Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta le figure dei santi Cirillo e Metodio - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
2) Cosa c'entrano Kakà e Ronaldo con l’Europa? - Mario Mauro - lunedì 15 giugno 2009 – ilsussidiario.net
3) FILOSOFIA/ Maurice Blondel, colui che raccontò l’uomo fra i suoi limiti e l’infinito - Massimo Borghesi - lunedì 15 giugno 2009 – ilsussidiario.net
4) Il no all'aborto è un'idea solo dei cattolici?
5) Papa Pio XII: La Fondazione Pave the Way scopre 2.300 pagine di nuovi documenti
6) L’infinito mi ha cercato - La storia del figlio di una generazione che ha ritrovato la fede - di Antonio Gaspari
7) USA/ Tre sfide per Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 17 giugno 2009 – ilsussidiario.net
8) FECONDAZIONE/ Il bambino di colore e la discriminazione del “clinicamente corretto” - Carlo Bellieni - mercoledì 17 giugno 2009 – ilsussidiario.net
9) Il volto dell’uomo/donna - La lectio magistralis del Cardinale Angelo Scola al Festival biblico di Vicenza
10) Il ruolo dissolvitore della magistratura - L’Italia non aveva bisogno di una legge sul “testamento biologico. L’eutanasia era già proibita con chiarezza dalla nostra legislazione. Ma il nuovo testo prodotto dal Parlamento, per l’ambiguità che lo caratterizza, lungi dall’evitare nuovi interventi della magistratura, li moltiplicherà, permettendo agli organi giudiziari di continuare a intervenire in maniera sempre più invasiva e arbitraria. Quanto è accaduto con la legge 40 docet. Analogo sarà il destino della nuova legge sul testamento biologico, perché il testo è pieno di crepe e di varchi che i magistrati sapranno allargare, frantumando le buone intenzioni dei legislatori… - di Roberto de Mattei
Benedetto XVI presenta le figure dei santi Cirillo e Metodio - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 17 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato sui santi Cirillo e Metodio.
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Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare dei Santi Cirillo e Metodio, fratelli nel sangue e nella fede, detti apostoli degli slavi. Cirillo nacque a Tessalonica dal magistrato imperiale Leone nell’826/827: era il più giovane di sette figli. Da ragazzo imparò la lingua slava. All’età di quattordici anni fu mandato a Costantinopoli per esservi educato e fu compagno del giovane imperatore Michele III. In quegli anni fu introdotto nelle diverse materie universitarie, fra le quali la dialettica, avendo come maestro Fozio. Dopo aver rifiutato un brillante matrimonio, decise di ricevere gli ordini sacri e divenne "bibliotecario" presso il Patriarcato. Poco dopo, desiderando ritirarsi in solitudine, andò a nascondersi in un monastero, ma fu presto scoperto e gli fu affidato l’insegnamento delle scienze sacre e profane, mansione che svolse così bene da guadagnarsi l’appellativo di "Filosofo". Nel frattempo, il fratello Michele (nato nell’815 ca.), dopo una carriera amministrativa in Macedonia, verso l’anno 850 abbandonò il mondo per ritirarsi a vita monastica sul monte Olimpo in Bitinia, dove ricevette il nome di Metodio (il nome monastico doveva cominciare con la stessa lettera di quello di battesimo) e divenne igumeno del monastero di Polychron.
Attratto dall’esempio del fratello, anche Cirillo decise di lasciare l’insegnamento per recarsi sul monte Olimpo a meditare e a pregare. Alcuni anni più tardi però, (861 ca.), il governo imperiale lo incaricò di una missione presso i khazari del Mare di Azov, i quali chiedevano che fosse loro inviato un letterato che sapesse discutere con gli ebrei e i saraceni. Cirillo, accompagnato dal fratello Metodio, sostò a lungo in Crimea, dove imparò l’ebraico. Qui ricercò pure il corpo del Papa Clemente I, che vi era stato esiliato. Ne trovò la tomba e, quando col fratello riprese la via del ritorno, portò con sé le preziose reliquie. Giunti a Costantinopoli, i due fratelli furono inviati in Moravia dall’imperatore Michele III, al quale il principe moravo Ratislao aveva rivolto una precisa richiesta: "Il nostro popolo – gli aveva detto – da quando ha respinto il paganesimo, osserva la legge cristiana; però non abbiamo un maestro che sia in grado di spiegarci la vera fede nella nostra lingua". La missione ebbe ben presto un successo insolito. Traducendo la liturgia nella lingua slava, i due fratelli guadagnarono una grande simpatia presso il popolo.
Questo, però, suscitò nei loro confronti l’ostilità del clero franco, che era arrivato in precedenza in Moravia e considerava il territorio come appartenente alla propria giurisdizione ecclesiale. Per giustificarsi, nell’867 i due fratelli si recarono a Roma. Durante il viaggio si fermarono a Venezia, dove ebbe luogo un’animata discussione con i sostenitori della cosiddetta "eresia trilingue": costoro ritenevano che vi fossero solo tre lingue in cui si poteva lecitamente lodare Dio: l’ebraica, la greca e la latina. Ovviamente, a ciò i due fratelli si opposero con forza. A Roma Cirillo e Metodio furono ricevuti dal Papa Adriano II, che andò loro incontrò in processione per accogliere degnamente le reliquie di san Clemente. Il Papa aveva anche compreso la grande importanza della loro eccezionale missione. Dalla metà del primo millennio, infatti, gli slavi si erano installati numerosissimi in quei territori posti tra le due parti dell’Impero Romano, l’orientale e l’occidentale, che erano già in tensione tra loro. Il Papa intuì che i popoli slavi avrebbero potuto giocare il ruolo di ponte, contribuendo così a conservare l’unione tra i cristiani dell’una e dell’altra parte dell’Impero. Egli quindi non esitò ad approvare la missione dei due Fratelli nella Grande Moravia, accogliendo e approvando l’uso della lingua slava nella liturgia. I libri slavi furono deposti sull’altare di Santa Maria di Phatmé (Santa Maria Maggiore) e la liturgia in lingua slava fu celebrata nelle Basiliche di San Pietro, Sant’Andrea, San Paolo.
Purtroppo a Roma Cirillo s’ammalò gravemente. Sentendo avvicinarsi la morte, volle consacrarsi totalmente a Dio come monaco in uno dei monasteri greci della Città (probabilmente presso Santa Prassede) ed assunse il nome monastico di Cirillo (il suo nome di battesimo era Costantino). Poi pregò con insistenza il fratello Metodio, che nel frattempo era stato consacrato Vescovo, di non abbandonare la missione in Moravia e di tornare tra quelle popolazioni. A Dio si rivolse con questa invocazione: "Signore, mio Dio…, esaudisci la mia preghiera e custodisci a te fedele il gregge a cui avevi preposto me… Liberali dall’eresia delle tre lingue, raccogli tutti nell’unità, e rendi il popolo che hai scelto concorde nella vera fede e nella retta confessione". Morì il 14 febbraio 869.
Fedele all’impegno assunto col fratello, nell’anno seguente, 870, Metodio ritornò in Moravia e in Pannonia (oggi Ungheria), ove incontrò di nuovo la violenta avversione dei missionari franchi che lo imprigionarono. Non si perse d’animo e quando nell’anno 873 fu liberato si adoperò attivamente nella organizzazione della Chiesa, curando la formazione di un gruppo di discepoli. Fu merito di questi discepoli se poté essere superata la crisi che si scatenò dopo la morte di Metodio, avvenuta il 6 aprile 885: perseguitati e messi in prigione, alcuni di questi discepoli vennero venduti come schiavi e portati a Venezia, dove furono riscattati da un funzionario costantinopolitano, che concesse loro di tornare nei Paesi degli slavi balcanici. Accolti in Bulgaria, poterono continuare nella missione avviata da Metodio, diffondendo il Vangelo nella «terra della Rus’». Dio nella sua misteriosa provvidenza si avvaleva così della persecuzione per salvare l’opera dei santi Fratelli. Di essa resta anche la documentazione letteraria. Basti pensare ad opere quali l’Evangeliario (pericopi liturgiche del Nuovo Testamento), il Salterio, vari testi liturgici in lingua slava, a cui lavorarono ambedue i Fratelli. Dopo la morte di Cirillo, a Metodio e ai suoi discepoli si deve, tra l’altro, la traduzione dell’intera Sacra Scrittura, il Nomocanone e il Libro dei Padri.
Volendo ora riassumere in breve il profilo spirituale dei due Fratelli, si deve innanzitutto registrare la passione con cui Cirillo si avvicinò agli scritti di san Gregorio Nazianzeno, apprendendo da lui il valore della lingua nella trasmissione della Rivelazione. San Gregorio aveva espresso il desiderio che Cristo parlasse per mezzo di lui: "Sono servo del Verbo, perciò mi metto al servizio della Parola". Volendo imitare Gregorio in questo servizio, Cirillo chiese a Cristo di voler parlare in slavo per mezzo suo. Egli introduce la sua opera di traduzione con l’invocazione solenne: "Ascoltate, o voi tutte genti slave, ascoltate la Parola che venne da Dio, la Parola che nutre le anime, la Parola che conduce alla conoscenza di Dio". In realtà, già alcuni anni prima che il principe di Moravia venisse a chiedere all’imperatore Michele III l’invio di missionari nella sua terra, sembra che Cirillo e il fratello Metodio, attorniati da un gruppo di discepoli, stessero lavorando al progetto di raccogliere i dogmi cristiani in libri scritti in lingua slava. Apparve allora chiaramente l’esigenza di nuovi segni grafici, più aderenti alla lingua parlata: nacque così l’alfabeto glagolitico che, successivamente modificato, fu poi designato col nome di "cirillico" in onore del suo ispiratore. Fu quello un evento decisivo per lo sviluppo della civiltà slava in generale. Cirillo e Metodio erano convinti che i singoli popoli non potessero ritenere di aver ricevuto pienamente la Rivelazione finché non l’avessero udita nella propria lingua e letta nei caratteri propri del loro alfabeto.
A Metodio spetta il merito di aver fatto sì che l’opera intrapresa col fratello non fosse bruscamente interrotta. Mentre Cirillo, il "Filosofo", era propenso alla contemplazione, egli era piuttosto portato alla vita attiva. Grazie a ciò poté porre i presupposti della successiva affermazione di quella che potremmo chiamare l’«idea cirillo-metodiana»: essa accompagnò nei diversi periodi storici i popoli slavi, favorendone lo sviluppo culturale, nazionale e religioso. E’ quanto riconosceva già Papa Pio XI con la Lettera apostolica Quod Sanctum Cyrillum, nella quale qualificava i due Fratelli: "figli dell’Oriente, di patria bizantini, d’origine greci, per missione romani, per i frutti apostolici slavi" (AAS 19 [1927] 93-96). Il ruolo storico da essi svolto è stato poi ufficialmente proclamato dal Papa Giovanni Paolo II che, con la Lettera apostolica Egregiae virtutis viri, li ha dichiarati compatroni d’Europa insieme con san Benedetto (AAS 73 [1981] 258-262). In effetti, Cirillo e Metodio costituiscono un esempio classico di ciò che oggi si indica col termine "inculturazione": ogni popolo deve calare nella propria cultura il messaggio rivelato ed esprimerne la verità salvifica con il linguaggio che gli è proprio. Questo suppone un lavoro di "traduzione" molto impegnativo, perché richiede l’individuazione di termini adeguati a riproporre, senza tradirla, la ricchezza della Parola rivelata. Di ciò i due santi Fratelli hanno lasciato una testimonianza quanto mai significativa, alla quale la Chiesa guarda anche oggi per trarne ispirazione ed orientamento.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della diocesi di Aversa, qui convenuti così numerosi con il loro Pastore Mons. Mario Milano; della diocesi di La Spezia-Sarzana-Brugnato, con il Vescovo Mons. Francesco Moraglia; della diocesi di Biella con il Vescovo Mons. Gabriele Mana. Cari amici, ad imitazione dell’apostolo Paolo, seguite Cristo coltivando una intensa vita di preghiera testimoniando dappertutto il suo amore. Saluto con affetto i fedeli dell’Abbazia territoriale di Monte Cassino, giunti con il loro Ordinario, l’Abate Dom Pietro Vittorelli, per ricambiare la visita che ho avuto la gioia di compiere il 24 maggio scorso. A voi, cari amici, rinnovo l’espressione della mia gratitudine per la cordiale accoglienza che mi avete riservato, ed auspico che da quel nostro incontro scaturisca per la vostra Comunità diocesana una rinnovata vitalità spirituale e una sempre più generosa adesione a Cristo e alla Chiesa. Saluto i fedeli della Parrocchia Santa Maria del Carmine in Pavia e quelli di San Tammaro in Grumo Nevano, come pure i partecipanti al congresso promosso dalla Federazione Italiana Scuole Materne e i Seminaristi Pallottini, assicurando a ciascuno la mia preghiera, affinchè possano testimoniare Gesù e il suo Vangelo in ogni ambiente.
Mi rivolgo ora ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Venerdì prossimo celebreremo la festa del Sacro Cuore di Gesù, giornata di santificazione sacerdotale e inizio dell’Anno Sacerdotale, da me voluto in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars. Cari giovani, vi saluto con affetto e tra voi saluto specialmente i numerosi ragazzi degli Oratori della diocesi di Foligno, accompagnati dal loro Pastore Mons. Gualtiero Sigismondi. Cari amici, la ricchezza del Cuore di Cristo vi sostenga sempre. Aiuti voi, cari ammalati, ad affidarvi nelle mani della Provvidenza divina; ed incoraggi voi, cari sposi novelli, a vivere la vostra unione cristiana con reciproca dedizione.
Desidero con gioia presentare ora la Delegazione siro-cattolica: il Patriarca della Chiesa di Antiochia dei siro-cattolici, Sua Beatitudine Mar Ignace Youssef III Younan, accompagnato, in questa sua prima visita ufficiale, dai Patriarchi emeriti, dai Vescovi e da fedeli provenienti dal Medio Oriente e da diverse parti del mondo, dove risiedono i siro-cattolici mantenendo un vivo legame con la tradizione orientale cristiana e il Vescovo di Roma.
Saluto con affetto il venerato Patriarca Youssef, al quale ho già concesso la communio ecclesiastica che, a norma dei sacri canoni, mi aveva chiesto appena eletto, e tale comunione troverà pubblica significazione nella Divina Liturgia in rito siro-antiocheno, che si terrà domani nella Basilica di Santa Maria Maggiore, alla quale assisterà come mio Rappresentante il Signor Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali. Mentre assicuro per Lei, venerato Fratello, e per quanti La accompagnano la mia preghiera, vorrei nel contempo esprimere la mia sollecitudine e considerazione a tutte le Chiese Orientali Cattoliche, incoraggiandole a proseguire la missione ecclesiale, pur tra mille difficoltà, per edificare ovunque l'unità e la pace.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Cosa c'entrano Kakà e Ronaldo con l’Europa? - Mario Mauro - lunedì 15 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Kakà e Cristiano Ronaldo al Real Madrid in cambio di 166 milioni di euro. È la notizia che più di tutte ha fatto discutere negli ultimi giorni. Ancor più della visita di Gheddafi, ancor più del gossip elettorale, ancor più della nuova legislatura che sta per aprirsi al Parlamento europeo.
Durante la campagna elettorale appena conclusasi ho cercato di far capire agli elettori il peso che ha l'Europa nella vita quotidiana di ognuno di loro. Lo sport in generale, ma soprattutto il calcio, essendo il più popolare, influiscono moltissimo sull'opinione pubblica di tutta Europa. Pensiamoci bene, se il dibattito sull'Europa fosse soltanto la metà di quello sullo sport avremmo colmato l'enorme deficit di democrazia in cui versiamo oggi.
Ma cosa fa e cosa può fare l'Europa per lo sport oggi? Perché nonostante la Spagna sia il paese di gran lunga più colpito dalla crisi economica (oltre il 18% di disoccupazione), una società calcistica può permettersi di spendere più di 150 milioni di euro in due giorni? Come può intervenire affinché prevalgano i valori positivi dello sport, la bellezza della competizione, le vittorie ottenute attraverso il lavoro, il talento e la passione?
La Commissione europea ha adottato nel 2007 la sua prima iniziativa globale nel campo dello sport. L'obiettivo del Libro bianco è fornire un orientamento strategico sul ruolo dello sport nell'Unione europea. Esso riconosce l'importanza sociale ed economica dello sport. Il Libro bianco è il risultato di ampie consultazioni svolte con organizzazioni sportive, come i comitati olimpici e le federazioni sportive, nonché con gli Stati membri e altre parti interessate.
Oggi viviamo in un'era in cui è necessario un drastico cambiamento di rotta nella politica europea per lo sport. È urgente un impegno costante e deciso nella stessa direzione del Trattato di Lisbona che speriamo venga approvato entro la fine del 2009 perché con esso si avrà una vera dimensione europea nello sport. Nuove disposizioni consentiranno all’UE, infatti di sostenere, coordinare e integrare le azioni degli Stati membri, promuovendo la neutralità e la trasparenza nelle competizioni sportive, nonché la cooperazione tra organismi sportivi. Sarà inoltre tutelata l’integrità fisica e morale degli atleti, ed in particolare dei giovani.
Ma il vero cambio di marcia verrà effettuato nel momento in cui verranno riconosciuti fino in fondo i principi di autonomia e specificità delle attività sportive. In altre parole occorrono deroghe in senso restrittivo al principio di libera circolazione dei lavoratori per quanto riguarda il mondo dello sport, che permetterebbero una maggiore tutela dei vivai oltre che un grosso freno ai costi di gestione.
Lo sport è una sfera dell’attività umana che interessa in modo particolare i cittadini dell’Unione europea e ha un potenziale enorme di riunire e raggiungere tutti, indipendentemente dall’età o dall’origine sociale. Per troppo tempo lo sport è stato confinato ad occupazione per il tempo libero, fuori da qualsiasi realtà e dalla vita.
Riconoscere il ruolo essenziale dello sport nella società europea, particolarmente in questa fase in cui deve avvicinarsi maggiormente ai cittadini e affrontare i problemi che li interessano da vicino, vuol dire in definitiva dare importanza all'Europa che davvero tutti noi vogliamo, una realtà positiva che accompagni i cittadini a perseguire il loro desiderio di felicità e quindi di libertà.
FILOSOFIA/ Maurice Blondel, colui che raccontò l’uomo fra i suoi limiti e l’infinito - Massimo Borghesi - lunedì 15 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Il 4 giugno del 1949 moriva, ad Aix-en-Provence, Maurice Blondel, uno dei più grandi pensatori cattolici del ‘900. Il suo capolavoro, L’action del 1893, non era esente da ambiguità. Tra di esse un’impostazione fortemente antintellettualistica, incentrata sul primato dell’azione, e una connessione troppo rigida tra naturale e soprannaturale. Al di là di questi limiti essa conteneva però un’intuizione fondamentale: quella per cui lo spirito tende, per via interna, a superarsi in direzione di un infinito che non possiede. La vita dello spirito è segnata da una sproporzione che la muove a rinvenire fuori di sé quell’appagamento che non riesce a trovare in sé. Era la via “agostiniana” verso Dio che Blondel riscopriva a partire dalle istanze più profonde del pensiero moderno. Quel pensiero era giunto, in talune sue espressioni, a chiudere lo spirito in se stesso, in una perfetta, soffocante, autosufficienza. Questo, per il filosofo di Aix, non era possibile. V’è in noi «la coscienza di una sproporzione insanabile tra l’impulso della volontà e il termine umano dell’azione». Questo conduce l’io all’aperto, fuori di sé, alla considerazione del valore di verità della fede e dei suoi dogmi. « In altri termini è legittimo confrontarli con le esigenze profonde della volontà, scoprire in essi , se vi si trova, il riflesso di nostri bisogni reali e la risposta auspicata. È legittimo accettarli a titolo di ipotesi».
La sproporzione dello spirito, teso ad un bene che eccede le sue possibilità, lo conduce all’ipotesi della Rivelazione, alla verifica della corrispondenza tra il dato cristiano e le esigenze profonde dell’animo. Opportunamente precisata questa impostazione, in una forma tale da incontrarsi con l’antropologia tomistica, sarà all’origine della dottrina del “senso religioso”.
A partire dagli anni ’10, del secolo scorso, Blondel provvide , con attenzione, a rettificare quanto di impreciso v’era nella sua prima concezione del rapporto tra natura e grazia. Ne è documento l’interessante carteggio incorso tra lui e il gesuita Teilhard de Chardin, nel dicembre del 1919, pubblicato da Henri de Lubac nel 1965. Di fronte al Cristo “cosmico” di Teilhard, per il quale l’intera natura veniva soprannaturalizzata in blocco, Blondel obiettava come il “Pancristismo” era un termine ambiguo. Se il mondo diveniva integralmente “divino” il cristianesimo diveniva integralmente “umano”. Per questo occorreva «sottolineare con sempre maggiore chiarezza e forza la trascendenza assoluta del dono divino, il carattere inevitabilmente soprannaturale del disegno deificante, e di conseguenza la trasformazione morale e la dilatazione spirituale che la grazia permette ed esige. Benché in un senso vi è continuità nell’ordine universale, in un altro senso vi è incommensurabilità, capovolgimento dell’uomo vecchio e della vecchia natura, per la nascita del “novum coelum” e della “nova terra”. Il secondo Blondel correggeva in tal modo il primo senza rinnegare, con ciò, l’intuizione fondamentale de L’action, quell’inquietudine del cuore che, per Agostino, costituiva il segno più evidente del destino metafisico dell’uomo.
Il no all'aborto è un'idea solo dei cattolici?
ROMA, domenica, 14 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica le risposte ad alcune domande riguardanti l'aborto elaborate da Carlo Casini, già magistrato di Cassazione e membro del Comitato Nazionale per la Bioetica. Casini è inoltre Presidente del Movimento per la Vita italiano, membro della Pontificia Accademia per la Vita e docente presso l'Ateneo Pontificio "Regina Apostolorum" di Roma.
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Perché sull'aborto la Chiesa vuole imporre le proprie idee anche a chi non crede?
Il pensiero cristiano non riguarda solo l'aldilà, ma anche i rapporti tra gli uomini. La regola d'oro, "ama il prossimo tuo come te stesso", ha un valore non solo morale, ma anche civile. Chi potrebbe dire che la Chiesa non può esortare al rispetto del comandamento "non uccidere" perché si tratterebbe di un precetto religioso? Al fondo della ridicola obiezione che la Chiesa non deve imporre la Fede a nessuno sta il presupposto che il bambino concepito non sia un bambino, che il figlio sia una cosa e non un essere umano. Ma questo è proprio contro la rag ione e la scienza. Quando i credenti chiedono allo Stato di difendere il diritto alla vita non impongono proprio nulla. Si limitano a chiedere, e nelle democrazie chiedere significa anche votare e proporre leggi. Una legge che difende i diritti dei bambini non nati non è una legge di culto: non impone di andare a Messa la domenica, di digiunare in Quaresima o di pregare ogni giorno!
L'aborto non offende solo la visione religiosa dell'uomo, ma anche - e prima ancora - la ragione e la base stessa della società civile, la quale si costituisce e si organizza proprio per difendere la vita di tutti. Chi invoca il principio di laicità per legittimare l'aborto non sa quello che dice. La vera laicità non consiste nel contrastare la Chiesa e neppure nel ritenere di uguale valore tutte le possibili opinioni. Essa è un atteggiamento di fiducia nella ragione, come patrimonio comune che consente a tutti gli uomini di lavorare insieme, e si riconosce in un unico unificante valore: la uguale dignità di ogni essere umano, anche a prescindere da una Fede religiosa (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani).
Eppure si legge continuamente che la questione dell'aborto e della legge che lo regola investe qualcosa di più dell'aborto stesso. Riguarda la stessa concezione dello Stato laico. Come rispondere?
E' vero. E' proprio così, ma in senso esattamente opposto a quanto pensano i sostenitori di un potere statale libero di decidere sulla vita o sulla morte degli esseri umani senza alcun limite. La laicità dell'azione civile è cosa molto positiva e importante. Essa si oppone allo stato confessionale che ha caratterizzato la storia anche europea per molto tempo e che ancora oggi esiste specialmente nel mondo musulmano. E' Stato confessionale quello che pone la forza della legge civile a servizio della Fede, la quale, così, viene imposta ai cittadini dalle autorità civili. Molte guerre religiose sono state scatenate in passato da questa visione. Il principio "cuius regio eius et religio" stabiliva la regola che il popolo doveva seguire la stessa Fede e pratica religiosa del Re o del Principe. Fortunatamente, la modernità rifiuta questo modo di vedere il rapporto tra Fede e società civile.
La religione è il territorio più vasto della libertà e non può essere imposta. I cittadini sono in grado di vivere e di lavorare insieme anche se hanno pensieri diversi su Dio e sul destino della storia e delle singole vite umane. Ma questa possibilità di cooperazione pacifica e fruttuosa di tutti gli uomini in quanto tali suppone qualcosa di comune. In effetti, tutti possiedono la ragione, che è lo strumento con cui l'uomo può vedere la strada per camminare. Inoltre anche la direzione fondamentale del cammino è comune: la promozione della uguale dignità umana, come sta scritto nei più solenni e laicissimi documenti dell'umanità del nostro tempo, come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Non è dunque vero che "laico sia l'atteggiamento di chi nega in radice qualsiasi verità".
Vi sono due aspetti che non possono essere messi in discussione: la fiducia nella ragione e il valore dell'uomo. Vi è dunque un concetto nobile di laicità che tocca il diritto alla vita e dunque anche la questione dell'aborto. Anzi, proprio il riconoscimento del valore di ogni essere umano e quindi anche di colui che non è ancora nato è fondativo e confermativo della laicità . La visione cristiana dell'uomo non è in contrasto con la coscienza laica. Al contrario, proprio perché il cristianesimo rivela l'origine ultima e i contenuti più profondi della dignità umana, consolida quanto ogni uomo con la sua ragione intuisce o postula. Proprio nella questione antropologica, così come oggi si pone, si verifica un capovolgimento prezioso: non è più la forza dello Stato che aiuta la religione, ma al contrario è la Fede che sostiene la società civile nel suo obiettivo di fondo.
Che dire della pretesa di considerare l'aborto un diritto umano fondamentale?
Questa tesi è stata sostenuta particolarmente nella Conferenza su "popolazione e sviluppo", promossa dall'ONU al Cairo nel 1994, ma non ha trovato accoglienza nel piano finale di azione, dove fu usata la forma di compromesso: "L'aborto non può essere promosso come mezzo di controllo delle nascite". Ma, certamente, se viene negata l'identità umana del concepito, se l'aborto viene considerato uno strumento di tutela della salute, se i valori da perseguire sono soltanto la libertà e l'emancipazione della donna, allora diventa difficile non iscrivere l'interruzione della gravidanza nell'elenco dei diritti umani, mentre, al contrario, proprio il riconoscimento dell'uomo e della sua uguale dignità fin dal suo primo comparire nell'esistenza consolida tutta la teoria dei diritti umani. Essi perdono forza se non ne identifichiamo il titolare. E' inutile un elenco di diritti se è incerto il soggetto che li possiede, o peggio se gli Stati pretendono di definirlo autoritativamente con l'effetto di violare il principio di uguaglianza qualora vengano usati criteri restrittivi. Appare dunque evidente che di fronte all'embrione racchiuso nel seno materno o chiuso in una provetta la dottrina dei diritti umani si trova di fronte ad una svolta che può essere positiva (il suo consolidamento) ovvero dalle tragiche conseguenze, se l'uomo è negato. Ciò rivela il carattere tutt'altro che marginale della "questione antropologica".
Riguardo alla Legge 194, se da un lato molti parlano di un diritto all'aborto, altri dichiarano che la legge non lo considera un diritto. In realtà, dal punto di vista dell'ordinamento giuridico positivo italiano, esso è un diritto quando se ne sono verificate le condizioni formali e sostanziali.
Infatti, secondo l'ultimo comma dell'art. 8, il documento e il certificato rilasciato alla donna dal medico costituiscono "titolo" per eseguire l'intervento, che dunque non può essere negato perché la donna ha il diritto di ottenerlo. Peraltro, l' indicazione della Corte Costituzionale vorrebbe confermare una sorta di "stato di necessità" particolare, perché legato alla singolarità della gravidanza. Ne dovrebbero derivare conseguenze pratiche di rilievo specialmente in materia di risarcimento del danno per un aborto non riuscito o per una malformazione del figlio non individuata. Non è il caso di insistere in questa sede su questo complesso problema giuridico. In ogni caso è da escludere che anche nella Legge 194 l'aborto possa essere considerato come un diritto umano fondamentale.
Per chi volesse approfondire il tema, consigliamo la lettura del libro di Carlo Casini "A trent' anni dalla legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza" (Edizioni Cantagalli - Marzo 2008).
Papa Pio XII: La Fondazione Pave the Way scopre 2.300 pagine di nuovi documenti
NEW YORK, lunedì, 15 giugno 2009 (ZENIT.org).- La Fondazione Pave the Way (PTWF), con base a New York, ha annunciato la scoperta di più di 2.300 pagine di documenti originali risalenti agli anni compresi tra il 1940 e il 1945.
I testi sono stati rinvenuti nel corso degli studi sul pontificato di Pio XII e da una loro prima analisi emergono ulteriori prove sull'intervento di Papa Pacelli nel salvataggio di numerosi ebrei dall'Olocausto.
Il presidente della Fondazione, Gary Krupp, ha affermato in un comunicato inviato a ZENIT che “per sostenere la nostra missione di identificare ed eliminare gli ostacoli tra le religioni, la PTWF si è impegnata in un progetto di ricerca privata pluriennale per diffondere le azioni del Vaticano durante la II Guerra Mondiale”.
“Con oltre 1.000 libri scritti sul tema – ha aggiunto – , è diventato dolorosamente ovvio che questa controversia non verrà mai risolta, anche dopo l'apertura degli Archivi Segreti Vaticani fino al 1958”.
La scoperta dei nuovi documenti è avvenuta in un monastero di Avellino. E' possibile e anche probabile che molti altri documenti fondamentali possano trovarsi in diocesi maggiori.
Il rappresentante tedesco della PTWF Michael Hesemann ha analizzato alcuni documenti dell'Archivio Segreto Vaticano, attualmente aperto fino al 1939, e in essi ha ritrovato molti esempi “delle azioni dirette e del ministero pastorale di Eugenio Pacelli (Pio XII) per salvare gli ebrei dalla tirannia nazista”.
Ugualmente, ci sono “prove documentate” della “diretta intercessione di Pacelli per difendere gli ebrei della Palestina dai Turchi ottomani nel 1917 e del suo incoraggiamento a istituire una patria ebraica in Palestina nel 1925”.
“Poiché la storia presunta è stata la giustificazione per odio, vendette e guerre, gli storici non hanno la responsabilità morale fondamentale di ristabilire la verità?”, chiede Gary Krupp.
Il presidente della Fondazione Pave the Way si è detto “deluso” dall'influenza di molti sedicenti storici che “hanno fallito nel ricercare le prove relative a questo periodo e sono rimasti in silenzio quando i fanatici hanno manipolato la verità”.
“Se la PTWF, come ricercatrice amatoriale, può scoprire tante informazioni, com'è possibile che dei cosiddetti storici e delle istituzioni accademiche abbiano permesso che la valutazione di Pio XII, che dura da 46 anni, non sia stata sfidata, influenzando le opinioni di più di un miliardo di persone?”.
In generale, la risposta accademica su questo vuoto storico, ricorda la Fondazione, afferma che ci si “riserva il giudizio di Pacelli fino a che il Vaticano non aprirà la sezione che abbraccia pienamente il pontificato di Pio XII”.
Gli onori e la gratitudine nei confronti di Papa Pio XII si sono radicalmente trasformati nel 1963 dopo la rappresentazione dell'opera teatrale “The Deputy” di Rolf Hochhuth.
“Attraverso delle testimonianze confermate – ricorda la PTWF –, abbiamo scoperto che quest'opera era parte di un piano del KGB che mirava a distruggere la reputazione della Chiesa cattolica”.
“Secondo le nostre ricerche imparziali, e sulla base delle moltissime prove che abbiamo scoperto, la conclusione innegabile è che Papa Pio XII è stato un vero eroe della II Guerra Mondiale”, afferma Gary Krupp.
“Probabilmente ha salvato più ebrei di tutti i leader politici e religiosi del mondo insieme. Nel vero spirito dell'eroismo, inoltre, ha fatto tutto ciò con la diretta minaccia dei fucili tedeschi puntati ad appena 200 metri dalle sue finestre”, ha concluso.
Per ulteriori informazioni e per la consultazione dei documenti: www.ptwf.org
L’infinito mi ha cercato - La storia del figlio di una generazione che ha ritrovato la fede - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 15 giugno 2009 (ZENIT.org).- Una nascita difficile, una vita complicata. E’ stato comunista, socialista, ecologista, massone, new Age, macrobiotico, libertino, deputato, senatore, psichiatra di successo, giornalista, scrittore, invitato a centinaia di programmi televisivi.
Ha cercato l’infinito in mille esperienze, ma lo ha trovato solo quando ha riconosciuto la sua povertà di peccatore, ed ha permesso all’amore di Dio di raggiungerlo.
E’ questa la storia di Alessandro Meluzzi, raccontata insieme a Paolo Gambi nel libro “L’infinito mi ha cercato. Da Marx a Gesù una vita in cammino” (Edizioni Piemme, 224 pagine, 14,50 Euro).
La storia di Meluzzi è quella di una generazione, quella nata nel 1955, in pieno baby boom. Una infanzia difficile, senza un vero padre e una mamma assente, ma una vita familiare vissuta grazie ad una zia, ad uno zio, ai nonni e una vita sociale passata in parrocchia.
Poi lo stravolgimento dei tempi, il ‘68, gli anni di piombo, la politica, la sezione del partito comunista, i viaggi per conoscere e cercare il senso della vita, la psichiatria, l’esperienza del medico che autorizza degli aborti, fino al ritorno a casa, l’incontro con sacerdoti umili e santi, l’esperienza dolorosa del rapporto con i malati, e l’incontro pieno con l’infinito.
Volto popolare della TV, Meluzzi è stato capace di iniziative incredibili.
Inviato nell’Isola dei Famosi, un reality tra i più visti, in diretta ha citato l’Angelus del Papa di una domenica di novembre del 2006, spiegando che “la vita dell’uomo è nulla se non si fonda sulla roccia della fede”. Lo ha detto di fronte a 8 milioni di telespettatori, provocando un vero scandalo.
Ma non si è accontentato ed ha convinto i protagonisti del reality a pregare insieme a lui per tutta la notte. Una iniziativa che lasciò talmente trasecolati e irritati gli autori del programma, che decisero di pagargli le puntate che rimanevano purchè non si facesse più vedere.
Ai partecipanti del reality, Meluzzi chiese: “Siete stati qui due mesi, avete mai pregato?”, e così tutti cominciarono a pregare tirando fuori i dolori, le angosce, le solitudini.
Secondo il noto psichiatra, questo avvenne perchè il cristianesimo “è il luogo dell’accoglienza del mistero dell’umano di ciascuno, c’è un Dio che si fa carne per venire tra noi, non è una fede spiritualista o una mistica filosofica”.
Per Meluzzi, “la conversione è pratica quotidiana, c’è un prima ed un dopo ogni volta che mi inginocchio davanti a un confessore, c’è un prima e un dopo ogni volta che si va a ricevere l’Eucarestia, c’è un prima e un dopo ogni preghiera”.
“Ci si converte ogni giorno. Ci sono state cadute tante e terribili, ma il seme della Parola gettato tra le spine non era diventato sterile”.
Nel libro lo psichiatra, che oggi è Ipodiacono nel rito greco-melchita cattolico, racconta di essere cresciuto nella fede cattolica e di non averla rinnegata completamente in nessun passaggio della sua vita.
Ciò probabilmente non per merito suo ma per il lavoro indefesso di un angelo custode che deve aver avuto un gran da fare, come qualche anima buona, che nella Comunione dei Santi non deve aver mai smesso di pregare e invocare misericordia.
Meluzzi confessa che la sua “più che buona conversione è stata un incontro con il mistero, un incontro personale con Cristo”.
Nel libro racconta dei vari periodi della sua vita quando era marxista-leninista, poi socialista, il periodo gaudente della peggio gioventù, quello della trasgressione, la fase del Parlamento, della collaborazione con tanti sacerdoti, missionari e Vescovi, il riavvicinamento ai sacramenti alle preghiere ed alle opere.
L’incontro con tanti sacerdoti impegnati nel sociale, con i silenziosi operai della Croce, la Congregazione fondata dai Volontari della sofferenza di monsignor Luigi Novarese.
“Mi hanno mostrato qual è la strada con cui si può fare della buona sanità ospedaliera nell’alveo della missione cristiana della salute e della medicina. Una buona sanità a misura d’uomo”, ha sostenuto.
Per Meluzzi, “è nell’incontro con l’altro che il mistero della grazia si rivela. Questo mistero dell’altro che ci interpella, ci provoca, e che tanto più è salvifico quanto più è scomodo, è quello che mi ha consentito di fare lo psichiatra e lo psicoterapeuta”.
“Dio mi si è rivelato fisicamente tangibilmente negli incontri, nell’impegno di costruire la comunità (Agape Madre dell’Accoglienza, ndr), una grande e piccola fraternità di persone che fanno dell’accoglienza e della cura della pietra scartata dai costruttori la loro testata d’angolo”.
Incredibile e commovente il modo in cui Meluzzi, da ipocondriaco è diventato uno che accoglie e assiste i malati, trovando in questo incontro con il dolore e con la sofferenza, la via preferita da Dio.
“Io che era un ipocondriaco – racconta Meluzzi – che da studente di medicina passavo il tempo a fare gli esami del sangue tre volte a settimana a fare tac e risonanze magnetiche afflitto dal terrore di essere colpito da un tumore mi sono dedicato a curare la persone colpite dalle peggiori malattie”.
Il noto psichiatra narra di padre Stefano Camerlengo, vicario generale di un istituto missionario, colpito da un tumore piuttosto grave che sta portando avanti con fatica, di chemio in chemio, e che lo rende un direttore spirituale straordinario durante la confessione.
“Perché – spiega Meluzzi – lo rende capace di trasmettere quel mistero del divino che soltanto con la croce, con il dolore e anche con una certa frequentazione della fine della vita come fine della vita rende veramente ragione del perchè si dice che il malato è un grande maestro. Perchè riesce a portare la vita alla sua essenzialità, esattamente come un monaco perfetto”.
Gli autori del libro sono convinti che nella realtà del dolore passa il mistero della Provvidenza e il mistero di Cristo.
“Cristo – hanno scritto – è capace di dare un senso a quello che pare non aver nessun senso, come il dolore, la morte, la malattia”.
Così oggi Meluzzi ha una comunità che accoglie i malati più gravi ed è vicepresidente dell’Associazione Italiana Malati di Cancro Parenti e Amici (Aimac).
Per spiegare la parabola della sua vita, in un dibattito radiofonico con il sostenitore dell’ateismo Piergiorgio Odifreddi, Meluzzi affermò: “non so se ho mai cercato Gesù nella mia vita. Quello di cui sono sicuro è che Lui non ha mai smesso di cercare me”.
Odifreddi reagì indignato dicendo “io non sono così pazzo e megalomane come Meluzzi nel pensare che Dio viene a cercare me” e il noto psichiatra spiegò “non credo di essere megalomane nel pensare che Dio venga a cercare me. Penso sia megalomane Lui che è amore infinito che pensa di tenere nel suo cuore i miliardi di individui di cui è composta l’umanità nel passato, nel presente e nel futuro, ed è talmente megalomane da non smettere di cercare neanche il professor Odifreddi”.
La verità quindi sta nel “lasciarsi amare da Dio, lasciarsi prendere dal suo amore infinito” perchè “noi non levitiamo verso qualcosa per forza nostra, ma c’è un abbraccio che ci accoglie e che ci trascina. Questo essere abbracciati da Cristo con dolcezza, sulla croce e trascinati verso la croce, mi pare non il destino mio, ma il destino di tutti gli uomini”.
“E quindi noi abbracciamo la croce perchè la croce abbraccia noi, e tutto questo non è masochismo ma kenosi in un destino divino-umano che vede nella nostra accoglienza del dolore ma anche gioia il vero segreto dell’esistenza”.
Il che vuol dire che dobbiamo affidarci con fiducia al Signore: “Noi sempre infedeli, sempre caduchi e sempre peccatori. Lui sempre fedele e sempre presente”.
La comunità “Agape Madre dell’Accoglienza” fondata da Meluzzi, ha ripreso e adattato una definizione di Jean Vanier, e cioè: “Luoghi dove persone non del tutto sane si occupano di persone non del tutto malate e reciprocamente si accolgono”.
Meluzzi ricorda che le centinaia di persone, che sono passate sulla nostra via, “ci hanno allargato il cuore, mettendoci davanti al mistero delle pietre scartate dai costruttori” che “messe in condizioni adeguate diventano la testata d’angolo per la costruzione del regno di Dio”.
Il libro racconta la storia di Rocco, che fin da adolescente lavorava per la Mafia e spezzava il collo alle persone, che portò la croce in processione proprio la sera in cui venne il Vescovo, e di Sabrina, una ragazza abusata dal padre, madre di quattro bambini che seppur nati in condizioni tremende hanno fatto la gioia di tante persone.
Ha scritto Meluzzi in occasione dell’ultima nata da Sabrina, “se fosse arrivata all’ospedale dove io facevo aborti terapeutici all’università qualche anno prima la bambina Maria Sole non sarebbe nata.
Invece per fortuna è nata, è nata nella nostra comunità e la sua venuta mi è parsa davvero come quel sole che sorge che viene a visitarci. E’ il mistero della vita e del divino che mi ha fatto capire qual è il valore assoluto immanente e trascendente della vita”.
A questo proposito il noto psichiatra ringrazia Carlo Casini e loda le tante attività del Movimento per la Vita e dei Centri di Aiuto alla Vita, e i tanti incontri a cui ha partecipato per sostenere il lavoro di chi ama e accoglie la vita.
Il volume si conclude con una nota in cui Meluzzi confessa che questo libro è contrario ai modelli deontologici perchè una psicoterapeuta non dovrebbe mai rivelare la propria storia, ma dice di non trovare nulla di scandaloso nel fatto che coloro che ha curato nel passato, che cura nel presente e che curerà nel futuro conoscano la sua storia.
USA/ Tre sfide per Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 17 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Nel momento in cui scrivo, l’argomento più discusso è la situazione in Iran e tutti i commentatori concordano nel ritenere questa una occasione cruciale per il presidente Obama. Egli deve essere preparato a dialogare con chiunque alla fine diventerà presidente dell’Iran, ma dovrà anche dimostrare una qualche solidarietà, nello spirito del discorso del Cairo al mondo musulmano, a chi nelle strade di Teheran sta chiedendo democrazia.
Per ora, la questione iraniana ha distolto l’attenzione dai programmi di riforma del sistema sanitario, che l’Amministrazione aveva invece posto come tema centrale di discussione per questa settimana. Il presidente ha descritto a grandi linee il suo programma alla American Medical Association, un’organizzazione che in passato si è sempre fortemente opposta a qualsiasi intervento governativo nell’area delle assicurazioni sanitarie. Il suo supporto è essenziale per Obama. Tuttavia, se un giornalista avesse l’occasione di porre domande al presidente, il primo argomento affrontato sarebbe senza dubbio la crisi iraniana.
Questa crisi può avere in effetti molte conseguenze per gli Stati Uniti, così come il sistema sanitario ha senz’altro un grande impatto sulla vita degli americani; vi è, però, un altro tema che periodicamente attira l’attenzione e che a lungo termine può avere una grande influenza sul Paese: la battaglia sul futuro del Partito Repubblicano.
Il punto non è il futuro politico del Partito come tale, perché il “Grand Old Party” sopravvivrà senz’altro in un modo o nell’altro e potrà riottenere il peso politico che ha avuto negli anni recenti. Il tema interessante è il futuro di molti americani conservatori, siano Repubblicani, Democratici o Indipendenti. Costoro si stanno rendendo conto che nessun potere politico risponde alle loro preoccupazioni filosofiche sulla risposta da dare alla sempre più dominante ideologia secolarista, nelle sue versioni di “sinistra” o di “destra”.
Un articolo del New York Times questa settimana metteva acutamente in rilievo i cambiamenti in atto in riviste dedicate al pensiero conservatore, specialmente “The American Conservative” nella sua ultima uscita settimanale (prima di diventare un mensile e potenziare la sua versione online.) In questo ultimo numero vi erano articoli che, ad esempio, ipotizzavano la possibilità per l’Iran di avere armi nucleari (scritti prima della crisi attuale), che denunciavano come immorale il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki (approvato invece dalla maggioranza degli americani), e attaccavano altri aspetti del conservatorismo politico americano.
Forse l’articolo più interessante è quello di Rod Dreher, che scrive sul Dallas Morning News, tiene il Crunchy Can Blog su Beliefnet.com e in più si occupa anche di temi relativi a scienza e religione. Il suo argomento è che la reale questione di fronte agli oppositori del secolarismo dominante non è cosa avrebbe fatto Ronald Reagan (domanda che si pongono molti conservatori), ma cosa avrebbe fatto San Benedetto.
Il riferimento è After Virtue, il classico di Alasdair McIntyredel 1982, nel quale l’autore sostiene che il controllo “barbaro” dell’attuale cultura è ormai troppo avanzato perché i danni possano essere riparati e che la sola alternativa reale oggi non è una rivoluzione politica, ma la creazione di comunità di stile benedettino dove i cristiani possano vivere liberamente la loro fede. L’articolo, intitolato “Diventare barbari”, sostiene che il Diritto americano ha finito per «adottare gli usi dell’orda (barbarica)», così che la lotta tra Destra e Sinistra è simile a una battaglia tra due tribù barbare.
Non so se Dreher ha letto il discorso di Papa Benedetto XVI al Collegio dei Bernardini a Parigi, ma dovrebbe se vuole sviluppare le implicazioni della sua analisi. Come Papa Benedetto spiega, il movimento monastico fu fondato non per sviluppare un programma di ripresa o sviluppo culturale, ma per trovare Dio. Fu questo rifiuto di scopi culturali e politici che alla fine creò una nuova cultura veramente umanistica.
FECONDAZIONE/ Il bambino di colore e la discriminazione del “clinicamente corretto” - Carlo Bellieni - mercoledì 17 giugno 2009 – ilsussidiario.net
In Irlanda una coppia ha concepito in vitro un bimbo, ma per errore l’ospedale avrebbe usato spermatozoi di un donatore africano, determinando la nascita di un bimbo dalla pelle scura.
Il fatto di cronaca dello scambio di spermatozoi in una fecondazione in vitro non è nuovo e sarebbe preoccupante etichettarlo come l’ennesima prova dei limiti della fecondazione in vitro, perché sarebbe considerare “un fallimento” aver avuto un figlio di colore: sarebbe stato un fallimento clinico se la coppia avesse usato il proprio seme e questo fosse stato scambiato con quello di un estraneo, ma qui già si sapeva che il seme non era del padre. Quindi qui l’unico “nocumento” è il colore della pelle, e ci rifiutiamo di pensarlo come tale.
Quello che ci preoccupa allora è che qualcuno si inalberi perché la “richiesta su misura” non sia riuscita. Quello che colpisce è infatti la reazione: si voleva il figlio uguale a sé e ora si è persi, disorientati. Il padre dice che l’errore ha fatto nascere un figlio con la pelle scura che soffrirà perché sarà trattato in maniera discriminatoria dagli altri bambini. Ma ci riesce difficile credere che in Europa oggi qualcuno venga bullizzato per il colore della pelle. In Italia non accade e se accade chi ci prova viene giustamente punito. Nel civile Regno Unito le cose starebbero peggio che da noi?
Altro segnale di disorientamento è sentir dire che «alla madre viene chiesto se ha avuto una relazione con un altro uomo, mentre il padre teme che quando dirà la verità al bambino questi la rifiuterà». Ma oggi è normale vedere coppie con figli di etnia diversa per le possibilità adottive; e non c’è angoscia nello spiegare al figlio – vedi gli adottati – che i suoi genitori non sono precisamente il suo papà e mamma.
Dunque il segnale di disorientamento dei genitori al non veder corrisposte le proprie aspettative emerge chiaro.
In fondo il caso è solo la storia di un bambino “speciale” e dei problemi di suo padre che lo voleva diverso. In realtà dire “solo” è riduttivo: è un film già visto: quanti padri hanno avuto figli “speciali” e quanti sono rimasti delusi… ma pensavamo che avere un figlio “diverso” e viverlo come una delusione fosse un film del secolo scorso.
Insomma, il problema della fecondazione in vitro fa emergere un problema ben più grave: il figlio su misura: si sceglie il sesso, l’incarnato e si eliminano senza ripensamenti quelli che non ci sono venuti bene! O si denuncia. Ma cosa c’è di strano, dato che questo è il criterio con cui, in maniera “meno sottile” si eliminano i figli non voluti o venuti “male” dopo una ricerca al setaccio (screening) prenatale, mentre ormai stanno crescendo nell’utero di mamma? La fecondazione in vitro è solo un segno: il problema vero è più sotto.
Il volto dell’uomo/donna - La lectio magistralis del Cardinale Angelo Scola al Festival biblico di Vicenza
VICENZA, venerdì, 12 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della lectio magistralis pronunciata il 1° giugno scorso dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, in occasione della chiusura del Festival Biblico di Vicenza sul tema: “Il volto dell’uomo/donna”.
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«Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: la via dell’aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la via dell’uomo in una giovane donna» (Prov 30, 18-19).
Con potenti immagini l’autore del Libro dei Proverbi esprime la meraviglia carica di ontologico timore dell’uomo, creatura finita, di fronte all’infinito da cui pure è attratto. La coscienza della propria strutturale sproporzione a comprendere il senso della totalità del reale è certo la cifra della sua piccolezza, ma anche della sua grandezza. L’ampiezza del cielo in cui l’aquila vola indica la possibilità di uno sguardo senza confini. La solidità della roccia fa sì che il serpente possa attraversarla ma non sgretolarla: il male non riesce a conquistare definitivamente la vita. La profondità del mare sostiene il viaggio dell’uomo nella vita. Ma più enigmatica ancora di tale ampiezza, solidità e profondità, è la via dell’uomo in una giovane donna.
L’icastica bellezza di quest’ultima affermazione ci introduce di schianto nel tema di questa sera. L’uomo/donna è la via attraverso cui ognuno di noi è inoltrato nel mistero della vita. Molto acuto è il commento che ci propone Paul Beauchamp, uno dei più importanti esegeti del nostro tempo: «L’enigma che sorpassa gli altri, secondo i Proverbi, è la “strada dell’uomo attraverso la donna” (Prov. 30, 18s.), ossia è ciò che fa passare l’uomo attraverso l’immagine di colei che sta al suo inizio e che lo fa uscire da essa quando nasce, il che fa dell’incontro tra i due al tempo stesso un ricominciamento e qualcosa di nuovo» (L’uno e l’altro Testamento, Paideia, Brescia 1985, 144).
Beauchamp richiama un tratto costitutivo dell’esperienza elementare di ogni uomo, a cui le Scritture rendono testimonianza, svelandone anche la ragion d’essere: nell’incontro tra l’uomo e la donna accade un ricominciamento e qualcosa di nuovo.
Il nuovo è possibile perché l’incontro amoroso pone inevitabilmente all’uomo la domanda ontologica sulla propria origine. Potremmo dirla così: chi sono io che incontrando te incontro me stesso? Questa novità avviene perché la donna dice l’alterità ultimamente da me inafferrabile, quell’alterità che mi “sposta” (dif-ferenza) in continuazione, impedendomi di rimanere rinchiuso in me stesso. Così la donna, ponendosi, mi impone, attraverso il suo volto amante, di ricominciare.
Nella sorpresa davanti al volto della donna, misteriosa eppure familiare alterità, è donato all’uomo il proprio volto, cioè la propria irriducibile identità.
Il volto biblico dell’uomo/donna dice ad un tempo identità ed alterità. Come mai? Fin dalle prime pagine della Genesi, la Scrittura risponde a questo interrogativo che emerge dal profondo dell’esperienza di ogni uomo e di ogni donna. E lo fa, anzitutto, con un affermazione potente e radicale: l’uomo/donna, la differenza sessuale, è connessa all’essere a immagine e somiglianza di Dio: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedissi e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi”» (Gen 1, 26-28). A proposito di questo passo un detto del Talmud giunge ad affermare: «Chi non ha una moglie non è uomo».
Insiste poi lo straordinario racconto della creazione della donna: «E il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta è osso delle mie ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta”. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna» (Gen 2, 18-25).
Il racconto della creazione della donna descrive bene l’irriducibile differenza dell’uomo maschio, pur nella sua essenziale identità con la donna. Eva è cavata dal corpo di Adamo per essere differente, anche se ha in comune con lui l’essenza personale. Dio non consulta previamente l’uomo. Plasma Eva con la costola di Adamo e gliela pone di fronte, come un interlocutore che egli non si può dare, né può, tanto meno, dominare, come invece può fare con tutti gli altri esseri viventi (imporre il nome, nel linguaggio biblico, significa stabilire la propria signoria). Si capisce perché per il Libro della Genesi ad un certo punto della vita l’uomo lascia i genitori e si unisce a sua moglie per formare con lei una carne sola. Perché lei è carne tolta dalla sua carne.
Proviamo a raffigurarci - molti artisti lo hanno fatto - lo sguardo di Adamo che vede per la prima volta Eva vicino a sé…
Fin dal principio la donna è posta davanti all’uomo (e viceversa) come un dono. Una presenza inimmaginabile, del tutto irriproducibile, eppure profondamente corrispondente a sé. L’uomo e la donna sono identicamente persone, ma sessualmente differenti. Tale differenza pervade tutto l’essere umano, fin nell’ultima sua particella: il corpo dell’uomo, infatti, è in ogni sua cellula maschile, come quello della donna è femminile.
La differenza sessuale svela che l’alterità è una dimensione interna alla persona stessa, che ne segna la strutturale insufficienza, aprendola in tal modo al “fuori di sé”. E così l’altro è per me tanto inaccessibile (mi resta sempre altro) quanto necessario. L’uomo/donna rappresenta uno dei luoghi originari in cui ognuno di noi fa l’esperienza della propria dipendenza e della conseguente capacità di relazione. Come, con impareggiabile intensità, recita il Cantico dei Cantici: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana!» (Cant 4, 9).
Il disegno originario di Dio nel crearci sempre e solo come maschi o come femmine (Mulieris dignitatem, 1) vuol educarci a capire il peso dell’io e il peso dell’altro. La differenza sessuale si rivela così come una grande scuola. Si tratta di imparare l’io attraverso l’altro e l’altro attraverso l’io.
Il bisogno/desiderio dell’altro che, a partire dall’uomo/donna, come uomo e come donna, ogni persona sperimenta non è pertanto il marchio di un handicap, di una mancanza, ma piuttosto l’eco di quella grande avventura di pienezza che vive in Dio Uno e Trino, perché siamo stati creati a Sua immagine.
E in questo modo la via dell’uomo in una giovane donna, la via della differenza sessuale, dell’amore per sempre, dell’apertura alla vita appare come via privilegiata di accesso a Dio, come una strada a tutti possibile per intuire che all’origine della nostra esistenza c’è un Mistero buono che ci chiama a Sé.
La Scrittura insiste sulla possibilità dell’uomo di risalire dalla contemplazione del creato all’affermazione del Creatore: «Se affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza» (Sap 13, 3). Sul volto pieno di attrattiva della donna risplende il Volto di Colui che l’ha creata e condotta verso l’uomo. Per ogni uomo e per ogni donna l’esperienza dell’amore è via di accesso al riconoscimento di Dio. Scrive ancora Beauchamp: «Ecco perché il Cantico dei Cantici, o Canto dei Canti, è un poema sapienziale. Si offende l’amore dei due fidanzati che vi dialogano se si crede che, per dare a questo poema un senso spirituale, occorra trovargli un altro tema. Inversamente, è troppo spiccio anzi sciocco pretendere che il Cantico non significhi niente altro. Che gli rimarrebbe di enigmatico se la mente non fosse sollecitata dal fatto che l’uomo vi chiama felicità la novità dell’origine, trovata sulle tracce del suo inizio…? Per tale ragione, l’esperienza della Sapienza è legata a quella della differenza dei sessi. Là dove l’uomo ritrova come la propria sorgente e da cui esce un altro uomo, là è il luogo di elezione della Sapienza» (Beauchamp, op. cit., 144-145).
Proprio per questa sua necessaria ma enigmatica profondità l’esperienza dell’amore non è esente dalla più grande tentazione che minaccia l’uomo: quella dell’idolatria. L’ingiunzione di Dio al suo popolo nel deserto - «Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra» (Es 20, 3-4) - è rivolta ad ogni uomo e ad ogni donna perché non si arresti al volto dell’amato/a, ma in esso renda gloria a Colui che gli ha donato un/a compagno/a di cammino. Siamo tutti ben consapevoli di cosa succede quando nell’esperienza dell’amore si confonde l’altro con Dio. Quando cioè ci si aspetta - addirittura si pretende - dall’altro tutto, cioè il compimento della propria vita. Delusione e scetticismo fino alla violenza prendono il posto prima occupato dallo stupore e dalla gratitudine. Con potente lucidità lo descrive il Libro del Siracide: «Speranze vane e fallaci sono quelle dello stolto, e i sogni danno le ali a chi è privo di senno. Come uno che afferra le ombre e insegue il vento, così è per chi si appoggia sui sogni. Una cosa di fronte all’altra: tale è la visione dei sogni, di fronte a un volto l’immagine di un volto» (Sir 34, 1-3).
Negata la natura di segno del volto dell’amata, la consistenza di tale volto sfuma e non resta altro che la sua pallida immagine. Ma un’immagine non basta a soddisfare la nostra sete profonda. Il desiderio si spegne nella malinconia o facilmente si dissolve sulla superficie di uno specchio che non ci rimanda altro che il nostro volto. Abbiamo bisogno di una presenza che ci insegni ad amare, ad imparare la strada dell’altro/altra quale cammino concreto e possibile verso l’Altro alla cui immagine e somiglianza siamo stati creati. Ma a questo bisogno non possiamo rispondere con le nostre forze. Dio stesso ha voluto mostrarci la via, o meglio ha mandato Suo Figlio tra noi come Via alla verità e alla vita.
Numerose sono le occasioni in cui i Vangeli ci presentano Gesù Cristo, il nuovo Adamo, che incontra e si coinvolge con donne di diversa età e condizione sociale, svelandoci in tal modo il volto pieno dell’uomo/donna. E sempre lo sguardo che Egli - in netta antitesi con i costumi del suo tempo - porta alla figura femminile è uno sguardo integrale che ne afferma la assoluta dignità e la singolare vocazione. Il più delle volte questo suscita stupore, sorpresa al limite dello scandalo. E non solo tra i farisei (cfr Lc 7, 37-47), ma anche tra i suoi discepoli: «si meravigliavano che parlasse con una donna» (Gv 4, 27).
Nell’incalzante e decisivo dialogo che Gesù intrattiene con lei (cfr Gv 4, 5-30) la Samaritana è un interlocutore reale anche dei più profondi misteri di Dio, compresi quelle questioni circa il culto cui la donna, nell’Antico Testamento, non è abilitata.
Il dono di sé, fattore costitutivo del mistero nuziale, connota i tanti decisivi incontri di Gesù con le figure femminili, da quello con la peccatrice, che non cessava di bagnare i piedi di Gesù con le sua lacrime «poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Lc 7, 38) e per questo Gesù dice «Le sono perdonati i suoi peccati perché ha molto amato» (Lc 7, 47); a quello con l’adultera cui il Signore dona il perdono che responsabilizza: «Neanch’io ti condanno, va’ in pace e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8, 11)»; a quello con la vedova di Nain cui riserva un’indimenticabile espressione di affettuosa pietà: «Donna, non piangere!» (Lc 7, 13); a quello con la Cananea per la cui fede ha parole di grande apprezzamento (Mt 15 21-28).
«[L'uomo e la donna] - scrive Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem - «furono reciprocamente affidati l’uno all’altra come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio stesso. In tale affidamento è la misura dell’amore» (MD, 14). Di tale affidamento, di tale compagnia amorevole nella suprema prova della morte, ci dà, ancora una volta, splendida testimonianza un memorabile passaggio del Vangelo di Giovanni: «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”» (Gv 19, 26-27).
Per questo la Lettera agli Efesini svela il volto biblico dell’uomo/donna inserendo il matrimonio nel “luogo” deputato all’esperienza compiuta del bell’amore: il rapporto nuziale tra Cristo e la Chiesa: «Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito» (Ef 5, 32).
Card. Angelo Scola
Patriarca di Venezia
Il ruolo dissolvitore della magistratura - L’Italia non aveva bisogno di una legge sul “testamento biologico. L’eutanasia era già proibita con chiarezza dalla nostra legislazione. Ma il nuovo testo prodotto dal Parlamento, per l’ambiguità che lo caratterizza, lungi dall’evitare nuovi interventi della magistratura, li moltiplicherà, permettendo agli organi giudiziari di continuare a intervenire in maniera sempre più invasiva e arbitraria. Quanto è accaduto con la legge 40 docet. Analogo sarà il destino della nuova legge sul testamento biologico, perché il testo è pieno di crepe e di varchi che i magistrati sapranno allargare, frantumando le buone intenzioni dei legislatori… - di Roberto de Mattei
La sentenza 151/2009 della Corte Costituzionale, del 1° aprile, resa pubblica l’8 maggio, ha di fatto demolito l’impianto della Legge 40 sulla fecondazione in provetta. Quella legge non era buona, ma poneva dei limiti alla sperimentazione selvaggia.
La Consulta, affermando che «la tutela dell’embrione non è assoluta», ha soppresso questi limiti, permettendo di creare, impiantare e congelare embrioni, come se fossero cose e non persone. Con ciò la sentenza, ha portato nuovamente alla luce uno dei più gravi e inquietanti problemi del nostro tempo: il ruolo della Magistratura nel processo di dissoluzione della moralità e del costume sociale.
La filosofia classica, a partire da Aristotele, ha sempre ritenuto che lo Stato, pur nella unicità e indivisibilità della sua sovranità, avesse tre “funzioni distinte”: quella che emana la legge, quella che giudica e quella che comanda.
Il barone di Montesquieu (1689-1755), nel celebre libro XI dello Spirito delle Leggi, elaborò per primo la teoria della separazione dei “tre poteri”. Il legislativo, il giudiziario e l’esecutivo non erano funzioni riconducibili a un’unica autorità, ma poteri distinti, che potevano entrare in contrasto l’un l’altro.
Richiamandosi a queste dottrine, nel secolo XVIII, il potere giudiziario, rappresentato dai cosidetti “Parlamenti”, si contrappose apertamente alla monarchia francese e al suo governo, che esercitavano il potere legislativo ed esecutivo.
I Parlamenti, istituiti per rendere giustizia in nome del re, si autodefinirono l’“autorità tutelare della nazione” e reclamarono per primi la convocazione degli Stati Generali, nel 1789. Dall’ambiente della magistratura parlamentare uscirono rappresentanti del Terzo Stato come Sieyés, Mirabeau, Condorcet, destinati a svolgere un ruolo decisivo negli anni della Rivoluzione.
Il Medioevo e l’Ancien Régime non confondevano la sovranità con l’esercizio dei suoi poteri; la Rivoluzione Francese attribuì invece la sovranità ai tre poteri separati e dialetticamente conflittuali, così come separate e dialetticamente conflittuali diventeranno nel secolo successivo le classi sociali.
La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 sancì questa tripartizione di poteri. Alla fase “liberale” del 1789 seguì però quella giacobina del 1793-1794, in cui la Rivoluzione, come allora si disse, “divorò” i suoi figli. Il sogno riformatore dei magistrati sfumò tragicamente sulla ghigliottina.
Non si può non vedere una certa analogia, tra quanto accadde allora in Francia e quanto sta avvenendo in Italia. L’opera della nostra magistratura, a partire da Tangentopoli, parve a molti come l’inizio di una “Rivoluzione italiana” destinata a seppellire il regime consociativo del dopoguerra. In realtà, la “Rivoluzione morale” degli anni Novanta si sta rivelando come la “Rivoluzione contro la morale” di quella corrente minoritaria della sinistra giudiziaria che esercita una ferrea egemonia sugli orientamenti dei giudici e influenza profondamente la nostra vita politica.
D’altra parte la Dichiarazione dei Diritti del 1789, pretese di separare la politica dalla morale. L’esercizio dell’autorità del Re, nella società di Ancien Régime, era subordinato a princìpi e a leggi che costituivano il fondamento della sua stessa sovranità. Come ricorda il grande pensatore spagnolo Jaime Balmes, nelle monarchie europee cosiddette assolute vigeva il principio secondo cui non è il monarca ma la legge a comandare. Questa norma, universalmente riconosciuta, era la legge divina e naturale. La sovranità dei monarchi era assoluta, in quanto indivisibile, ma non fu mai arbitraria, senza frontiere morali che la limitassero.
La democrazia moderna, figlia della Rivoluzione Francese, ha trasferito al legislatore un potere sovrano, privo di ogni limite: la volontà della maggioranza diviene la fonte suprema della morale. L’assenza di norme morali rende possibile ai Parlamenti imporre leggi che negano la tutela della vita in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale; che negano l’unicità della famiglia, naturale; che autorizzano ogni forma di manipolazione genetica.
Quando la classe politica rifiuta di riconoscere l’autorità di una legge morale che delimiti il suo potere, non ci si può meravigliare se la classe giudiziaria rivendica a sua volta per sé un potere assoluto, indipendente dallo stesso potere politico. In entrambi i casi ci si richiama alla “volontà del popolo”, come fonte di potere sovrano, interpretando naturalmente in maniera diversa questa delega di autorità.
Come stupirsi allora di quanto sta accadendo? L’Italia non aveva bisogno di una legge sul “testamento biologico. L’eutanasia era già proibita con chiarezza dalla nostra legislazione. La magistratura ha cercato di sovvertire questa legislazione attraverso gli strumenti giuridici di cui dispone.
A questo punto, invece di rendersi conto che il problema era costituito dall’arbitrio di potere dei giudici, si è detto che bisognava fare una nuova legge sul “fine vita”, per modificare quella situazione di anarchia legislativa che la magistratura aveva creato e che di fatto veniva considerata come irreversibile.
Ma il nuovo testo prodotto dal Parlamento, per l’ambiguità che lo caratterizza, lungi dall’evitare nuovi interventi della magistratura, li moltiplicherà, permettendo agli organi giudiziari di continuare a intervenire in maniera sempre più invasiva e arbitraria. Quanto è accaduto con la legge 40 docet.
Analogo sarà il destino della nuova legge sul testamento biologico, perché il testo è pieno di crepe e di varchi che i magistrati sapranno allargare, frantumando le buone intenzioni dei legislatori.
Non serve produrre nuove leggi, di fronte a chi sistematicamente le riscrive, a colpi di sentenze La magistratura continuerà, perciò a smontare e a ricomporre le leggi, a suo piacere, fino a quando il potere politico lo permetterà.
Ma come potrebbe la classe politica evitare l’arbitrio della Magistratura, quando essa stessa rifiuta di riconoscere una legge naturale superiore, a cui ogni potere, il giudiziario, il legislativo e l’esecutivo dovrebbero inchinarsi? È questo il problema di fondo che esige di essere affrontato, se si vuole evitare che la crisi politica e morale che ci devasta divenga irreversibile.
Radici Cristiane n. 45 - Giugno 2009
1) Benedetto XVI presenta le figure dei santi Cirillo e Metodio - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
2) Cosa c'entrano Kakà e Ronaldo con l’Europa? - Mario Mauro - lunedì 15 giugno 2009 – ilsussidiario.net
3) FILOSOFIA/ Maurice Blondel, colui che raccontò l’uomo fra i suoi limiti e l’infinito - Massimo Borghesi - lunedì 15 giugno 2009 – ilsussidiario.net
4) Il no all'aborto è un'idea solo dei cattolici?
5) Papa Pio XII: La Fondazione Pave the Way scopre 2.300 pagine di nuovi documenti
6) L’infinito mi ha cercato - La storia del figlio di una generazione che ha ritrovato la fede - di Antonio Gaspari
7) USA/ Tre sfide per Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 17 giugno 2009 – ilsussidiario.net
8) FECONDAZIONE/ Il bambino di colore e la discriminazione del “clinicamente corretto” - Carlo Bellieni - mercoledì 17 giugno 2009 – ilsussidiario.net
9) Il volto dell’uomo/donna - La lectio magistralis del Cardinale Angelo Scola al Festival biblico di Vicenza
10) Il ruolo dissolvitore della magistratura - L’Italia non aveva bisogno di una legge sul “testamento biologico. L’eutanasia era già proibita con chiarezza dalla nostra legislazione. Ma il nuovo testo prodotto dal Parlamento, per l’ambiguità che lo caratterizza, lungi dall’evitare nuovi interventi della magistratura, li moltiplicherà, permettendo agli organi giudiziari di continuare a intervenire in maniera sempre più invasiva e arbitraria. Quanto è accaduto con la legge 40 docet. Analogo sarà il destino della nuova legge sul testamento biologico, perché il testo è pieno di crepe e di varchi che i magistrati sapranno allargare, frantumando le buone intenzioni dei legislatori… - di Roberto de Mattei
Benedetto XVI presenta le figure dei santi Cirillo e Metodio - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 17 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato sui santi Cirillo e Metodio.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare dei Santi Cirillo e Metodio, fratelli nel sangue e nella fede, detti apostoli degli slavi. Cirillo nacque a Tessalonica dal magistrato imperiale Leone nell’826/827: era il più giovane di sette figli. Da ragazzo imparò la lingua slava. All’età di quattordici anni fu mandato a Costantinopoli per esservi educato e fu compagno del giovane imperatore Michele III. In quegli anni fu introdotto nelle diverse materie universitarie, fra le quali la dialettica, avendo come maestro Fozio. Dopo aver rifiutato un brillante matrimonio, decise di ricevere gli ordini sacri e divenne "bibliotecario" presso il Patriarcato. Poco dopo, desiderando ritirarsi in solitudine, andò a nascondersi in un monastero, ma fu presto scoperto e gli fu affidato l’insegnamento delle scienze sacre e profane, mansione che svolse così bene da guadagnarsi l’appellativo di "Filosofo". Nel frattempo, il fratello Michele (nato nell’815 ca.), dopo una carriera amministrativa in Macedonia, verso l’anno 850 abbandonò il mondo per ritirarsi a vita monastica sul monte Olimpo in Bitinia, dove ricevette il nome di Metodio (il nome monastico doveva cominciare con la stessa lettera di quello di battesimo) e divenne igumeno del monastero di Polychron.
Attratto dall’esempio del fratello, anche Cirillo decise di lasciare l’insegnamento per recarsi sul monte Olimpo a meditare e a pregare. Alcuni anni più tardi però, (861 ca.), il governo imperiale lo incaricò di una missione presso i khazari del Mare di Azov, i quali chiedevano che fosse loro inviato un letterato che sapesse discutere con gli ebrei e i saraceni. Cirillo, accompagnato dal fratello Metodio, sostò a lungo in Crimea, dove imparò l’ebraico. Qui ricercò pure il corpo del Papa Clemente I, che vi era stato esiliato. Ne trovò la tomba e, quando col fratello riprese la via del ritorno, portò con sé le preziose reliquie. Giunti a Costantinopoli, i due fratelli furono inviati in Moravia dall’imperatore Michele III, al quale il principe moravo Ratislao aveva rivolto una precisa richiesta: "Il nostro popolo – gli aveva detto – da quando ha respinto il paganesimo, osserva la legge cristiana; però non abbiamo un maestro che sia in grado di spiegarci la vera fede nella nostra lingua". La missione ebbe ben presto un successo insolito. Traducendo la liturgia nella lingua slava, i due fratelli guadagnarono una grande simpatia presso il popolo.
Questo, però, suscitò nei loro confronti l’ostilità del clero franco, che era arrivato in precedenza in Moravia e considerava il territorio come appartenente alla propria giurisdizione ecclesiale. Per giustificarsi, nell’867 i due fratelli si recarono a Roma. Durante il viaggio si fermarono a Venezia, dove ebbe luogo un’animata discussione con i sostenitori della cosiddetta "eresia trilingue": costoro ritenevano che vi fossero solo tre lingue in cui si poteva lecitamente lodare Dio: l’ebraica, la greca e la latina. Ovviamente, a ciò i due fratelli si opposero con forza. A Roma Cirillo e Metodio furono ricevuti dal Papa Adriano II, che andò loro incontrò in processione per accogliere degnamente le reliquie di san Clemente. Il Papa aveva anche compreso la grande importanza della loro eccezionale missione. Dalla metà del primo millennio, infatti, gli slavi si erano installati numerosissimi in quei territori posti tra le due parti dell’Impero Romano, l’orientale e l’occidentale, che erano già in tensione tra loro. Il Papa intuì che i popoli slavi avrebbero potuto giocare il ruolo di ponte, contribuendo così a conservare l’unione tra i cristiani dell’una e dell’altra parte dell’Impero. Egli quindi non esitò ad approvare la missione dei due Fratelli nella Grande Moravia, accogliendo e approvando l’uso della lingua slava nella liturgia. I libri slavi furono deposti sull’altare di Santa Maria di Phatmé (Santa Maria Maggiore) e la liturgia in lingua slava fu celebrata nelle Basiliche di San Pietro, Sant’Andrea, San Paolo.
Purtroppo a Roma Cirillo s’ammalò gravemente. Sentendo avvicinarsi la morte, volle consacrarsi totalmente a Dio come monaco in uno dei monasteri greci della Città (probabilmente presso Santa Prassede) ed assunse il nome monastico di Cirillo (il suo nome di battesimo era Costantino). Poi pregò con insistenza il fratello Metodio, che nel frattempo era stato consacrato Vescovo, di non abbandonare la missione in Moravia e di tornare tra quelle popolazioni. A Dio si rivolse con questa invocazione: "Signore, mio Dio…, esaudisci la mia preghiera e custodisci a te fedele il gregge a cui avevi preposto me… Liberali dall’eresia delle tre lingue, raccogli tutti nell’unità, e rendi il popolo che hai scelto concorde nella vera fede e nella retta confessione". Morì il 14 febbraio 869.
Fedele all’impegno assunto col fratello, nell’anno seguente, 870, Metodio ritornò in Moravia e in Pannonia (oggi Ungheria), ove incontrò di nuovo la violenta avversione dei missionari franchi che lo imprigionarono. Non si perse d’animo e quando nell’anno 873 fu liberato si adoperò attivamente nella organizzazione della Chiesa, curando la formazione di un gruppo di discepoli. Fu merito di questi discepoli se poté essere superata la crisi che si scatenò dopo la morte di Metodio, avvenuta il 6 aprile 885: perseguitati e messi in prigione, alcuni di questi discepoli vennero venduti come schiavi e portati a Venezia, dove furono riscattati da un funzionario costantinopolitano, che concesse loro di tornare nei Paesi degli slavi balcanici. Accolti in Bulgaria, poterono continuare nella missione avviata da Metodio, diffondendo il Vangelo nella «terra della Rus’». Dio nella sua misteriosa provvidenza si avvaleva così della persecuzione per salvare l’opera dei santi Fratelli. Di essa resta anche la documentazione letteraria. Basti pensare ad opere quali l’Evangeliario (pericopi liturgiche del Nuovo Testamento), il Salterio, vari testi liturgici in lingua slava, a cui lavorarono ambedue i Fratelli. Dopo la morte di Cirillo, a Metodio e ai suoi discepoli si deve, tra l’altro, la traduzione dell’intera Sacra Scrittura, il Nomocanone e il Libro dei Padri.
Volendo ora riassumere in breve il profilo spirituale dei due Fratelli, si deve innanzitutto registrare la passione con cui Cirillo si avvicinò agli scritti di san Gregorio Nazianzeno, apprendendo da lui il valore della lingua nella trasmissione della Rivelazione. San Gregorio aveva espresso il desiderio che Cristo parlasse per mezzo di lui: "Sono servo del Verbo, perciò mi metto al servizio della Parola". Volendo imitare Gregorio in questo servizio, Cirillo chiese a Cristo di voler parlare in slavo per mezzo suo. Egli introduce la sua opera di traduzione con l’invocazione solenne: "Ascoltate, o voi tutte genti slave, ascoltate la Parola che venne da Dio, la Parola che nutre le anime, la Parola che conduce alla conoscenza di Dio". In realtà, già alcuni anni prima che il principe di Moravia venisse a chiedere all’imperatore Michele III l’invio di missionari nella sua terra, sembra che Cirillo e il fratello Metodio, attorniati da un gruppo di discepoli, stessero lavorando al progetto di raccogliere i dogmi cristiani in libri scritti in lingua slava. Apparve allora chiaramente l’esigenza di nuovi segni grafici, più aderenti alla lingua parlata: nacque così l’alfabeto glagolitico che, successivamente modificato, fu poi designato col nome di "cirillico" in onore del suo ispiratore. Fu quello un evento decisivo per lo sviluppo della civiltà slava in generale. Cirillo e Metodio erano convinti che i singoli popoli non potessero ritenere di aver ricevuto pienamente la Rivelazione finché non l’avessero udita nella propria lingua e letta nei caratteri propri del loro alfabeto.
A Metodio spetta il merito di aver fatto sì che l’opera intrapresa col fratello non fosse bruscamente interrotta. Mentre Cirillo, il "Filosofo", era propenso alla contemplazione, egli era piuttosto portato alla vita attiva. Grazie a ciò poté porre i presupposti della successiva affermazione di quella che potremmo chiamare l’«idea cirillo-metodiana»: essa accompagnò nei diversi periodi storici i popoli slavi, favorendone lo sviluppo culturale, nazionale e religioso. E’ quanto riconosceva già Papa Pio XI con la Lettera apostolica Quod Sanctum Cyrillum, nella quale qualificava i due Fratelli: "figli dell’Oriente, di patria bizantini, d’origine greci, per missione romani, per i frutti apostolici slavi" (AAS 19 [1927] 93-96). Il ruolo storico da essi svolto è stato poi ufficialmente proclamato dal Papa Giovanni Paolo II che, con la Lettera apostolica Egregiae virtutis viri, li ha dichiarati compatroni d’Europa insieme con san Benedetto (AAS 73 [1981] 258-262). In effetti, Cirillo e Metodio costituiscono un esempio classico di ciò che oggi si indica col termine "inculturazione": ogni popolo deve calare nella propria cultura il messaggio rivelato ed esprimerne la verità salvifica con il linguaggio che gli è proprio. Questo suppone un lavoro di "traduzione" molto impegnativo, perché richiede l’individuazione di termini adeguati a riproporre, senza tradirla, la ricchezza della Parola rivelata. Di ciò i due santi Fratelli hanno lasciato una testimonianza quanto mai significativa, alla quale la Chiesa guarda anche oggi per trarne ispirazione ed orientamento.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della diocesi di Aversa, qui convenuti così numerosi con il loro Pastore Mons. Mario Milano; della diocesi di La Spezia-Sarzana-Brugnato, con il Vescovo Mons. Francesco Moraglia; della diocesi di Biella con il Vescovo Mons. Gabriele Mana. Cari amici, ad imitazione dell’apostolo Paolo, seguite Cristo coltivando una intensa vita di preghiera testimoniando dappertutto il suo amore. Saluto con affetto i fedeli dell’Abbazia territoriale di Monte Cassino, giunti con il loro Ordinario, l’Abate Dom Pietro Vittorelli, per ricambiare la visita che ho avuto la gioia di compiere il 24 maggio scorso. A voi, cari amici, rinnovo l’espressione della mia gratitudine per la cordiale accoglienza che mi avete riservato, ed auspico che da quel nostro incontro scaturisca per la vostra Comunità diocesana una rinnovata vitalità spirituale e una sempre più generosa adesione a Cristo e alla Chiesa. Saluto i fedeli della Parrocchia Santa Maria del Carmine in Pavia e quelli di San Tammaro in Grumo Nevano, come pure i partecipanti al congresso promosso dalla Federazione Italiana Scuole Materne e i Seminaristi Pallottini, assicurando a ciascuno la mia preghiera, affinchè possano testimoniare Gesù e il suo Vangelo in ogni ambiente.
Mi rivolgo ora ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Venerdì prossimo celebreremo la festa del Sacro Cuore di Gesù, giornata di santificazione sacerdotale e inizio dell’Anno Sacerdotale, da me voluto in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars. Cari giovani, vi saluto con affetto e tra voi saluto specialmente i numerosi ragazzi degli Oratori della diocesi di Foligno, accompagnati dal loro Pastore Mons. Gualtiero Sigismondi. Cari amici, la ricchezza del Cuore di Cristo vi sostenga sempre. Aiuti voi, cari ammalati, ad affidarvi nelle mani della Provvidenza divina; ed incoraggi voi, cari sposi novelli, a vivere la vostra unione cristiana con reciproca dedizione.
Desidero con gioia presentare ora la Delegazione siro-cattolica: il Patriarca della Chiesa di Antiochia dei siro-cattolici, Sua Beatitudine Mar Ignace Youssef III Younan, accompagnato, in questa sua prima visita ufficiale, dai Patriarchi emeriti, dai Vescovi e da fedeli provenienti dal Medio Oriente e da diverse parti del mondo, dove risiedono i siro-cattolici mantenendo un vivo legame con la tradizione orientale cristiana e il Vescovo di Roma.
Saluto con affetto il venerato Patriarca Youssef, al quale ho già concesso la communio ecclesiastica che, a norma dei sacri canoni, mi aveva chiesto appena eletto, e tale comunione troverà pubblica significazione nella Divina Liturgia in rito siro-antiocheno, che si terrà domani nella Basilica di Santa Maria Maggiore, alla quale assisterà come mio Rappresentante il Signor Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali. Mentre assicuro per Lei, venerato Fratello, e per quanti La accompagnano la mia preghiera, vorrei nel contempo esprimere la mia sollecitudine e considerazione a tutte le Chiese Orientali Cattoliche, incoraggiandole a proseguire la missione ecclesiale, pur tra mille difficoltà, per edificare ovunque l'unità e la pace.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Cosa c'entrano Kakà e Ronaldo con l’Europa? - Mario Mauro - lunedì 15 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Kakà e Cristiano Ronaldo al Real Madrid in cambio di 166 milioni di euro. È la notizia che più di tutte ha fatto discutere negli ultimi giorni. Ancor più della visita di Gheddafi, ancor più del gossip elettorale, ancor più della nuova legislatura che sta per aprirsi al Parlamento europeo.
Durante la campagna elettorale appena conclusasi ho cercato di far capire agli elettori il peso che ha l'Europa nella vita quotidiana di ognuno di loro. Lo sport in generale, ma soprattutto il calcio, essendo il più popolare, influiscono moltissimo sull'opinione pubblica di tutta Europa. Pensiamoci bene, se il dibattito sull'Europa fosse soltanto la metà di quello sullo sport avremmo colmato l'enorme deficit di democrazia in cui versiamo oggi.
Ma cosa fa e cosa può fare l'Europa per lo sport oggi? Perché nonostante la Spagna sia il paese di gran lunga più colpito dalla crisi economica (oltre il 18% di disoccupazione), una società calcistica può permettersi di spendere più di 150 milioni di euro in due giorni? Come può intervenire affinché prevalgano i valori positivi dello sport, la bellezza della competizione, le vittorie ottenute attraverso il lavoro, il talento e la passione?
La Commissione europea ha adottato nel 2007 la sua prima iniziativa globale nel campo dello sport. L'obiettivo del Libro bianco è fornire un orientamento strategico sul ruolo dello sport nell'Unione europea. Esso riconosce l'importanza sociale ed economica dello sport. Il Libro bianco è il risultato di ampie consultazioni svolte con organizzazioni sportive, come i comitati olimpici e le federazioni sportive, nonché con gli Stati membri e altre parti interessate.
Oggi viviamo in un'era in cui è necessario un drastico cambiamento di rotta nella politica europea per lo sport. È urgente un impegno costante e deciso nella stessa direzione del Trattato di Lisbona che speriamo venga approvato entro la fine del 2009 perché con esso si avrà una vera dimensione europea nello sport. Nuove disposizioni consentiranno all’UE, infatti di sostenere, coordinare e integrare le azioni degli Stati membri, promuovendo la neutralità e la trasparenza nelle competizioni sportive, nonché la cooperazione tra organismi sportivi. Sarà inoltre tutelata l’integrità fisica e morale degli atleti, ed in particolare dei giovani.
Ma il vero cambio di marcia verrà effettuato nel momento in cui verranno riconosciuti fino in fondo i principi di autonomia e specificità delle attività sportive. In altre parole occorrono deroghe in senso restrittivo al principio di libera circolazione dei lavoratori per quanto riguarda il mondo dello sport, che permetterebbero una maggiore tutela dei vivai oltre che un grosso freno ai costi di gestione.
Lo sport è una sfera dell’attività umana che interessa in modo particolare i cittadini dell’Unione europea e ha un potenziale enorme di riunire e raggiungere tutti, indipendentemente dall’età o dall’origine sociale. Per troppo tempo lo sport è stato confinato ad occupazione per il tempo libero, fuori da qualsiasi realtà e dalla vita.
Riconoscere il ruolo essenziale dello sport nella società europea, particolarmente in questa fase in cui deve avvicinarsi maggiormente ai cittadini e affrontare i problemi che li interessano da vicino, vuol dire in definitiva dare importanza all'Europa che davvero tutti noi vogliamo, una realtà positiva che accompagni i cittadini a perseguire il loro desiderio di felicità e quindi di libertà.
FILOSOFIA/ Maurice Blondel, colui che raccontò l’uomo fra i suoi limiti e l’infinito - Massimo Borghesi - lunedì 15 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Il 4 giugno del 1949 moriva, ad Aix-en-Provence, Maurice Blondel, uno dei più grandi pensatori cattolici del ‘900. Il suo capolavoro, L’action del 1893, non era esente da ambiguità. Tra di esse un’impostazione fortemente antintellettualistica, incentrata sul primato dell’azione, e una connessione troppo rigida tra naturale e soprannaturale. Al di là di questi limiti essa conteneva però un’intuizione fondamentale: quella per cui lo spirito tende, per via interna, a superarsi in direzione di un infinito che non possiede. La vita dello spirito è segnata da una sproporzione che la muove a rinvenire fuori di sé quell’appagamento che non riesce a trovare in sé. Era la via “agostiniana” verso Dio che Blondel riscopriva a partire dalle istanze più profonde del pensiero moderno. Quel pensiero era giunto, in talune sue espressioni, a chiudere lo spirito in se stesso, in una perfetta, soffocante, autosufficienza. Questo, per il filosofo di Aix, non era possibile. V’è in noi «la coscienza di una sproporzione insanabile tra l’impulso della volontà e il termine umano dell’azione». Questo conduce l’io all’aperto, fuori di sé, alla considerazione del valore di verità della fede e dei suoi dogmi. « In altri termini è legittimo confrontarli con le esigenze profonde della volontà, scoprire in essi , se vi si trova, il riflesso di nostri bisogni reali e la risposta auspicata. È legittimo accettarli a titolo di ipotesi».
La sproporzione dello spirito, teso ad un bene che eccede le sue possibilità, lo conduce all’ipotesi della Rivelazione, alla verifica della corrispondenza tra il dato cristiano e le esigenze profonde dell’animo. Opportunamente precisata questa impostazione, in una forma tale da incontrarsi con l’antropologia tomistica, sarà all’origine della dottrina del “senso religioso”.
A partire dagli anni ’10, del secolo scorso, Blondel provvide , con attenzione, a rettificare quanto di impreciso v’era nella sua prima concezione del rapporto tra natura e grazia. Ne è documento l’interessante carteggio incorso tra lui e il gesuita Teilhard de Chardin, nel dicembre del 1919, pubblicato da Henri de Lubac nel 1965. Di fronte al Cristo “cosmico” di Teilhard, per il quale l’intera natura veniva soprannaturalizzata in blocco, Blondel obiettava come il “Pancristismo” era un termine ambiguo. Se il mondo diveniva integralmente “divino” il cristianesimo diveniva integralmente “umano”. Per questo occorreva «sottolineare con sempre maggiore chiarezza e forza la trascendenza assoluta del dono divino, il carattere inevitabilmente soprannaturale del disegno deificante, e di conseguenza la trasformazione morale e la dilatazione spirituale che la grazia permette ed esige. Benché in un senso vi è continuità nell’ordine universale, in un altro senso vi è incommensurabilità, capovolgimento dell’uomo vecchio e della vecchia natura, per la nascita del “novum coelum” e della “nova terra”. Il secondo Blondel correggeva in tal modo il primo senza rinnegare, con ciò, l’intuizione fondamentale de L’action, quell’inquietudine del cuore che, per Agostino, costituiva il segno più evidente del destino metafisico dell’uomo.
Il no all'aborto è un'idea solo dei cattolici?
ROMA, domenica, 14 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica le risposte ad alcune domande riguardanti l'aborto elaborate da Carlo Casini, già magistrato di Cassazione e membro del Comitato Nazionale per la Bioetica. Casini è inoltre Presidente del Movimento per la Vita italiano, membro della Pontificia Accademia per la Vita e docente presso l'Ateneo Pontificio "Regina Apostolorum" di Roma.
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Perché sull'aborto la Chiesa vuole imporre le proprie idee anche a chi non crede?
Il pensiero cristiano non riguarda solo l'aldilà, ma anche i rapporti tra gli uomini. La regola d'oro, "ama il prossimo tuo come te stesso", ha un valore non solo morale, ma anche civile. Chi potrebbe dire che la Chiesa non può esortare al rispetto del comandamento "non uccidere" perché si tratterebbe di un precetto religioso? Al fondo della ridicola obiezione che la Chiesa non deve imporre la Fede a nessuno sta il presupposto che il bambino concepito non sia un bambino, che il figlio sia una cosa e non un essere umano. Ma questo è proprio contro la rag ione e la scienza. Quando i credenti chiedono allo Stato di difendere il diritto alla vita non impongono proprio nulla. Si limitano a chiedere, e nelle democrazie chiedere significa anche votare e proporre leggi. Una legge che difende i diritti dei bambini non nati non è una legge di culto: non impone di andare a Messa la domenica, di digiunare in Quaresima o di pregare ogni giorno!
L'aborto non offende solo la visione religiosa dell'uomo, ma anche - e prima ancora - la ragione e la base stessa della società civile, la quale si costituisce e si organizza proprio per difendere la vita di tutti. Chi invoca il principio di laicità per legittimare l'aborto non sa quello che dice. La vera laicità non consiste nel contrastare la Chiesa e neppure nel ritenere di uguale valore tutte le possibili opinioni. Essa è un atteggiamento di fiducia nella ragione, come patrimonio comune che consente a tutti gli uomini di lavorare insieme, e si riconosce in un unico unificante valore: la uguale dignità di ogni essere umano, anche a prescindere da una Fede religiosa (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani).
Eppure si legge continuamente che la questione dell'aborto e della legge che lo regola investe qualcosa di più dell'aborto stesso. Riguarda la stessa concezione dello Stato laico. Come rispondere?
E' vero. E' proprio così, ma in senso esattamente opposto a quanto pensano i sostenitori di un potere statale libero di decidere sulla vita o sulla morte degli esseri umani senza alcun limite. La laicità dell'azione civile è cosa molto positiva e importante. Essa si oppone allo stato confessionale che ha caratterizzato la storia anche europea per molto tempo e che ancora oggi esiste specialmente nel mondo musulmano. E' Stato confessionale quello che pone la forza della legge civile a servizio della Fede, la quale, così, viene imposta ai cittadini dalle autorità civili. Molte guerre religiose sono state scatenate in passato da questa visione. Il principio "cuius regio eius et religio" stabiliva la regola che il popolo doveva seguire la stessa Fede e pratica religiosa del Re o del Principe. Fortunatamente, la modernità rifiuta questo modo di vedere il rapporto tra Fede e società civile.
La religione è il territorio più vasto della libertà e non può essere imposta. I cittadini sono in grado di vivere e di lavorare insieme anche se hanno pensieri diversi su Dio e sul destino della storia e delle singole vite umane. Ma questa possibilità di cooperazione pacifica e fruttuosa di tutti gli uomini in quanto tali suppone qualcosa di comune. In effetti, tutti possiedono la ragione, che è lo strumento con cui l'uomo può vedere la strada per camminare. Inoltre anche la direzione fondamentale del cammino è comune: la promozione della uguale dignità umana, come sta scritto nei più solenni e laicissimi documenti dell'umanità del nostro tempo, come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Non è dunque vero che "laico sia l'atteggiamento di chi nega in radice qualsiasi verità".
Vi sono due aspetti che non possono essere messi in discussione: la fiducia nella ragione e il valore dell'uomo. Vi è dunque un concetto nobile di laicità che tocca il diritto alla vita e dunque anche la questione dell'aborto. Anzi, proprio il riconoscimento del valore di ogni essere umano e quindi anche di colui che non è ancora nato è fondativo e confermativo della laicità . La visione cristiana dell'uomo non è in contrasto con la coscienza laica. Al contrario, proprio perché il cristianesimo rivela l'origine ultima e i contenuti più profondi della dignità umana, consolida quanto ogni uomo con la sua ragione intuisce o postula. Proprio nella questione antropologica, così come oggi si pone, si verifica un capovolgimento prezioso: non è più la forza dello Stato che aiuta la religione, ma al contrario è la Fede che sostiene la società civile nel suo obiettivo di fondo.
Che dire della pretesa di considerare l'aborto un diritto umano fondamentale?
Questa tesi è stata sostenuta particolarmente nella Conferenza su "popolazione e sviluppo", promossa dall'ONU al Cairo nel 1994, ma non ha trovato accoglienza nel piano finale di azione, dove fu usata la forma di compromesso: "L'aborto non può essere promosso come mezzo di controllo delle nascite". Ma, certamente, se viene negata l'identità umana del concepito, se l'aborto viene considerato uno strumento di tutela della salute, se i valori da perseguire sono soltanto la libertà e l'emancipazione della donna, allora diventa difficile non iscrivere l'interruzione della gravidanza nell'elenco dei diritti umani, mentre, al contrario, proprio il riconoscimento dell'uomo e della sua uguale dignità fin dal suo primo comparire nell'esistenza consolida tutta la teoria dei diritti umani. Essi perdono forza se non ne identifichiamo il titolare. E' inutile un elenco di diritti se è incerto il soggetto che li possiede, o peggio se gli Stati pretendono di definirlo autoritativamente con l'effetto di violare il principio di uguaglianza qualora vengano usati criteri restrittivi. Appare dunque evidente che di fronte all'embrione racchiuso nel seno materno o chiuso in una provetta la dottrina dei diritti umani si trova di fronte ad una svolta che può essere positiva (il suo consolidamento) ovvero dalle tragiche conseguenze, se l'uomo è negato. Ciò rivela il carattere tutt'altro che marginale della "questione antropologica".
Riguardo alla Legge 194, se da un lato molti parlano di un diritto all'aborto, altri dichiarano che la legge non lo considera un diritto. In realtà, dal punto di vista dell'ordinamento giuridico positivo italiano, esso è un diritto quando se ne sono verificate le condizioni formali e sostanziali.
Infatti, secondo l'ultimo comma dell'art. 8, il documento e il certificato rilasciato alla donna dal medico costituiscono "titolo" per eseguire l'intervento, che dunque non può essere negato perché la donna ha il diritto di ottenerlo. Peraltro, l' indicazione della Corte Costituzionale vorrebbe confermare una sorta di "stato di necessità" particolare, perché legato alla singolarità della gravidanza. Ne dovrebbero derivare conseguenze pratiche di rilievo specialmente in materia di risarcimento del danno per un aborto non riuscito o per una malformazione del figlio non individuata. Non è il caso di insistere in questa sede su questo complesso problema giuridico. In ogni caso è da escludere che anche nella Legge 194 l'aborto possa essere considerato come un diritto umano fondamentale.
Per chi volesse approfondire il tema, consigliamo la lettura del libro di Carlo Casini "A trent' anni dalla legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza" (Edizioni Cantagalli - Marzo 2008).
Papa Pio XII: La Fondazione Pave the Way scopre 2.300 pagine di nuovi documenti
NEW YORK, lunedì, 15 giugno 2009 (ZENIT.org).- La Fondazione Pave the Way (PTWF), con base a New York, ha annunciato la scoperta di più di 2.300 pagine di documenti originali risalenti agli anni compresi tra il 1940 e il 1945.
I testi sono stati rinvenuti nel corso degli studi sul pontificato di Pio XII e da una loro prima analisi emergono ulteriori prove sull'intervento di Papa Pacelli nel salvataggio di numerosi ebrei dall'Olocausto.
Il presidente della Fondazione, Gary Krupp, ha affermato in un comunicato inviato a ZENIT che “per sostenere la nostra missione di identificare ed eliminare gli ostacoli tra le religioni, la PTWF si è impegnata in un progetto di ricerca privata pluriennale per diffondere le azioni del Vaticano durante la II Guerra Mondiale”.
“Con oltre 1.000 libri scritti sul tema – ha aggiunto – , è diventato dolorosamente ovvio che questa controversia non verrà mai risolta, anche dopo l'apertura degli Archivi Segreti Vaticani fino al 1958”.
La scoperta dei nuovi documenti è avvenuta in un monastero di Avellino. E' possibile e anche probabile che molti altri documenti fondamentali possano trovarsi in diocesi maggiori.
Il rappresentante tedesco della PTWF Michael Hesemann ha analizzato alcuni documenti dell'Archivio Segreto Vaticano, attualmente aperto fino al 1939, e in essi ha ritrovato molti esempi “delle azioni dirette e del ministero pastorale di Eugenio Pacelli (Pio XII) per salvare gli ebrei dalla tirannia nazista”.
Ugualmente, ci sono “prove documentate” della “diretta intercessione di Pacelli per difendere gli ebrei della Palestina dai Turchi ottomani nel 1917 e del suo incoraggiamento a istituire una patria ebraica in Palestina nel 1925”.
“Poiché la storia presunta è stata la giustificazione per odio, vendette e guerre, gli storici non hanno la responsabilità morale fondamentale di ristabilire la verità?”, chiede Gary Krupp.
Il presidente della Fondazione Pave the Way si è detto “deluso” dall'influenza di molti sedicenti storici che “hanno fallito nel ricercare le prove relative a questo periodo e sono rimasti in silenzio quando i fanatici hanno manipolato la verità”.
“Se la PTWF, come ricercatrice amatoriale, può scoprire tante informazioni, com'è possibile che dei cosiddetti storici e delle istituzioni accademiche abbiano permesso che la valutazione di Pio XII, che dura da 46 anni, non sia stata sfidata, influenzando le opinioni di più di un miliardo di persone?”.
In generale, la risposta accademica su questo vuoto storico, ricorda la Fondazione, afferma che ci si “riserva il giudizio di Pacelli fino a che il Vaticano non aprirà la sezione che abbraccia pienamente il pontificato di Pio XII”.
Gli onori e la gratitudine nei confronti di Papa Pio XII si sono radicalmente trasformati nel 1963 dopo la rappresentazione dell'opera teatrale “The Deputy” di Rolf Hochhuth.
“Attraverso delle testimonianze confermate – ricorda la PTWF –, abbiamo scoperto che quest'opera era parte di un piano del KGB che mirava a distruggere la reputazione della Chiesa cattolica”.
“Secondo le nostre ricerche imparziali, e sulla base delle moltissime prove che abbiamo scoperto, la conclusione innegabile è che Papa Pio XII è stato un vero eroe della II Guerra Mondiale”, afferma Gary Krupp.
“Probabilmente ha salvato più ebrei di tutti i leader politici e religiosi del mondo insieme. Nel vero spirito dell'eroismo, inoltre, ha fatto tutto ciò con la diretta minaccia dei fucili tedeschi puntati ad appena 200 metri dalle sue finestre”, ha concluso.
Per ulteriori informazioni e per la consultazione dei documenti: www.ptwf.org
L’infinito mi ha cercato - La storia del figlio di una generazione che ha ritrovato la fede - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 15 giugno 2009 (ZENIT.org).- Una nascita difficile, una vita complicata. E’ stato comunista, socialista, ecologista, massone, new Age, macrobiotico, libertino, deputato, senatore, psichiatra di successo, giornalista, scrittore, invitato a centinaia di programmi televisivi.
Ha cercato l’infinito in mille esperienze, ma lo ha trovato solo quando ha riconosciuto la sua povertà di peccatore, ed ha permesso all’amore di Dio di raggiungerlo.
E’ questa la storia di Alessandro Meluzzi, raccontata insieme a Paolo Gambi nel libro “L’infinito mi ha cercato. Da Marx a Gesù una vita in cammino” (Edizioni Piemme, 224 pagine, 14,50 Euro).
La storia di Meluzzi è quella di una generazione, quella nata nel 1955, in pieno baby boom. Una infanzia difficile, senza un vero padre e una mamma assente, ma una vita familiare vissuta grazie ad una zia, ad uno zio, ai nonni e una vita sociale passata in parrocchia.
Poi lo stravolgimento dei tempi, il ‘68, gli anni di piombo, la politica, la sezione del partito comunista, i viaggi per conoscere e cercare il senso della vita, la psichiatria, l’esperienza del medico che autorizza degli aborti, fino al ritorno a casa, l’incontro con sacerdoti umili e santi, l’esperienza dolorosa del rapporto con i malati, e l’incontro pieno con l’infinito.
Volto popolare della TV, Meluzzi è stato capace di iniziative incredibili.
Inviato nell’Isola dei Famosi, un reality tra i più visti, in diretta ha citato l’Angelus del Papa di una domenica di novembre del 2006, spiegando che “la vita dell’uomo è nulla se non si fonda sulla roccia della fede”. Lo ha detto di fronte a 8 milioni di telespettatori, provocando un vero scandalo.
Ma non si è accontentato ed ha convinto i protagonisti del reality a pregare insieme a lui per tutta la notte. Una iniziativa che lasciò talmente trasecolati e irritati gli autori del programma, che decisero di pagargli le puntate che rimanevano purchè non si facesse più vedere.
Ai partecipanti del reality, Meluzzi chiese: “Siete stati qui due mesi, avete mai pregato?”, e così tutti cominciarono a pregare tirando fuori i dolori, le angosce, le solitudini.
Secondo il noto psichiatra, questo avvenne perchè il cristianesimo “è il luogo dell’accoglienza del mistero dell’umano di ciascuno, c’è un Dio che si fa carne per venire tra noi, non è una fede spiritualista o una mistica filosofica”.
Per Meluzzi, “la conversione è pratica quotidiana, c’è un prima ed un dopo ogni volta che mi inginocchio davanti a un confessore, c’è un prima e un dopo ogni volta che si va a ricevere l’Eucarestia, c’è un prima e un dopo ogni preghiera”.
“Ci si converte ogni giorno. Ci sono state cadute tante e terribili, ma il seme della Parola gettato tra le spine non era diventato sterile”.
Nel libro lo psichiatra, che oggi è Ipodiacono nel rito greco-melchita cattolico, racconta di essere cresciuto nella fede cattolica e di non averla rinnegata completamente in nessun passaggio della sua vita.
Ciò probabilmente non per merito suo ma per il lavoro indefesso di un angelo custode che deve aver avuto un gran da fare, come qualche anima buona, che nella Comunione dei Santi non deve aver mai smesso di pregare e invocare misericordia.
Meluzzi confessa che la sua “più che buona conversione è stata un incontro con il mistero, un incontro personale con Cristo”.
Nel libro racconta dei vari periodi della sua vita quando era marxista-leninista, poi socialista, il periodo gaudente della peggio gioventù, quello della trasgressione, la fase del Parlamento, della collaborazione con tanti sacerdoti, missionari e Vescovi, il riavvicinamento ai sacramenti alle preghiere ed alle opere.
L’incontro con tanti sacerdoti impegnati nel sociale, con i silenziosi operai della Croce, la Congregazione fondata dai Volontari della sofferenza di monsignor Luigi Novarese.
“Mi hanno mostrato qual è la strada con cui si può fare della buona sanità ospedaliera nell’alveo della missione cristiana della salute e della medicina. Una buona sanità a misura d’uomo”, ha sostenuto.
Per Meluzzi, “è nell’incontro con l’altro che il mistero della grazia si rivela. Questo mistero dell’altro che ci interpella, ci provoca, e che tanto più è salvifico quanto più è scomodo, è quello che mi ha consentito di fare lo psichiatra e lo psicoterapeuta”.
“Dio mi si è rivelato fisicamente tangibilmente negli incontri, nell’impegno di costruire la comunità (Agape Madre dell’Accoglienza, ndr), una grande e piccola fraternità di persone che fanno dell’accoglienza e della cura della pietra scartata dai costruttori la loro testata d’angolo”.
Incredibile e commovente il modo in cui Meluzzi, da ipocondriaco è diventato uno che accoglie e assiste i malati, trovando in questo incontro con il dolore e con la sofferenza, la via preferita da Dio.
“Io che era un ipocondriaco – racconta Meluzzi – che da studente di medicina passavo il tempo a fare gli esami del sangue tre volte a settimana a fare tac e risonanze magnetiche afflitto dal terrore di essere colpito da un tumore mi sono dedicato a curare la persone colpite dalle peggiori malattie”.
Il noto psichiatra narra di padre Stefano Camerlengo, vicario generale di un istituto missionario, colpito da un tumore piuttosto grave che sta portando avanti con fatica, di chemio in chemio, e che lo rende un direttore spirituale straordinario durante la confessione.
“Perché – spiega Meluzzi – lo rende capace di trasmettere quel mistero del divino che soltanto con la croce, con il dolore e anche con una certa frequentazione della fine della vita come fine della vita rende veramente ragione del perchè si dice che il malato è un grande maestro. Perchè riesce a portare la vita alla sua essenzialità, esattamente come un monaco perfetto”.
Gli autori del libro sono convinti che nella realtà del dolore passa il mistero della Provvidenza e il mistero di Cristo.
“Cristo – hanno scritto – è capace di dare un senso a quello che pare non aver nessun senso, come il dolore, la morte, la malattia”.
Così oggi Meluzzi ha una comunità che accoglie i malati più gravi ed è vicepresidente dell’Associazione Italiana Malati di Cancro Parenti e Amici (Aimac).
Per spiegare la parabola della sua vita, in un dibattito radiofonico con il sostenitore dell’ateismo Piergiorgio Odifreddi, Meluzzi affermò: “non so se ho mai cercato Gesù nella mia vita. Quello di cui sono sicuro è che Lui non ha mai smesso di cercare me”.
Odifreddi reagì indignato dicendo “io non sono così pazzo e megalomane come Meluzzi nel pensare che Dio viene a cercare me” e il noto psichiatra spiegò “non credo di essere megalomane nel pensare che Dio venga a cercare me. Penso sia megalomane Lui che è amore infinito che pensa di tenere nel suo cuore i miliardi di individui di cui è composta l’umanità nel passato, nel presente e nel futuro, ed è talmente megalomane da non smettere di cercare neanche il professor Odifreddi”.
La verità quindi sta nel “lasciarsi amare da Dio, lasciarsi prendere dal suo amore infinito” perchè “noi non levitiamo verso qualcosa per forza nostra, ma c’è un abbraccio che ci accoglie e che ci trascina. Questo essere abbracciati da Cristo con dolcezza, sulla croce e trascinati verso la croce, mi pare non il destino mio, ma il destino di tutti gli uomini”.
“E quindi noi abbracciamo la croce perchè la croce abbraccia noi, e tutto questo non è masochismo ma kenosi in un destino divino-umano che vede nella nostra accoglienza del dolore ma anche gioia il vero segreto dell’esistenza”.
Il che vuol dire che dobbiamo affidarci con fiducia al Signore: “Noi sempre infedeli, sempre caduchi e sempre peccatori. Lui sempre fedele e sempre presente”.
La comunità “Agape Madre dell’Accoglienza” fondata da Meluzzi, ha ripreso e adattato una definizione di Jean Vanier, e cioè: “Luoghi dove persone non del tutto sane si occupano di persone non del tutto malate e reciprocamente si accolgono”.
Meluzzi ricorda che le centinaia di persone, che sono passate sulla nostra via, “ci hanno allargato il cuore, mettendoci davanti al mistero delle pietre scartate dai costruttori” che “messe in condizioni adeguate diventano la testata d’angolo per la costruzione del regno di Dio”.
Il libro racconta la storia di Rocco, che fin da adolescente lavorava per la Mafia e spezzava il collo alle persone, che portò la croce in processione proprio la sera in cui venne il Vescovo, e di Sabrina, una ragazza abusata dal padre, madre di quattro bambini che seppur nati in condizioni tremende hanno fatto la gioia di tante persone.
Ha scritto Meluzzi in occasione dell’ultima nata da Sabrina, “se fosse arrivata all’ospedale dove io facevo aborti terapeutici all’università qualche anno prima la bambina Maria Sole non sarebbe nata.
Invece per fortuna è nata, è nata nella nostra comunità e la sua venuta mi è parsa davvero come quel sole che sorge che viene a visitarci. E’ il mistero della vita e del divino che mi ha fatto capire qual è il valore assoluto immanente e trascendente della vita”.
A questo proposito il noto psichiatra ringrazia Carlo Casini e loda le tante attività del Movimento per la Vita e dei Centri di Aiuto alla Vita, e i tanti incontri a cui ha partecipato per sostenere il lavoro di chi ama e accoglie la vita.
Il volume si conclude con una nota in cui Meluzzi confessa che questo libro è contrario ai modelli deontologici perchè una psicoterapeuta non dovrebbe mai rivelare la propria storia, ma dice di non trovare nulla di scandaloso nel fatto che coloro che ha curato nel passato, che cura nel presente e che curerà nel futuro conoscano la sua storia.
USA/ Tre sfide per Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 17 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Nel momento in cui scrivo, l’argomento più discusso è la situazione in Iran e tutti i commentatori concordano nel ritenere questa una occasione cruciale per il presidente Obama. Egli deve essere preparato a dialogare con chiunque alla fine diventerà presidente dell’Iran, ma dovrà anche dimostrare una qualche solidarietà, nello spirito del discorso del Cairo al mondo musulmano, a chi nelle strade di Teheran sta chiedendo democrazia.
Per ora, la questione iraniana ha distolto l’attenzione dai programmi di riforma del sistema sanitario, che l’Amministrazione aveva invece posto come tema centrale di discussione per questa settimana. Il presidente ha descritto a grandi linee il suo programma alla American Medical Association, un’organizzazione che in passato si è sempre fortemente opposta a qualsiasi intervento governativo nell’area delle assicurazioni sanitarie. Il suo supporto è essenziale per Obama. Tuttavia, se un giornalista avesse l’occasione di porre domande al presidente, il primo argomento affrontato sarebbe senza dubbio la crisi iraniana.
Questa crisi può avere in effetti molte conseguenze per gli Stati Uniti, così come il sistema sanitario ha senz’altro un grande impatto sulla vita degli americani; vi è, però, un altro tema che periodicamente attira l’attenzione e che a lungo termine può avere una grande influenza sul Paese: la battaglia sul futuro del Partito Repubblicano.
Il punto non è il futuro politico del Partito come tale, perché il “Grand Old Party” sopravvivrà senz’altro in un modo o nell’altro e potrà riottenere il peso politico che ha avuto negli anni recenti. Il tema interessante è il futuro di molti americani conservatori, siano Repubblicani, Democratici o Indipendenti. Costoro si stanno rendendo conto che nessun potere politico risponde alle loro preoccupazioni filosofiche sulla risposta da dare alla sempre più dominante ideologia secolarista, nelle sue versioni di “sinistra” o di “destra”.
Un articolo del New York Times questa settimana metteva acutamente in rilievo i cambiamenti in atto in riviste dedicate al pensiero conservatore, specialmente “The American Conservative” nella sua ultima uscita settimanale (prima di diventare un mensile e potenziare la sua versione online.) In questo ultimo numero vi erano articoli che, ad esempio, ipotizzavano la possibilità per l’Iran di avere armi nucleari (scritti prima della crisi attuale), che denunciavano come immorale il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki (approvato invece dalla maggioranza degli americani), e attaccavano altri aspetti del conservatorismo politico americano.
Forse l’articolo più interessante è quello di Rod Dreher, che scrive sul Dallas Morning News, tiene il Crunchy Can Blog su Beliefnet.com e in più si occupa anche di temi relativi a scienza e religione. Il suo argomento è che la reale questione di fronte agli oppositori del secolarismo dominante non è cosa avrebbe fatto Ronald Reagan (domanda che si pongono molti conservatori), ma cosa avrebbe fatto San Benedetto.
Il riferimento è After Virtue, il classico di Alasdair McIntyredel 1982, nel quale l’autore sostiene che il controllo “barbaro” dell’attuale cultura è ormai troppo avanzato perché i danni possano essere riparati e che la sola alternativa reale oggi non è una rivoluzione politica, ma la creazione di comunità di stile benedettino dove i cristiani possano vivere liberamente la loro fede. L’articolo, intitolato “Diventare barbari”, sostiene che il Diritto americano ha finito per «adottare gli usi dell’orda (barbarica)», così che la lotta tra Destra e Sinistra è simile a una battaglia tra due tribù barbare.
Non so se Dreher ha letto il discorso di Papa Benedetto XVI al Collegio dei Bernardini a Parigi, ma dovrebbe se vuole sviluppare le implicazioni della sua analisi. Come Papa Benedetto spiega, il movimento monastico fu fondato non per sviluppare un programma di ripresa o sviluppo culturale, ma per trovare Dio. Fu questo rifiuto di scopi culturali e politici che alla fine creò una nuova cultura veramente umanistica.
FECONDAZIONE/ Il bambino di colore e la discriminazione del “clinicamente corretto” - Carlo Bellieni - mercoledì 17 giugno 2009 – ilsussidiario.net
In Irlanda una coppia ha concepito in vitro un bimbo, ma per errore l’ospedale avrebbe usato spermatozoi di un donatore africano, determinando la nascita di un bimbo dalla pelle scura.
Il fatto di cronaca dello scambio di spermatozoi in una fecondazione in vitro non è nuovo e sarebbe preoccupante etichettarlo come l’ennesima prova dei limiti della fecondazione in vitro, perché sarebbe considerare “un fallimento” aver avuto un figlio di colore: sarebbe stato un fallimento clinico se la coppia avesse usato il proprio seme e questo fosse stato scambiato con quello di un estraneo, ma qui già si sapeva che il seme non era del padre. Quindi qui l’unico “nocumento” è il colore della pelle, e ci rifiutiamo di pensarlo come tale.
Quello che ci preoccupa allora è che qualcuno si inalberi perché la “richiesta su misura” non sia riuscita. Quello che colpisce è infatti la reazione: si voleva il figlio uguale a sé e ora si è persi, disorientati. Il padre dice che l’errore ha fatto nascere un figlio con la pelle scura che soffrirà perché sarà trattato in maniera discriminatoria dagli altri bambini. Ma ci riesce difficile credere che in Europa oggi qualcuno venga bullizzato per il colore della pelle. In Italia non accade e se accade chi ci prova viene giustamente punito. Nel civile Regno Unito le cose starebbero peggio che da noi?
Altro segnale di disorientamento è sentir dire che «alla madre viene chiesto se ha avuto una relazione con un altro uomo, mentre il padre teme che quando dirà la verità al bambino questi la rifiuterà». Ma oggi è normale vedere coppie con figli di etnia diversa per le possibilità adottive; e non c’è angoscia nello spiegare al figlio – vedi gli adottati – che i suoi genitori non sono precisamente il suo papà e mamma.
Dunque il segnale di disorientamento dei genitori al non veder corrisposte le proprie aspettative emerge chiaro.
In fondo il caso è solo la storia di un bambino “speciale” e dei problemi di suo padre che lo voleva diverso. In realtà dire “solo” è riduttivo: è un film già visto: quanti padri hanno avuto figli “speciali” e quanti sono rimasti delusi… ma pensavamo che avere un figlio “diverso” e viverlo come una delusione fosse un film del secolo scorso.
Insomma, il problema della fecondazione in vitro fa emergere un problema ben più grave: il figlio su misura: si sceglie il sesso, l’incarnato e si eliminano senza ripensamenti quelli che non ci sono venuti bene! O si denuncia. Ma cosa c’è di strano, dato che questo è il criterio con cui, in maniera “meno sottile” si eliminano i figli non voluti o venuti “male” dopo una ricerca al setaccio (screening) prenatale, mentre ormai stanno crescendo nell’utero di mamma? La fecondazione in vitro è solo un segno: il problema vero è più sotto.
Il volto dell’uomo/donna - La lectio magistralis del Cardinale Angelo Scola al Festival biblico di Vicenza
VICENZA, venerdì, 12 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della lectio magistralis pronunciata il 1° giugno scorso dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, in occasione della chiusura del Festival Biblico di Vicenza sul tema: “Il volto dell’uomo/donna”.
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«Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: la via dell’aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la via dell’uomo in una giovane donna» (Prov 30, 18-19).
Con potenti immagini l’autore del Libro dei Proverbi esprime la meraviglia carica di ontologico timore dell’uomo, creatura finita, di fronte all’infinito da cui pure è attratto. La coscienza della propria strutturale sproporzione a comprendere il senso della totalità del reale è certo la cifra della sua piccolezza, ma anche della sua grandezza. L’ampiezza del cielo in cui l’aquila vola indica la possibilità di uno sguardo senza confini. La solidità della roccia fa sì che il serpente possa attraversarla ma non sgretolarla: il male non riesce a conquistare definitivamente la vita. La profondità del mare sostiene il viaggio dell’uomo nella vita. Ma più enigmatica ancora di tale ampiezza, solidità e profondità, è la via dell’uomo in una giovane donna.
L’icastica bellezza di quest’ultima affermazione ci introduce di schianto nel tema di questa sera. L’uomo/donna è la via attraverso cui ognuno di noi è inoltrato nel mistero della vita. Molto acuto è il commento che ci propone Paul Beauchamp, uno dei più importanti esegeti del nostro tempo: «L’enigma che sorpassa gli altri, secondo i Proverbi, è la “strada dell’uomo attraverso la donna” (Prov. 30, 18s.), ossia è ciò che fa passare l’uomo attraverso l’immagine di colei che sta al suo inizio e che lo fa uscire da essa quando nasce, il che fa dell’incontro tra i due al tempo stesso un ricominciamento e qualcosa di nuovo» (L’uno e l’altro Testamento, Paideia, Brescia 1985, 144).
Beauchamp richiama un tratto costitutivo dell’esperienza elementare di ogni uomo, a cui le Scritture rendono testimonianza, svelandone anche la ragion d’essere: nell’incontro tra l’uomo e la donna accade un ricominciamento e qualcosa di nuovo.
Il nuovo è possibile perché l’incontro amoroso pone inevitabilmente all’uomo la domanda ontologica sulla propria origine. Potremmo dirla così: chi sono io che incontrando te incontro me stesso? Questa novità avviene perché la donna dice l’alterità ultimamente da me inafferrabile, quell’alterità che mi “sposta” (dif-ferenza) in continuazione, impedendomi di rimanere rinchiuso in me stesso. Così la donna, ponendosi, mi impone, attraverso il suo volto amante, di ricominciare.
Nella sorpresa davanti al volto della donna, misteriosa eppure familiare alterità, è donato all’uomo il proprio volto, cioè la propria irriducibile identità.
Il volto biblico dell’uomo/donna dice ad un tempo identità ed alterità. Come mai? Fin dalle prime pagine della Genesi, la Scrittura risponde a questo interrogativo che emerge dal profondo dell’esperienza di ogni uomo e di ogni donna. E lo fa, anzitutto, con un affermazione potente e radicale: l’uomo/donna, la differenza sessuale, è connessa all’essere a immagine e somiglianza di Dio: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedissi e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi”» (Gen 1, 26-28). A proposito di questo passo un detto del Talmud giunge ad affermare: «Chi non ha una moglie non è uomo».
Insiste poi lo straordinario racconto della creazione della donna: «E il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta è osso delle mie ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta”. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna» (Gen 2, 18-25).
Il racconto della creazione della donna descrive bene l’irriducibile differenza dell’uomo maschio, pur nella sua essenziale identità con la donna. Eva è cavata dal corpo di Adamo per essere differente, anche se ha in comune con lui l’essenza personale. Dio non consulta previamente l’uomo. Plasma Eva con la costola di Adamo e gliela pone di fronte, come un interlocutore che egli non si può dare, né può, tanto meno, dominare, come invece può fare con tutti gli altri esseri viventi (imporre il nome, nel linguaggio biblico, significa stabilire la propria signoria). Si capisce perché per il Libro della Genesi ad un certo punto della vita l’uomo lascia i genitori e si unisce a sua moglie per formare con lei una carne sola. Perché lei è carne tolta dalla sua carne.
Proviamo a raffigurarci - molti artisti lo hanno fatto - lo sguardo di Adamo che vede per la prima volta Eva vicino a sé…
Fin dal principio la donna è posta davanti all’uomo (e viceversa) come un dono. Una presenza inimmaginabile, del tutto irriproducibile, eppure profondamente corrispondente a sé. L’uomo e la donna sono identicamente persone, ma sessualmente differenti. Tale differenza pervade tutto l’essere umano, fin nell’ultima sua particella: il corpo dell’uomo, infatti, è in ogni sua cellula maschile, come quello della donna è femminile.
La differenza sessuale svela che l’alterità è una dimensione interna alla persona stessa, che ne segna la strutturale insufficienza, aprendola in tal modo al “fuori di sé”. E così l’altro è per me tanto inaccessibile (mi resta sempre altro) quanto necessario. L’uomo/donna rappresenta uno dei luoghi originari in cui ognuno di noi fa l’esperienza della propria dipendenza e della conseguente capacità di relazione. Come, con impareggiabile intensità, recita il Cantico dei Cantici: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana!» (Cant 4, 9).
Il disegno originario di Dio nel crearci sempre e solo come maschi o come femmine (Mulieris dignitatem, 1) vuol educarci a capire il peso dell’io e il peso dell’altro. La differenza sessuale si rivela così come una grande scuola. Si tratta di imparare l’io attraverso l’altro e l’altro attraverso l’io.
Il bisogno/desiderio dell’altro che, a partire dall’uomo/donna, come uomo e come donna, ogni persona sperimenta non è pertanto il marchio di un handicap, di una mancanza, ma piuttosto l’eco di quella grande avventura di pienezza che vive in Dio Uno e Trino, perché siamo stati creati a Sua immagine.
E in questo modo la via dell’uomo in una giovane donna, la via della differenza sessuale, dell’amore per sempre, dell’apertura alla vita appare come via privilegiata di accesso a Dio, come una strada a tutti possibile per intuire che all’origine della nostra esistenza c’è un Mistero buono che ci chiama a Sé.
La Scrittura insiste sulla possibilità dell’uomo di risalire dalla contemplazione del creato all’affermazione del Creatore: «Se affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza» (Sap 13, 3). Sul volto pieno di attrattiva della donna risplende il Volto di Colui che l’ha creata e condotta verso l’uomo. Per ogni uomo e per ogni donna l’esperienza dell’amore è via di accesso al riconoscimento di Dio. Scrive ancora Beauchamp: «Ecco perché il Cantico dei Cantici, o Canto dei Canti, è un poema sapienziale. Si offende l’amore dei due fidanzati che vi dialogano se si crede che, per dare a questo poema un senso spirituale, occorra trovargli un altro tema. Inversamente, è troppo spiccio anzi sciocco pretendere che il Cantico non significhi niente altro. Che gli rimarrebbe di enigmatico se la mente non fosse sollecitata dal fatto che l’uomo vi chiama felicità la novità dell’origine, trovata sulle tracce del suo inizio…? Per tale ragione, l’esperienza della Sapienza è legata a quella della differenza dei sessi. Là dove l’uomo ritrova come la propria sorgente e da cui esce un altro uomo, là è il luogo di elezione della Sapienza» (Beauchamp, op. cit., 144-145).
Proprio per questa sua necessaria ma enigmatica profondità l’esperienza dell’amore non è esente dalla più grande tentazione che minaccia l’uomo: quella dell’idolatria. L’ingiunzione di Dio al suo popolo nel deserto - «Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra» (Es 20, 3-4) - è rivolta ad ogni uomo e ad ogni donna perché non si arresti al volto dell’amato/a, ma in esso renda gloria a Colui che gli ha donato un/a compagno/a di cammino. Siamo tutti ben consapevoli di cosa succede quando nell’esperienza dell’amore si confonde l’altro con Dio. Quando cioè ci si aspetta - addirittura si pretende - dall’altro tutto, cioè il compimento della propria vita. Delusione e scetticismo fino alla violenza prendono il posto prima occupato dallo stupore e dalla gratitudine. Con potente lucidità lo descrive il Libro del Siracide: «Speranze vane e fallaci sono quelle dello stolto, e i sogni danno le ali a chi è privo di senno. Come uno che afferra le ombre e insegue il vento, così è per chi si appoggia sui sogni. Una cosa di fronte all’altra: tale è la visione dei sogni, di fronte a un volto l’immagine di un volto» (Sir 34, 1-3).
Negata la natura di segno del volto dell’amata, la consistenza di tale volto sfuma e non resta altro che la sua pallida immagine. Ma un’immagine non basta a soddisfare la nostra sete profonda. Il desiderio si spegne nella malinconia o facilmente si dissolve sulla superficie di uno specchio che non ci rimanda altro che il nostro volto. Abbiamo bisogno di una presenza che ci insegni ad amare, ad imparare la strada dell’altro/altra quale cammino concreto e possibile verso l’Altro alla cui immagine e somiglianza siamo stati creati. Ma a questo bisogno non possiamo rispondere con le nostre forze. Dio stesso ha voluto mostrarci la via, o meglio ha mandato Suo Figlio tra noi come Via alla verità e alla vita.
Numerose sono le occasioni in cui i Vangeli ci presentano Gesù Cristo, il nuovo Adamo, che incontra e si coinvolge con donne di diversa età e condizione sociale, svelandoci in tal modo il volto pieno dell’uomo/donna. E sempre lo sguardo che Egli - in netta antitesi con i costumi del suo tempo - porta alla figura femminile è uno sguardo integrale che ne afferma la assoluta dignità e la singolare vocazione. Il più delle volte questo suscita stupore, sorpresa al limite dello scandalo. E non solo tra i farisei (cfr Lc 7, 37-47), ma anche tra i suoi discepoli: «si meravigliavano che parlasse con una donna» (Gv 4, 27).
Nell’incalzante e decisivo dialogo che Gesù intrattiene con lei (cfr Gv 4, 5-30) la Samaritana è un interlocutore reale anche dei più profondi misteri di Dio, compresi quelle questioni circa il culto cui la donna, nell’Antico Testamento, non è abilitata.
Il dono di sé, fattore costitutivo del mistero nuziale, connota i tanti decisivi incontri di Gesù con le figure femminili, da quello con la peccatrice, che non cessava di bagnare i piedi di Gesù con le sua lacrime «poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Lc 7, 38) e per questo Gesù dice «Le sono perdonati i suoi peccati perché ha molto amato» (Lc 7, 47); a quello con l’adultera cui il Signore dona il perdono che responsabilizza: «Neanch’io ti condanno, va’ in pace e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8, 11)»; a quello con la vedova di Nain cui riserva un’indimenticabile espressione di affettuosa pietà: «Donna, non piangere!» (Lc 7, 13); a quello con la Cananea per la cui fede ha parole di grande apprezzamento (Mt 15 21-28).
«[L'uomo e la donna] - scrive Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem - «furono reciprocamente affidati l’uno all’altra come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio stesso. In tale affidamento è la misura dell’amore» (MD, 14). Di tale affidamento, di tale compagnia amorevole nella suprema prova della morte, ci dà, ancora una volta, splendida testimonianza un memorabile passaggio del Vangelo di Giovanni: «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”» (Gv 19, 26-27).
Per questo la Lettera agli Efesini svela il volto biblico dell’uomo/donna inserendo il matrimonio nel “luogo” deputato all’esperienza compiuta del bell’amore: il rapporto nuziale tra Cristo e la Chiesa: «Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito» (Ef 5, 32).
Card. Angelo Scola
Patriarca di Venezia
Il ruolo dissolvitore della magistratura - L’Italia non aveva bisogno di una legge sul “testamento biologico. L’eutanasia era già proibita con chiarezza dalla nostra legislazione. Ma il nuovo testo prodotto dal Parlamento, per l’ambiguità che lo caratterizza, lungi dall’evitare nuovi interventi della magistratura, li moltiplicherà, permettendo agli organi giudiziari di continuare a intervenire in maniera sempre più invasiva e arbitraria. Quanto è accaduto con la legge 40 docet. Analogo sarà il destino della nuova legge sul testamento biologico, perché il testo è pieno di crepe e di varchi che i magistrati sapranno allargare, frantumando le buone intenzioni dei legislatori… - di Roberto de Mattei
La sentenza 151/2009 della Corte Costituzionale, del 1° aprile, resa pubblica l’8 maggio, ha di fatto demolito l’impianto della Legge 40 sulla fecondazione in provetta. Quella legge non era buona, ma poneva dei limiti alla sperimentazione selvaggia.
La Consulta, affermando che «la tutela dell’embrione non è assoluta», ha soppresso questi limiti, permettendo di creare, impiantare e congelare embrioni, come se fossero cose e non persone. Con ciò la sentenza, ha portato nuovamente alla luce uno dei più gravi e inquietanti problemi del nostro tempo: il ruolo della Magistratura nel processo di dissoluzione della moralità e del costume sociale.
La filosofia classica, a partire da Aristotele, ha sempre ritenuto che lo Stato, pur nella unicità e indivisibilità della sua sovranità, avesse tre “funzioni distinte”: quella che emana la legge, quella che giudica e quella che comanda.
Il barone di Montesquieu (1689-1755), nel celebre libro XI dello Spirito delle Leggi, elaborò per primo la teoria della separazione dei “tre poteri”. Il legislativo, il giudiziario e l’esecutivo non erano funzioni riconducibili a un’unica autorità, ma poteri distinti, che potevano entrare in contrasto l’un l’altro.
Richiamandosi a queste dottrine, nel secolo XVIII, il potere giudiziario, rappresentato dai cosidetti “Parlamenti”, si contrappose apertamente alla monarchia francese e al suo governo, che esercitavano il potere legislativo ed esecutivo.
I Parlamenti, istituiti per rendere giustizia in nome del re, si autodefinirono l’“autorità tutelare della nazione” e reclamarono per primi la convocazione degli Stati Generali, nel 1789. Dall’ambiente della magistratura parlamentare uscirono rappresentanti del Terzo Stato come Sieyés, Mirabeau, Condorcet, destinati a svolgere un ruolo decisivo negli anni della Rivoluzione.
Il Medioevo e l’Ancien Régime non confondevano la sovranità con l’esercizio dei suoi poteri; la Rivoluzione Francese attribuì invece la sovranità ai tre poteri separati e dialetticamente conflittuali, così come separate e dialetticamente conflittuali diventeranno nel secolo successivo le classi sociali.
La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 sancì questa tripartizione di poteri. Alla fase “liberale” del 1789 seguì però quella giacobina del 1793-1794, in cui la Rivoluzione, come allora si disse, “divorò” i suoi figli. Il sogno riformatore dei magistrati sfumò tragicamente sulla ghigliottina.
Non si può non vedere una certa analogia, tra quanto accadde allora in Francia e quanto sta avvenendo in Italia. L’opera della nostra magistratura, a partire da Tangentopoli, parve a molti come l’inizio di una “Rivoluzione italiana” destinata a seppellire il regime consociativo del dopoguerra. In realtà, la “Rivoluzione morale” degli anni Novanta si sta rivelando come la “Rivoluzione contro la morale” di quella corrente minoritaria della sinistra giudiziaria che esercita una ferrea egemonia sugli orientamenti dei giudici e influenza profondamente la nostra vita politica.
D’altra parte la Dichiarazione dei Diritti del 1789, pretese di separare la politica dalla morale. L’esercizio dell’autorità del Re, nella società di Ancien Régime, era subordinato a princìpi e a leggi che costituivano il fondamento della sua stessa sovranità. Come ricorda il grande pensatore spagnolo Jaime Balmes, nelle monarchie europee cosiddette assolute vigeva il principio secondo cui non è il monarca ma la legge a comandare. Questa norma, universalmente riconosciuta, era la legge divina e naturale. La sovranità dei monarchi era assoluta, in quanto indivisibile, ma non fu mai arbitraria, senza frontiere morali che la limitassero.
La democrazia moderna, figlia della Rivoluzione Francese, ha trasferito al legislatore un potere sovrano, privo di ogni limite: la volontà della maggioranza diviene la fonte suprema della morale. L’assenza di norme morali rende possibile ai Parlamenti imporre leggi che negano la tutela della vita in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale; che negano l’unicità della famiglia, naturale; che autorizzano ogni forma di manipolazione genetica.
Quando la classe politica rifiuta di riconoscere l’autorità di una legge morale che delimiti il suo potere, non ci si può meravigliare se la classe giudiziaria rivendica a sua volta per sé un potere assoluto, indipendente dallo stesso potere politico. In entrambi i casi ci si richiama alla “volontà del popolo”, come fonte di potere sovrano, interpretando naturalmente in maniera diversa questa delega di autorità.
Come stupirsi allora di quanto sta accadendo? L’Italia non aveva bisogno di una legge sul “testamento biologico. L’eutanasia era già proibita con chiarezza dalla nostra legislazione. La magistratura ha cercato di sovvertire questa legislazione attraverso gli strumenti giuridici di cui dispone.
A questo punto, invece di rendersi conto che il problema era costituito dall’arbitrio di potere dei giudici, si è detto che bisognava fare una nuova legge sul “fine vita”, per modificare quella situazione di anarchia legislativa che la magistratura aveva creato e che di fatto veniva considerata come irreversibile.
Ma il nuovo testo prodotto dal Parlamento, per l’ambiguità che lo caratterizza, lungi dall’evitare nuovi interventi della magistratura, li moltiplicherà, permettendo agli organi giudiziari di continuare a intervenire in maniera sempre più invasiva e arbitraria. Quanto è accaduto con la legge 40 docet.
Analogo sarà il destino della nuova legge sul testamento biologico, perché il testo è pieno di crepe e di varchi che i magistrati sapranno allargare, frantumando le buone intenzioni dei legislatori.
Non serve produrre nuove leggi, di fronte a chi sistematicamente le riscrive, a colpi di sentenze La magistratura continuerà, perciò a smontare e a ricomporre le leggi, a suo piacere, fino a quando il potere politico lo permetterà.
Ma come potrebbe la classe politica evitare l’arbitrio della Magistratura, quando essa stessa rifiuta di riconoscere una legge naturale superiore, a cui ogni potere, il giudiziario, il legislativo e l’esecutivo dovrebbero inchinarsi? È questo il problema di fondo che esige di essere affrontato, se si vuole evitare che la crisi politica e morale che ci devasta divenga irreversibile.
Radici Cristiane n. 45 - Giugno 2009