lunedì 29 giugno 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: San Paolo, modello di amore per Cristo - Discorso introduttivo alla preghiera dell'Angelus
2) Omelia di Benedetto XVI per la chiusura dell’Anno Paolino
3) Inserto del Il Foglio del 17 giugno 2009 - C’è un Papa che riannoda i fili di fede, ragione e identità. E c’era un filosofo che era tutto il contrario - KARL RAHNER È UNO DEI MAESTRI DELLA CULTURA E DELLO SPIRITO CONCILIARE. IL CARDINALE TETTAMANZI NE RICORDA LO SPIRITO. QUI CERCHIAMO DI CAPIRE PERCHÉ ANCORA FA DISCUTERE
4) RU486: perché commercializzare un farmaco così pericoloso? - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 28 giugno 2009
5) Miracoli tra noi - Autore: Bonalume, Andrea Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 27 giugno 2009
6) Il catechismo della carne - Pigi Colognesi - venerdì 26 giugno 2009 – ilsussidiario.net
7) Il compito della politica - Mario Mauro - lunedì 29 giugno 2009 – ilsussidiario.net
8) CRISTIANESIMO/ San Pietro secondo Auerbach: la forza dirompente di un fatto quotidiano - Laura Cioni - lunedì 29 giugno 2009 – ilsussidiario.net


Benedetto XVI: San Paolo, modello di amore per Cristo - Discorso introduttivo alla preghiera dell'Angelus
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 21 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questa domenica da Benedetto XVI nell'introdurre la preghiera dell’Angelus recitata con i fedeli ed i pellegrini convenuti in piazza San Pietro.
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Cari fratelli e sorelle!
Con la celebrazione dei Primi Vespri dei Santi Pietro e Paolo, che presiederò questa sera nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, si chiude l’Anno Paolino, indetto nel bimillenario della nascita dell’Apostolo delle genti. E’ stato un vero tempo di grazia in cui, mediante i pellegrinaggi, le catechesi, numerose pubblicazioni e diverse iniziative, la figura di san Paolo è stata riproposta in tutta la Chiesa e il suo vibrante messaggio ha ravvivato ovunque, nelle comunità cristiane, la passione per Cristo e per il Vangelo. Rendiamo pertanto grazie a Dio per l’Anno Paolino e per tutti i doni spirituali che esso ci ha portato.
La divina Provvidenza ha disposto che proprio pochi giorni fa, il 19 giugno, solennità del Sacro Cuore di Gesù, sia stato inaugurato un altro anno speciale, l’Anno Sacerdotale, in occasione del 150° anniversario della morte – dies natalis – di Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato d’Ars. Un ulteriore impulso spirituale e pastorale, che – ne sono certo - non mancherà di recare tanti benefici al popolo cristiano e specialmente al clero. Qual è la finalità dell’Anno Sacerdotale? Come ho scritto nell’apposita lettera che ho inviato ai sacerdoti, esso intende contribuire a promuovere l’impegno di interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi. L’apostolo Paolo costituisce, in proposito, un modello splendido da imitare non tanto nella concretezza della vita – la sua infatti fu davvero straordinaria – ma nell’amore per Cristo, nello zelo per l’annuncio del Vangelo, nella dedizione alle comunità, nella elaborazione di efficaci sintesi di teologia pastorale. San Paolo è esempio di sacerdote totalmente identificato col suo ministero – come sarà anche il Santo Curato d’Ars –, consapevole di portare un tesoro inestimabile, cioè il messaggio della salvezza, ma di portarlo in un "vaso di creta" (cfr 2 Cor 4,7); perciò egli è forte e umile nello stesso tempo, intimamente persuaso che tutto è merito di Dio, tutto è sua grazia. "L’amore del Cristo ci possiede" – scrive l’Apostolo, e questo può ben essere il motto di ogni sacerdote, che lo Spirito "avvince" (cfr At 20,22) per farne un fedele amministratore dei misteri di Dio (cfr 1 Cor 4,1-2): il presbitero deve essere tutto di Cristo e tutto della Chiesa, alla quale è chiamato a dedicarsi con amore indiviso, come uno sposo fedele verso la sua sposa.
Cari amici, insieme con quella dei santi Apostoli Pietro e Paolo, invochiamo ora l’intercessione della Vergine Maria, perché ottenga dal Signore abbondanti benedizioni per i sacerdoti durante questo Anno Sacerdotale da poco iniziato. La Madonna, che san Giovanni Maria Vianney tanto amò e fece amare dai suoi parrocchiani, aiuti ogni sacerdote a ravvivare il dono di Dio che è in lui in virtù della santa Ordinazione, così che egli cresca nella santità e sia pronto a testimoniare, se necessario sino al martirio, la bellezza della sua totale e definitiva consacrazione a Cristo e alla Chiesa.


[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto ora i pellegrini di lingua italiana, molti dei quali sono a Roma per la conclusione dell’Anno Paolino. Saluto, in particolare, i fedeli delle parrocchie: S. Maria Assunta in Avio, "Spirito Santo" in Botrugno e Santa Maria di Loreto in Fossano. Saluto il parroco e i fedeli della comunità dell’Annunciazione dell’Eparchia di Latakia-Siria della Chiesa Siro–Maronita, il Vicario Generale e i pellegrini della diocesi di Sapes in Albania, le missionarie e i missionari Identes dell’Istituto di Cristo Redentore. A tutti auguro di trascorrere una buona domenica sotto la speciale protezione dell’apostolo Paolo.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Omelia di Benedetto XVI per la chiusura dell’Anno Paolino
ROMA, domenica, 28 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questa domenica sera, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, la celebrazione dei Primi Vespri della Solennità dei Santi Pietro e Paolo per la chiusura dell’Anno Paolino.
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Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Illustri membri della Delegazione del Patriarcato ecumenico,
Cari fratelli e sorelle,
rivolgo a ciascuno il mio saluto cordiale. In particolare, saluto il Cardinale Arciprete di questa Basilica e i suoi collaboratori, saluto l’Abate e la comunità monastica benedettina; saluto pure la Delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. L’anno commemorativo della nascita di san Paolo si conclude stasera. Siamo raccolti presso la tomba dell’Apostolo, il cui sarcofago, conservato sotto l’altare papale, è stato fatto recentemente oggetto di un’attenta analisi scientifica: nel sarcofago, che non è stato mai aperto in tanti secoli, è stata praticata una piccolissima perforazione per introdurre una speciale sonda, mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato con oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. E’ stata anche rilevata la presenza di grani d’incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree. Inoltre, piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo. Ciò sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo Paolo. Tutto questo riempie il nostro animo di profonda emozione. Molte persone hanno, durante questi mesi, seguito le vie dell’Apostolo – quelle esteriori e più ancora quelle interiori, che egli ha percorso durante la sua vita: la via di Damasco verso l’incontro con il Risorto; le vie nel mondo mediterraneo, che egli ha attraversato con la fiaccola del Vangelo, incontrando contraddizione e adesione, fino al martirio, per il quale appartiene per sempre alla Chiesa di Roma. Ad essa ha indirizzato anche la sua Lettera più grande ed importante. L’Anno Paolino si conclude, ma essere in cammino insieme con Paolo, con lui e grazie a lui venir a conoscenza di Gesù e, come lui, essere illuminati e trasformati dal Vangelo – questo farà sempre parte dell’esistenza cristiana. E sempre, andando oltre l’ambiente dei credenti, egli rimane il “maestro delle genti”, che vuol portare il messaggio del Risorto a tutti gli uomini, perché Cristo li ha conosciuti ed amati tutti; è morto e risorto per tutti loro. Vogliamo quindi ascoltarlo anche in questa ora in cui iniziamo solennemente la festa dei due Apostoli uniti fra loro da uno stretto legame.
Fa parte della struttura delle Lettere di Paolo che esse – sempre in riferimento al luogo ed alla situazione particolare – spieghino innanzitutto il mistero di Cristo, ci insegnino la fede. In una seconda parte, segue l’applicazione alla nostra vita: che cosa consegue a questa fede? Come essa plasma la nostra esistenza giorno per giorno? Nella Lettera ai Romani, questa seconda parte comincia con il dodicesimo capitolo, nei primi due versetti del quale l’Apostolo riassume subito il nucleo essenziale dell’esistenza cristiana. Che cosa dice a noi san Paolo in quel passaggio? Innanzitutto afferma, come cosa fondamentale, che con Cristo è iniziato un nuovo modo di venerare Dio – un nuovo culto. Esso consiste nel fatto che l’uomo vivente diventa egli stesso adorazione, “sacrificio” fin nel proprio corpo. Non sono più le cose ad essere offerte a Dio. È la nostra stessa esistenza che deve diventare lode di Dio. Ma come avviene questo? Nel secondo versetto ci vien data la risposta: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio…” (12, 2). Le due parole decisive di questo versetto sono: “trasformare” e “rinnovare”. Dobbiamo diventare uomini nuovi, trasformati in un nuovo modo di esistenza. Il mondo è sempre alla ricerca di novità, perché con ragione è sempre scontento della realtà concreta. Paolo ci dice: il mondo non può essere rinnovato senza uomini nuovi. Solo se ci saranno uomini nuovi, ci sarà anche un mondo nuovo, un mondo rinnovato e migliore. All’inizio sta il rinnovamento dell’uomo. Questo vale poi per ogni singolo. Solo se noi stessi diventiamo nuovi, il mondo diventa nuovo. Ciò significa anche che non basta adattarsi alla situazione attuale. L’Apostolo ci esorta ad un non-conformismo. Nella nostra Lettera si dice: non sottomettersi allo schema dell’epoca attuale. Dovremo tornare su questo punto riflettendo sul secondo testo che stasera voglio meditare con voi. Il “no” dell’Apostolo è chiaro ed anche convincente per chiunque osservi lo “schema” del nostro mondo. Ma diventare nuovi – come lo si può fare? Ne siamo davvero capaci? Con la parola circa il diventare nuovi, Paolo allude alla propria conversione: al suo incontro col Cristo risorto, incontro di cui nella Seconda Lettera ai Corinzi dice: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (5, 17). Era tanto sconvolgente per lui questo incontro con Cristo che dice al riguardo: “Sono morto” (Gal 2, 19; cfr Rm 6). Egli è diventato nuovo, un altro, perché non vive più per se stesso e in virtù di se stesso, ma per Cristo ed in Lui. Nel corso degli anni, però, ha anche visto che questo processo di rinnovamento e di trasformazione continua per tutta la vita. Diventiamo nuovi, se ci lasciamo afferrare e plasmare dall’Uomo nuovo Gesù Cristo. Egli è l’Uomo nuovo per eccellenza. In Lui la nuova esistenza umana è diventata realtà, e noi possiamo veramente diventare nuovi se ci consegniamo alle sue mani e da Lui ci lasciamo plasmare.
Paolo rende ancora più chiaro questo processo di “rifusione” dicendo che diventiamo nuovi se trasformiamo il nostro modo di pensare. Ciò che qui è stato tradotto con “modo di pensare”, è il termine greco “nous”. È una parola complessa. Può essere tradotta con “spirito”, “sentimenti”, “ragione” e, appunto, anche con “modo di pensare”. La nostra ragione deve diventare nuova. Questo ci sorprende. Avremmo forse aspettato che riguardasse piuttosto qualche atteggiamento: ciò che nel nostro agire dobbiamo cambiare, un precetto di alterazione. Ma no: il rinnovamento deve andare fino in fondo. Il nostro modo di vedere il mondo, di comprendere la realtà – tutto il nostro pensare deve mutarsi a partire dal suo fondamento. Il pensiero dell’uomo vecchio, il modo di pensare comune è rivolto in genere verso il possesso, il benessere, l’influenza, il successo, la fama e così via. Ma in questo modo ha una portata troppo limitata. Così, in ultima analisi, resta il proprio “io” il centro del mondo. Dobbiamo imparare a pensare in maniera più profonda. Che cosa ciò significhi, lo dice san Paolo nella seconda parte della frase: bisogna imparare a comprendere la volontà di Dio, così che questa plasmi la nostra volontà. Affinché noi stessi vogliamo ciò che vuole Dio, perché riconosciamo che ciò che Dio vuole è il bello e il buono. Si tratta dunque di una svolta nel nostro spirituale orientamento di fondo. Dio deve entrare nell’orizzonte del nostro pensiero: ciò che Egli vuole e il modo secondo cui Egli ha ideato il mondo e me. Dobbiamo imparare a prendere parte al pensare e al volere di Gesù Cristo. È allora che saremo uomini nuovi nei quali emerge un mondo nuovo.
Lo stesso pensiero di un necessario rinnovamento del nostro essere persona umana, Paolo lo ha illustrato ulteriormente in due brani della Lettera agli Efesini, sui quali pertanto vogliamo ancora riflettere brevemente. Nel quarto capitolo della Lettera l’Apostolo ci dice che con Cristo dobbiamo raggiungere l’età adulta, un’umanità matura. Non possiamo più rimanere “fanciulli in balia delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina…” (4, 14). Paolo desidera che i cristiani abbiano una fede matura, una “fede adulta”. La parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede “fai da te”, quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il Magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una “fede adulta”. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo. Così fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento, opponendosi con ciò radicalmente al principio della violenza, proprio anche nella difesa delle creature umane più inermi. Fa parte della fede adulta riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore, ristabilito nuovamente da Cristo. La fede adulta non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della moda. Sa che questi venti non sono il soffio dello Spirito Santo; sa che lo Spirito di Dio s’esprime e si manifesta nella comunione con Gesù Cristo. Tuttavia, anche qui Paolo non si ferma alla negazione, ma ci conduce al grande “sì”. Descrive la fede matura, veramente adulta in maniera positiva con l’espressione: “agire secondo verità nella carità” (cfr Ef 4, 15). Il nuovo modo di pensare, donatoci dalla fede, si volge prima di tutto verso la verità. Il potere del male è la menzogna. Il potere della fede, il potere di Dio è la verità. La verità sul mondo e su noi stessi si rende visibile quando guardiamo a Dio. E Dio si rende visibile a noi nel volto di Gesù Cristo. Guardando a Cristo riconosciamo un’ulteriore cosa: verità e carità sono inseparabili. In Dio, ambedue sono inscindibilmente una cosa sola: è proprio questa l’essenza di Dio. Per questo, per i cristiani verità e carità vanno insieme. La carità è la prova della verità. Sempre di nuovo dovremo essere misurati secondo questo criterio, che la verità diventi carità e la carità ci renda veritieri.
Ancora un altro pensiero importante appare nel versetto di san Paolo. L’Apostolo ci dice che, agendo secondo verità nella carità, noi contribuiamo a far sì che il tutto – l’universo – cresca tendendo a Cristo. Paolo, in base alla sua fede, non s’interessa soltanto della nostra personale rettitudine e non soltanto della crescita della Chiesa. Egli s’interessa dell’universo: ta pánta. Lo scopo ultimo dell’opera di Cristo è l’universo – la trasformazione dell’universo, di tutto il mondo umano, dell’intera creazione. Chi insieme con Cristo serve la verità nella carità, contribuisce al vero progresso del mondo. Sì, è qui del tutto chiaro che Paolo conosce l’idea di progresso. Cristo, il suo vivere, soffrire e risorgere è stato il vero grande salto del progresso per l’umanità, per il mondo. Ora, però, l’universo deve crescere in vista di Lui. Dove aumenta la presenza di Cristo, là c’è il vero progresso del mondo. Là l’uomo diventa nuovo e così diventa nuovo il mondo.
La stessa cosa Paolo ci rende evidente ancora a partire da un’altra angolatura. Nel terzo capitolo della Lettera agli Efesini egli ci parla della necessità di essere “rafforzati nell’uomo interiore” (3, 16). Con ciò riprende un argomento che prima, in una situazione di tribolazione, aveva trattato nella Seconda Lettera ai Corinzi: “Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno” (4, 16). L’uomo interiore deve rafforzarsi – è un imperativo molto appropriato per il nostro tempo in cui gli uomini così spesso restano interiormente vuoti e pertanto devono aggrapparsi a promesse e narcotici, che poi hanno come conseguenza un ulteriore crescita del senso di vuoto nel loro intimo. Il vuoto interiore – la debolezza dell’uomo interiore – è uno dei grandi problemi del nostro tempo. Deve essere rafforzata l’interiorità – la percettività del cuore; la capacità di vedere e comprendere il mondo e l’uomo dal di dentro, con il cuore. Noi abbiamo bisogno di una ragione illuminata dal cuore, per imparare ad agire secondo la verità nella carità. Questo, tuttavia, non si realizza senza un intimo rapporto con Dio, senza la vita di preghiera. Abbiamo bisogno dell’incontro con Dio, che ci vien dato nei Sacramenti. E non possiamo parlare a Dio nella preghiera, se non lasciamo che parli prima Egli stesso, se non lo ascoltiamo nella parola, che ci ha donato. Paolo, al riguardo, ci dice: “Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza” (Ef 3, 17ss). L’amore vede più lontano della semplice ragione, è ciò che Paolo ci dice con queste parole. E ci dice ancora che solo nella comunione con tutti i santi, cioè nella grande comunità di tutti i credenti – e non contro o senza di essa – possiamo conoscere la vastità del mistero di Cristo. Questa vastità, egli la circoscrive con parole che vogliono esprimere le dimensioni del cosmo: ampiezza, lunghezza, altezza e profondità. Il mistero di Cristo ha una vastità cosmica: Egli non appartiene soltanto ad un determinato gruppo. Il Cristo crocifisso abbraccia l’intero universo in tutte le sue dimensioni. Egli prende il mondo nelle sue mani e lo porta in alto verso Dio. A cominciare da sant’ Ireneo di Lione – dunque fin dal II secolo – i Padri hanno visto in questa parola dell’ampiezza, lunghezza, altezza e profondità dell’amore di Cristo un’allusione alla Croce. L’amore di Cristo ha abbracciato nella Croce la profondità più bassa – la notte della morte, e l’altezza suprema – l’elevatezza di Dio stesso. E ha preso tra le sue braccia l’ampiezza e la vastità dell’umanità e del mondo in tutte le loro distanze. Sempre Egli abbraccia l’universo – tutti noi.
Preghiamo il Signore, affinché ci aiuti a riconoscere qualcosa della vastità del suo amore. PreghiamoLo, affinché il suo amore e la sua verità tocchino il nostro cuore. Chiediamo che Cristo abiti nei nostri cuori e ci renda uomini nuovi, che agiscono secondo verità nella carità. Amen !
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana. Con aggiunte a braccio a cura di ZENIT]


Inserto del Il Foglio del 17 giugno 2009 - C’è un Papa che riannoda i fili di fede, ragione e identità. E c’era un filosofo che era tutto il contrario - KARL RAHNER È UNO DEI MAESTRI DELLA CULTURA E DELLO SPIRITO CONCILIARE. IL CARDINALE TETTAMANZI NE RICORDA LO SPIRITO. QUI CERCHIAMO DI CAPIRE PERCHÉ ANCORA FA DISCUTERE
Roberto de Mattei è una persona amabile, uno studioso serio, viene dalla destra cattolica, ha un legame forte e militante con la tradizione, senza le asperità e certi ideologismi dei tradizionalisti più radicali, e anima un centro di cultura intitolato alla gloriosa battaglia di Lepanto contro il Turco e una rivista dall’inequivocabile titolo giovanpaolino e ratzingeriano: Radici cristiane.

Il professore scrive per noi da qualche tempo, e l’ultimo suo articolo, chiaro e forte nell’impostazione, era dedicato al teologo Karl Rahner (1904-1984), alla necessità di liberarsi dal suo magistero. Ora, per la cura di Andrea Monda, ospitiamo un risposta molto critica di Giorgia Salatiello, studiosa di filosofia e docente alla Pontificia Università Gregoriana; e una meno univoca ma altrettanto chiara di monsignor Giuseppe Lorizio, studioso del teologo e abate Antonio Rosmini. Chiude la discussione, con un altro brillante esercizio di stile polemico, lo stesso De Mattei.

E’ bene annotare che non si tratta di un dibattito specialistico. Il linguaggio è inevitabilmente quello della teologia, con gli accorgimenti della divulgazione di temi così complicati sulle colonne di un quotidiano, ma la sostanza della discussione riguarda il nostro tempo, il nostro modo di essere, le grandi idee che ci accompagnano dalla seconda metà del Novecento. Da quando un Concilio ecumenico, un secolo circa dopo la rottura fra chiesa cattolica e modernità (il Sillabo di Pio IX), si presentò come una rigenerazione spirituale del cattolicesimo, una nuova Pentecoste, e aprì le porte a grandi bellezze e a notevoli brutture, sottraendo sì la chiesa alla statica e alle inerzie del duello con e contro il mondo, salvo i concordati e le alleanze di potere, ma gettandola anche in una sconfortante confusione e banalizzazione di certe sue altezze, di certa sua potenza e autorità cultuale, dottrinale e culturale.

Per dirla in breve, e grossolanamente, Karl Rahner, la cui opera non si può comprimere in una rapida scheda perché consta di un impressionante numero di dotti volumi teologici, da Uditori della parola (1941) al Corso fondamentale sulla fede (1976), alcuni dei quali a quattro mani con Joseph Ratzinger (prima di una separazione innescata dal diverso giudizio sulla ricezione del Concilio), è uno dei maestri della cultura e dello spirito conciliare, e il suo influsso sulla Gaudium et spes (tra i grandi documenti del Concilio) non potrebbe essere sottovalutato. Decisive alcune sue idee, maturate in un rapporto innovativo con la tradizione e in un commercio intenso ed eterodosso con l’esistenzialismo del filosofo Heidegger, qualificate dagli specialisti come “svolta antropologica”. In particolare, fece furore e sollevò reazioni sconcertate l’idea del “cristiano anonimo”, insomma dell’uomo naturaliter cristiano che non deve stare troppo a badare alla mediazione di Cristo per la grazia e la salvezza in quanto la sua natura è già dall’inizio predisposizione, per così dire, alla grazia.

“Meglio essere cristiani senza dirlo che dirlo senza esserlo”, predica sempre l’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, citando Ignazio di Antiochia, in polemica con noi laici devoti che ci limitiamo con Benedetto Croce a spiegare “perché non possiamo non dirci cristiani”. Ecco l’anonimato cristiano, la fede che ingurgita il pensiero e l’identità. Se Ratzinger ha passato il suo tempo e speso le sue energie a riannodare i fili della ragione dentro l’esperienza di fede e la sequela di Cristo che sono la missione della chiesa, ponendo un problema di identità culturale e di radici dei cristiani che sono terreno d’incontro con l’uomo moderno secolarizzato, Rahner ha sempre intellettualmente e spiritualmente navigato nella opposta direzione di uno scioglimento dei cristiani nell’anonimato universalmente salvifico del mondo. Un pensiero gravido di conseguenze per il nostro modo di essere, che vale la pena discutere e conoscere, con sforzi che eccedono i poteri di comunicazione di un foglio quotidiano. Ma che valgono la pena di essere fatti. (Giuliano Ferrara)
Per “uscire da Rahner” bisogna prima entrarvi. La risposta della filosofa Salatiello alla ricostruzione di De Mattei
Su Rahner l’analisi critica merita di essere portata fino in fondo”, questo è l’unico punto della riflessione di Roberto De Mattei (apparsa il 30 maggio su questo giornale e visibile sul sito www.ilfoglio.it, ndr) con cui concorda la professoressa Giorgia Salatiello, docente di Filosofia della religione presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana ed esperta di Rahner: sulla scrivania nel suo studio campeggia, molto liso dal molto uso e pieno di sottolineature di diversi colori, il classico di Rahner “Uditori della parola”. “Già il titolo di questo famoso saggio rappresenta una smentita alle tesi illustrate da De Mattei” afferma la Salatiello, “le quali si basano sul fatto che Dio si autocomunica in risposta all’uomo che lo interpella.

Bè, allora non si dovrebbe intitolare uditori ma interpellanti; ma per il cattolicesimo, e per Rahner, non è l’uomo che interpella Dio ma è Dio che interpella l’uomo che è solo uditore della parola e, dotato di un’apertura infinita che non delimita i contenuti della Rivelazione, non può nemmeno porre limiti alla libera iniziativa divina”. Con precisione teutonica la professoressa della Gregoriana procede a rispondere, punto per punto, alla ricostruzione di Rahner realizzata da De Mattei, il più delle volte facendosi aiutare dalle parole dello stesso Rahner il quale “proprio nei primi due capitoli del suo capolavoro afferma che Dio può essere conosciuto filosoficamente dalla teologia naturale, che è il vertice dell’ontologia generale, e che il credente conosce Dio con la teologia positiva (auditus fidei) da cui scaturisce la teologia sistematica. Quindi non è vero che Dio non può essere conosciuto dall’uomo, come lascia intendere De Mattei”.

Per la Salatiello, filosofa, poi non è Heidegger il vero maestro di Rahner che “afferma esplicitamente nei ‘Nuovi Saggi’ che il suo unico maestro è Tommaso, a cui si accosta attraverso Maréchal, tomista aperto al pensiero trascendentale. Dell’Aquinate il teologo tedesco riprende tra l’altro anche il tema della reditio completa, il fatto cioè che l’uomo è l’unico essere finito materiale che ritorna continuamente su di sé e si possiede autonomamente.
Questo lo porta ad affermare che l’auto-coscienza è dunque fondata (e non fondante come sostiene De Mattei) sul grado di possesso dell’essere”. Per la Salatiello quindi la “svolta antropologica” di Rahner, equivocata anche da Cornelio Fabro, non mira a sostituire l’uomo a Dio ma ad affrontare il discorso su Dio partendo dall’unico esistente che è in grado di farlo, cioè l’uomo. “Un gatto non può porsi il problema di Dio,” osserva la professoressa della Gregoriana, “e Rahner, in piena coerenza con il realismo di Tommaso, sottolinea l’indisgiungibile unità di spirito e materia nell’uomo, che rende ragione del fatto che l’uomo è spirito finito, e mai e poi mai puro spirito. Qualunque conoscenza intellettuale ha il suo inizio nella recettività della conoscenza sensibile, quella corporeità di cui, dice De Mattei, l’uomo sarebbe spogliato”.
Precisata la questione ontologica, ne consegue che anche la questione etica ha bisogno di un ri-equilibrio per evitare di affermare che Rahner procede alla dissoluzione della morale, come fa De Mattei; al contrario, sostiene la Salatiello, “la comprensione del valore morale di un’azione, secondo Rahner, è indissolubilmente legata alla classica dottrina tomista dell’unità dei trascendentali (ens unum verum et bonum convertuntur) e non c’è quindi alcuna possibilità di contrapporre la libertà, che tende al bene, alla conoscenza del vero. Il bene quindi è manifestativo dell’essere”. Insomma, tutto può dirsi di Rahner ma non che sia il padre del relativismo teologico: “In Rahner non vi è in modo assoluto alcuna presenza di affermazioni relativiste anche per la sua ferma convinzione dell’assoluta unicità della verità; pur riconoscendo che anche in altri percorsi, diversi dal cattolicesimo, vi possano essere germi di verità partecipati dall’unica verità (in piena conformità con la dichiarazione Dominus Jesus del 2000), quindi non germi di una vaga verità, ma germi di verità cioè partecipati dall’unica verità”. Non regge, infine nemmeno la tesi di De Mattei sulla famosa formula rahneriana dei “cristiani anonimi”, per cui la salvezza sarebbe assicurata a tutti. “L’accesso alla salvezza” taglia corto la professoressa della Gregoriana, “che ha il suo unico mediatore in Gesù Cristo, è aperto a tutti gli uomini per la universale volontà salvifica di Dio, ovvero per il dono della grazia che raggiunge tutti. Rahner stesso non ritiene indispensabile l’uso dell’espressione cristiani anonimi ma ritiene importante assicurarne il contenuto, peraltro in piena consonanza con l’enciclica Redemptoris Missio del 1990”. (Andrea Monda)
Per il teologo Lorizio si può e si deve “uscire” non da Rahner, bensì dal rahnerismo, come ha fatto B-XVI
Se la professoressa Salatiello dice semplicemente “no” alla ricostruzione della figura teologica di Karl Rahner realizzata da Roberto De Mattei, di diverso avviso è mons. Giuseppe Lorizio, anch’egli non convinto di quella ricostruzione. In altre parole si può criticare pure Rahner, e soprattutto il “rahnerismo”, ma lo si può fare solo con maggiore calma, precisione e profondità. Giuseppe Lorizio, pugliese, classe ’52, riveste tra gli altri incarichi quello di professore ordinario di Teologia fondamentale alla Lateranense, si è addottorato in Gregoriana con tesi su Rosmini e sul teologo di Rovereto ritorna spesso nella sua riflessione intorno a Rahner. Si può meglio comprendere infatti la famosa “svolta antropologica” di Rahner se si passa per Rosmini: “Rahner raccoglie una istanza fondamentale, che era già stata fatta propria dal beato Antonio Rosmini, il quale ne “Il rinnovamento della filosofia in Italia” scriveva: “La scuola teologica partì dalla meditazione di Dio: io partii semplicemente dalla meditazione dell’uomo, e mi trovai nondimeno pervenuto alle conclusioni medesime”. Né dobbiamo dimenticare a questo proposito la lezione di Maurice Blondel e del suo metodo dell’immanenza, che accoglie ed elabora la stessa istanza alla fine del XIX secolo e nei primi decenni del XX. Sia Rosmini che Blondel non hanno avuto vita facile nella teologia cattolica”.

La vita “difficile” Rahner però un po’ se l’è andata a cercare, secondo Lorizio, perché “se l’istanza è certamente condivisibile, bisogna tuttavia onestamente riconoscere che il pensiero teologico di Rahner – e non mi riferisco alla scolastica rahneriana – presta decisamente il fianco alle critiche e risulta discutibile. Volendo andare al nocciolo
della questione, si tratta di prendere le distanze – come giustamente fa De Mattei - dalla pura e semplice assimilazione umanistica della fede cristiana. Il cristianesimo non si può né si deve ridurre a un umanesimo.

Ci aveva già pensato Erasmo da Rotterdam – che oggi ritorna nelle riflessioni di Fr. Lenoir sul Cristo filosofo – a compiere un’operazione del genere, che di fatto vanifica la specificità della fede stessa e la dissolve nella rete delle strutture antropologiche. Strutture che nella riflessione rahneriana risultano estremamente formali (penso in particolare a ‘Uditori della Parola’).

Qui certo l’uomo viene pensato come luogo di accoglienza della Rivelazione, ma tale ascolto riguarda una ‘eventuale’ Parola di Dio, mettendo in ombra l’evento già accaduto e che non possiamo mettere fra parentesi, se vogliamo pensare correttamente in teologia. Quella di Rahner è insomma una storicità priva della carne e del sangue propri della storia. Il senso della critica che gli rivolge un altro maestro della teologia del Novecento quale H. U. von Balthasar risiede proprio nella rivendicazione dell’irruzione del soprannaturale nella storia e nella sua tensione drammatica con l’umano, che la teologia rahneriana tende a vanificare”.

Anche l’altra formula famosa di Rahner, quella del “cristianesimo anonimo”, ha creato non pochi problemi, secondo Lorizio, a causa della sua ambiguità: “Se si tratta dei ‘semi del Verbo’ presenti in tutte le culture e le religioni, ci aveva già pensato Giustino nel II secolo a rilevarne il senso e al tempo stesso la radicale frammentarietà. Forse
Rahner la intendeva così, ma, esprimendola in questi termini, non aiuta certo a cogliere l’assoluta necessità della fede per la salvezza. Mi piace a questo proposito evocare quanto dice lo starets Giovanni al grande imperatore- anticristo nel racconto di Solovev, quando questi chiede ai cristiani cosa sta loro a cuore: ‘Che tu proclami che Cristo è il Signore…’, infatti è nel suo ‘nome’ che sono salvate tutte le genti.

L’anonimato non ci appartiene come credenti in Cristo e la missione della chiesa consiste nel far sì che ‘nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi’ all’adorazione del Dio unico e vero, in modo che la drammatica domanda ‘il Figlio dell’uomo quando tornerà, troverà la fede sulla terra?’ abbia risposta positiva”.

Dal punto di vista della storia della teologia, senz’altro Rahner è stato e resta, dice Lorizio, uno dei giganti del Novecento proprio per quello spirito d’avventura che in lui viene criticato, ma che invece “non si può né si deve considerare necessariamente pernicioso per la teologia, la quale, come tutte le ‘scienze’, ha bisogno di pionieri che,
anche a prezzo di incomprensioni e possibili derive, sappiano aprire strade nuove, a patto che restino radicati nell’unica Parola che salva.

Nel contesto in cui la teologia di Rahner si è espressa è innegabile che essa ha saputo cogliere una istanza decisiva per la riflessione che nasce dalla fede e di essa si nutre: l’attenzione all’umano e alle sue strutture costitutive, sulle quali si innesta la grazia, che – come diceva Tommaso d’Aquino – non distrugge, ma perfeziona (= perficit) la natura, redimendola. E questa operazione teologica Rahner l’ha compiuta in rapporto critico con il modello neo-scolastico, imperante nella teologia preconciliare, tentando di superarne l’estrinsecismo, ossia quella tendenza a considerare la Rivelazione (e quindi la grazia) come semplicemente sovrapposta alla natura. Il dibattito teologico – anche attuale – è chiamato a interrogarsi sulla riuscita di questa operazione e sui suoi limiti.

Un avvertimento tuttavia necessario a questo riguardo: spesso le polemiche nascono fra esponenti delle diverse ‘scolastiche’ che si generano a partire dalla lezione dei maestri, che risulta sempre molto più complessa rispetto a quella dei loro epigoni, i quali tendono ad estremizzarne, banalizzandole, le posizioni. Ad esempio, quando De Mattei fa di Rahner un pensatore appiattito su Cartesio, Kant, Hegel e Heidegger, non rende ragione al teologo tedesco; ricordo invece, proprio sul cogito cartesiano, una splendida risposta di Rahner che così ribaltava l’assunto: Cogitor ergo sum, sono pensato, dunque sono. Oppure, quando De Mattei cita il discorso sull’ermeneutica del Concilio che il Papa ha rivolto alla Curia romana, bè, in quel discorso non viene mai citato Rahner anche perché non ce n’era bisogno. Il Concilio è evento estremamente complesso e non ha un solo punto di riferimento teologico, tanto è vero che alcuni suoi testi sono stati accusati di ‘compromesso’ fra i diversi punti di vista presenti tra i Padri e i teologi che hanno partecipato. Quella ‘ermeneutica della riforma’ che Papa Ratzinger ha proposto come chiave di lettura più appropriata e coerente del Vaticano II dice anche l’assoluta fedeltà alla dottrina conciliare di questo Pontefice, che pure vi ha partecipato come teologo al seguito del cardinale di Colonia Joseph Frings.

Del resto l’accettazione di tale dottrina conciliare è conditio sine qua non perché i tradizionalisti – al di là della rimozione della scomunica – rientrino pienamente nella chiesa cattolica. Ecco, sono proprio i lefebvriani che non amano Rahner; anzi, lo definiscono, con la solita virulenza, un vero e proprio Anticristo”. Un’ultima questione, anche questa complessa al punto giusto da non poter essere liquidata con poche battute, è proprio il rapporto tra Rahner e Ratzinger. I due hanno scritto diversi libri insieme e il secondo, una volta diventato Papa, ha di recente nominato due vescovi di scuola rahneriana (Ignazio Sanna e Luis Francisco Ladaria).

Secondo Lorizio “De Mattei non ha torto quando esprime, anche se forse in maniera troppo virulenta, la necessità di uscire dal rahnerismo, ossia di superare questo orizzonte di pensiero, che è ormai alle nostre spalle. Ma questo superamento può avvenire solo nella forma di un oltrepassamento che sia in grado di attraversare i testi e i contenuti delle grandi figure del pensiero sia filosofico che teologico, che non si possono semplicemente ignorare o bypassare in maniera disinvolta e sostanzialmente ideologica. Il Ratzinger teologo ha ben intravisto i rischi del rahnerismo e ne ha preso le distanze. A questo riguardo è fondamentale quanto lo stesso Papa dichiara in quel luogo della sua biografia, ripreso giustamente dal cardinal Ruini: “Io, al contrario (di Rahner), proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico”.

Dunque diremmo che siamo di fronte a due prospettive: una – quella rahneriana – prevalentemente formale- speculativa, l’altra – quella ratzingeriana – di carattere storico-positivo, col fondamentale riferimento ai Padri della chiesa e alla liturgia. Scuole di pensiero differenti che nulla hanno a che vedere con la nomina dei vescovi. Non credo che saremmo molto entusiasti di un Papa che chiamasse all’episcopato solo persone appartenenti alla propria cordata teologica. Anche in questo si manifesta – a dispetto della sua equivoca fama giornalistica – la grande apertura dell’attuale Pontefice e il suo profondo rispetto per posizioni diverse dalla propria”. (an.mon.)
Ecco perché il teologo tedesco è il maestro dell’ambiguità che grava sul pensiero cattolico da quarant’anni

Che cosa significa “uscire da Rahner”? Significa innanzitutto uscire dalla cappa di ambiguità che grava sul pensiero cattolico da oltre quarant’anni. Di questa ambiguità Rahner fu maestro, tanto che se gli si dovesse attribuire un titolo, come si usa tra i teologi, potrebbe ben essere definito “doctor ambiguitatis”.

La prima prova di questa ambiguità è data proprio dalla pluralità di interpretazioni possibili del suo pensiero su una stessa pagina di giornale. Il Rahner “tomista” proposto dalla professoressa Salatiello è certamente un Rahner inesistente, che non ha nulla a che fare con quello conosciuto dagli studiosi della sua opera, che ne sottolineano tutti la “discontinuità” con la grande tradizione della Scolastica e il rapporto invece di dipendenza dal pensiero moderno.

Decisiva fu l’influenza di Heidegger, che Rahner salutò pubblicamente con “il rispetto di uno scolaro davanti al grande maestro” (R. Wisser (ed), Martin Heidegger im Gespräch, Friburgo i.B.m 1979, p. 49). Il che nulla toglie alla sua filiazione dal gesuita belga Joseph Maréchal che, malauguratamente per lui, costituì l’anello di congiunzione non con san Tommaso, ma con Kant e con Cartesio. E’ da questo filone immanentista che proviene la fondamentale tesi rahneriana dell’identità tra l’essere e il conoscere.

Per san Tommaso l’essere precede la conoscenza, mentre per Rahner, che si esprime con linguaggio heideggeriano, “conoscere è l’essere-con-sé dell’essere e questo essere con sé è l’essere dell’essente”: è questa la tesi fondamentale di “Spirito del mondo”, un’opera che deve essere letta prima di “Uditori della parola”, per comprendere la natura della “antropologia trascendentale” di Rahner.

Per la Salatiello la “svolta antropologica” di Rahner mira ad affrontare Dio partendo dall’unico esistente che è in grado di farlo, cioè l’uomo. Ma essendoci unità tra essere e conoscenza, tra soggetto conoscente e cosa conosciuta, Dio diventa l’esistente presente nell’uomo, non realmente distinto da esso, in una prospettiva panteista confermata dalla equivoca formula della “autocomunicazione” o “autopartecipazione” divina.

Si può nello sviluppo logico del ragionamento partire dalla “meditazione dell’uomo” invece che dalla “meditazione di Dio”, come voleva Rosmini e ripropone mons. Lorizio, ma a condizione di sottolineare la finitezza e la limitatezza della condizione umana, ferita dal peccato. Per Rahner invece, la grazia non è necessaria alla natura umana per sanarla dal peccato, ma per costituire ciò a cui la “apertura infinita” dell’uomo è strutturalmente ordinata, la sua unità-identità con Dio.

Attraverso Heidegger, si svela sullo sfondo la presenza potente di Hegel, la cui dialettica costituisce il fondamento della anfibologia semantica e concettuale di Rahner. La teologia è la scienza che analizzando e confrontando con i princìpi della ragione i dati della Rivelazione (Scrittura e Tradizione, interpretate dal Magistero della chiesa) tratta di Dio e delle creature in rapporto a Dio, arrivando a formulare conclusioni teologiche.

Per Rahner, al contrario, l’essenza della teologia è di vanificare tutte le conclusioni teologiche raggiunte dal pensiero della chiesa nel corso dei secoli. Ogni formula dogmatica, ogni certezza metafisica e morale, ogni culto e devozione della chiesa, viene problematizzato e ridotto a “mistero”, di cui propriamente non si può neppure parlare. “Gli enunciati teologici – afferma – sono coerenti a se stessi solo in un processo di auto superamento radicale”.

La teologia è “reductio in mysterium”, come dice il titolo di un suo saggio, e più precisamente “in unum mysterium”, quello della “autopartecipazione divina”. Nel febbraio 1984, poco prima della morte, Rahner tenne una conferenza sulle “Esperienze di un teologo cattolico” che è un po’ il suo testamento spirituale. In questo ultimo testo, egli spiega che “non si può affermare niente di Dio in maniera legittima, se non a condizione di aggiungervi una negazione e di mantenere la scomoda oscillazione tra il sì e il no come il vero e unico punto saldo della nostra conoscenza”. Il teologo che parla di Dio, del mondo, dell’uomo, deve esprimersi attraverso affermazioni e negazioni, nella consapevolezza che proprio in questa continua oscillazione consiste la vera conoscenza.

“Che cosa significa oggettivamente, ad esempio, che il Figlio dell’uomo ritornerà sulle nubi del cielo, che egli si dona veramente a noi nelle specie del’eucarestia con la sua carne e il suo sangue, che il Papa è infallibile quando parla ex cathedra, che esiste un inferno eterno (…)?”. Si tratta di affermazioni che vanno inquadrate all’interno di una tensione dialettica tra il sì e il no, tra il possibile e l’impossibile, perché in ultima analisi il mistero divino è inconoscibile all’uomo. “Il teologo – continua Rahner – è veramente tale soltanto lì dove non pensa tranquillamente di parlare con chiarezza e in modo trasparente, bensì estende l’oscillazione analoga tra il sì e il no sull’abisso di incomprensibilità di Dio e nello stesso tempo la sperimenta e la testimonia con gioia”.

L’influsso di Hegel è evidente, ma a differenza della dialettica hegeliana, che si conclude in una sintesi, quella di Rahner si presenta come una dialettica aperta, che fa dell’ambivalenza la principale caratteristica del suo pensiero. Questo atteggiamento è più pericoloso di un’eresia formalmente professata, perché mina i fondamenti della fede cattolica alla radice, attraverso l’assunzione di un relativismo dissolutore. Anche quando Rahner “opta” per la verità, la tratta però come una tesi altrettanto possibile dell’errore, che viene da lui dignificato, anche se non accolto. Il passo per assumerlo è breve e il fatto che a compierlo sia Hans Küng, piuttosto che Karl Rahner, non diminuisce le responsabilità di quest’ultimo. Mons. Lorizio non è un’apologeta di Rahner come la professoressa Salatiello, ma è più rahneriano di quanto non pensi, quando cerca la convivenza dialettica delle correnti o “cordate” teologiche all’interno della chiesa, senza comprendere che qui non si tratta delle tradizionali differenze tra “scuole” unite da una medesima fede, ma di un’aspra battaglia tra teologie incompatibili, in un momento della storia della chiesa in cui non c’è più spazio per la politica del compromesso e del “buonismo” ecclesiale. (Roberto de Mattei)


RU486: perché commercializzare un farmaco così pericoloso? - Autore: Tanduo, Luca e Paolo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 28 giugno 2009
La verità sulla RU486 e sull’aborto chimico, è la sua pericolosità per la salute della donna.
In questi giorni è stato comunicato che entro l’estate l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) potrebbe autorizzare la commercializzazione in Italia della RU486, la pillola abortiva.
Il cosiddetto aborto chimico consiste nell’assunzione della RU486 per impedire l’annidamento o provocare il distacco dell’embrione dalla parete uterina agendo sugli ormoni femminili, e di una seconda pillola, quella del misoprostol, nome commerciale Cytotec, che stimola le contrazioni uterine per l’espulsione del feto. L’AIFA non ha mai registrato il Cytotec come stimolatore dell’utero, ma solo come farmaco antiulcera; verrebbe proposto come abortivo, contro le indicazioni della stessa casa farmaceutica che ha anche ufficialmente messo in guardia dal farlo. Nel sito della Food and Drug Administration (FDA, ente statunitense di vigilanza farmacologica) si legge che fra gli effetti da Cytotec, oltre che emorragie e stati di shock, c’è anche la morte della madre.

La verità sulla RU486 e sull’aborto chimico, è la sua pericolosità per la salute della donna: sono più probabili infezioni batteriche, emorragie e shock settici, in relazione all’infezione dovuta al mancato raschiamento dell’utero dopo l’aborto che quindi rimane ricettivo nei confronti dei batteri. La RU486 danneggia il sistema immunitario della donna. Il tasso di mortalità nelle donne è dieci volte maggiore nell’aborto con l’uso della RU486, infatti il tasso di mortalità è di 1/100.000 contro 1/1.000.000 dell’aborto chirurgico (fonte: New England Medical Journal 2005). Dolori e crampi, nausea, debolezza, cefalea, vertigini sono gli effetti collaterali più comuni riportati. La durata media del sanguinamento dopo l’utilizzo della RU486 è di 14-17 giorni. Proviamo a metterci nei panni di una donna, vi sembrano proprio effetti collaterali trascurabili?

La FDA dichiara i seguenti dati (2006): 950 effetti avversi, 9 casi di pericolo di vita, 116 trasfusioni di sangue, 88 infezioni, 6 eventi trombotici, 232 casi di ospedalizzazione. Nel 2006 sono stati effettuati in Toscana 394 aborti farmacologici che hanno richiesto 65 interventi chirurgici (16,5%). Pensate al dramma di queste donne che comunque alla fine hanno dovuto ricorrere d’urgenza ad un intervento chirurgico.
Per qualsiasi farmaco che nel foglietto illustrativo riportasse tali controindicazioni l’opinione pubblica dovrebbe essere allertata e probabilmente la vicenda susciterebbe molto clamore, invece tutto procede nel quasi generale silenzio della stampa. Si dirà che ne è già consentito l’uso in altre nazioni europee, ma non in tutte; inoltre le due condizioni per il mutuo riconoscimento del farmaco non sono verificate, vista la mancanza di urgenza di cura e il fatto che non mancano alternative; infatti l’aborto è già praticato in Italia, allora non si comprende perché questo dovrebbe spingerci ad adottare un farmaco dotato di tale pericolosità. Perché tutte queste pressioni? Le motivazioni sono a nostro avviso di diverso tipo, c’è sicuramente una componente ideologica e politica di chi continua a voler estendere la pratica dell’aborto, e questo strumento presentato come “facile ed indolore” tende certamente a banalizzare l’aborto, a renderlo un fatto privato, a non considerarlo come un problema sociale; risulterebbe difficile anche quantificare il numero di aborti. C’è poi da considerare il continuo aumento dei medici che si dichiarano obiettori di coscienza, e questo sarebbe un modo per aggirare il problema, ma soprattutto andrebbe nella direzione di una deresponsabilizzazione dei medici e delle strutture sanitarie; l’aborto tornerebbe ad avvenire col passare del tempo al di fuori degli ospedali, con tutti i rischi anche medici sulla salute delle donne.
Certamente significativo è poi l’aspetto economico, che non è certo l’ultimo degli elementi che spingono al riconoscimento di questo farmaco. Ogni tentativo di prevenire l’aborto sarebbe poi impedito dalla mancanza del colloquio preventivo. La donna sarebbe lasciata sola nella decisione di assumere le pillole abortive, e si caricherebbe su di essa tutta la responsabilità dell’aborto gravando psicologicamente sulla donna che ingerita la seconda pillola attenderebbe a casa il drammatico evento dell’espulsione del feto/bambino: nel 56% delle donne si associa ad una maggiore frequenza di effetti psicologici negativi (incubi, flashback, pensieri intrusivi relativi all’esperienza).

È necessario rimettere al centro la verità, è necessario un intervento che ne impedisca la commercializzazione in Italia. Dobbiamo rimettere al centro anche la salute della donna che non viene per nulla tutelata, e la difesa della vita fin dal concepimento.


Miracoli tra noi - Autore: Bonalume, Andrea Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 27 giugno 2009
Martedì 23 giugno 2009 un ragazzo di 12 anni, Andrea Achilli, è morto travolto da un camion presso Casatenovo, in Brianza. Andrea frequentava la prima media ed apparteneva a “Stand by Me”, una comunità di adulti e ragazzi accomunati dalla passione per il significato della realtà. Questo avvenimento così drammatico ha fatto nascere una serie di miracoli attorno alla famiglia e alla comunità degli amici di Andrea.
In questi giorni stanno accadendo grandi miracoli.
Dopo la notizia della morte di Andrea, è nata subito l’esigenza col gruppo di Stand by Me di ritrovarci per sostenerci nella grande domanda di senso che quel terribile fatto ha provocato in noi adulti e nei ragazzini.
La sera del giorno dopo ci siamo dati appuntamento nella sala di un oratorio della Brianza, messaci a disposizione da un nostro amico prete del movimento.
Mi aspettavo al massimo una quarantina di persone: erano almeno il doppio, fra ragazzi e genitori, tutti mossi da un grido e una domanda che feriva il cuore di ciascuno.
Qualche ora prima dell’incontro avevo ricevuto varie telefonate da parte di genitori della scuola che, avendo ricevuto la notizia che “quelli di Stand by Me” si incontravano per pregare e giudicare , mi chiedevano se potevano portare i loro figli, anche se non partecipavano all’esperienza di Stand by Me.
Un fatto del genere aveva fatto venire a galla il cuore di ciascuno, e questo era già il primo miracolo.
L’incontro è iniziato con i canti che spesso ci hanno accompagnato nei momenti drammatici e che ci hanno sempre richiamato al Destino buono che non ci abbandona mai: “Povera voce”, “Noi non sappiamo chi era”, “Vuestra soy”, “Favola”, con quell’ultima stupenda strofa: “Così, quando sarai a quell’ultimo ponte/ con il tempo alle spalle e la vita di fronte/, una mano più grande ti solleverà/
abbandonati a quella/ non temere perché c’è Qualcuno con te.”
Durante l’incontro i ragazzi hanno tirato fuori le domande più vere e drammatiche: “Perché Gesù mi fa soffrire così? Non poteva chiedermi di volergli bene in un altro modo?”
La nostra umanità e quella dei ragazzi ha vibrato in un modo che non era mai accaduto prima. “Il punto - si diceva - non è provare dolore, ma se c’è un senso a quel dolore. Il dolore è il modo con cui Gesù ci sta chiedendo: Mi vuoi bene anche in questa circostanza? Gesù ci fa compagnia in tutto, anche nel dolore, a tal punto da morire e risorgere. Andrea ora è con Gesù. Anche se non capiamo subito, stiamo attaccati a questa compagnia, alla Sua compagnia”.
Abbiamo concluso pregando e ricantando “Favola”.
Alla fine dell’incontro, vedevo i nostri volti già cambiati, lo smarrimento era cambiato in domanda a Cristo.
Nel viaggio di ritorno, mi arriva un messaggio di Giovanni, di terza media:

“Prof tutto è cambiato in noi
la nostra vita ha più senso.
Andrea mi ha reso più consapevole di perché vengo a Stand by Me in 3 anni. A grande prezzo l’ho cominciato a capire.
Grazie perché lei c’è”
Gio


Il 25 giugno si è celebrato il funerale. Quasi duemila persone, un intero popolo. Don Julian Carròn, durante l’omelia afferma: ”Perché non è un’ingiustizia quel che è capitato? Perché Dio non ha risparmiato neanche suo Figlio. Questa è la modalità con cui Dio unisce tutti gli uomini a Lui. Andrea è stato segnato dal battesimo e confermato dalla cresima, cioè legato per sempre a Cristo. Come Cristo è stato risorto dal padre, anche Andrea è stato risorto dal suo Signore. Occorre guardare a Cristo risorto.
Tutto il resto è una modalità ridotta di guardare ad Andrea. Non può prevalere lo sconforto, perché la nostra fede non è un sentimento ma una conoscenza”.
Dopo la benedizione finale, Pietro, un ragazzo di terza media si reca al microfono: “Andrea, vogliamo dedicarti questa canzone che tanto abbiamo cantato nei nostri incontri di Stand by Me. Siamo certi che la canterai anche tu con noi”. Insieme ricantiamo “Favola” di Chieffo. Carròn dall’altare canta in piedi con noi.
Al termine della sepoltura io, alcuni adulti e un gruppettino di ragazzi andiamo a salutare Felice Achilli, il papà di Andrea. Lui mi guarda e mi abbraccia. Io timidamente e con un po’ di timore gli sussurro: “Grazie perché sei una grande testimonianza”.
Lui sorride e mi dà una pacca. Con fare baldanzoso mi risponde: “Ma che testimonianza, Andrea non è mica solo figlio mio! E’ da questi momenti che si capisce a chi si appartiene”.
Io ho guardato negli occhi quest’uomo, ho visto una letizia dell’altro mondo. Quella letizia è segno inequivocabile di una Presenza che ci fa compagnia ora più che mai.


Il catechismo della carne - Pigi Colognesi - venerdì 26 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Consiglio vivamente la lettura dell’ultimo saggio di Timothy Verdon, Il catechismo della carne (Cantagalli 2009). Lo studioso di storia dell’arte cristiana, americano di origine ma residente in Italia da quarant’anni, offre in tre densi capitoli notevoli spunti per comprendere non solo le caratteristiche di una espressione artistica che accompagna la civiltà occidentale da due millenni (e senza della quale quella stessa civiltà risulta meno comprensibile), ma anche la natura stessa del fatto cristiano che a quell’espressione artistica ha dato origine. E la natura del cristianesimo è quella di essere «incarnazionale», cioè fondato sull’accadere di un evento compiutamente «fisico»: l’incarnazione, appunto, di Dio in un corpo umano. Pertanto esso è valorizzatore di ogni «carne», quella dell’uomo, e di ogni «materia», quella del cosmo che circonda l’essere umano. Entrambi sono «chiamati a salvezza», cioè destinati ad una definitiva bellezza, pur dovendo ancora nel tempo dibattersi in quelle che san Paolo chiama «le doglie del parto».
Lascio al lettore il gusto e la soddisfazione di ripercorrere con Verdon l’evolversi della carnalissima arte cristiana, dal superamento della corporeità eroica dell’arte greco-romana all’approfondimento teologico e simbolico del medio evo, dalla rivoluzione affettiva di san Francesco alla reinvenzione del modello classico nel rinascimento, dal dramma barocco alle sue degenerazioni, fino alla strana afasia sul corpo di molta arte sacra contemporanea.
Mi voglio, invece, soffermare su una delle opere analizzate nel volume. Si tratta del michelangiolesco Tondo Pitti, conservato al Bergello di Firenze. Scrive Verdon (che anni fa ha dedicato un saggio a Michelangelo teologo): «Il tondo rappresenta Maria, seduta su un blocco di marmo mentre mostra un libro aperto al bambino Gesù, il quale vi appoggia il braccio destro. Alle spalle di Maria, l’altro bambino che guarda verso Cristo è san Giovanni Battista, sovente raffigurato nell’arte fiorentina in quanto patrono cittadino. Ma l’intuizione teologica principale del tondo è comunicata in un altro particolare: il braccio di Gesù poggiante sul grande libro tenuto da Maria, che comunica l’idea di un’antica cultura “incarnata” nel Verbo fattosi bambino». Perché si tratta di una grande intuizione teologica? Appunto perché il cristianesimo non è una «religione del libro», l’incontro con esso non avviene per riflessione su una teoria e il suo mantenersi nella storia non si realizza perché uno stuolo di scribi commenta e chiosa le parole scritte di una dottrina del passato. Quel braccino di un sorridente bambino è «la vittoria della carne umana sulla parola scritta».
Maria è pensosa, dice Verdon, perché rappresenta tutta l’umanità nel suo sforzo, intenso e un po’ triste, di comprendere il mistero dell’esistenza. E come può farlo? Leggendo un libro, cioè paragonandosi con il meglio che il suo lungo cammino e diuturno sforzo ha saputo produrre e tramandare. «Ma, al posto delle parole, Dio le ha dato il suo Verbo come figlio in carne ed ossa».
Maria, però, è anche la Chiesa. Tra i suoi figli non è mai escluso il pericolo di comportarsi come scribi, sottili interpreti di un libro, dotti esegeti di una teoria, ripetitori di un discorso. Ma il braccio un po’ insolente di quel bambino posato sul libro sta a ricordare che «solo lo stupore conosce» e che l’unico «catechismo» convincente è quello «della carne».


Il compito della politica - Mario Mauro - lunedì 29 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Le ragioni per cui si sceglie un certo mestiere non sono mai facili da spiegare. C’è chi lo fa per vocazione, chi per guadagno, chi per esigenza, chi per circostanza. Tante ragioni per un’avventura che occuperà una parte rilevante della nostra vita, ma un solo vero perché: la passione per un cammino che sentiamo davvero nostro. Il mestiere della politica è anche questo.
Può essere vissuta in vario modo: come un puro esercizio del potere, come desiderio di protagonismo o come appagamento di sé. Un cammino di questo tipo, in qualunque direzione esso vada, non si muoverà mai lungo le direttrici dell’incontro con l’altro e resterà per sempre confinata nell’ideologia e senza alcuna possibilità di incidere veramente sulla vita dei cittadini. Un’idea distorta del fare politica è una delle principali cause che ha portato a una generale sfiducia nei confronti della sfera pubblica. Si arriva addirittura ad affermare che la vita quotidiana è una cosa e le pratiche di governo sono un’altra.
C’è, quindi, una dimensione che esula da questo contesto, ma anche di fronte alla tragicità di fatti che accadono in un momento e che sconvolgono la vita per sempre, la dimensione politica può indicare una via, non tanto per togliere il dolore, quanto per dare un aiuto concreto nei momenti di difficoltà. L’abbiamo visto, ad esempio, nel caso delle martoriate terre d’Abruzzo dove l’Unione europea ha stanziato 493 milioni di euro per far fronte all'emergenza del terremoto.
Nel mondo potremmo citare numerosi esempi, basti pensare ai recenti scontri in Iran all’ormai secolare stato di crisi africana, alle bufere economiche di cui fanno le spese i ceti più deboli, per arrivare ad alcuni agghiaccianti fatti di cronaca che sconvolgono l’opinione pubblica. A questi però si aggiungono accadimenti quotidiani altrettanto tragici, che nel loro piccolo, possono cambiare il corso della nostra esistenza. La morte prematura di una persona cara, l’esperienza della malattia, la perdita del lavoro, le difficoltà familiari non sono solo episodi che restano legati a una sfera esclusivamente privata, ma piccoli tasselli che compongono la realtà e che riguardano tutti noi da vicino.
La politica ha un peso specifico anche in queste situazioni. Deve saper dare cioè un contributo dignitoso per sostenere la fatica del vivere. La politica non dà un senso alle cose, è vero, ma può contribuire ad approfondirne il significato, contribuendo a dare un supplemento di riflessione e, quando è condotta fino in fondo, può dare il giusto peso e la giusta direzione allo scorrere degli eventi. Assistere i malati, difendere le famiglie, avere cura dell’istruzione dei più giovani, dare una nuova fiducia al mondo del lavoro possono essere percorsi che rendono possibili le piccole e grandi sfide quotidiane.
Se la politica non s’incrocia con la vita, se non è capace di tessere con essa una relazione significa che non è in ascolto dei veri bisogni della persona e che non si sta battendo realmente per la felicità dell’uomo. Per chi fa questo mestiere è fondamentale sapersi giocare fino in fondo su questo terreno, senza lasciarsi scoraggiare o travolgere dai fatti, ma cercando sempre di esserne protagonisti facendo delle scelte dettate dal desiderio di amore e di bene verso il prossimo.


CRISTIANESIMO/ San Pietro secondo Auerbach: la forza dirompente di un fatto quotidiano - Laura Cioni - lunedì 29 giugno 2009 – ilsussidiario.net
L’apostolo Pietro – che oggi si festeggia insieme a Paolo, quest’anno più alla ribalta per l’anno che gli è stato dedicato - è un uomo affascinante: il pescatore di Galilea, rude e tenero, impulsivo e a tratti quasi infantile, ha spesso spinto gli artisti a illustrarne il carattere, sbozzato in pochi tratti dal Vangelo. Un momento centrale e drammatico della sua vita è costituito dal rinnegamento. Dopo l’arresto di Gesù Pietro lo segue e viene riconosciuto come uno della sua cerchia, ma egli nega di conoscere il Signore.
Erich Auerbach commenta l’episodio in Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale, scegliendo la versione dell’evangelo di Marco, composto nella cerchia dei discepoli di Pietro e quasi coevo degli scritti di Petronio e di Tacito, con i quali viene messo in relazione. Il suo metodo critico si basa sul commento e sul confronto di pagine letterarie significative allo scopo di rintracciare le strutture culturali portanti di un’epoca e di una civiltà. Non è superfluo ricordare l’origine ebraica di Auerbach, costretto ad abbandonare la Germania nazista, riparato prima a Istanbul e poi negli Stati Uniti, dove insegnò romanistica all’università di Yale.
Egli ha lasciato il paese e il mestiere, ha seguito il suo maestro a Gerusalemme e per primo l’ha riconosciuto come messia; quando era venuta la catastrofe, egli era stato più coraggioso degli altri, s’era avviato a seguir Cristo anche questa volta. Però questo è soltanto un avvio, un seguirlo a mezzo e con paura, forse determinato dalla confusa speranza che potesse ancora avvenire il miracolo per cui il messia avrebbe annientato i suoi nemici. Perché crede profondamente, ma non abbastanza, a lui accade la cosa peggiore che possa accadere a un credente, pochi momenti prima ancora entusiasta: trema per la sua povera vita.
Una figura tragica che ha tale origine, un eroe di tanta debolezza, che proprio dalla sua debolezza trae la forza maggiore, tali oscillazioni sono inconciliabili con lo stile illustre della letteratura antica. Ma anche il modo e il luogo del conflitto stanno completamente al di fuori della cornice dell’antichità classica. Si tratta, guardando le cose dal di fuori, di una operazione di polizia, la quale si svolge in tutto e per tutto fra persone comuni del popolo; qualche cosa del genere avrebbe fatto pensare agli antichi a una farsa o a una commedia. Perché non fu così? Perché suscita la partecipazione più seria e più commossa? Perché rappresenta quanto non è stato mai rappresentato né dalla poesia né dalla storiografia antica: la nascita d’un movimento spirituale nelle profondità della vita spirituale del popolo, che con ciò acquista un’importanza mai raggiunta nella letteratura antica. Davanti ai nostri occhi si risvegliano un cuore e uno spirito nuovi.
Quanto è detto qui si riferisce a tutti i fatti che sono raccontati nel Nuovo Testamento; in essi si tratta sempre della stessa questione, sempre dello stesso conflitto, che si presenta fondamentale per ogni uomo e che con ciò è aperto e infinito.
Per gli scrittori del Nuovo Testamento questa storia contemporanea che si svolge entro una cornice quotidiana costituisce un avvenimento rivoluzionario nella storia del mondo, e in seguito diventa tale per ciascuno. Si rivela quale moto e forza storica perché in qualsiasi persona vengono esemplificati gli effetti della dottrina, della persona e del destino di Gesù.