sabato 20 giugno 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Omelia di Benedetto XVI per l'inaugurazione dell'Anno Sacerdotale
2) Lettera del Papa ai presbiteri per l’apertura dell’ "Anno Sacerdotale"
3) Il san Paolo di Jacques Maritain - La vita è dramma, non tragedia - di Piero Viotto – L’Osservatore Romano, 20 Giugno 2009
4) Eugenio Corti racconta Caprara: dall'ideologia alla scoperta del vero bisogno umano - Massimo Caprara, l’ex segretario di Togliatti, il fondatore de Il Manifesto, è morto ieri all’età di 87 anni. Abbandonato il Partito Comunista Italiano per abbracciare il cattolicesimo ha trascorso il resto della propria vita a combattere l’ideologia a lungo sostenuta, denunciandone i crimini e, come lui stesso disse, “la mancanza di umanità”. – ilsussidiario.net
5) Caprara, Togliatti e il vino nuovo - Pigi Colognesi - venerdì 19 giugno 2009 – ilsussidiario.net
6) L’INTRODUZIONE DEI DISTRIBUTORI AUTOMATICI NEGLI ISTITUTI DI ROMA - Il profilattico entra a scuola La Provincia dà la lezione sbagliata - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 20 giugno 2009
7) Roccella: sulla Ru486 massima trasparenza – Avvenire, 20 giugno 2009

Omelia di Benedetto XVI per l'inaugurazione dell'Anno Sacerdotale
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 19 giugno 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell'omelia che Benedetto XVI ha pronunciato nella Basilica vaticana questo venerdì pomeriggio, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, presiedendo la celebrazione dei secondi Vespri della solennità in occasione dell'apertura dell'Anno Sacerdotale.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
nell'antifona al Magnificat tra poco canteremo: "Il Signore ci ha accolti nel suo cuore - Suscepit nos Dominus in sinum et cor suum". Nell'Antico Testamento si parla 26 volte del cuore di Dio, considerato come l'organo della sua volontà: rispetto al cuore di Dio l'uomo viene giudicato. A causa del dolore che il suo cuore prova per i peccati dell'uomo, Iddio decide il diluvio, ma poi si commuove dinanzi alla debolezza umana e perdona. C'è poi un passo veterotestamentario nel quale il tema del cuore di Dio si trova espresso in modo assolutamente chiaro: è nel capitolo 11 del libro del profeta Osea, dove i primi versetti descrivono la dimensione dell'amore con cui il Signore si è rivolto ad Israele all'alba della sua storia: "Quando Israele era fanciullo, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio" (v. 1). In verità, all'instancabile predilezione divina, Israele risponde con indifferenza e addirittura con ingratitudine. "Più li chiamavo - è costretto a constatare il Signore -, più si allontanavano da me" (v. 2). Tuttavia Egli mai abbandona Israele nelle mani dei nemici, perché, cosí dice il versetto 8, "il mio cuore - osserva il Creatore dell'universo - si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione".
Il cuore di Dio freme di compassione! Nell'odierna solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, la Chiesa offre alla nostra contemplazione questo mistero, il mistero del cuore di un Dio che si commuove e riversa tutto il suo amore sull'umanità. Un amore misterioso, che nei testi del Nuovo Testamento ci viene rivelato come incommensurabile passione di Dio per l'uomo. Egli non si arrende dinanzi all'ingratitudine e nemmeno davanti al rifiuto del popolo che si è scelto; anzi, con infinita misericordia, invia nel mondo l'Unigenito suo Figlio perché prenda su di sé il destino dell'amore distrutto; perché, sconfiggendo il potere del male e della morte, possa restituire dignità di figli agli esseri umani resi schiavi dal peccato. Tutto questo a caro prezzo: il Figlio Unigenito del Padre si immola sulla croce: "Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine" (cfr Gv 13,1). Simbolo di tale amore che va oltre la morte è il suo fianco squarciato da una lancia. A tale riguardo, il testimone oculare, l'apostolo Giovanni, afferma: "Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua" (cfr Gv 19,34).
Cari fratelli e sorelle, grazie perché, rispondendo al mio invito, siete venuti numerosi a questa celebrazione con cui entriamo nell'Anno Sacerdotale. Saluto i Signori Cardinali e i Vescovi, in particolare il Cardinale Prefetto e il Segretario della Congregazione per il Clero con i loro collaboratori, ed il Vescovo di Ars. Saluto i sacerdoti e i seminaristi dei vari seminari e collegi di Roma; i religiosi e le religiose e tutti i fedeli. Un saluto speciale rivolgo a Sua Beatitudine Ignace Youssef Younan, Patriarca di Antiochia dei Siri, venuto a Roma per incontrarmi e significare pubblicamente l'"ecclesiastica communio" che gli ho concesso.
Cari fratelli e sorelle, fermiamoci insieme a contemplare il Cuore trafitto del Crocifisso. Abbiamo ascoltato ancora una volta, poco fa, nella breve lettura tratta dalla Lettera di san Paolo agli Efesini, che "Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatti rivivere con Cristo... Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù" (Ef 2,4-6). Essere in Cristo Gesù è già sedere nei Cieli. Nel Cuore di Gesù è espresso il nucleo essenziale del cristianesimo; in Cristo ci è stata rivelata e donata tutta la novità rivoluzionaria del Vangelo: l'Amore che ci salva e ci fa vivere già nell'eternità di Dio. Scrive l'evangelista Giovanni: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna" (3,16). Il suo Cuore divino chiama allora il nostro cuore; ci invita ad uscire da noi stessi, ad abbandonare le nostre sicurezze umane per fidarci di Lui e, seguendo il suo esempio, a fare di noi stessi un dono di amore senza riserve.
Se è vero che l'invito di Gesù a "rimanere nel suo amore" (cfr Gv 15,9) è per ogni battezzato, nella festa del Sacro Cuore di Gesù, Giornata di santificazione sacerdotale, tale invito risuona con maggiore forza per noi sacerdoti, in particolare questa sera, solenne inizio dell'Anno Sacerdotale, da me voluto in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d'Ars. Mi viene subito alla mente una sua bella e commovente affermazione, riportata nel Catechismo della Chiesa Cattolica dove dice: "Il sacerdozio è l'amore del Cuore di Gesù" (n. 1589). Come non ricordare con commozione che direttamente da questo Cuore è scaturito il dono del nostro ministero sacerdotale? Come dimenticare che noi presbiteri siamo stati consacrati per servire, umilmente e autorevolmente, il sacerdozio comune dei fedeli? La nostra è una missione indispensabile per la Chiesa e per il mondo, che domanda fedeltà piena a Cristo ed incessante unione con Lui; esige cioè che tendiamo costantemente alla santità come ha fatto san Giovanni Maria Vianney. Nella Lettera a voi indirizzata per questo speciale anno giubilare, cari fratelli sacerdoti, ho voluto porre in luce alcuni aspetti qualificanti del nostro ministero, facendo riferimento all'esempio e all'insegnamento del Santo Curato di Ars, modello e protettore di tutti i sacerdoti, e in particolare dei parroci. Che questo mio scritto vi sia di aiuto e di incoraggiamento a fare di questo anno un'occasione propizia per crescere nell'intimità con Gesù, che conta su di noi, suoi ministri, per diffondere e consolidare il suo Regno, per diffondere il suo amore, la sua verità. E pertanto, "sull'esempio del Santo Curato d'Ars - così concludevo la mia Lettera - lasciatevi conquistare da Lui e sarete anche voi, nel mondo di oggi, messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace".
Lasciarsi conquistare pienamente da Cristo! Questo è stato lo scopo di tutta la vita di san Paolo, al quale abbiamo rivolto la nostra attenzione durante l'Anno Paolino che si avvia ormai verso la sua conclusione; questa è stata la meta di tutto il ministero del Santo Curato d'Ars, che invocheremo particolarmente durante l'Anno Sacerdotale; questo sia anche l'obiettivo principale di ognuno di noi. Per essere ministri al servizio del Vangelo, è certamente utile e necessario lo studio con una accurata e permanente formazione pastorale, ma è ancor più necessaria quella "scienza dell'amore" che si apprende solo nel "cuore a cuore" con Cristo. E' Lui infatti a chiamarci per spezzare il pane del suo amore, per rimettere i peccati e per guidare il gregge in nome suo. Proprio per questo non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell'Amore che è il suo Cuore trafitto sulla croce.
Solo così saremo in grado di cooperare efficacemente al misterioso "disegno del Padre" che consiste nel "fare di Cristo il cuore del mondo"! Disegno che si realizza nella storia, man mano che Gesù diviene il Cuore dei cuori umani, iniziando da coloro che sono chiamati a stargli più vicini, i sacerdoti appunto. Ci richiamano a questo costante impegno le "promesse sacerdotali", che abbiamo pronunciato il giorno della nostra Ordinazione e che rinnoviamo ogni anno, il Giovedì Santo, nella Messa Crismale. Perfino le nostre carenze, i nostri limiti e debolezze devono ricondurci al Cuore di Gesù. Se infatti è vero che i peccatori, contemplandoLo, devono apprendere da Lui il necessario "dolore dei peccati" che li riconduca al Padre, questo vale ancor più per i sacri ministri. Come dimenticare, in proposito, che nulla fa soffrire tanto la Chiesa, Corpo di Cristo, quanto i peccati dei suoi pastori, soprattutto di quelli che si tramutano in "ladri delle pecore" (Gv 10,1ss), o perché le deviano con le loro private dottrine, o perché le stringono con lacci di peccato e di morte? Anche per noi, cari sacerdoti, vale il richiamo alla conversione e al ricorso alla Divina Misericordia, e ugualmente dobbiamo rivolgere con umiltà l'accorata e incessante domanda al Cuore di Gesù perché ci preservi dal terribile rischio di danneggiare coloro che siamo tenuti a salvare.
Poc'anzi ho potuto venerare, nella Cappella del Coro, la reliquia del Santo Curato d'Ars: il suo cuore. Un cuore infiammato di amore divino, che si commuoveva al pensiero della dignità del prete e parlava ai fedeli con accenti toccanti e sublimi, affermando che "dopo Dio, il sacerdote è tutto! ... Lui stesso non si capirà bene che in cielo" (cfr Lettera per l'Anno Sacerdotale, p. 2). Coltiviamo, cari fratelli, questa stessa commozione, sia per adempiere il nostro ministero con generosità e dedizione, sia per custodire nell'anima un vero "timore di Dio": il timore di poter privare di tanto bene, per nostra negligenza o colpa, le anime che ci sono affidate, o di poterle - Dio non voglia! - danneggiare. La Chiesa ha bisogno di sacerdoti santi; di ministri che aiutino i fedeli a sperimentare l'amore misericordioso del Signore e ne siano convinti testimoni. Nell'adorazione eucaristica, che seguirà la celebrazione dei Vespri, chiederemo al Signore che infiammi il cuore di ogni presbitero di quella "carità pastorale" capace di assimilare il suo personale "io" a quello di Gesù Sacerdote, così da poterlo imitare nella più completa auto-donazione. Ci ottenga questa grazia la Vergine Madre, della quale domani contempleremo con viva fede il Cuore Immacolato. Per Lei il Santo Curato d'Ars nutriva una filiale devozione, tanto che nel 1836, in anticipo sulla proclamazione del Dogma dell'Immacolata Concezione, aveva già consacrato la sua parrocchia a Maria "concepita senza peccato". E mantenne l'abitudine di rinnovare spesso quest'offerta della parrocchia alla Santa Vergine, insegnando ai fedeli che "bastava rivolgersi a lei per essere esauditi", per il semplice motivo che ella "desidera soprattutto di vederci felici". Ci accompagni la Vergine Santa, nostra Madre, nell'Anno Sacerdotale che oggi iniziamo, perché possiamo essere guide salde e illuminate per i fedeli che il Signore affida alle nostre cure pastorali. Amen!

[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana, aggiunte a cura di ZENIT]


Lettera del Papa ai presbiteri per l’apertura dell’ "Anno Sacerdotale"
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 18 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera che Benedetto XVI ha indirizzato ai presbiteri per l’apertura dell’ "Anno Sacerdotale", da lui proclamato in occasione del 150° anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney, Curato d’Ars.
* * *
Cari fratelli nel Sacerdozio,
nella prossima solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, venerdì 19 giugno 2009 – giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione del clero –, ho pensato di indire ufficialmente un “Anno Sacerdotale” in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria Vianney, il Santo Patrono di tutti i parroci del mondo.1 Tale anno, che vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi, si concluderà nella stessa solennità del 2010. “Il Sacerdozio è l'amore del cuore di Gesù”, soleva dire il Santo Curato d’Ars.2 Questa toccante espressione ci permette anzitutto di evocare con tenerezza e riconoscenza l’immenso dono che i sacerdoti costituiscono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità. Penso a tutti quei presbiteri che offrono ai fedeli cristiani e al mondo intero l’umile e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo, cercando di aderire a Lui con i pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di tutta la propria esistenza. Come non sottolineare le loro fatiche apostoliche, il loro servizio infaticabile e nascosto, la loro carità tendenzialmente universale? E che dire della fedeltà coraggiosa di tanti sacerdoti che, pur tra difficoltà e incomprensioni, restano fedeli alla loro vocazione: quella di “amici di Cristo”, da Lui particolarmente chiamati, prescelti e inviati?
Io stesso porto ancora nel cuore il ricordo del primo parroco accanto al quale esercitai il mio ministero di giovane prete: egli mi lasciò l’esempio di una dedizione senza riserve al proprio servizio pastorale, fino a trovare la morte nell’atto stesso in cui portava il viatico a un malato grave. Tornano poi alla mia memoria gli innumerevoli confratelli che ho incontrato e che continuo ad incontrare, anche durante i miei viaggi pastorali nelle diverse nazioni, generosamente impegnati nel quotidiano esercizio del loro ministero sacerdotale. Ma l’espressione usata dal Santo Curato evoca anche la trafittura del Cuore di Cristo e la corona di spine che lo avvolge. Il pensiero va, di conseguenza, alle innumerevoli situazioni di sofferenza in cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi dell’esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché incompresi dagli stessi destinatari del loro ministero: come non ricordare i tanti sacerdoti offesi nella loro dignità, impediti nella loro missione, a volte anche perseguitati fino alla suprema testimonianza del sangue?
Ci sono, purtroppo, anche situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è la Chiesa stessa a soffrire per l’infedeltà di alcuni suoi ministri. È il mondo a trarne allora motivo di scandalo e di rifiuto. Ciò che massimamente può giovare in tali casi alla Chiesa non è tanto la puntigliosa rilevazione delle debolezze dei suoi ministri, quanto una rinnovata e lieta coscienza della grandezza del dono di Dio, concretizzato in splendide figure di generosi Pastori, di Religiosi ardenti di amore per Dio e per le anime, di Direttori spirituali illuminati e pazienti. A questo proposito, gli insegnamenti e gli esempi di san Giovanni Maria Vianney possono offrire a tutti un significativo punto di riferimento: il Curato d’Ars era umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente: “Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina”.3 Parlava del sacerdozio come se non riuscisse a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad una creatura umana: “Oh come il prete è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe... Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia...”.4 E spiegando ai suoi fedeli l’importanza dei sacramenti diceva: “Tolto il sacramento dell'Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l'ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest'anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo”.5 Queste affermazioni, nate dal cuore sacerdotale del santo parroco, possono apparire eccessive. In esse, tuttavia, si rivela l’altissima considerazione in cui egli teneva il sacramento del sacerdozio. Sembrava sopraffatto da uno sconfinato senso di responsabilità: “Se comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo: non di spavento, ma di amore... Senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra... Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti: è lui che apre la porta; egli è l’economo del buon Dio; l’amministratore dei suoi beni... Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie... Il prete non è prete per sé, lo è per voi”.6
Era giunto ad Ars, un piccolo villaggio di 230 abitanti, preavvertito dal Vescovo che avrebbe trovato una situazione religiosamente precaria: “Non c'è molto amor di Dio in quella parrocchia; voi ce ne metterete”. Era, di conseguenza, pienamente consapevole che doveva andarvi ad incarnare la presenza di Cristo, testimoniandone la tenerezza salvifica: “[Mio Dio], accordatemi la conversione della mia parrocchia; accetto di soffrire tutto quello che vorrete per tutto il tempo della mia vita!”, fu con questa preghiera che iniziò la sua missione.7 Alla conversione della sua parrocchia il Santo Curato si dedicò con tutte le sue energie, ponendo in cima ad ogni suo pensiero la formazione cristiana del popolo a lui affidato. Cari fratelli nel Sacerdozio, chiediamo al Signore Gesù la grazia di poter apprendere anche noi il metodo pastorale di san Giovanni Maria Vianney! Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale identificazione col proprio ministero. In Gesù, Persona e Missione tendono a coincidere: tutta la sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d’Ars iniziò subito quest’umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: “Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell’aurora e non ne usciva che dopo l’Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui”, si legge nella prima biografia.8
L’esagerazione devota del pio agiografo non deve farci trascurare il fatto che il Santo Curato seppe anche “abitare” attivamente in tutto il territorio della sua parrocchia: visitava sistematicamente gli ammalati e le famiglie; organizzava missioni popolari e feste patronali; raccoglieva ed amministrava denaro per le sue opere caritative e missionarie; abbelliva la sua chiesa e la dotava di arredi sacri; si occupava delle orfanelle della “Providence” (un istituto da lui fondato) e delle loro educatrici; si interessava dell’istruzione dei bambini; fondava confraternite e chiamava i laici a collaborare con lui.
Il suo esempio mi induce a evidenziare gli spazi di collaborazione che è doveroso estendere sempre più ai fedeli laici, coi quali i presbiteri formano l’unico popolo sacerdotale9 e in mezzo ai quali, in virtù del sacerdozio ministeriale, si trovano “per condurre tutti all’unità della carità, ‘amandosi l’un l’altro con la carità fraterna, prevenendosi a vicenda nella deferenza’ (Rm 12,10)”.10È da ricordare, in questo contesto, il caloroso invito con il quale il Concilio Vaticano II incoraggia i presbiteri a “riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa… Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter insieme a loro riconoscere i segni dei tempi”.11
Ai suoi parrocchiani il Santo Curato insegnava soprattutto con la testimonianza della vita. Dal suo esempio i fedeli imparavano a pregare, sostando volentieri davanti al tabernacolo per una visita a Gesù Eucaristia.12 “Non c’è bisogno di parlar molto per ben pregare” – spiegava loro il Curato - “Si sa che Gesù è là, nel santo tabernacolo: apriamogli il nostro cuore, rallegriamoci della sua santa presenza. È questa la migliore preghiera”.13 Ed esortava: “Venite alla comunione, fratelli miei, venite da Gesù. Venite a vivere di Lui per poter vivere con Lui...14 “È vero che non ne siete degni, ma ne avete bisogno!”.15 Tale educazione dei fedeli alla presenza eucaristica e alla comunione acquistava un’efficacia particolarissima, quando i fedeli lo vedevano celebrare il Santo Sacrificio della Messa. Chi vi assisteva diceva che “non era possibile trovare una figura che meglio esprimesse l’adorazione... Contemplava l’Ostia amorosamente”.16 “Tutte le buone opere riunite non equivalgono al sacrificio della Messa, perché quelle sono opere di uomini, mentre la Santa Messa è opera di Dio»,17 diceva. Era convinto che dalla Messa dipendesse tutto il fervore della vita di un prete: «La causa della rilassatezza del sacerdote è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere un prete che celebra come se facesse una cosa ordinaria!”.18 Ed aveva preso l’abitudine di offrire sempre, celebrando, anche il sacrificio della propria vita: “Come fa bene un prete ad offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine!”.19
Questa immedesimazione personale al Sacrificio della Croce lo conduceva – con un solo movimento interiore – dall’altare al confessionale. I sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi di questo sacramento. Al tempo del Santo Curato, in Francia, la confessione non era né più facile, né più frequente che ai nostri giorni, dato che la tormenta rivoluzionaria aveva soffocato a lungo la pratica religiosa. Ma egli cercò in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della Penitenza sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della Presenza eucaristica. Seppe così dare il via a un circolo virtuoso. Con le lunghe permanenze in chiesa davanti al tabernacolo fece sì che i fedeli cominciassero ad imitarlo, recandovisi per visitare Gesù, e fossero, al tempo stesso, sicuri di trovarvi il loro parroco, disponibile all’ascolto e al perdono. In seguito, fu la folla crescente dei penitenti, provenienti da tutta la Francia, a trattenerlo nel confessionale fino a 16 ore al giorno. Si diceva allora che Ars era diventata “il grande ospedale delle anime”.20 “La grazia che egli otteneva [per la conversione dei peccatori] era sì forte che essa andava a cercarli senza lasciar loro un momento di tregua!”, dice il primo biografo.21 Il Santo Curato non la pensava diversamente, quando diceva: “Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore e lo fa tornare a Lui”.22 “Questo buon Salvatore è così colmo d’amore che ci cerca dappertutto”.23
Tutti noi sacerdoti dovremmo sentire che ci riguardano personalmente quelle parole che egli metteva in bocca a Cristo: “Incaricherò i miei ministri di annunciare ai peccatori che sono sempre pronto a riceverli, che la mia misericordia è infinita”.24 Dal Santo Curato d’Ars noi sacerdoti possiamo imparare non solo un’inesauribile fiducia nel sacramento della Penitenza che ci spinga a rimetterlo al centro delle nostre preoccupazioni pastorali, ma anche il metodo del “dialogo di salvezza” che in esso si deve svolgere. Il Curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari penitenti. Chi veniva al suo confessionale attratto da un intimo e umile bisogno del perdono di Dio, trovava in lui l’incoraggiamento ad immergersi nel “torrente della divina misericordia” che trascina via tutto nel suo impeto. E se qualcuno era afflitto al pensiero della propria debolezza e incostanza, timoroso di future ricadute, il Curato gli rivelava il segreto di Dio con un’espressione di toccante bellezza: “Il buon Dio sa tutto. Prima ancora che voi vi confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come è grande l’amore del nostro Dio che si spinge fino a dimenticare volontariamente l’avvenire, pur di perdonarci!”.25 A chi, invece, si accusava in maniera tiepida e quasi indifferente, offriva, attraverso le sue stesse lacrime, la seria e sofferta evidenza di quanto quell’atteggiamento fosse “abominevole”: “Piango perché voi non piangete”,26 diceva. “Se almeno il Signore non fosse così buono! Ma è così buono! Bisogna essere barbari a comportarsi così davanti a un Padre così buono!”.27 Faceva nascere il pentimento nel cuore dei tiepidi, costringendoli a vedere, con i propri occhi, la sofferenza di Dio per i peccati quasi “incarnata” nel volto del prete che li confessava. A chi, invece, si presentava già desideroso e capace di una più profonda vita spirituale, spalancava le profondità dell’amore, spiegando l’indicibile bellezza di poter vivere uniti a Dio e alla sua presenza: “Tutto sotto gli occhi di Dio, tutto con Dio, tutto per piacere a Dio... Com’è bello!”.28 E insegnava loro a pregare: “Mio Dio, fammi la grazia di amarti tanto quanto è possibile che io t’ami”.29
Il Curato d’Ars, nel suo tempo, ha saputo trasformare il cuore e la vita di tante persone, perché è riuscito a far loro percepire l’amore misericordioso del Signore. Urge anche nel nostro tempo un simile annuncio e una simile testimonianza della verità dell’Amore: Deus caritas est (1 Gv 4,8). Con la Parola e con i Sacramenti del suo Gesù, Giovanni Maria Vianney sapeva edificare il suo popolo, anche se spesso fremeva convinto della sua personale inadeguatezza, al punto da desiderare più volte di sottrarsi alle responsabilità del ministero parrocchiale di cui si sentiva indegno. Tuttavia con esemplare obbedienza restò sempre al suo posto, perché lo divorava la passione apostolica per la salvezza delle anime. Cercava di aderire totalmente alla propria vocazione e missione mediante un’ascesi severa: “La grande sventura per noi parroci - deplorava il Santo - è che l’anima si intorpidisce”30; ed intendeva con questo un pericoloso assuefarsi del pastore allo stato di peccato o di indifferenza in cui vivono tante sue pecorelle. Egli teneva a freno il corpo, con veglie e digiuni, per evitare che opponesse resistenze alla sua anima sacerdotale. E non rifuggiva dal mortificare se stesso a bene delle anime che gli erano affidate e per contribuire all’espiazione dei tanti peccati ascoltati in confessione. Spiegava ad un confratello sacerdote: “Vi dirò qual è la mia ricetta: dò ai peccatori una penitenza piccola e il resto lo faccio io al loro posto”.31 Al di là delle concrete penitenze a cui il Curato d’Ars si sottoponeva, resta comunque valido per tutti il nucleo del suo insegnamento: le anime costano il sangue di Gesù e il sacerdote non può dedicarsi alla loro salvezza se rifiuta di partecipare personalmente al “caro prezzo” della redenzione.
Nel mondo di oggi, come nei difficili tempi del Curato d’Ars, occorre che i presbiteri nella loro vita e azione si distinguano per una forte testimonianza evangelica. Ha giustamente osservato Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.32 Perché non nasca un vuoto esistenziale in noi e non sia compromessa l’efficacia del nostro ministero, occorre che ci interroghiamo sempre di nuovo: “Siamo veramente pervasi dalla Parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa Parola al punto che essa realmente dia un’impronta alla nostra vita e formi il nostro pensiero?”.33 Come Gesù chiamò i Dodici perché stessero con Lui (cfr Mc 3,14) e solo dopo li mandò a predicare, così anche ai giorni nostri i sacerdoti sono chiamati ad assimilare quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli.34
Fu proprio l’adesione senza riserve a questo “nuovo stile di vita” che caratterizzò l’impegno ministeriale del Curato d’Ars. Il Papa Giovanni XXIII nella Lettera enciclica Sacerdotii nostri primordia, pubblicata nel 1959, primo centenario della morte di san Giovanni Maria Vianney, ne presentava la fisionomia ascetica con particolare riferimento al tema dei “tre consigli evangelici”, giudicati necessari anche per i presbiteri: “Se, per raggiungere questa santità di vita, la pratica dei consigli evangelici non è imposta al sacerdote in virtù dello stato clericale, essa si presenta nondimeno a lui, come a tutti i discepoli del Signore, come la via regolare della santificazione cristiana”.35 Il Curato d’Ars seppe vivere i “consigli evangelici” nelle modalità adatte alla sua condizione di presbitero. La sua povertà, infatti, non fu quella di un religioso o di un monaco, ma quella richiesta ad un prete: pur maneggiando molto denaro (dato che i pellegrini più facoltosi non mancavano di interessarsi alle sue opere di carità), egli sapeva che tutto era donato alla sua chiesa, ai suoi poveri, ai suoi orfanelli, alle ragazze della sua “Providence”,36alle sue famiglie più disagiate. Perciò egli “era ricco per dare agli altri ed era molto povero per se stesso”.37Spiegava: “Il mio segreto è semplice: dare tutto e non conservare niente”.38 Quando si trovava con le mani vuote, ai poveri che si rivolgevano a lui diceva contento: “Oggi sono povero come voi, sono uno dei vostri”.39 Così, alla fine della vita, poté affermare con assoluta serenità: “Non ho più niente. Il buon Dio ora può chiamarmi quando vuole!”.40 Anche la sua castità era quella richiesta a un prete per il suo ministero. Si può dire che era la castità conveniente a chi deve toccare abitualmente l’Eucaristia e abitualmente la guarda con tutto il trasporto del cuore e con lo stesso trasporto la dona ai suoi fedeli. Dicevano di lui che “la castità brillava nel suo sguardo”, e i fedeli se ne accorgevano quando egli si volgeva a guardare il tabernacolo con gli occhi di un innamorato.41 Anche l’obbedienza di san Giovanni Maria Vianney fu tutta incarnata nella sofferta adesione alle quotidiane esigenze del suo ministero. È noto quanto egli fosse tormentato dal pensiero della propria inadeguatezza al ministero parrocchiale e dal desiderio di fuggire “a piangere la sua povera vita, in solitudine”.42 Solo l’obbedienza e la passione per le anime riuscivano a convincerlo a restare al suo posto. A se stesso e ai suoi fedeli spiegava: “Non ci sono due maniere buone di servire Dio. Ce n’è una sola: servirlo come lui vuole essere servito”.43 La regola d’oro per una vita obbediente gli sembrava questa: “Fare solo ciò che può essere offerto al buon Dio”.44
Nel contesto della spiritualità alimentata dalla pratica dei consigli evangelici, mi è caro rivolgere ai sacerdoti, in quest’Anno a loro dedicato, un particolare invito a saper cogliere la nuova primavera che lo Spirito sta suscitando ai giorni nostri nella Chiesa, non per ultimo attraverso i Movimenti ecclesiali e le nuove Comunità. “Lo Spirito nei suoi doni è multiforme… Egli soffia dove vuole. Lo fa in modo inaspettato, in luoghi inaspettati e in forme prima non immaginate… ma ci dimostra anche che Egli opera in vista dell’unico Corpo e nell’unità dell’unico Corpo”.45 A questo proposito, vale l’indicazione del Decreto Presbyterorum ordinis: “Sapendo discernere quali spiriti abbiano origine da Dio, (i presbiteri) devono scoprire con senso di fede i carismi, sia umili che eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi ai laici, devono ammetterli con gioia e fomentarli con diligenza”.46 Tali doni che spingono non pochi a una vita spirituale più elevata, possono giovare non solo per i fedeli laici ma per gli stessi ministri. Dalla comunione tra ministri ordinati e carismi, infatti, può scaturire “un valido impulso per un rinnovato impegno della Chiesa nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo della speranza e della carità in ogni angolo del mondo”.47 Vorrei inoltre aggiungere, sulla scorta dell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis del Papa Giovanni Paolo II, che il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e può essere assolto solo nella comunione dei presbiteri con il loro Vescovo.48 Occorre che questa comunione fra i sacerdoti e col proprio Vescovo, basata sul sacramento dell’Ordine e manifestata nella concelebrazione eucaristica, si traduca nelle diverse forme concrete di una fraternità sacerdotale effettiva ed affettiva.49 Solo così i sacerdoti sapranno vivere in pienezza il dono del celibato e saranno capaci di far fiorire comunità cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima predicazione del Vangelo.
L’Anno Paolino che volge al termine orienta il nostro pensiero anche verso l’Apostolo delle genti, nel quale rifulge davanti ai nostri occhi uno splendido modello di sacerdote, totalmente “donato” al suo ministero. “L’amore del Cristo ci possiede – egli scriveva – e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti” (2 Cor 5,14). Ed aggiungeva: “Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2 Cor. 5,15). Quale programma migliore potrebbe essere proposto ad un sacerdote impegnato ad avanzare sulla strada delle perfezione cristiana?
Cari sacerdoti, la celebrazione del 150.mo anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney (1859) segue immediatamente le celebrazioni appena concluse del 150.mo anniversario delle apparizioni di Lourdes (1858). Già nel 1959 il beato Papa Giovanni XXIII aveva osservato: “Poco prima che il Curato d'Ars concludesse la sua lunga carriera piena di meriti, la Vergine Immacolata era apparsa, in un’altra regione di Francia, ad una fanciulla umile e pura, per trasmetterle un messaggio di preghiera e di penitenza, di cui è ben nota, da un secolo, l'immensa risonanza spirituale. In realtà la vita del santo sacerdote, di cui celebriamo il ricordo, era in anticipo un’illustrazione vivente delle grandi verità soprannaturali insegnate alla veggente di Massabielle. Egli stesso aveva per l'Immacolata Concezione della Santissima Vergine una vivissima devozione, lui che nel 1836 aveva consacrato la sua parrocchia a Maria concepita senza peccato, e doveva accogliere con tanta fede e gioia la definizione dogmatica del 1854”.50 Il Santo Curato ricordava sempre ai suoi fedeli che “Gesù Cristo dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più prezioso, vale a dire della sua Santa Madre”.51Alla Vergine Santissima affido questo Anno Sacerdotale, chiedendole di suscitare nell’animo di ogni presbitero un generoso rilancio di quegli ideali di totale donazione a Cristo ed alla Chiesa che ispirarono il pensiero e l’azione del Santo Curato d’Ars. Con la sua fervente vita di preghiera e il suo appassionato amore a Gesù crocifisso Giovanni Maria Vianney alimentò la sua quotidiana donazione senza riserve a Dio e alla Chiesa. Possa il suo esempio suscitare nei sacerdoti quella testimonianza di unità con il Vescovo, tra loro e con i laici che è, oggi come sempre, tanto necessaria. Nonostante il male che vi è nel mondo, risuona sempre attuale la parola di Cristo ai suoi Apostoli nel Cenacolo: “Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). La fede nel Maestro divino ci dà la forza per guardare con fiducia al futuro. Cari sacerdoti, Cristo conta su di voi. Sull’esempio del Santo Curato d’Ars, lasciatevi conquistare da Lui e sarete anche voi, nel mondo di oggi, messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace!
Con la mia benedizione.
Dal Vaticano, 16 giugno 2009
BENEDICTUS PP. XVI
1 Tale lo ha proclamato il Sommo Pontefice Pio XI nel 1929.
2 “Le Sacerdoce, c’est l’amour du cœur de Jésus” (in Le curé d’Ars. Sa pensée - Son cœur. Présentés par l’Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier Mappus, Foi Vivante, 1966, p. 98). In seguito:Nodet. L’espressione è citata anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1589.
3 Nodet, p. 101
4 Ibid., p. 97.
5 Ibid., pp. 98-99.
6 Ibid., pp. 98-100.
7 Ibid., 183.
8 Monnin A.,Il Curato d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. I, ed. Marietti, Torino 1870, p. 122.
9 Cfr Lumen gentium, 10.
10 Presbyterorum ordinis, 9.
11 Ibid.
12 «La contemplazione è sguardo di fede fissato su Gesù. “Io lo guardo ed egli mi guarda”, diceva, al suo santo Curato, il contadino d'Ars in preghiera davanti al Tabernacolo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2715)
13 Nodet, p. 85.
14 Ibid., p. 114.
15 Ibid., p. 119.
16 Monnin A., o.c., II, pp. 430ss.
17 Nodet, p. 105.
18 Ibid., p. 105.
19 Ibid., p. 104.
20 Monnin A., o. c., II, p. 293.
21 Ibid., II, p. 10.
22 Nodet, p. 128.
23 Ibid., p. 50.
24 Ibid., p. 131.
25 Ibid., p. 130.
26 Ibid., p. 27.
27 Ibid., p. 139.
28 Ibid., p. 28.
29 Ibid., p. 77.
30 Ibid., p. 102.
31 Ibid., p. 189.
32 Evangelii nuntiandi, 41.
33 Benedetto XVI, Omelia nella Messa del S. Crisma, 9.4.2009.
34 Cfr Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea plenaria della Congregazione del Clero, 16.3.2009.
35 P.I.
36 Nome che diede alla casa dove fece accogliere e educare più di 60 ragazze abbandonate. Per mantenerla era disposto a tutto: “J’ai fait tous les commerces imaginables”, diceva sorridendo (Nodet, p. 214)
37 Nodet,p. 216.
38 Ibid., p. 215.
39 Ibid., p. 216.
40 Ibid., p. 214.
41 Cfr Ibid., p. 112.
42 Cfr Ibid., pp. 82-84; 102-103.
43 Ibid., p. 75.
44 Ibid., p. 76.
45 Benedetto XVI, Omelia nella Veglia di Pentecoste, 3.6. 2006.
46 N. 9.
47 Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi amici del Movimento dei Focolari e della Comunità di Sant’Egidio, 8.2.2007.
48 Cfr n. 17.
49 Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Pastores dabo vobis, 74.
50 Lettera enc. Sacerdotii nostri primordia, P. III.
51 Nodet, p. 244.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Il san Paolo di Jacques Maritain - La vita è dramma, non tragedia - di Piero Viotto – L’Osservatore Romano, 20 Giugno 2009
Tre sono le opere di Jacques Maritain che hanno avuto la più larga diffusione nel mondo, suscitando consensi e dissensi, Il primato dello spirituale (1927) Umanesimo integrale (1936) e Il contadino della Garonna (1966), e in tutte abbondano le citazioni dalle Lettere di san Paolo. Ma per conoscere la profondità dell'influenza del pensiero paolino su Maritain bisogna esplorare l'Opera omnia controllando tutti i riferimenti e i rimandi nei temi teologici, politici, culturali della sua lunga riflessione filosofica. Maritain parte dall'analisi del nodo cruciale della riflessione paolina, la relazione tra la legge e la grazia. L'uomo è libero, Dio rispetta la sua libertà, ma la libertà di scelta tra il bene e il male non è la vera libertà, è soltanto la possibilità della libertà, perché l'uomo è realmente libero quando, potendo fare il male, fa il bene e realizza se stesso. Per scegliere occorre una regola, una legge con cui misurare il proprio comportamento. "Il fatto che ciascuno sarà giudicato secondo le sue opere costituisce agli occhi di Paolo un'indiscutibile premessa, un presupposto, di tutto ciò che egli dice. I pagani saranno giudicati in base alla loro legge, che è la norma di condotta invisibilmente presente alla loro coscienza, in virtù della natura e dei misteriosi suggerimenti divini. I giudei saranno giudicati in base alla loro legge, che è la legge di Dio, scritta e resa pubblica, la legge di Mosè". San Paolo ci indica i due errori da evitare: la pretesa di salvarsi da sé o di salvarsi con la semplice conformazione alla legge naturale o mosaica. "L'illusione capitale, a questo punto, è quella di credere che siamo noi a salvarci (o a giustificarci) da soli, con le sole energie della nostra anima e della nostra volontà tese a conformare esattamente la nostra condotta alle regole morali o ai precetti religiosi posti dall'esterno davanti ai nostri occhi". Poiché la legge trascende la coscienza, l'uomo non può giudicarsi e giustificarsi da solo. Le riflessioni di Maritain, nelle Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale, si raccordano all'insegnamento di san Paolo. "La legge da sola è incapace di rendermi buono, la legge può condannarmi, ma non salvarmi. Amo il bene che mi comanda, ma non voglio farlo. La legge costringe, condanna la mia volontà ribelle". Si ha qui un netto superamento della morale kantiana, perché si passa dalla colpa al peccato, riconoscendo che l'infrazione della legge è un'offesa al Legislatore, per cui la morale deve, senza perdere il suo valore, risolversi nella religione. Si passa da iussum a iustum, in quanto una norma non è giusta perché è comandata dalla coscienza, ma è comandata dalla coscienza perché è giusta in se stessa, per cui quando si infrange la legge non ci si sente solo in colpa verso se stessi, ma in peccato verso il Legislatore, fondamento ultimo della norma. Si passa così da un vivere secondo la legge (coscienza sociale) e da un vivere per la legge (coscienza morale) a un vivere oltre la legge (coscienza religiosa). Maritain precisa: "Il limite insormontabile contro il quale urta la filosofia è dovuto al fatto che questa conosce senza dubbio i soggetti, ma li conosce come oggetti, risulta totalmente circoscritta entro la relazione intelligenza-oggetto, mentre la religione si inscrive nella relazione tra soggetto e soggetto". È proprio questa relazione religiosa che è mancata al paganesimo: "San Paolo incolpa la sapienza pagana di non avere riconosciuto questa gloria di Dio che pur conosceva. Certo conoscere questa gloria significa già adorarla. Ma sapere che Dio è un Io trascendente, e sovrano, ed entrare, invece, con tutto il proprio bagaglio e la propria esistenza in carne e ossa, nel rapporto vitale in cui la soggettività creata viene messa di fronte a questa soggettività trascendente, attende da essa la propria salvezza, trema e ama, sono due cose ben diverse. Questo secondo atteggiamento riguarda la religione". La coscienza religiosa non cancella, bensì include la coscienza morale. Infatti "una volta giustificato, l'uomo è tenuto più che mai a operare bene, non perché le opere umane siano idonee, da sole, a salvarlo, ma perché le buone opere procedono dalla carità che ha ricevuto in dono". Da filosofo precisa che, con le opere, dalla carità "l'uomo, agendo liberamente sotto l'influenza della grazia divina riceve dalla misericordia di Dio la dignità di causa seconda e strumentale nelle vicende della propria salvezza". La legge è santa, eppure è foriera di morte, ma il Cristo ci affranca dal regime della legge, perché Dio, che per la libertà dell'uomo permette il male, ripara quel non-essere che l'uomo ha introdotto nella storia. È il dramma della storia dell'uomo, ma non è una tragedia, come intende il pensiero pagano prigioniero della fatalità - basti pensare alle tragedie di Sofocle e all'esistenzialismo di Sartre - perché nel sacrificio di Cristo ha una soluzione positiva per tutti gli uomini, che accettano e partecipano all'Amore riparatore di Dio. Anche in questo senso la carità è il vertice della vita morale, come dice san Paolo e Maritain commenta: "L'amore è la pienezza della legge. È l'amore che permette realmente e integralmente tutti gli altri comandamenti. La carità è inseparabile dalla fede e dalla speranza, ma delle tre virtù teologali che ci vengono donate dalla grazia della giustificazione gratuita, la più grande, quella che merita la vita eterna, è la carità". Anzi la carità è la stessa vita eterna, come ci dice Benedetto XVI nella sua prima enciclica Deus caritas est. Anche le riflessioni ecclesiologiche di Maritain nascono dalla meditazione "che la Chiesa è una persona, non una moltitudine dotata, in senso analogico, di una personalità morale, ma veramente una persona, e questo è il suo privilegio, essenzialmente soprannaturale e unico".
(©L'Osservatore Romano - 20 giugno 2009)


Eugenio Corti racconta Caprara: dall'ideologia alla scoperta del vero bisogno umano - Massimo Caprara, l’ex segretario di Togliatti, il fondatore de Il Manifesto, è morto ieri all’età di 87 anni lasciando un’enorme testimonianza storica e un’eredità culturale che ancora dev’essere pienamente compresa. Abbandonato il Partito Comunista Italiano per abbracciare il cattolicesimo ha trascorso il resto della propria vita a combattere l’ideologia a lungo sostenuta, denunciandone i crimini e, come lui stesso disse, “la mancanza di umanità”. Il Sussidiario ha chiesto a Eugenio Corti, anch’egli diretto testimone delle tragedie che le ideologie del secolo passato scatenarono sul mondo e amico di Caprara, di raccontare quale fosse la statura umana di questo eccezionale personaggio…
“La Verità è una cosa povera, umile, il Vangelo è stato scritto con pochissime parole, ma dal grande significato, è la storia dell’uomo e dell’umanità intera: “perché mi hai abbandonato?”. È Dio che vive la povertà dell’uomo: la mia povertà è la verità, la mia verità è povera, non posso raccontare null’altro che questo. E tutto quello che ti accade nella vita, il lavoro, gli amori, diventa secondario rispetto all’avvenimento che ti è capitato, necessario ma secondario. Adesso mi sento di essere veramente rivoluzionario, adesso che non sono più comunista sono veramente rivoluzionario”.
Eugenio Corti, come commenta questa frase di Massimo Caprara?
Dà l’idea dell’uomo che era. C’è in questa frase tutta la persona di Caprara, trascinato nel comunismo dall’amore per i poveri e per gli esseri umani si è reso conto che la loro salvezza non è quella prevista da Karl Marx, ma quella segnata da Gesù Cristo. Ha scoperto questa cosa semplice e al contempo profondissima trovando in lui stesso la povertà. Ossia non considerandosi come il ricco distributore di una dottrina da impartire ai poveri, ma come egli stesso povero e quindi partecipe realmente dei bisogni umani. Questa è la vera rivoluzione.
Che uomo era a livello personale Massimo Caprara?
L’ho incontrai più volte nel corso della mia vita, ho avuto questo grande onore. Ebbi modo di ammirare in lui soprattutto la dirittura morale, oltre a un’innata gentilezza. Era un uomo passato attraverso un’immane tragedia nell’ordine dello spirito e della cultura. Caprara aveva fermamente creduto in un ideale che gli si era rivelato addirittura mortifero. Non solo negativo, non solo sbagliato, ma produttore di morte. Una scoperta che lo segnò nel profondo, ma che non lo spense. Nel corso dei rimanenti anni della sua esistenza ha sempre cercato di spendere la propria intelligenza e il proprio tempo in un’opera di recupero umano. La sua partecipazione ad azioni che poi dovette giudicare come negative non fu per lui causa di un ritiro dal mondo da trascorrere fra i rimorsi e l’inazione, bensì rappresentò una spinta inesorabile e controcorrente alla riparazione del male compiuto. E questo soprattutto in ambito culturale. Non è da tutti riuscire a rinnegare un’intera vita spesa per un ideale e ancor di più impiegare le proprie restanti energie per fare marcia indietro.
Qual è stato il fattore decisivo del suo cambio di orientamento politico e ideale?
La mia impressione è che Massimo Caprara sia stato al centro di una progressiva scoperta della Verità. A partire da un’intuizione sulle contraddizioni intrinseche alla storia del suo partito, dovuta forse all’estrema coerenza morale che l’ha sempre caratterizzato, un po’ alla volta è emersa in lui, sempre più chiaramente, la coscienza dell’errore di fondo dell’ideologia nella quale si rispecchiava. E sempre più cominciò a mettersi al servizio della Verità. La sua apertura e il suo cammino al servizio della verità lo hanno portato alla conversione al Cattolicesimo. Gli effetti di questo rinnovato rapporto con la religione furono altrettanto radicali nei giudizi espressi sul PCI.
A questo proposito Caprara ha spesso denunciato il tentativo del PCI di appropriarsi ambiguamente di alcuni riferimenti culturali cattolici anche mediante particolari “amicizie” in ambito ecclesiastico. È d’accordo con questo tipo di osservazione?
Sono perfettamente d’accordo. Caprara ha disposto per gran parte della sua vita di un osservatorio straordinario, quello conferitogli dal ruolo di segretario di Togliatti. Aveva quindi sott’occhio il “capo” e tutto il mondo che lo circondava, giorno per giorno. Fu testimone delle azioni di Togliatti e della sua incredibile spregiudicatezza, anche nei riguardi del Cattolicesimo. Ed in effetti Caprara, anche da militante, ha sempre malvisto l’ambiguo rapporto fra il PCI e i cattocomunisti alla Franco Rodano. Non tollerava il connubio di “diavolo e acqua santa”, sebbene lo stesso Togliatti fosse anch’egli dell’idea di tener ben separate le “fazioni”. Il giudizio negativo sull’ambiguità nei confronti della Chiesa non si limitava dunque al solo capo, ma a tutta la schiera dei luogotenenti che lo attorniavano, assai più desiderosi di accaparrare sostenitori fra i cattocomunismi, di fare “tutt’uno” con loro.
Fu dunque un’accusa che non risparmiò nessuno.
Fu un’accusa ferma verso l’ideologia e le persone che la incarnavano in Italia e all’estero. Va detta però una cosa molto importante: nel rinnegare il proprio passato non fu mai una sola volta aggressivo o astioso contro alcuno. Individuò con grande chiarezza l’errore di fondo che risiedeva nel Partito Comunista e nella sua intellighenzia, ma non rinnegò mai nessuna amicizia.
Questo è un concetto difficile da esprimere in occasione di un ricordo, perché di un morto solitamente non si può parlare che bene. È però oggettivo riconoscere la grande nobiltà d’animo con la quale Caprara trattò le persone con cui era stato in stretti rapporti per lunghissimi anni. Una nobiltà che non fa di lui né un crociato né un fanatico, ma solo un uomo al servizio della verità.
Oltre ai membri del PCI denunciò atteggiamenti scorretti anche da parte dei rappresentanti del mondo cattolico di sinistra?
Altroché. C’è stato tutto un circondare Togliatti da parte di servili personaggi della cultura cattolica. Fra i “migliori” si può pensare a De Luca per esempio o allo stesso Rodano. Ma ricordo, e parlo a titolo personale, personaggi che non voglio citare che si sono letteralmente sbracati nel seguire Togliatti, sostituendolo praticamente alla figura del Papa. Persone che si comportarono davvero con grande ignobiltà e il cui atteggiamento Caprara condannò al pari, se non peggio, di quello dei suoi compagni.
Come commenta l’isolamento che Massimo Caprara subì da parte del partito comunista una volta venuto alla luce il suo “cambio di rotta”?
Era inevitabile che venisse isolato. Ma devo dire che nel suo caso non è stato attaccato con violenza e virulenza. Certamente è stato “dimenticato”, “vaporizzato”, ma non si è voluto infierire contro di lui. Probabilmente temevano, attaccandolo con più forza, che egli affondasse ancor di più la lama nell’esame dei loro comportamenti sbagliati. Una paura meschina, se si giudica quanto ho detto di questo personaggio. Si sono limitati a considerarlo un uomo perduto, un individuo negativo, ma non c’è stata l’aggressione che avrebbe potuto esserci: hanno avuto paura del vecchio maestro e della sua miniera di ricordi.
Il Sussidiario mercoledì 17 giugno 2009


Caprara, Togliatti e il vino nuovo - Pigi Colognesi - venerdì 19 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Leggo sul Corriere del 17 giugno l’articolo commemorativo per la morte di Massimo Caprara. Alla fine vi si cita questa frase dell’ex segretario di Togliatti: «Il mio modo di non essere più comunista non è diventare anticomunista, ma ascoltare e pensare». È un concetto – dietro e dentro il quale sta, evidentemente, una profonda esperienza – formidabile. Passare da una ideologia al suo «anti»sarebbe stato rimanere comunque nell’ambito ideologico, seppure di segno opposto. Ben altra cosa è stata l’adesione di Caprara al cristianesimo. Con essa, ci dice, ho rotto le maglie del pensiero ideologico per introdurmi in una dimensione più alta, più comprensiva, quella dove si «ascolta» e si «pensa». Cioè, per parafrasare il titolo dell’opera, scritta da Roberto Fontolan, in cui racconta della sua conversione, ci si riscopre uomo.
Viene in mente il famoso aforisma di Alexis Carrel: «Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». È stato per questa lealtà di osservazione – guardare e pensare – che Caprara ha scoperto la disumanità dell’ideologia e dell’azione politica del partito cui aveva affidato le sue speranze di liberazione e del suo indiscutibile leader, quel Togliatti che lo aveva incontrato nella sua Napoli nel 1944 e ne aveva fatto il proprio segretario personale. È stato per questa lealtà di osservazione che, abbandonato il comunismo, Caprara ha lottato per smascherarne le menzogne. E lo ha fatto, come ha ricordato su questo giornale Eugenio Corti, senza quella tipica esaltazione fanatica di chi passa da una ideologia al suo contrario, ma piuttosto con la serenità propria di chi ha ormai lasciato il campo ideologico.
È stato per questa lealtà di osservazione che ha portato l’ex comunista, attraverso incontri e persone precise - «dalle parti di Comunione e Liberazione», scrive il Corriere – al cristianesimo. Guardando e osservando si è infatti accorto, scrive, che «il dato evidente è la bellezza di Dio».
Per tutto questo ho trovato estremamente stonata la chiusa dell’articolo del Corriere. Dice così: «Il Vangelo, al posto di Togliatti». Ma il Vangelo non sta affatto al posto di Togliatti. Non si tratta di un diverso liquore per riempire la stessa bottiglia ideologica, un vino di contenuti nuovi nel vecchio otre dei propri schemi. Il vino nuovo di uno che si riscopre uomo rompe tutte le botti che vogliono contenerlo.
Quel finale di articolo mostra quanto sia duro a morire l’approccio ideologico e quanto difficile capire la novità del cristianesimo. In fondo uno che cambia la casacca dei propri contenuti di pensiero – il Vangelo al posto di Togliatti – è accettabile, comprensibile, ultimamente riducibile: perbacco, siamo in democrazia e ognuno la pensa come vuole. Uno che, invece, cambia totalmente la propria esistenza per una bellezza che lo fa sentire veramente uomo, questo è troppo, è esagerato, non lascia tranquilli. Ma proprio questa nuova bellezza umana ha visto chi ha avuto la fortuna di conoscere il «nuovo» Massimo Caprara. E solo questa bellezza è davvero interessante.


L’INTRODUZIONE DEI DISTRIBUTORI AUTOMATICI NEGLI ISTITUTI DI ROMA - Il profilattico entra a scuola La Provincia dà la lezione sbagliata - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 20 giugno 2009
Nelle scuole superiori e nelle università statali della Provincia di Roma potranno essere installati dei distributori di profilattici. Il Consiglio provinciale della capitale, a maggioranza di centrosinistra, ha infatti approvato una mozione che impegna il presidente Zingaretti ad aderire alla campagna promossa da Sinistra e Libertà, Giovani Democratici, associazione Coscioni, Rosa Arcobaleno e Circolo omosessuale Mario Mieli. Anche il viceministro della salute Fazio si è dichiarato favorevole.
Ora, non è questa la sede per svolgere laicamente delle riflessioni morali sulla criticabile visione della sessualità che si associa all’incentivazione e all’uso dei profilattici. Bisogna però dire che sbaglia chi sostiene che le istituzioni devono essere ' neutrali' e al tempo stesso possono incentivare la libertà di scegliere se comprare e usare i profilattici oppure no. Autorizzando l’installazione di macchine distributrici nelle sedi dei ' loro' istituti di istruzione, con ciò stesso le istituzioni avallano e rinforzano una certa visione della sessualità, come minimo quella che ritiene equivalente l’uso e il non uso dei profilattici. In tal modo, esse finiscono per incidere sulle convinzioni etiche personali che – lo sappiamo, dati alla mano – vengono influenzate ( anche) dalle regole fissate in sedi istituzionali. Per qualcuno l’installazione in scuole e università evita agli studenti l’imbarazzo di andare in farmacia ( ma perché c’è imbarazzo? È solo l’influenza della Chiesa, nonostante le martellanti campagne di segno opposto, o anche qualche intuizione della coscienza morale, anche del non credente?).
Tuttavia, in realtà, le macchine distributrici si trovano già facilmente in altri posti, molto meno visibili delle scuole e università. O forse devono essere collocate anche in questi luoghi perché, anche qui, avere rapporti sessuali è non solo un fatto, ma altresì un diritto? I profilattici sono materiale scolastico? Qual è l’utilità, insomma, di queste installazioni? La Provincia di Roma, infine, sembra non aver minimamente recepito la documentata opera di informazione fatta da alcune fonti – non ultimo Avvenire
– basata su studi scientifici realizzati anche da non credenti, nei giorni della polemica circa le dichiarazioni di Benedetto XVI in viaggio verso l’Africa. Sempre tralasciando la valutazione etica della questione, infatti, paiono totalmente ignorate le dichiarazioni anche di ricercatori non cristiani: il tasso di Aids non diminuisce e, anzi, in certi casi, aumenta, pur se si fa una sistematica informazione sui profilattici e li si mette copiosamente a disposizione ( persino gratis). Per esempio, la revisione di 13 studi da parte dell’autorevole Cochrane Database Review Institute ( ma si potrebbero citare altre ricerche e altri monitoraggi) ha mostrato che la protezione garantita dal profilattico rispetto all’Aids è pari all’ 80%. Un dato che vale se l’uso è « corretto e costante » , mentre invece, anche tra gli utilizzatori occidentali abituali, c’è chi prova fastidio, resistenza psicologica ( beninteso non morale), emotiva, ecc. Anche qualora la protezione fosse del 90%, resta il fatto, per dirla con la rivista Lancet ( marzo 2008), che « la posizione tradizionale cattolica [ che insiste su fedeltà e astinenza] sui condoms e l’Aids è la più ragionevole e la più solida scientificamente nella prevenzione » .
Sempre Lancet ( gennaio 2000) aveva paragonato il preservativo alle cinture di sicurezza, che offrono una falsa percezione di protezione: così, negli anni ’ 70, dove ne fu introdotto l’obbligo, aumentarono gli incidenti, per l’aumento dei comportamenti a rischio.


Roccella: sulla Ru486 massima trasparenza – Avvenire, 20 giugno 2009
DA MILANO L a possibile commercia­lizzazione in Italia del­la pillola abortiva Ru486 torna al centro del­l’attenzione. Ed emerge che i dati forniti dalla azienda produttrice (la francese Exelgyn) parlerebbero di un numero di decessi e di effet­ti collaterali ben maggiori di quelli finora noti. Ieri peral­tro il viceministro della Salu­te Ferruccio Fazio aveva di­chiarato che entro l’estate potrebbe riunirsi il nuovo consiglio di amministrazio­ne (Cda) dell’Agenzia italia­na del farmaco (Aifa) per de­liberare in proposito, ma il sottosegretario Eugenia Roc- cella aveva precisato che do­vrà però essere prima valu­tata «con trasparenza» la do­cumentazione sui rischi del prodotto.«Nessuna commercializza­zione è possibile senza valu­tazione del Cda per il quale non è ancora stata definita alcuna data d’insediamen­to ». Puntualizzava ieri matti­na l’Aifa, rendendo noto che il nuovo Cda non si era an­cora insediato e che quindi nessuna riunione era stata calendarizzata. Risale infatti solo alla scorsa settimana la nomina dei cinque nuovi componenti da parte del vi­ceministro Fazio: il presi­dente Sergio Pecorelli, i con­siglieri Romano Colozzi, Gio­vanni Bissoni, Claudio De Vincenti e Gloria Saccani Jot­ti. E lo stesso viceministro Fa­zio, a margine di un conve­gno, osservava che il nuovo Cda «deve ancora essere in­sediato e stiamo aspettando la registrazione della Corte dei Conti. Potrebbe riunirsi prima dell’estate e delibera­re circa la commercializza­zione della pillola abortiva Ru 486 in Italia».Più cauta si mostrava il sot­tosegretario Roccella, che i­potizzava una decisione in autunno. «Voglio poter ri­spondere ai parlamentari di entrambe le parti e alla stam­pa in piena trasparenza» ha detto, chiedendo all’Aifa di fornire la documentazione completa, che era stata ri­chiesta all’azienda dal mini­stero. Il sottosegretario ri­cordava che si tratta di un «farmaco molto discusso, con un numero di morti mol­to alto e su cui ci sono delle “oscurita”». La documenta­zione è all’Aifa – dice la Roc­cella – e «ora il Comitato tec­nico scientifico mi deve una risposta scritta».La documentazione – se­condo quanto rivelato dal­l’Adnkronos Salute – conter­rebbe un numero di morti ben maggiore di quanto fi­nora noto: ventinove deces­si e non i sedici ufficiosa­mente attribuiti alla pillola a­bortiva. «Dal 28 dicembre 1988 al 28 febbraio 2009 – si legge nel documento reso noto dall’agenzia di stampa – sono riportati 29 decessi a seguito di mifepristone, con­fermando tutte le segnala­zioni risultate dalle inchieste giornalistiche, ed aumen­tandone il numero. È poi se­gnalato un caso di amputa­zione parziale di una gamba, a seguito di una infezione dopo aborto medico». Altri punti critici segnalati nel do­cumento reso noto dal­l’Adnkronos Salute riguarda­no il mancato esame della letteratura che effettua nuo­ve stime sulla reale efficacia dell’aborto medico; e le la­cune sul fronte degli effetti collaterali conseguenti all’u­so del farmaco.