, hanno preso parte gli storici Giorgio Israel, Paolo Mieli e Roberto Pertici, moderati da Cesare De Michelis, presidente della casa editrice Marsilio. Giorgio Israel ha sottolineato le circostanze in cui suo padre, il biologo e scrittore Saul, ebreo di Salonicco(1897-1981) - trasferito a Roma in giovane età e cittadino italiano dal 1919 - strinse amicizia con il poeta e critico letterario cristiano Giulio Salvadori (morto nel 1928), e poi come negli anni della persecuzione fosse costretto a rifugiarsi prima nel convento di Sant'Antonio a via Merulana e poi a San Giovanni in Laterano. A quel periodo, nell'aprile 1944, risale il toccante testo inedito pubblicato nel libro In difesa di Pio XII. La testimonianza di Saul Israel, ebreo osservante, è indicativa: l'accoglienza nei conventi, il via vai di partigiani cattolici che aiutano e assistono i rifugiati, sono evidentemente segno che questa gigantesca operazione di salvataggio non può avvenire che con l'assenso del Papa. Per Paolo Mieli la vera questione celata dietro le accuse assurde di antisemitismo è da ricercarsi invece nel deciso anticomunismo di Pio XII. Mieli che tiene a ricordare di non essere cattolico e di avere del sangue ebraico nella propria famiglia - "non poco di questo sangue è stato versato nei campi di sterminio" - anzitutto trova inconcepibile l'idea di un Pio XII ridotto dalla leggenda nera a complice di Hitler: "I miei morti non li metto in conto a un non colpevole". Anzi, Papa Pacelli fu tutt'altro che persecutore di ebrei ma li aiutò in modo così straordinario che è difficile, volgendosi indietro, trovare eguali termini di paragone sullo scenario di quel tempo. A rafforzare la propria opinione Mieli ricorda anche la testimonianza riconoscente di un altro grande giornalista, come Arrigo Levi che nel suo ultimo libro Un paese non basta (il Mulino) racconta come ebbe alcuni parenti salvati dall'azione provvidenziale della Chiesa cattolica. E a chi sollevava l'interrogativo - non infrequente - sui motivi che avessero indotto Pio XII a non adottare atteggiamenti esteriori di protesta dopo le deportazioni naziste degli ebrei di Roma, Mieli ricorda come Levi abbia realisticamente osservato che nell'ipotesi di un Papa andato platealmente a stracciarsi le vesti in ghetto "migliaia e migliaia di ebrei rifugiatisi nei conventi, e le suore e i frati che li avevano accolti, non si sarebbero salvati". Quindi Mieli pone in risalto alcuni fatti che anche per gli storici non professionisti dovrebbero essere evidenti: "I vent'anni di pontificato di Papa Pacelli sono complessi e importantissimi". Come è possibile che una figura così rilevante - l'autore di encicliche come la Mystici Corporis, la Divino afflante Spiritu, la Mediator Dei e come la Miranda prorsus, dedicata agli strumenti di comunicazione sociale e ancora oggi straordinariamente viva e attuale - sia stato sottoposto a una così volgare banalizzazione? A questa domanda Mieli ne ha aggiunta una seconda: come dimenticare gli attestati di stima e di omaggio che nel dopoguerra tutte le grandi personalità del mondo ebraico riservarono a Pio XII? I motivi di questa campagna denigratoria, secondo lo storico che per due volte è stato direttore del "Corriere della Sera", sono da rintracciarsi nella coerenza di Papa Pacelli al proprio antitotalitarismo e all'impegno sviluppato dalla Santa Sede per smascherare i crimini comunisti. La stessa accusa dei "silenzi" non regge. Meno ancora quella di collaborazionismo ricorrente nei Paesi dell'Est in chiave anticattolica. Ben altri e più gravi furono ad esempio i silenzi sulla persecuzione ebraica tenuti da Stalin. A ricordarlo è stato Roberto Pertici. Nessuna notizia filtra nell'Unione Sovietica, ad esempio tra il 1939 e il 1941, sulle persecuzioni degli ebrei polacchi. Gli ebrei russi entrati a contatto con le truppe naziste andranno inconsapevoli alla morte. Ma non meno pesanti e gravidi di conseguenze saranno il silenzio e il disinteresse negli anni della guerra per la questione ebraica nei Paesi anglosassoni, come poi avrebbe ammesso lo storico e commentatore americano Arthur Schlesinger. A ciò si aggiunge l'influsso delle correnti storiografiche di stampo marxista o antiromano decise a fare i conti con i passati regimi e con quanto poteva apparire in qualche modo connivente col fascismo o con il nazionalsocialismo. Vi sono pagine oscure da chiudere e la cattiva coscienza di molti riveste sistematicamente di luminoso progresso ogni cultura che ponga la Chiesa cattolica sul banco degli imputati. Di fatto, dal 1963 in poi, gli unici "silenzi" a essere condannati dall'opinione pubblica internazionale saranno quelli di Pio XII.
(©L'Osservatore Romano - 14 giugno 2009)
LA DECISIONE DEL TRIBUNALE DI FIRENZE SOLLEVA PROBLEMI VERI - Se il matrimonio è una cosa seria il divorzio non può essere breve - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 giugno 2009
A pplicando direttamente la legge spagnola sul divorzio 'breve' (in Spagna lo si può richiedere dopo appena tre mesi dalle nozze), fortemente voluto nel 2005 da Zapatero, il Tribunale di Firenze ha sciolto in tempi record il matrimonio tra un’italiana e uno spagnolo. La notizia interessa in prima battuta i giuristi, cui spetta il compito di valutare la correttezza della decisione fiorentina. Ma è evidente che il cuore della notizia più che giuridico, è politico-sociale: sono non poche, almeno sei, le proposte di legge depositate in Parlamento per introdurre anche in Italia il divorzio 'veloce', riducendo drasticamente il periodo minimo di tempo legalmente previsto per poter avanzare la richiesta di scioglimento del matrimonio. È facile prevedere che a seguito di questo evento si riaprirà il dibattito sul periodo di separazione (attualmente tre anni) che da noi è necessario che sia trascorso per ottenere il divorzio. Ed è altrettanto facile prevedere che questo dibattito tornerà ad acquistare la solita coloritura libertaria: nessuno obbliga una coppia a divorziare, ma perché impedire, a chi invece abbia preso atto anche in tempi brevissimi del fallimento irrimediabile del proprio matrimonio, di ottenere lo scioglimento del vincolo? Per i suoi fautori, la pretesa di formalizzare il divorzio 'veloce' è né più né meno che una pretesa di libertà.
L’argomentazione, però, non funziona. Essa si fonda su di un equivoco insanabile: quello secondo il quale, poiché la sostanza del matrimonio sarebbe essenzialmente privata, la gestione del vincolo andrebbe demandata alla volontà insindacabile dei membri della coppia. È vero, invece, esattamente il contrario. I rapporti strettamente privati possono avere una rilevanza psicologica e umana mediocre o altissima, ma in ogni caso la loro rilevanza giuridico-sociale è sempre zero. Il matrimonio, invece, non è un rapporto privato, ma pubblico; il mero fatto che il diritto lo istituzionalizzi dimostra quanto profondo sia l’interesse pubblico al fatto che i matrimoni 'esistano' e che 'durino'. È per questo che il diritto assegna agli sposi uno status socialmente riconosciuto e (malgrado la possibilità del divorzio) 'resistente'; uno status a tal punto giuridicamente formalizzato e registrato, che solo l’intervento di un giudice è legittimato ad alterarlo.
La differenza tra un’unione libera e un’unione matrimoniale è tutta qui ed è una differenza immensa. Ecco perché il matrimonio, come si insegna agli studenti del primo anno di giurisprudenza, non può ammettere né termini né condizioni: la sua è una pretesa in qualche misura definibile come 'assoluta': né più né meno che quella di attivare tra i coniugi una relazione 'totale'. È per questo che, anche solo intuitivamente, siamo tutti convinti che ipotizzare un matrimonio a termine (ad esempio di solo qualche mese) o sottoporre il matrimonio a una condizione (ad esempio la nascita di un figlio maschio) non solo è illegale, ma è ingiusto e ingiustificabile, perché contraddice l’identità stessa del matrimonio, riducendolo a un vincolo funzionale a interessi o ad aspettative individuali.
Non si tratta di negare che in ogni matrimonio si diano interessi e aspettative, ma di riconoscere che queste, se si danno, possiedono un rilievo esclusivamente privato e circoscritto: non possono e non devono essere tali, cioè, da qualificare la natura sociale e totale del rapporto. È per questo che ciò che si nasconde dietro la richiesta di legalizzazione dei divorzi 'veloci' non è semplicemente un’istanza di semplificazione burocratica delle procedure di scioglimento del matrimonio. C’è piuttosto l’intenzione (esplicita o implicita, poco importa) di ridurre al minimo o addirittura dissolvere la dimensione temporale del vincolo coniugale, rendendone quindi la durata priva di significato giuridicosociale. Il che comporta, inevitabilmente, un ulteriore e decisivo passo verso la riduzione del matrimonio a una dimensione strettamente privata. Se questa è la posta in gioco oggi (e io ne sono perfettamente convinto) onestà vorrebbe che venisse pubblicamente discussa: trucchi e scorciatoie, come appunto il divorzio veloce zapateriano, non sono degni di una società che voglia riflettere seriamente sul destino delle proprie istituzioni sociali fondamentali.
Progetto Gemma - «La disperazione di dire a quelle donne che neanche noi possiamo più aiutarle» - DA MILANO – Avvenire, 14 giugno 2009
«Il fondo l’ho toccato con mano venerdì scorso. Ci è arrivata la scheda relativa a una bambina rumena, 12 anni, incinta del suo convivente del quale non sappiamo l’età. I genitori non li ha quasi conosciuti. Lui pretende che lei abortisca, lei piange che vuole il suo bambino. Ho pianto anch’io». Erika Vitale da 7 anni è responsabile del Progetto Gemma, una delle risposte che il Movimento per la Vita dà alle richieste d’aiuto che giungono da tutti i Cav d’Italia, compreso quello della Mangiagalli. «Noi non veniamo in diretto contatto con queste madri – racconta –, riceviamo le schede dai Cav, la nostra commissione le esamina e sceglie chi sostenere. Ma non è facile, ogni no che devi dire è una vita che perdi». D’altra parte sono 315 i Cav, e tutti affannati a correre contro il tempo, a trovare le risorse prima che sia troppo tardi per madre e figlio.
In 15 anni di vita, Progetto Gemma ha così salvato 16mila bambini grazie a un’unica entrata, le donazioni dei privati. «Che però ora vengono drammaticamente meno - è la denuncia della responsabile - . Un po’ per la crisi e un po’ perché giustamente molte offerte quest’anno sono state destinate dai cittadini ai terremotati d’Abruzzo, fatto sta che le entrate sono davvero crollate e siamo a rischio di dover rifiutare oltre un centinaio di Progetti Gemma ad altrettante donne incinte che ci hanno chiesto aiuto. Che cosa faranno se anche noi le lasceremo sole? Ovvio che la via dell’aborto diventa la più percorribile, ai loro occhi. Io non mi do pace».
Ogni Progetto Gemma per seguire una madre per 18 mesi costa 2.880 euro, l’equivalente di 160 euro al mese, la cifra che l’associazione affianca ad ulteriori aiuti concreti, come gli alimenti e tutto ciò che serve per crescere il bambino fino a un anno di vita. Il tutto moltiplicato per le quasi duemila donne che attualmente risultano prese in carico. «Ultimamente però ci è già successo di dover rimandare indietro i nuovi arrivi ed è stato tremendo – dice Erika Vitale –. Il nostro è un lavoro meraviglioso perché ogni giorno si tocca con mano la Provvidenza, ma purtroppo anche la disperazione». Sono tanti i miracoli di generosità che ancora permettono di tirare avanti, basta una piccola rinuncia perché un Progetto Gemma diventi realtà: «Quest’anno abbiamo avuto sposi che hanno rinunciato ai regali di nozze, tre o quattro Prime Comunioni che ci hanno devoluto i soldi delle bomboniere, una laurea, alcuni anniversari di matrimonio, funerali senza costose corone di fiori... E poi parrocchie, gruppi catechistici, eventi sportivi, persino una gara in Vespa a Marsala, in Sicilia, le cui iscrizioni hanno finanziato un Progetto». Latitano invece le istituzioni: in 15 anni solo 18 Comuni hanno adottato una madre...
Anche qui tante le storie, accomunate dalla solitudine e dalla constatazione che per dare una mano a volte basta davvero poco: «Ricevere anche solo quei 160 euro al mese da gente sconosciuta dà come una scossa a queste ragazze – spiega l’esperta –, fa emergere in loro risorse che non conoscevano. E a volte anche nelle famiglie d’origine fa scattare l’orgoglio: se uno sconosciuto aiuta nostra figlia, dicono i genitori, allora dobbiamo farlo anche noi». Già, perché aumentano a dismisura i casi di madri minorenni, troppo spesso scacciate di casa o indotte dagli stessi genitori a liberarsi di quel figlio». L’ultima è di pochi giorni fa: una diciassettenne giunta in lacrime gridando che voleva tenere il bambino. «Aveva già conosciuto un Cav e lì si era sentita capita, poi però aveva ceduto alla volontà altrui ed era già sul lettino dell’aborto quando è scappata per salvarlo ». Tra tante storie tragiche, una di speranza. È quella di Alessia, 17 anni, segnalata da un Cav del Centro Italia: «Saputo di essere incinta, aveva deciso di abortire. Fatta l’ecografia, però, ha scoperto di attendere due gemellini... Uno era pronta a sopprimerlo, due no, era troppo». Per lei un doppio Progetto Gemma e oggi due figli, nati sani e belli. (informazioni sul sito del Movimento per la vita: www.mpv.org).
Lucia Bellaspiga
Difesa della vita, strappo dei medici - Sì a maggioranza alla possibilità di dire no alla nutrizione - DAL NOSTRO INVIATO A TERNI ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 14 giugno 2009
Pare condizionato da pregiudizi ideologici il documento di sette pagine approvato, a larga maggioranza, dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), che a Terni ha riunito il Consiglio nazionale per una tre giorni di approfondimento sul tema delle dichiarazioni anticipate di volontà. Infatti il testo conclusivo - che ha ottenuto il voto favorevole di 85 presidenti su 105, il voto contrario di 5 e l’astensione di 7 - in nome di un’alleanza terapeutica 'paritaria' soggiace al giudizio di chi ritiene che la vita non sia un bene indisponibile e che la volontà del paziente sia da supporre sempre completa e assoluta, potendo il medico solo rifiutare, in scienza e coscienza, di prestare la propria opera. Nello specifico il testo approvato considera la nutrizione artificiale una terapia medica e pertanto rifiutabile in ogni circostanza, sia presente sia futura, attraverso dichiarazioni anticipate di volontà (in contrasto con quanto prevede il ddl Calabrò licenziato dal Senato). «Il nostro lavoro si muove anche nell’auspicio - hanno dichiarato il presidente della Fnomceo Amedeo Bianco e quello dell’Ordine dei medici di Terni, Aristide Paci - che, dopo una pausa di riflessione che coinvolga tutti i soggetti interessati, il confronto riprenda il percorso in un clima più sereno e con un dialogo costruttivo ». Su queste materie «delicate e intime» gli Ordini dei medici chiedono che «il legislatore intervenga formulando un diritto mite, cioè che si limiti esclusivamente a definire la cornice di legittimità giuridica sulla base dei diritti della persona costituzionalmente protetti, senza invadere l’autonomia del paziente e quella del medico». Sembra quindi che il documento - che pure sancisce una spaccatura della Fnomceo - voglia «indicare la linea» al legislatore. I presidenti degli Ordini provinciali dicono infatti: «È nostra convinzione che le previsioni del Codice di Deontologia medica abbiano forza giuridica ed etica e siano di per sé idonee ad orientare e legittimare le deci- sioni assunte in una alleanza terapeutica ma il conflitto tra competenze legislative e competenze giudiziarie che ha fatto seguito alla vicenda Englaro, ha determinato una forte accelerazione del processo legislativo in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) al fine di definirne gli ambiti di efficacia». Viene poi ricordato che «la nutrizione artificiale è trattamento assicurato da competenze mediche e sanitarie ... e richiedente il consenso informato del paziente... La sua capacità di sostenere funzioni vitali... ne motiva l’impiego, in ogni progetto di cura appropriato, efficace e proporzionato, compresi quelli esclusivamente finalizzati ad alleviare le sofferenze. In queste circostanze, le finalità tecniche ed etiche che ne legittimano l’utilizzo definiscono anche i suoi limiti, quelli sui quali può intervenire la scelta informata e consapevole, attuale o dichiarata anticipatamente del paziente e la libertà di scienza e coscienza del medico ». Stupisce infine che la Fnomceo, dopo aver sottolineato il valore fondante del Codice deontologico, abbia però tanto paura di sembrare paternalista da sottolineare che la relazione di cura è «tesa a realizzare un rapporto paritario ed equo» con il paziente e si basi anche sulle opinioni delle associazioni di tutela dei pazienti e dei consumatori: nel dibattito di venerdì uno di questi rappresentanti è arrivato a dire che le Dat sono strumento perché il cittadino possa decidere 'quando' morire.