martedì 30 giugno 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) L’inno di lode del Cardinale Saraiva a Suor Lucia: “Vi racconto chi era, cosa ci ha lasciato in eredità e come convinse Wojtyla a celebrare a Fatima la beatificazione di Giacinta e Francesco” - di Gianluca Barile
2) Nuove scoperte. Perché a san Paolo fu dato il volto di un filosofo - La più antica raffigurazione dell'apostolo è stata ritrovata a poca distanza dalla sua tomba, anch'essa oggetto di nuovi accertamenti. La Chiesa volle rappresentarlo come il Platone cristiano. Una decisione audace. E ancor oggi attualissima - di Sandro Magister
3) Se i medici diventano “politici” sul fine vita - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 29 giugno 2009 - Lo scopo dell’alimentazione è nutrire e quindi a differenza di ciò che è indicato nel documento non può mai considerarsi una terapia, perché è un sostegno vitale e non può essere interrotta.
4) NELLE UNIVERSITÀ E NELLA RICERCA - A QUELLA DENUNCIA DI IMMORALITÀ CHI DARÀ SEGUITO? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 30 giugno 2009
5) RIFLESSIONE CHE GLI ADULTI NON AMANO - Le scelte dei genitori sull’equilibrio dei figli - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 30 giugno 2009
6) DOPO I RINVENIMENTI LO SAPPIAMO ANCORA DI PIÙ - Cristò affidò la sua Chiesa a uomini in carne e ossa - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 giugno 2009
7) intervista/García - «Armonia fra tradizione e i riscontri scientifici» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 30 giugno 2009
8) lettera pastorale: «Per capire il vero cuore del cristianesimo necessarie ascesi e sobrietà» Aprendo l’Anno Sacerdotale ieri a Genova il cardinale Bagnasco ha presentato la sua nuova - «Impariamo a riconoscere il volto di Dio» - DA GENOVA ADRIANO TORTI – Avvenire, 30 giugno 2009


L’inno di lode del Cardinale Saraiva a Suor Lucia: “Vi racconto chi era, cosa ci ha lasciato in eredità e come convinse Wojtyla a celebrare a Fatima la beatificazione di Giacinta e Francesco” - di Gianluca Barile
CITTA’ DEL VATICANO - Fatima: luogo d’incanto e di preghiera. Fatima: terra baciata dal Signore e illuminata dall’apparizione della Vergine a tre piccoli pastorelli nel 1917. Fatima: insieme a Lourdes, il perno della devozione mariana nel mondo. Fatima: nome dolce e soave. Fatima: dolce come una carezza e pronunciato come una poesia, questo nome esce dalle labbra del Cardinale José Saraiva Martins più armonioso di una melodia. Non a caso, fu proprio questo illustre porporato, nobile figlio del Portogallo e grande devoto della Madonna di Fatima, a recare l’annuncio al mondo intero, lo scorso 13 Febbraio (dopo aver già contribuito nel 2000, in maniera determinante, come Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, a portare all’aonore degli altari Francesco e Giacinta sotto il pontificato di Giovanni Paolo II), che Benedetto XVI aveva acconsentito ad avviare con due anni di anticipo sul quinquennio previsto, l’iter di beatificazione di Suor Lucia, l’ultima dei tre veggenti (scomparsa nel 2005) che ebbero modo di ricevere e custodire i Messaggi della Madre di Dio alla Cova da Iria. Ma quale eredità ha trasmesso Suor Lucia alla Chiesa e al mondo? ‘Petrus’ ha deciso di tracciare un ritratto fedele della mistica portoghese attraverso le parole dello stesso Cardinal Saraiva.
Eminenza, cosa ci ha donato Suor Lucia?
“Ha lasciato alla Chiesa e al mondo un esempio e un’eredità ricchissimi. Essi consistono essenzialmente nella sua profonda spiritualità e nell’esercizio straordinario delle virtù cristiane, tra le quali emergono la sua Fede, semplice ma forte, non teorica ma pratica, non astratta ma concreta, vissuta, esistenziale; il suo aredente amore per Dio, per il ‘Gesù del Tabernacolo’ e per i poveri; la sua fiducia, assoluta e totale, nella ‘Signora più bianca del sole’ che le era apparsa; e la sua personale identificazione con i Messaggi della Madonna, tra i quali spiccano i ripetuti appelli alla conversione e alla pace, oggi più attuali che mai. Ecco la preziosa eredità lasciataci dall’umile monaca carmelitana, che ha avuto il privilegio di vedere e di parlare con la Vergine”.
Lei faceva parte del seguito che accompagnò Giovanni Paolo II a Fatima nel 2000 per la beatificazione dei pastorelli Giacinta e Francesco. Il Pontefice come visse l’avvenimento?
“Il Papa affrontò questo evento con una intima e profonda gioia, che non nascondeva. Sono infatti molteplici i legami di Giovanni Paolo II con gli eventi di Fatima: la sua tenera e filiale devozione alla Madonna della Cova da Iria, a cui, come è noto, attribuì la sua salvezza in occasione dell’attentato del 1981 in Piazza San Pietro, tanto che l’anno seguente si recò proprio a Fatima per ringraziarla; i rapporti tra lui e Suor Lucia; la corrispondenza tra i due e altro ancora. Sono sicuro che il Pontefice abbia considerato l’elevazione agli altari dei due pastorelli come una grazia fattagli da Colei che nel 1917 era loro apparsa”.
In occasione della beatificazione dei piccoli veggenti, venne data lettura del cosiddetto ‘Terzo Segreto’ di Fatima, che secondo la Santa Sede si era compiuto con l’attentato allo stesso Giovanni Paolo II. Eppure c’è chi parla con insistenza di un quarto segreto tenuto nascosto.
“Per quanto riguarda il ‘Segreto di Fatima’, tutto è stato reso pubblico il 13 Maggio del 2000, alla fine della cerimonia di beatificazione dei veggenti. Alcuni hanno parlato, dopo quella data, di una quarta parte del segreto che non sarebbe stata rivelata. Mi è stato riferito, qualche tempo fa, che un giorno una precisa domanda è stata fatta a Suor Lucia, e che lei avrebbe risposto: ‘Se qualcuno ha il testo, ce lo faccia vedere…’. Dunque, è assolutamente inconsistente la tesi che esista un quarto segreto di Fatima”.
Sono numerose le Sue visite Suor Lucia: cosa La colpiva maggiormente di questa donna?
“Ho incontrato diverse volte Suor Lucia nel suo Monastero di Coimbra. Ciò avveniva in genere il 15 Agosto, festa dell’Assunzione della Madonna. Ma durante i nostri colloqui non abbiamo mai parlato né dei cugini beatificati né del ‘Segreto’ di Fatima. Quello che mi ha colpito di più nella veggente, è stata la sua umiltà, la sua semplicità, la sua intelligenza pratica, la profondità della sua spiritualità, il suo grande amore per la Chiesa e la sua attenzione ai problemi della Chiesa di oggi. Di Suor Lucia, inoltre, mi hanno colpito la grande cordialità e i bellissimi rapporti con le consorelle del Monastero. Parlando proprio di questo, lei mi disse una volta, con un dolcissimo sorriso sulle labbra: Eminenza, le mie consorelle sono molto buone, mi vogliono molto bene e anche io gliene voglio”.
Cardinal Saraiva, chissà quanti aneddoti avrà da raccontare…
“Era una persona dotata di un grande senso dell’umorismo. Durante uno dei nostri incontri, Le dissi scherzosamente: ‘Perché non cambia il suo bastone con quello di Giovanni Paolo II?’. La risposta della Suora non si fece attendere: ‘Prima il Papa mi mandi il suo, e poi io gli manderò il mio. Non sia che, alla fine, rimanga senza il mio e senza il suo’. Sempre in chiave umoristica, il 15 Agosto del 1999, parlando della beatificazione di Giacinta e Francesco prevista per il 13 Maggio dell’anno seguente, Suor Lucia mi domandò di chiedere al Papa di celebrare il rito non a Roma, com’era consuetudine, ma a Fatima: ‘Sarà per la maggior gloria di Dio’, disse. E aggiunse scherzosamente: ‘Se il Papa non mi darà ascolto, non gli manderò più rosari’. Negli ultimi anni, infatti, Suor Lucia era dedita alla realizzazione di rosari che, in buona parte, inviava al Santo Padre Giovanni Paolo II”.
A Suo avviso, Suor Lucia ha continuato a vedere e a parlare con la Madonna negli anni di clausura a Coimbra?
“Non lo escludo, ma con lei non ho mai parlato di questo argomento”.
Si sa della devozione speciale di Giovanni Paolo II per Fatima, ma anche Benedetto XVI è molto legato a questo luogo. Dopo Lourdes, ritiene possibile che il Santo Padre possa recarsi a Fatima?
“E’ vero che anche Benedetto XVI è molto legato a Fatima. Nel 1996 è stato proprio l’allora Cardinale Joseph Ratzinger a presiedere il grande pellegrinaggio mondiale del 13 Ottobre. Perciò, una visita dell’attuale Pontefice a Fatima sarebbe un grande dono per la Chiesa portoghese, particolarmente legata al successore di Pietro. Mi auguro, dunque, che in un futuro prossimo, il desiderio dei cattolici lusitani possa essere soddisfatto”.
Eminenza, cosa rappresenta Fatima per Lei?
“Per me Fatima è un luogo privilegiato. E’ stata battezzata l’Altare del Mondo, ed io aggiungerei che essa è altresì la ‘Cattedra del Mondo’, perché è stato il luogo scelto dalla Madonna per trasmettere all’uomo contemporaneo alcuni capitoli fondamentali del Messaggio cristiano, come l’appello all’amore, alla conversione, alla Pace. Da un punto di vista personale, poi, io mi sento intimamente legato a Fatima, perché sin da bambino la mia mamma ha inculcato in me una fifliale devozione alla Madonna di Fatima e ai tre pastorelli. Ogni anno nel periodo delle mie vacanze a Lisbona, vado a Fatima per sostare un po’ e pregare nella Cappellina delle Apparizioni”.
A proposito di apparizioni mariane: fanno molto discutere quelle che, secondo alcuni, avverrebbero a Medjugorje. Quale opinione ha su questa vicenda? Nei ‘Sacri Palazzi’ serpeggia scetticismo…
“L’atteggiamento della Chiesa di fronte ad eventi come quello di Medjugorje è stato sempre di grande prudenza. Finchè la Chiesa non approvi ufficialmente un’Apparizione privata, essa non può essere ritenuta, pertanto, come vera Apparizione. Questo è il principio generale da sempre seguito dalla Santa Sede”.
Piccola postilla. Vostra Eminenza è il Presidente Onorario della nostra Associazione. Ci consenta, dunque, di ringraziarLa davvero di cuore, anche dalle colonne di ‘Petrus’, per aver accettato tale incarico ed averci accolto come un Padre buono e generoso.
“Approfitto ben volentieri di questa circostanza per formulare i miei più fervidi auguri alla benemerita Associazione ‘Tu es Petrus’, e augurare che essa raggiunga pienamente lo scopo per il quale è stata fondata. Per il bene della Chiesa e della società”.


Nuove scoperte. Perché a san Paolo fu dato il volto di un filosofo - La più antica raffigurazione dell'apostolo è stata ritrovata a poca distanza dalla sua tomba, anch'essa oggetto di nuovi accertamenti. La Chiesa volle rappresentarlo come il Platone cristiano. Una decisione audace. E ancor oggi attualissima - di Sandro Magister
ROMA, 30 giugno 2009 – L'anno dedicato a san Paolo, a due millenni dalla sua nascita, si è concluso con due importanti scoperte annunciate lo stesso giorno, la vigilia della festa del santo.

La prima scoperta l'ha rivelata Benedetto XVI in persona, nell'omelia dei vespri del 28 giugno, nella basilica romana di San Paolo fuori le Mura:

"Siamo raccolti presso la tomba dell’apostolo, il cui sarcofago, conservato sotto l’altare papale, è stato fatto recentemente oggetto di un’attenta analisi scientifica. Nel sarcofago, che non è stato mai aperto in tanti secoli, è stata praticata una piccolissima perforazione per introdurre una speciale sonda, mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato con oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. È stata anche rilevata la presenza di grani d’incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree. Inoltre, piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo. Ciò sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo Paolo".

Anche per Paolo dunque – come già per l'apostolo Pietro la cui tomba è ormai identificata con sicurezza sotto l'altare maggiore della basilica di San Pietro in Vaticano – si ha l'importante conferma che sia sepolto proprio dove è stato sempre venerato: sotto l'altare maggiore della basilica romana a lui dedicata.

***

La seconda scoperta è stata invece annunciata da "L'Osservatore Romano" nella sua edizione del 28 giugno.

È la scoperta della più antica raffigurazione dell'apostolo Paolo che si conosca, risalente alla fine del IV secolo: la raffigurazione riprodotta sopra in questa pagina.

Questa immagine di Paolo è affiorata il 19 giugno scorso dagli scavi che sono in corso in una catacomba intitolata a santa Tecla, lungo la via Ostiense che porta da Roma al mare, a poca distanza dalla basilica dell'apostolo.

Ripulendo con raggi laser la volta di un cubicolo, gli archeologi hanno visto tornare alla luce una ricca decorazione ad affresco. Al centro della volta è apparsa l'immagine del Buon Pastore, con attorno, in quattro tondi, le figure di Paolo, la meglio conservata, di Pietro e probabilmente di altri due apostoli.

Gli archeologi Fabrizio Bisconti e Barbara Mazzei, in due ampi resoconti sul giornale della Santa Sede, hanno fornito tutti i dettagli della scoperta. Ma c'è un elemento che colpisce più di altri. E riguarda i motivi che portarono a raffigurare l'apostolo Paolo così come lo vediamo in questo affresco e poi in tanti altri successivi: con l'aspetto di un filosofo, lo sguardo pensoso, la fronte alta, la calvizie incipiente, la barba appuntita.

In effetti, in una mostra d'arte dedicata a san Paolo inaugurata pochi giorni fa in un'ala dei Musei Vaticani, sono esposte le teste scolpite in epoca romana di due filosofi – uno dei quali probabilmente è Plotino – che presentano forti somiglianze con le antiche raffigurazioni di Paolo, a partire da quella che è stata ora scoperta.

La stessa questione si pone per l'apostolo Pietro, raffigurato tradizionalmente con capigliatura corta, folta e candida, col volto ampio e lo sguardo deciso, con la barba anch'essa corta e piena. E così per altri protagonisti della storia sacra.

La ritrattistica era diffusissima nell'arte greca e romana. Ma nella cultura ebraica le immagini umane erano interdette e quindi era impensabile che Paolo e gli altri si facessero ritrarre. Solo più tardi la Chiesa accettò di raffigurare i personaggi della fede cristiana.

Ma come? Ecco la suggestiva spiegazione che ha dato il professor Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani e grande storico dell'arte, nel presentare la mostra su san Paolo:

"Il problema si pose fra il III e il IV secolo quando una Chiesa ormai diffusa e strutturata giocò il grande e geniale azzardo che sta alla base di tutta la nostra storia artistica. Accettò e fece proprio il mondo delle immagini e lo accettò nelle forme in cui lo aveva elaborato la tradizione stilistica e iconografica ellenistico-romana. Avvenne così che Cristo buon pastore assumesse il volto di Febo Apollo o di Orfeo, e che Daniele nella fossa dei leoni avesse le sembianze di Ercole, l'atleta nudo vittorioso.

"Ma come rappresentare Pietro e Paolo, i principi degli apostoli, le colonne portanti della Chiesa, i fondamenti della gerarchia e della dottrina? Qualcuno ebbe un'idea felice. Diede ai protoapostoli le sembianze dei protofilosofi. Così Paolo, calvo, barbato, l'aria grave e assorta dell'intellettuale, ebbe il volto di Platone o forse di Plotino, mentre quello di Aristotele fu dato al pragmatico e terrestre Pietro, che ha il compito di guidare nelle insidie del mondo la Chiesa professante e combattente".

Se così avvenne, la Chiesa dei primi secoli non ebbe dunque alcuna timidezza ad attribuire agli apostoli, e in particolare a Paolo, l'aspetto del filosofo, né a tramandare, a studiare, a proclamare il suo pensiero nella sua interezza, certamente non facile ad essere capito e accettato.

Lo stesso si può dire dei Padri della Chiesa. In un a fase di cristianesimo in espansione, in una fase in cui la trasmissione della fede cristiana alle genti era in pieno sviluppo, la Chiesa non pensò mai di annacquare o addomesticare il proprio messaggio per renderlo più accettabile agli uomini del tempo.

Il ritratto di Paolo filosofo è un monito eloquente per chi oggi ritiene inattuale un papa teologo come Benedetto XVI, moderno Padre della Chiesa.


Se i medici diventano “politici” sul fine vita - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 29 giugno 2009 - Lo scopo dell’alimentazione è nutrire e quindi a differenza di ciò che è indicato nel documento non può mai considerarsi una terapia, perché è un sostegno vitale e non può essere interrotta.
Il 13 giugno 2009 l’ordine Fnomceo (Federazione Nazionale Ordine Medici Chirurghi e Odontoiatri) ha votato un documento riguardante il fine vita e il testo di legge Calabrò fermo alla Camera.
La bozza del documento prevedeva di precisare la distinzione degli stati vegetativi dagli stati terminali anche riguardo ad alimentazione ed idratazione, mantenendo però il divieto di interruzione. Si è invece votato un documento il cui punto più discriminante è diventata la differenza tra alimentazione artificiale e naturale, con la possibilità di chiedere l’interruzione della prima con le DAT (Dichiarazione Anticipata di Trattamento).
Innanzi tutto ci stupisce che dei medici discutano la differenziazione tra due tipi di alimentazione, e ne traggano conclusioni diverse a seconda dell’una o dell’altra. Infatti lo scopo dell’alimentazione è nutrire e quindi a differenza di ciò che è indicato nel documento non può mai considerarsi una terapia, perché è un sostegno vitale e non può essere interrotta. Questo documento ha creato divisioni all’interno dell’ordine: non è stato votato da alcuni tra i più importanti e numerosi ordini provinciali. Ci sembra che si sia voluta esprimere una posizione per influenzare la discussione parlamentare, fornendo una base scientifica su cui basare future scelte politiche, ma questo documento non ha una base scientifica. Giustamente qualche giornale ha fatto notare che questa posizione degli ordini medici a favore di una pratica che apre all’eutanasia, come quella dell’interruzione dell’alimentazione, cambierà il rapporto di fiducia medico-paziente. Ne hanno tenuto conto i firmatari e proponitori di questo documento? Inoltre tale documento viola gli articoli 3 e 17 della deontologia medica e il documento di New York sulla Convenzione Onu sui diritti delle persone disabili.
Abbiamo sostenuto fin dall’inizio dell’iter parlamentare la necessità di procedere celermente all’approvazione del ddl per evitare che potessero intervenire modifiche significative e peggiorative, una volta che l’emozione per il caso Eluana fosse scomparsa dalla memoria collettiva. Per motivazioni politiche, quali evitare fratture nella maggioranza durante la campagna elettorale, la discussione alla Camera è stata rinviata. Ora si dovrà procedere alla nomina del deputato che avrà funzione di relatore; questo passo determinerà e orienterà già l’esito e la direzione della discussione. Confidiamo comunque nella fermezza del Governo e del Ministro Sacconi, che ha riaffermato recentemente che l’indisponibilità di idratazione e alimentazione è un punto fermo della legge e non è negoziabile, come prioritario rimane nel ddl riaffermare il dovere di curare, vietare richieste con finalità eutanasiche, escludere richieste che pretendano di imporre al medico pratiche per lui inaccettabili in scienza e coscienza. Principi riaffermati dal codice di deontologia medica ed enunciati dal CNB nel 2003 e 2005 e già presenti nel ddl Calabrò negli articoli 3-4-7 approvati dal Senato.


NELLE UNIVERSITÀ E NELLA RICERCA - A QUELLA DENUNCIA DI IMMORALITÀ CHI DARÀ SEGUITO? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 30 giugno 2009
IL CASO
eri il Corriere della Sera ha pubbli­cato una lettera al Presidente Na­politano di una ricercatrice italiana di prestigio, autrice di scoperte impor­tanti sulle cause genetiche del linfo­ma, che a 47 anni e con tre figli al se­guito ha deciso di andarsene dall’Ita­lia. Rita Clementi, stanca di contratti instabili, di passare come una tarzan della ricerca da un Istituto all’altro, ha gettato la spugna e dice al capo della Nazione: «Qui la ricerca è ammalata, me ne vado».
Nella lettera della signora Clementi c’è rabbia e indignazione. L’esperienza che ha fatto fin qui del nostro mondo universitario le fa dire che è stanca di essere italiana. Sono dell’idea che per voler smettere di essere connazionale di Michelangelo e di Dante Alighieri ci vuole veramente un gran motivo, se e­siste. Ma la denuncia della signora va presa sul serio, e non rubricata velo­cemente sotto l’etichetta ( maledetta come tutte le etichette applicate ai ca­si personali) di: 'fuga dei cervelli'. Qui non si tratta solo di una che fa armi e bagagli perché altrove si potrà trovare meglio. Meglio pagata e meglio rispetta­ta. No, qui c’è u­na donna di va­lore che denun­cia una immora­lità diffusa nel mondo universi­tario e della ri­cerca. Una im­moralità che al di là di questo sin­golo caso è per­cepita diffusa­mente. Una immoralità per così dire di sistema. Il cui esito è una stagnazione nella ricerca in Italia. La signora nella sua lettera racconta la serie di frustra­zioni che hanno segnato una carriera che invece scientificamente aveva co­nosciuto a livello internazionale rico­noscimenti importanti e, quel che più conta, la delusione per una che ha sot­tomesso i propri interessi e la propria vita privata alla missione di aiutare con la ricerca chi soffre.
Non saranno forse molti i casi di que­sto genere. Ma nemmeno pochi. E hanno un grande 'peso specifico' nel­la qualità generale dell’Università. La signora invoca un sistema meritocra­tico, e la rimozione di persone che no­nostante manifesta propensione al 'maneggio' (riconosciuta addirittura dalla magistratura) continuano a se­dere con il consenso dei colleghi nei luoghi dove si decidono posti e car­riere. Una immoralità di singoli che di­viene immoralità di sistema.
Il governo sta pensando di varare una riforma per l’Università che, a quanto è dato di sapere, vorrebbe finalmente intaccare questa situazione. Speria­mo. Forse per la signora Rita è tardi, non lo sia per altri. Del resto il proble­ma della 'immobilità' del sistema u­niversitario non si registra solamente nei campi della ricerca scientifica ap­plicata in ambiti come il biomedico in questione nella lettera. Anche nel campo umanistico ( dalla letteratura alla storia dell’arte) il deficit di capa­cità di ricerca e di trasmissione ade­guata della tradizione alle giovani ge­nerazioni è lampante. Il Presidente si è mostrato in passato sensibile a que­sti temi e lo farà probabilmente anche in questo caso. Ma il problema non può essere risolto neppure dall’impe­gno della più alta carica dello Stato. Occorre un cambio di mentalità ge­nerale, di costume. Il governo può fa­vorirlo, e le leggi possono evitare di cri­stallizzare privilegi e rendite di posi­zione.
Ma sarà solo la valorizzazione della passione e la capacità di sacrificio di più e più persone come Rita Clemen­ti che potrà rendere migliore l’Univer­sità italiana.


RIFLESSIONE CHE GLI ADULTI NON AMANO - Le scelte dei genitori sull’equilibrio dei figli - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 30 giugno 2009
L’agenzia Zenit ha riportato i dati di un re­cente studio canadese, che ha monitorato le ripercussioni, in ter­mini di spesa sociale e ferite psicologiche, delle separazioni, dei divorzi e delle cessazioni delle convivenze. Ad esem­pio, per l’anno finanziario 2005/ 2006, l’impatto da esse prodotto sul bilancio del Canada è stato di circa 4,5 miliardi di euro. La ricerca comprende anche casi di madri single o che non vivono con i padri dei loro figli, bensì con altri uomini, e documenta che i figli vivono in condizioni migliori se crescono nel contesto di una famiglia con due geni­tori sposati, perciò « che le coppie sia­no sposate o no è un elemento straor­dinariamente indicativo per prevedere [ mediamente parlando] le condizioni future dei bambini (...), perfino al net­to dei fattori economici » : i risultati scolastici ed accademici, lo stato di sa­lute e di felicità, l’uso di droghe posso­no essere incisivamente influenzati dall’unione/ disunione dei propri geni­tori. Del resto potremmo citare molti altri monitoraggi. Ad esempio, la ricer­catrice R. O’Neill ha registrato i se­guenti dati: se il 40% dei bambini in­glesi vive in famiglie a basso reddito complessivo, la percentuale sale al 75% tra quelli che vivono con un solo genitore. Tali bambini con un solo ge­nitore, rispetto a quelli che vivono con entrambi, hanno una probabilità tre volte superiore di ottenere cattivi risul­tati a scuola, il doppio dei rischi di contrarre malattie psicosomatiche e di avere la depressione o comportamenti antisociali ed il triplo di probabilità di avere problemi nelle relazioni amicali.
Ancora, M. Fiorin ( La fabbrica dei di­vorzi),
si è concentrato sulle ferite psi­cologiche dei bambini che vivono sen­za il padre. Uno studio del 1995 ha evi­denziato che gli adolescenti che vive­vano con un solo genitore soffrivano più frequentemente di problemi psi­chici rispetto a quelli che vivevano in famiglie intatte ed avevano una proba­bilità maggiore di abusare di alcool e di usare droghe. Negli anni Ottanta, u­na ricerca di tre anni sui bambini pic­coli del reparto di psichiatria dell’o­spedale di New Orleans ha mostrato che nell’ 80% dei casi la patologia era causata dall’assenza del padre. Addi­rittura, il 90% dei bambini fuggito da casa si era allontanato da nuclei affet­tivi di questo tipo. Da tali nuclei prove­niva anche il 71% degli abbandoni scolastici, il 75% degli adolescenti pre­si in cura per tossicodipendenza e il 70% dei minorenni internati in istituti. Infine, negli Usa, durante gli anni Ot­tanta, il 63% dei suicidi dei giovani si è verificato in contesti con il padre as­sente. Da notare che molte di queste rilevazioni sono state svolte su gruppi di figli omogenei dal punto di vista so­ciale e del reddito. Sono dati che do­vrebbero farci riflettere, perché valgo­no analogicamente anche per il nostro Paese e ne ricaviamo ( anche se assai brevemente), almeno due suggeri­menti. Primo, soltanto nelle famiglie dove i litigi sono gravissimi il bambino trae beneficio dall’eliminazione del conflitto, ma tale tipo di conflittualità è rara ( cfr. una ricerca di P. R. Amato e A. Booth), perciò nella stragrande maggioranza dei casi sarebbe meglio per i figli se i genitori, invece di divi­dersi, rimanessero insieme ed affron­tassero i loro problemi per cercare di risolverli. Secondo, tutte le forme al­ternative e concorrenziali al matrimo­nio ( pacs e simili) indeboliscono il ma­trimonio, cioè il legame che, pur nella sua attuale crisi, è – anche qui dati alla mano – il più stabile e dunque propi­zio per i figli.


DOPO I RINVENIMENTI LO SAPPIAMO ANCORA DI PIÙ - Cristò affidò la sua Chiesa a uomini in carne e ossa - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 giugno 2009
«Tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato con oro zecchino...
Grani di incenso rosso...
Piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14... risultati appartenere a persona vissuta fra il I e il II secolo». Le parole di Benedetto XVI nella Basilica di San Paolo fuori le Mura descrivono minutamente l’inventario di ciò che una sonda ad alta tecnologia introdotta nel sarcofago sotto l’altare ha trovato. Lino color della porpora, intessuto di oro: quel defunto era stato avvolto in un sudario da imperatore. Sepolto come un re, sulla strada verso Ostia, sul luogo noto per il martirio di Paolo. «Ciò – dice il Papa dopo un istante di pausa – sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo». Il corpo di Paolo. Le sue ossa, incenerite da due millenni; la sua ultima veste drappeggiata sulle membra straziate, che ancora, nel buio sigillato della tomba, luccicano d’oro e di porpora, il colore del martirio. In qualcuno, nella folla dei fedeli, e tra quanti il giorno dopo hanno saputo, un tonfo al cuore.
Paolo è lì. Così come Pietro, in Vaticano. La tomba di Pietro è stata identificata, quasi sessant’anni fa, in un’edicola funeraria esattamente sottostante l’altare centrale della basilica. Sulla lapide era inciso, in greco: Petros enì,
Pietro è qui. E anche di Pietro furono rintracciate, dall’archeologa Margherita Guarducci, le ossa: frammenti d’ossa avvolti in porpora e oro. Fu Paolo VI, il 26 giugno 1968, a dichiarare: Pietro è qui. Ma, potrebbe obiettare un non credente o un cristiano distratto, avete bisogno di queste ossa? A cosa serve, nella dinamica della Chiesa e della fede, quel povero cumulo d’ossa prosciugate dal tempo? Paolo, Pietro, non contano forse per ciò che ci hanno lasciato? Sì, certo. E tuttavia il corpo, tuttavia la carne è cosa straordinariamente rilevante, in questa storia di terra e di radici su cui sono piantate, come cose vive, le basiliche della cristianità. È la ragione per cui la basilica di San Pietro sorge sulla verticale di quella tomba, anche se poi la lapide e i graffiti vennero dimenticati per secoli. L’altare centrale è esattamente sopra quella piccola edicola, e la verticale della cupola cade proprio su quel punto del sottosuolo – come un raggio tagliente, o una ferita, fra la terra e il cielo di Roma. In alto, dentro all’anello da cui si affacciano attoniti i turisti, sta scritto: «Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo aecclesiam meam». Super hanc petram,
su questa pietra; su questa, e non altrove. E ora anche a San Paolo fuori le Mura le sonde e il carbonio 14 ricostruiscono composizione chimica e età del contenuto di una tomba. Un uomo vissuto nel primo secolo, sepolto con gli onori di un re. I resti di Paolo. Ha bisogno il cristianesimo di queste ossa? A stretto rigore si potrebbe dire di no. E tuttavia Cristo ha affidato la sua Chiesa a degli uomini, uomini di carne e di ossa. Non a discorsi, non a eteree parole ha consegnato il suo mandato: ma a uomini, che da una generazione all’altra lo trasmettessero ai figli. E noi, cronologicamente di questi figli gli ultimi, siamo emozionati e commossi dal sapere che, sotto le pietre delle nostre basiliche, ci sono i corpi dei primi dei santi. I loro volti, le loro mani, le instancabili forti gambe di Paolo: certo, polverizzate dai secoli, e però resti di carne. Vuol dire una gran cosa, quella tomba, quelle tombe, lì, e non altrove: vuol dire che crediamo in un fatto che è storia, storia carnale di uomini, e non leggenda, filosofia, o, come tristemente si equivoca oggi, astratti 'valori'. Crediamo in un Dio uomo che ha scelto Pietro, e che ha mandato Paolo, il suo persecutore, a annunciarlo. È storia.
Sui luoghi del martirio restano tombe con incensi e ori. E noi, uomini di ossa e carne, siamo grati di questi segni; perché, da uomini, abbiamo bisogno di toccare.

intervista/García - «Armonia fra tradizione e i riscontri scientifici» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 30 giugno 2009
Una dimostrazione ulteriore che tra tradizio­ne cristiana e riscontri scientifici «vi è armo­nia ». E una nuova prova che il cristianesimo è una religione «che riguarda persone, fatti e avveni­menti concreti». José Miguel García, docente alla fa­coltà teologica San Damaso di Madrid, commenta con queste parole l’annuncio di Benedetto XVI ri­guardante la datazione delle ossa ritrovate nel sepol­cro di san Paolo, oggetto di indagini nell’omonima Ba­silica di Roma. García, autore del recente Il protago­nista della storia (Rizzoli), è esperto di cristianesimo delle origini, materia che insegna all’università Com­plutense della capitale spagnola.
Che significato assume per la fede cristiana questa conferma riguardante le spoglie mortali di Paolo?
Si ribadisce l’aspetto fondamentale del cristianesi­mo, ovvero che esso è una fede storica che riguarda persone, fatti e avvenimenti concreti. L’identificazio­ne delle ossa di questa persona del I-II secolo (l’esa­me con il carbonio 14 non può fornire una datazio­ne più precisa) indica che si tratta di un soggetto mol­to venerato e davvero importante per chi lo ha se­polto. Ciò porta ad una conferma della tradizione che identifica in quella tomba il luogo della sepoltura di Paolo. E questo significa, ancora una volta, che il cul­to e la liturgia cristiana fanno sempre riferimento ad un fatto storico. Succede così con la vicenda di Gesù e di san Pietro, ora ne abbiamo conferma con Paolo.
Tale rinvenimento archeo­logico rafforza la statura del­la figura di Paolo?
«La Chiesa non ha paura di sottoporre a verifica i dati di fede che si possono esaminare. È il mondo laico che spesso teme questo confronto»
Di Paolo non è mai stata ne­gata l’esistenza storica: chi lo facesse avrebbe una posizio­ne insostenibile. Di lui ci so­no epistole e documenti sto­rici, come gli Atti degli apo­stoli, nonché altri testi apo­crifi. Le fonti più importanti per la sua vicenda restano comunque le sue lettere. Tut­to quello che lui racconta può essere verificato: i luo­ghi, le località, i viaggi. Ora ciò avviene anche per la sua tomba. La tradizione cristia­na aveva sempre sostenuto che Paolo fosse morto mar­tire durante la persecuzione di Nerone: adesso si può dav­vero notare l’armonia fra tra­dizione e riscontri archeolo­gici. Qui si può fare una con­siderazione più generale: la Chiesa ha sempre cercato u­na conferma alle sue tradi­zioni anche da una prospet­tiva scientifica. Già Pio XII lo fece con le ossa dell’apostolo Pietro, la stessa cosa av­viene con Paolo, visto che il Papa ha preannunciato nuovi studi. Questo indica che la Chiesa non ha e non ha mai avuto paura di sottoporre i dati di fede (quel­li che si possono esaminare) all’indagine scientifica o archeologica. La Chiesa è talmente convinta e cer­ta della verità che propone, che non ha timore di con­frontarsi con la scienza, con la filosofia, con la storia. Semmai bisogna notare che spesso è il mondo mo­derno ad avere paura di questo confronto. Forse per­ché vedrebbe infranto qualche suo pregiudizio…
Il Papa parla di «tracce di un prezioso tessuto di li­no colorato di porpora, laminato con oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di li­no » rinvenuti nella tomba paolina. Che significato rivestono tali riscontri?
Mi auguro che si possano fare ulteriori indagini, co­me è accaduto con il sepolcro di Pietro. Da quello che è stato osservato si può dire che il materiale usato per la sepoltura era di grande valore: l’oro fa riferimento alla divinità, la porpora all’autorità regale. Tutto ci di­ce l’importanza della persona sepolta.
Benedetto XVI ha fatto riferimento anche a una «u­nanime e incontrastata tradizione» che identifica­va nell’attuale luogo il sepolcro dell’Apostolo. Su qua­li basi si fonda questa tradizione?
Si tratta di racconti apocrifi, che indicano nelle Tre Fontane di Roma il luogo del martirio di san Paolo e dicono che il sepolcro è situato non lontano. Fu poi l’imperatore Costantino a far costruire le basiliche di San Pietro e quella di San Paolo sui luoghi dove la tra­dizione aveva tramandato la collocazione delle ri­spettive tombe.


lettera pastorale: «Per capire il vero cuore del cristianesimo necessarie ascesi e sobrietà» Aprendo l’Anno Sacerdotale ieri a Genova il cardinale Bagnasco ha presentato la sua nuova - «Impariamo a riconoscere il volto di Dio» - DA GENOVA ADRIANO TORTI – Avvenire, 30 giugno 2009
I cristiani oggi devono porre sempre più attenzione a «non confondere la 'fede' con la 'religiosità'». Dio, infatti, non è una confusa «energia co­smica », ma «un Tu, un Padre, che si coinvolge con la vita dei suoi figli fino a condividere e riscattare la sofferenza e la morte». Questo il forte richiamo lanciato dall’arcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, che ieri, du­rante la Messa in Cattedrale per la so­lennità dei santi Pietro e Paolo, ha pre­sentato la sua nuova lettera pastorale
Camminare nelle vie dello Spirito. Alle sorgenti della vita spirituale.
Nel testo, consegnato alla comunità ge­novese durante la celebrazione che è stato anche l’atto di apertura dell’Anno Sacerdotale in diocesi, il cardinale e­sorta a compiere un cammino spiri­tuale per conoscere il volto autentico di Dio, seguendo un itinerario nel qua­le sono chiamati in causa «la nostra li­bertà e quindi il nostro personale im­pegno ». Un cammino, sottolinea Bagnasco, che è anche un’ascesi: «Non si può assapo­rare tutto – spiega il cardinale –, la vita quotidiana ci chiede di fare delle scel­te e scegliere significa anche 'rinun­ciare' ». In quest’ottica sono fonda­mentali la «conoscenza di se stessi», la «disciplina dei sentimenti» e la «disci­plina del corpo». «Anche il corpo – ag­giunge il porporato – chiede di essere guidato». Per questo «siamo richiama­ti alla sobrietà nel cibo, nel vestire, nel­l’uso dei beni di consumo e, se siamo onesti, è quanto mai opportuno ricu­perare anche una certa custodia negli sguardi, il dominio dell’istinto sessua­le ». «È necessaria – prosegue Bagnasco – la castità del cuore e la purezza del corpo per imparare ad amare vera­mente e a diventare dono». Infine, il porporato chiede «una nuova partico­lare attenzione nell’uso di internet, per­ché sia strumento di vantaggio nel be- ne e non mercato del peggio».
E gli «strumenti» per seguire il cammi­no alle sorgenti della vita spirituale, so­no la Parola di Dio, la preghiera perso­nale e comunitaria, i Sacramenti, la ca­rità e l’ascesi. Il tema della vita spiri­tuale, spiega ancora il porporato, vuo­le essere un modo per camminare in­sieme durante l’Anno Sacerdotale, «oc­casione di grazia che nessuno deve per­dere o trascurare». Oggi, continua Ba­gnasco, «basta guardarsi attorno e ve­diamo moltitudini che sembrano lan­guire nell’inedia, o altre dibattersi tra violenze di ogni genere, o ancora cer­care disperatamente la speranza. No­nostante il secolarismo che vorrebbe indurre a vivere senza Dio – scrive il por­porato – si avverte una diffusa e a volte confusa esigenza di spiritualità». Un’e­sigenza testimoniata, tra l’altro, da fe­nomeni quali «l’occultismo, la super­stizione, la suggestione delle filosofie orientali, la ricerca di spiritualità eso­teriche, le diverse forme di New Age». Ma l’esigenza di spiritualità, scrive il cardinale, dimostra anche la necessità di «un’educazione integrale della per­sona perché se la persona non si edu­ca nella sua completezza di anima e di corpo, non si ha personalità adulta».
Ogni fedele, aggiunge ancora Bagna­sco, deve avere ben presente quale sia il messaggio fondante del cristianesi­mo, perché «il cristiano è colui che sen­te l’attrattiva di Gesù, e di questo fasci­no vive nonostante fatiche e cadute». Il rischio diffuso oggi, invece, è di pensa­re «il cristianesimo come fatto morale e non innanzitutto soprannaturale, co­a me come riserva di valori, una specie di 'religione civile' e non innanzitutto co­me apertura al mistero». Ai cristiani, quindi, il cardinale chiede di «mettersi alla scuola di Gesù» con gli strumenti della Parola di Dio e del magistero del­la Chiesa senza dimenticare che «la fe­de non può mai essere confinata nella sfera del privato perché coinvolge l’in­tera persona e quindi anche la sua di­mensione pubblica e sociale».
Durante l’omelia della Messa di ieri, il cardinale, rivolgendosi agli oltre 160 sa­cerdoti presenti in Cattedrale, ha par­lato, tra l’altro, del tema della santità. «Dobbiamo lasciarci provocare dalla santità – ha affermato – per la quale, co­me presbiteri, siamo impegnati a tito­lo speciale. Lo dobbiamo al Signore al­la Chiesa, alla nostra gente e al popolo di Dio, che ci guarda con fiducia e af­fetto, ma desidera - e ne ha il diritto ­scorgere in noi i tratti di Gesù buon Pa­store ». Inoltre, ha aggiunto Bagnasco, «lo dobbiamo al mondo che, anche quando si dichiara non credente, guar­da il sacerdote con curiosità, non di ra­do con interesse, sempre con attenzio­ne, forse nella inconfessata speranza di trovare i segni di un modo diverso, più bello, di pensare e di vivere, un modo che rifletta la limpidezza del Cielo». Il cardinale ha ricordato l’importanza della formazione permanente e la ne­cessità degli esercizi spirituali nei tem­pi forti dell’anno liturgico. Infine ha co­municato che la diocesi sta organiz­zando per i sacerdoti diocesani un viag­gio ad Ars che si svolgerà nel giugno del prossimo anno.
Fondamentali sono «la disciplina dei sentimenti e del corpo, il dominio degli istinti e una certa custodia negli sguardi». New age e occultismo mostrano la necessità di un’educazione integrale