Nella rassegna stampa di oggi:
1) Dibattito tra un Vescovo e un promotore dell'eutanasia
2) Un anno speciale per rimettere i preti a nuovo - L'ha indetto Benedetto XVI per rafforzare l'identità spirituale del clero e anche per ripulirlo dalla "sporcizia". I Legionari di Cristo nell'occhio del ciclone. Sui seminari, l'impietosa diagnosi del segretario della congregazione per l'educazione cattolica - di Sandro Magister
3) Come guardare un palloncino - Pigi Colognesi - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
4) MANIFESTO CDO/ 1. Una scuola che parla al futuro: idee per una rivoluzione - Redazione - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
5) INTERCETTAZIONI/ Il ddl tutela non solo le indagini, ma anche le persone. E a sinistra qualcuno l’ha capito - Renato Farina - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
6) SHOAH/ Il miracolo di Anna Frank: l’esperienza di un dolore che non diventa ideologia - INT. Ugo Volli - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
7) Fare teatro in carcere cosa significa? - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 11 giugno 2009
8) CATTOLICI E SOCIETÀ - Le domande sul senso della vita, la felicità e la sofferenza che stanno nel cuore di ogni uomo. E le risposte che il cristianesimo propone. Il presidente della Commissione Cei per la dottrina della fede illustra obiettivi e contenuti della 'Lettera ai cercatori di Dio' - DA ROMA SALVATORE MAZZA – Avvenire, 12 giugno 2009
Dibattito tra un Vescovo e un promotore dell'eutanasia
Monsignor Mario Iceta e l'anestesista Luis Montes sul fine vita
BILBAO, giovedì, 11 giugno 2009 (ZENIT.org).- Questo mercoledì la città di Bilbao (Spagna) ha ospitato un dibattito tra uno dei più famosi promotori dell'eutanasia e un Vescovo esperto di bioetica.
Si trattava di monsignor Mario Iceta, Vescovo ausiliare di Bilbao, che ha difeso le cure palliative, e dell'anestesista Luis Montes, promotore del “Manifesto Santander per una morte degna”.
Monsignor Iceta, laureato in Medicina, ha parlato della persona umana dal punto di vista “antropologico ed etico” e si è riferito alla malattia come a un “momento di crisi”.
Di fronte alle malattie terminali, ha sottolineato la necessità di una “grande umanità” e ha difeso le cure palliative.
In concreto, ha chiesto di riconoscere la Medicina Palliativa come specializzazione nelle università e di aumentare il numero dei centri dedicati esclusivamente ad assistere i malati incurabili.
Allo stesso modo, ha respinto “l'ostinazione e l'accanimento terapeutico che non riconosce i limiti della medicina” e il “provocare deliberatamente la morte del malato, il che è eutanasia”.
Da parte sua, Luis Montes ha affermato che “bisogna depenalizzare l'eutanasia attiva e la necessaria collaborazione”.
“Esiste un consenso popolare sulla capacità che abbiamo di decidere nelle situazioni limite”, ha osservato, dichiarandosi “laico” e difendendo il suo diritto a morire, “altrimenti la vita è un obbligo”.
L'anestesista si è riferito a situazioni in cui “non vale la pena di vivere”. Il Vescovo ha definito questa espressione “inopportuna” e ha considerato che “nessuno è costretto a soffrire ed è lecito trattare il dolore”, ma che “la vita umana è sempre degna”.
Allo stesso modo, ha sottolineato che “porre fine alla vita in modo deliberato, anche su propria richiesta o nonostante le condizioni di vita, non è la risposta adeguata perché nessuno può disporre della vita di un altro, né della propria”.
L'eutanasia, inoltre, “pone la medicina fuori dal proprio ambito, che è quello di curare”, ha segnalato il presule.
Legge andalusa della morte degna
Luis Montes si è riferito al disegno di legge per i Diritti e le Garanzie della Dignità della Persona nel Processo di Morte in Andalusia, approvato questo lunedì, che proibisce il “prolungare in modo inutile” la vita del paziente quando non si può più curare.
Per l'anestesista, ciò presuppone “un altro passo e un progresso per uscire dall'oscurità e dall'illegalità che noi operatori sanitari abbiamo sempre avuto su un tema così importante come il fine vita”.
Con questa norma, ha aggiunto, “si inizia a delimitare l'obiezione di coscienza dei medici contrari a questo tipo di pratiche”.
Sedazioni irregolari
Montes è noto per essere stato allontanato dal suo incarico dopo essere comparso davanti ai tribunali spagnoli con l'accusa di aver realizzato insieme alla sua équipe sedazioni irregolari nell'Ospedale Severo Ochoa di Leganés (Madrid).
Sulla questione, ha affermato che “c'è stata una confusione provocata, che ha inviato un messaggio di allarme sociale, confondendo la sedazione terminale con l'eutanasia”.
Il Vescovo Iceta ha ricordato che le sedazioni terminali sono accettate dalla Chiesa e ha chiesto che non vengano confuse con l'eutanasia.
“Non cercano la morte, ma il benessere del paziente, anche se hanno come effetto secondario accorciare la sua vita”, ha spiegato.
Secondo quanto ha reso noto a ZENIT la Fondazione Sabino Arana, che ha organizzato il dibattito, la giornata si è divisa in un dialogo a porte chiuse al mattino nell'Hotel Sheraton e in conferenze pubbliche seguite da molti uditori al pomeriggio, nel Palazzo Euskalduna.
L'attività del mattino ha incluso cinque interventi davanti a 40 esperti, tra cui rappresentanti di associazioni pro-vita e del diritto a morire degnamente, medici e magistrati.
Un anno speciale per rimettere i preti a nuovo - L'ha indetto Benedetto XVI per rafforzare l'identità spirituale del clero e anche per ripulirlo dalla "sporcizia". I Legionari di Cristo nell'occhio del ciclone. Sui seminari, l'impietosa diagnosi del segretario della congregazione per l'educazione cattolica - di Sandro Magister
ROMA, 10 giugno 2009 - Tra pochi giorni, venerdì 19, festa del Sacro Cuore di Gesù, avrà inizio lo speciale Anno Sacerdotale voluto da Benedetto XVI.
Le finalità sono state indicate da papa Joseph Ratzinger ai cardinali e vescovi che compongono la congregazione per il clero, riuniti lo scorso 16 marzo in assemblea plenaria.
La congregazione per il clero si chiamava fino al 1967 congregazione "del Concilio". Era stata costituita infatti dopo il Concilio di Trento per curare l'applicazione delle indicazioni conciliari da parte del clero in cura d'anime.
Il profilo di prete delineato dal Concilio di Trento ha caratterizzato la vita della Chiesa cattolica fino alla metà del Novecento. Ne è stato un modello il santo Curato d'Ars, Giovanni Maria Vianney, di cui ricorre il 150.mo anniversario della morte.
Negli ultimi decenni, però, l'identità del prete cattolico si è in varia misura mutata, offuscata, sbriciolata, sotto i colpi della secolarizzazione, fuori e dentro la Chiesa.
L'intento dell'Anno Sacerdotale è appunto quello di ricostruire nel prete una forte identità spirituale, fedele alla sua missione originaria. Ciò comporta anche un'energica opera di eliminazione della "sporcizia" che ha inquinato una parte del clero, quantitativamente limitata ma disastrosa sul piano della sua immagine globale.
A questo proposito va notata una coincidenza. Con l'inizio dell'Anno Sacerdotale avrà inizio anche la visita apostolica ordinata dalle autorità vaticane dentro la congregazione dei Legionari di Cristo. Questa congregazione si distingue per l'abbondanza delle vocazioni e il gran numero di nuovi preti. Nello stesso tempo, però, rischia di crollare così come è già crollata la figura del suo carismatico fondatore, il sacerdote Marcial Maciel, la cui doppia vita gravemente immorale - venuta definitivamente allo scoperto - è diventata oggi un terribile scandalo prima di tutto per quelli che furono i suoi più ferventi discepoli.
Ricostruire l'identità spirituale del clero implica quindi anche una speciale cura della sua formazione. Come i seminari sono stati una pietra miliare della riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento, così oggi è nei seminari che si forgia l'identità dei nuovi preti.
La congregazione del clero non si occupa dei seminari. Prende cura di essi la congregazione per l'educazione cattolica.
Anche quest'ultima, quindi, dovrà operare perché l'Anno Sacerdotale porti frutto. Qualcosa, anzi, ha già fatto, a giudicare dal discorso tenuto dal suo segretario, Jean-Louis Bruguès, ai rettori dei seminari pontifici convenuti a Roma nei giorni scorsi.
Monsignor Bruguès, 66 anni, domenicano, era fino al 2007 vescovo di Angers. Oltre che segretario della congregazione per l'educazione cattolica è vicepresidente della pontificia opera delle vocazioni sacerdotali e membro della commissione per la formazione dei candidati al sacerdozio. È inoltre accademico della pontificia accademia San Tommaso d'Aquino.
Il discorso che ha rivolto ai rettori di seminario non ha nulla del linguaggio curiale. È di una franchezza non comune. Descrive e denuncia senza mezzi termini i guasti del dopoconcilio, in particolare in Europa, compresa l'impressionante ignoranza sui punti elementari della dottrina che oggi si riscontra nei giovani che entrano in seminario.
Questa ignoranza è a tal punto che, tra i rimedi, monsignor Bruguès auspica che si dedichi un anno intero di seminario a far apprendere il Catechismo della Chiesa cattolica.
Il Catechismo "ad parochos" fu un'altra delle pietre miliari della riforma tridentina. Quattro secoli dopo, si è di nuovo lì.
Ecco qui di seguito il discorso del segretario della congregazione per l'educazione cattolica ai rettori dei seminari pontifici, reso pubblico da "L'Osservatore Romano" del 3 giugno 2009:
Formazione al sacerdozio, tra secolarismo e modelli di Chiesa - di Jean-Louis Bruguès
È sempre rischioso spiegare una situazione sociale a partire da una sola interpretazione. Tuttavia, alcune chiavi aprono più porte di altre. Da molto tempo sono convinto del fatto che la secolarizzazione sia diventata una parola-chiave per pensare oggi le nostre società, ma anche la nostra Chiesa.
La secolarizzazione rappresenta un processo storico molto antico, poiché è nato in Francia a metà del XVIII secolo, prima di estendersi all'insieme delle società moderne. Tuttavia, la secolarizzazione della società varia molto da un paese all'altro.
In Francia e in Belgio, per esempio, essa tende a bandire i segni dell'appartenenza religiosa dalla sfera pubblica e a riportare la fede nella sfera privata. Si osserva la stessa tendenza, ma meno forte, in Spagna, in Portogallo e in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, invece, la secolarizzazione si armonizza facilmente con l'espressione pubblica delle convinzioni religiose: l'abbiamo visto anche in occasione delle ultime elezioni presidenziali.
Da una decina d'anni a questa parte è emerso tra gli specialisti un dibattito molto interessante. Sembrava, fino ad allora, che si dovesse dare per scontato che la secolarizzazione all'europea costituisse la regola e il modello, mentre quella di tipo americano costituisse l'eccezione. Ora invece sono numerosi coloro i quali - Jürgen Habermas per esempio - pensano che è vero l'opposto e che anche nell'Europa post-moderna le religioni svolgeranno un nuovo ruolo sociale.
RICOMINCIARE DAL CATECHISMO
Qualunque sia la forma che ha assunto, la secolarizzazione ha provocato nei nostri paesi un crollo della cultura cristiana. I giovani che si presentano nei nostri seminari non conoscono più niente o quasi della dottrina cattolica, della storia della Chiesa e dei suoi costumi. Questa incultura generalizzata ci obbliga a effettuare delle revisioni importanti nella pratica seguita fino ad ora. Ne menzionerò due.
Per prima cosa, mi sembra indispensabile prevedere per questi giovani un periodo - un anno o più - di formazione iniziale, di "ricupero", di tipo catechetico e culturale al tempo stesso. I programmi possono essere concepiti in modo diverso, in funzione dei bisogni specifici di ciascun paese. Personalmente, penso a un intero anno dedicato all'assimilazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che si presenta come un compendio molto completo.
In secondo luogo occorrerebbe rivedere i nostri programmi di formazione. I giovani che entrano in seminario sanno di non sapere. Sono umili e desiderosi di assimilare il messaggio della Chiesa. Si può lavorare con loro veramente bene. La loro mancanza di cultura ha questo di positivo: non si portano più dietro i pregiudizi negativi dei loro fratelli maggiori. È una fortuna. Ci troviamo quindi a costruire su una "tabula rasa". Ecco perché sono a favore di una formazione teologica sintetica, organica e che punta all'essenziale.
Questo implica, da parte degli insegnanti e dei formatori, la rinuncia a una formazione iniziale contrassegnata da uno spirito critico - come era stato il caso della mia generazione, per la quale la scoperta della Bibbia e della dottrina è stata contaminata da uno spirito di critica sistematico - e alla tentazione di una specializzazione troppo precoce: precisamente perché manca a questi giovani il background culturale necessario.
Permettetemi di confidarvi alcune domande che mi sorgono in questo momento. Si ha mille volte ragione di voler dare ai futuri sacerdoti una formazione completa e d'alto livello. Come una madre attenta, la Chiesa desidera il meglio per i suoi futuri sacerdoti. Per questo i corsi si sono moltiplicati, ma al punto di appesantire i programmi in un modo a mio parere esagerato. Avete probabilmente percepito il rischio dello scoraggiamento in molti dei vostri seminaristi. Chiedo: una prospettiva enciclopedica è forse adatta per questi giovani che non hanno ricevuto alcuna formazione cristiana di base? Questa prospettiva non ha forse provocato una frammentazione della formazione, un'accumulazione dei corsi e un'impostazione eccessivamente storicizzante? È davvero necessario, per esempio, dare a dei giovani che non hanno mai imparato il catechismo una formazione approfondita nelle scienze umane, o nelle tecniche di comunicazione?
Consiglierei di scegliere la profondità piuttosto che l'estensione, la sintesi piuttosto che la dispersione nei dettagli, l'architettura piuttosto che la decorazione. Altrettante ragioni mi portano a credere che l'apprendimento della metafisica, per quanto impegnativo, rappresenti la fase preliminare assolutamente indispensabile allo studio della teologia. Quelli che vengono da noi hanno spesso ricevuto una solida formazione scientifica e tecnica - il che è una fortuna - ma la loro mancanza di cultura generale non permette ad essi di entrare con passo deciso nella teologia.
DUE GENERAZIONI, DUE MODELLI DI CHIESA
In numerose occasioni ho parlato delle generazioni: della mia, di quella che mi ha preceduto, delle generazioni future. È questo, per me, il nodo cruciale della presente situazione. Certo, il passaggio da una generazione all'altra ha sempre posto dei problemi d'adattamento, ma quello che viviamo oggi è assolutamente particolare.
Il tema della secolarizzazione dovrebbe aiutarci, anche qui, a comprendere meglio. Essa ha conosciuto un'accelerazione senza precedenti durante gli anni Sessanta. Per gli uomini della mia generazione, e ancor di più per coloro che mi hanno preceduto, spesso nati e cresciuti in un ambiente cristiano, essa ha costituito una scoperta essenziale, la grande avventura della loro esistenza. Sono dunque arrivati a interpretare l'"apertura al mondo" invocata dal Concilio Vaticano II come una conversione alla secolarizzazione.
Così di fatto abbiamo vissuto, o persino favorito, un'autosecolarizzazione estremamente potente nella maggior parte delle Chiese occidentali.
Gli esempi abbondano. I credenti sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie, ma credono alla vita eterna? Le nostre Chiese hanno compiuto un immenso sforzo per rinnovare la catechesi, ma questa stessa catechesi non tende a trascurare le realtà ultime? Le nostre Chiese si sono imbarcate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, sollecitate dall'opinione pubblica, ma quanto parlano del peccato, della grazia e della vita teologale? Le nostre Chiese hanno dispiegato felicemente dei tesori d'ingegno per far meglio partecipare i fedeli alla liturgia, ma quest'ultima non ha perso in gran parte il senso del sacro? Qualcuno può negare che la nostra generazione, forse senza rendersene conto, ha sognato una "Chiesa di puri", una fede purificata da ogni manifestazione religiosa, mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare come processioni, pellegrinaggi, eccetera?
L'impatto con la secolarizzazione delle nostre società ha trasformato profondamente le nostre Chiese. Potremmo avanzare l'ipotesi che siamo passati da una Chiesa di "appartenenza", nella quale la fede era data dal gruppo di nascita, a una Chiesa di "convinzione", in cui la fede si definisce come una scelta personale e coraggiosa, spesso in opposizione al gruppo di origine. Questo passaggio è stato accompagnato da variazioni numeriche impressionanti. Le presenze sono diminuite a vista d'occhio nelle chiese, nei corsi di catechesi, ma anche nei seminari. Anni fa il cardinale Lustiger aveva tuttavia dimostrato, cifre alla mano, che in Francia il rapporto fra il numero dei sacerdoti e quello dei praticanti effettivi era restato sempre lo stesso.
I nostri seminaristi, così come i nostri giovani sacerdoti, appartengono anch'essi a questa Chiesa di "convinzione". Non vengono più tanto dalle campagne, quanto piuttosto dalle città, soprattutto delle città universitarie. Sono cresciuti spesso in famiglie divise o "scoppiate", il che lascia in loro tracce di ferite e, talvolta, una sorta d'immaturità affettiva. L'ambiente sociale di appartenenza non li sostiene più: hanno scelto di essere sacerdoti per convinzione e hanno rinunciato, per questo fatto, ad ogni ambizione sociale (quello che dico non vale dovunque; conosco delle comunità africane in cui la famiglia o il villaggio portano ancora delle vocazioni sbocciate nel loro seno). Per questo essi offrono un profilo più determinato, individualità più forti e temperamenti più coraggiosi. A questo titolo, hanno diritto a tutta la nostra stima.
La difficoltà sulla quale vorrei attirare la vostra attenzione supera dunque la cornice di un semplice conflitto generazionale. La mia generazione, insisto, ha identificato l'apertura al mondo col convertirsi alla secolarizzazione, nei confronti della quale ha sperimentato un certo fascino. I più giovani, invece, sono sì nati nella secolarizzazione, che rappresenta il loro ambiente naturale, e l'hanno assimilata col latte della nutrice: ma cercano innanzitutto di prendere le distanze da essa, e rivendicano la loro identità e le loro differenze.
ACCOMODAMENTO COL MONDO O CONTESTAZIONE?
Esiste ormai nelle Chiese europee, e forse anche nella Chiesa americana, una linea di divisione, talora di frattura, tra una corrente di "composizione" e una corrente di "contestazione".
La prima ci porta a osservare che esistono nella secolarizzazione dei valori a forte matrice cristiana, come l'uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la responsabilità, e che deve essere possibile venire a patti con tale corrente e individuare dei campi di cooperazione.
La seconda corrente, al contrario, invita a prendere le distanze. Ritiene che le differenze o le opposizioni, soprattutto nel campo etico, diventeranno sempre più marcate. Propone dunque un modello alternativo al modello dominante, e accetta di sostenere il ruolo di una minoranza contestatrice.
La prima corrente è risultata predominante nel dopoconcilio; ha fornito la matrice ideologica delle interpretazioni del Vaticano II che si sono imposte alla fine degli anni Sessanta e nel decennio successivo.
Le cose si sono invertite a partire dagli anni Ottanta, soprattutto - ma non esclusivamente - sotto l'influenza di Giovanni Paolo II. La corrente della "composizione" è invecchiata, ma i suoi adepti detengono ancora delle posizioni chiave nella Chiesa. La corrente del modello alternativo si è rinforzata considerevolmente, ma non è ancora diventata dominante. Così si spiegherebbero le tensioni del momento in numerose Chiese del nostro continente.
Non mi sarebbe difficile illustrare con degli esempi la contrapposizione che ho appena descritto.
Le università cattoliche si distribuiscono oggi secondo questa linea di divisione. Alcune giocano la carta dell'adattamento e della cooperazione con la società secolarizzata, a costo di trovarsi costrette a prendere le distanze in senso critico nei confronti di questo o quell'aspetto della dottrina o della morale cattolica. Altre, d'ispirazione più recente, mettono l'accento sulla confessione della fede e la partecipazione attiva all'evangelizzazione. Lo stesso vale per le scuole cattoliche.
E lo stesso si potrebbe affermare, per ritornare al tema di questo incontro, nei riguardi della fisionomia tipica di coloro che bussano alla porta dei nostri seminari o delle nostre case religiose.
I candidati della prima tendenza sono diventati sempre più rari, con grande dispiacere dei sacerdoti delle generazioni più anziane. I candidati della seconda tendenza sono diventati oggi più numerosi dei primi, ma esitano a varcare la soglia dei nostri seminari, perché spesso non vi trovano ciò che cercano.
Essi sono portatori d'una preoccupazione d'identità (con un certo disprezzo vengono qualificati talvolta come "identitari"): identità cristiana - in che cosa ci dobbiamo distinguere da coloro che non condividono la nostra fede? - e identità del sacerdote, mentre l'identità del monaco e del religioso è più facilmente percepibile.
Come favorire un'armonia tra gli educatori, che appartengono spesso alla prima corrente, e i giovani che si identificano con la seconda? Gli educatori continueranno ad aggrapparsi a criteri d'ammissione e di selezione che risalgono ai loro tempi, ma non corrispondono più alle aspirazioni dei più giovani? Mi è stato raccontato il caso di un seminario francese nel quale le adorazioni del Santissimo Sacramento erano state bandite da una buona ventina d'anni, perché giudicate troppo devozionali: i nuovi seminaristi hanno dovuto battersi per parecchi anni perché fossero ripristinate, mentre alcuni docenti hanno preferito dare le dimissioni davanti a ciò che giudicavano come un "ritorno al passato"; cedendo alle richieste dei più giovani, avevano l'impressione di rinnegare ciò per cui si erano battuti per tutta la vita.
Nella diocesi di cui ero vescovo ho conosciuto difficoltà simili quando dei sacerdoti più anziani - oppure intere comunità parrocchiali - provavano una grande difficoltà a rispondere alle aspirazioni dei giovani sacerdoti che erano stati loro mandati.
Comprendo le difficoltà che incontrate nel vostro ministero di rettori di seminari. Più che il passaggio da una generazione ad un'altra, dovete assicurare armoniosamente il passaggio da un'interpretazione del Concilio Vaticano II ad un'altra, e forse da un modello ecclesiale a un altro. La vostra posizione è delicata, ma è assolutamente essenziale per la Chiesa.
Come guardare un palloncino - Pigi Colognesi - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Un’attenta lettrice, mi ha proposto un commento molto interessante sull’editoriale della settimana scorsa, quello su Anna e il palloncino elettorale. Scrive: «Avere una mente aperta, critica, curiosa non è da tutti. Bisogna coltivarla e aver avuto bravi maestri (non solo a scuola) e buoni esempi».
Prima di tutto mi sembra importante intendersi su quel «non è da tutti». Io credo che tutti si venga al mondo con una «mente aperta, critica, curiosa». Proprio questa apertura curiosa, capace di criticare - cioè di vagliare in un paragone con criteri che uno si trova dentro - è quello che fa di un bipede non troppo robusto rispetto a tanti consimili rappresentanti del regno animale un uomo. Del resto qualcuno ha sostento che quell’animale si sia sollevato sulle gambe proprio per poter osservare con più agio attorno a sé (curiosità) e perfino lanciare lo sguardo alla volta stellata (de-sidera: desiderio). Nessun uomo è originariamente privato di questa distintiva caratteristica.
Eppure è facile osservare - non solo negli altri, ma anche in noi stessi - che questa struttura originale può essere coartata, può essere in un certo modo disattivata, resa non operativa. Come uno a cui tenessero sempre legato un braccio: dopo un po’ di tempo non riesce più ad articolare bene il movimento; il braccio ce l’ha ma gli funziona male. Ecco perché quella apertura, come scrive la mia lettrice, «bisogna coltivarla». Si potrebbe dire: «educarla», ma anche la parola «coltivarla» ha una sua particolare forza evocativa. Attenzione: coltivarla e non seminarla; il seme c’è già, come abbiamo detto. E coltivarla significa sostanzialmente due operazioni complementari.
La prima è quella di togliere le erbacce che rischiano di soffocare l’apertura originale. La gramigna sono i preconcetti mai vagliati, le chiusure ormai codificate, lo strapotere dei luoghi comuni, il permanente rumore di sottofondo che non consente di sentire la voce di quell’apertura desiderosa, la paura resa clima esistenziale (un’insegnante mi diceva che la nota che qualifica i suoi allievi è la paura: paura dei rapporti, delle novità, di guardarsi intorno). La gramigna può essere anche un grande dolore, come una gelata improvvisa che sembra uccidere il seme.
A questo proposito Aleksandr Solženicyn nel suo Divisione cancro ha una pagina memorabile. Quando il protagonista, malato di tumore, finalmente guarisce, esce dall’ospedale e si ferma stupefatto di fronte a un albicocco in fiore. L’aveva visto tante volte dalle finestre della camerata, ma ora quell’albero, coi fiori luccicanti di rugiada, egli lo guarda in modo nuovo e la commozione dell’esistenza di quel semplice albero lo fa sentire come se fosse il primo uomo il primo giorno della creazione.
Tolte le erbacce - ed è operazione mai finita perché rinascono sempre - bisogna nutrire il seme. Qui entrano in campo «i buoni maestri e i buoni esempi». È vero. Non si coltiva quell’apertura originaria ragionandoci su; si ha bisogno di vedere persone aperte, persone che insegnino a guardare, educatori (forse anche per questo la Conferenza Episcopale Italiana ha individuato nell’educazione il tema della propria pastorale per tutto il prossimo decennio).
Occorrono maestri/testimoni che introducano all’esperienza che, nel dramma teatrale di Oscar Millosz, ha fatto Miguel Mañara dopo l’incontro con Girolama: «Voi avete acceso una lampada nel mio cuore; ed eccomi come il malato che s’addormenta nelle tenebre, con la brace della febbre sulla fronte ed il gelo dell’abbandono nel cuore, che poi si risveglia di soprasalto in una bella camera in cui ogni cosa è immersa nella musica discreta della luce. Perché non ho appreso prima di avere l’anima buona?».
MANIFESTO CDO/ 1. Una scuola che parla al futuro: idee per una rivoluzione - Redazione - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Con un approccio nuovo e veramente significativo il documento che la Compagnia delle Opere dedica alla scuola, e che qui presentiamo, evidenzia la stretta connessione che intercorre tra il tema educazione e il tema istruzione.
Le proposte che qui vengono avanzate per un cambiamento del sistema scolastico sono per lo più riconosciute e condivise dai migliori centri di studio e di approfondimento sul tema istruzione, quali l’Associazione TreeLLLe, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, la Fondazione Agnelli ecc.
I punti sono noti: autonomia (nuova governance) e parità, contro lo statalismo ipercentralista; reale valutazione del sistema scolastico; nuova professionalità e carriera per i docenti; personalizzazione dei percorsi; abolizione del valore legale del titolo di studio. Sono tutti punti essenziali, la cui importanza è anche in un certo senso sistemica: una cosa senza l’altra (ad esempio, autonomia senza valutazione) sarebbe una cosa fatta a metà, e quindi fatta male. A tutti questi temi il nostro giornale ha già dedicato moltissimi interventi di approfondimento e continuerà a farlo.
Il punto caratterizzante del documento è un altro: non solo la centralità del tema educazione, ma la diretta consequenzialità e correlazione tra la tensione educativa e la ricerca di risposte concrete a livello di sistema di istruzione. Non c’è educazione che non entri nel merito anche delle scelte concrete, sia nella didattica che nella politica scolastica; e d’altro canto parlare di istruzione senza porsi il problema educativo sarebbe ridurre tutto a un vacuo tecnicismo utopistico. Non si creerà mai un sistema talmente perfetto da rendere superfluo il rapporto educativo tra docente e studente, elemento centrale della scuola; ma non si darà mai vera incidenza alla tensione educativa se la si lascerà a lato delle problematiche della scuola (riducendola di fatto a ciò che è lo svago del sabato sera rispetto alla settimana lavorativa).
Nel documento “Una scuola che parla al futuro” è segnata una stretta interdipendenza tra i due aspetti. Basta confrontare i punti essenziali alla voce “Educazione” e le proposte programmatiche, e si vedrà che dai primi discendono le seconde: quando si dice che «la prima condizione che realizza l’educazione è la presenza di figure adulte autorevoli» significa, di conseguenza, che è necessario che ci siano «docenti e dirigenti come veri professionisti» (d’altronde, finché lo studente continuerà a guardare al professore come a un fallito nella scala sociale tutto resterà molto difficile); quando si dice che «l’autorevolezza deriva dalla partecipazione ad un cammino unitario di costruzione del proprio io» e che «gli alunni non sono da intendere come il terminale astratto di iniziative che li vedono passivi», ne deriva la necessità di avere «percorsi di studio flessibili e personalizzati». E così via. Le esigenze educative si concretano in scelte di politica scolastica, che non saranno mai la soluzione perfetta, ma permetteranno o di facilitare il processo educativo, o quanto meno (e già sarebbe molto!) di non ostacolarlo.
Questa è dunque la grande sfida che questo documento lancia nel dibattito sulla scuola. In un momento in cui, per altro, l’emergenza educativa è sempre più evidente e centrale. In questo senso, le molte indagini e ricerche (alcune recentissime) che testimoniano la totale indifferenza degli studenti verso la loro esperienza scolastica sono un dato drammatico e ineludibile: i docenti non sono un punto di riferimento, né umano né culturale; le cose che contano veramente le si imparano altrove; la scuola non è né buona né cattiva, ma semplicemente indifferente, perché da essa non ci si aspetta nulla. Ecco come educazione e istruzione vengono allora a coincidere: nel momento in cui ci si rende pienamente conto che, come fu detto autorevolmente, non c’è cosa più assurda della risposta a una domanda che non si pone. Far emergere la domanda di sapere e conoscenza è compito educativo, che si realizza dentro un’autorevole e riconosciuta professionalità didattica che abbia come fine l’istruzione.
Un ultimo appunto, che rende particolarmente importante e attuale il documento Cdo: proprio in questi giorni l’Assemblea della Conferenza episcopale italiana ha rilanciato il tema educazione come tema del prossimo decennio. Significa che c’è una grande responsabilità, non solo per i cattolici, e un impegno per tutti, in termini di riflessione, approfondimento, lavoro concreto: l’educazione e la scuola dovranno essere i pilastri del dibattito politico-culturale nei prossimi anni.
INTERCETTAZIONI/ Il ddl tutela non solo le indagini, ma anche le persone. E a sinistra qualcuno l’ha capito - Renato Farina - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Per la prima volta nella storia della Repubblica ci sono stati i franchi tiratori all’incontrario. Franchi specialmente con la loro coscienza. Il loro voto non serviva, a rigor di logica. La legge sarebbe passata lo stesso. E allora come si spiega questa faccenda? Un’idea l’ho: c’è stato un sussulto di coscienza, una ribellione rispetto all’invasione senza regole né rispetto da parte della magistratura e subito dopo dei giornali che pubblicano e distruggono la gente rovinandone la reputazione per il gusto di farlo o per ragioni di avversione politica.
Sto parlando della legge sulle intercettazioni telefoniche, ovvio. Ieri è passata alla Camera e dovrà essere definitivamente approvata al Senato. È andata così: siccome c’è di mezzo una questione delicata e con implicazioni eticamente sensibili si è votato segretamente. La sinistra sperava in un ribaltamento, visto che solo Dio vedeva. Ecco. Ventuno deputati dell’opposizione hanno votato con la maggioranza. Hanno liberato le mani dai legacci e dal ricatto di partito e delle lobby che se non obbedisci loro ti mettono in croce (quella dei giornalisti e quella dei forcaioli, oltre che quella più cospicua che è la magistratura).
Un paradosso simpatico. Si pensi che le sinistre e (in parte) anche l’Udc hanno motivato la loro opposizione alla legge sostenendo che non ci sarebbe stata più la possibilità di investigare, e soprattutto che questa legge legherà le mani ai cronisti, soffocherà la libertà di esprimersi, ucciderà l’articolo 21 della Costituzione che garantisce la libertà di pensiero e di parola. E il cui primo paragrafo dice: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. I poveri 21 onorevoli di sinistra hanno dovuto agire in segreto, impossibilitati a dire davvero ciò che sentono in coscienza. A loro in fondo è stato impedito di esercitare in pienezza il diritto sancito dall’articolo 21 (ironia del numero 21).
Il lamento della sinistra è dunque duplice. I delinquenti potranno agire impunemente. Inoltre, siccome ora non si potranno più pubblicare intercettazioni prima del processo né in alcun caso conversazioni non attinenti a reati, si dice che la Costituzione è violata, e oltre alla giustizia è morta anche l’informazione.
In realtà c’è un articolo che in Italia non è mai trattato con il peso che dovrebbe avere. L’articolo 15, che tutela la riservatezza delle comunicazioni. Dice: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”.
Ecco, questa legge stabilisce quali motivazioni debba dare l’autorità giudiziaria per violare libertà e segretezza delle comunicazioni, e stabilisce garanzie anche per chi questa violazione deve subire per ragioni di giustizia (tipo non buttare in piazza tutto; tipo limitare a 60 giorni).
Molti hanno sottolineato le spese folli di queste intercettazioni (quasi 500 milioni di euro l’anno), il numero spaventoso di intercettati (sono milioni i tabulati analizzati, e i tabulati consentono di seguire i movimenti e le relazioni del proprietario del telefono). Ora accade questo oggi: non solo è violato l’articolo 15 della Costituzione. È violato proprio l’articolo 21, perché questa quantità enorme di intercettazioni, e la probabilità niente affatto piccola di essere ascoltati da altri, e per di più poi trasformati in spettacolo per i clienti dei giornali e delle tivù, induce molti a non esprimersi liberamente, a limitare la propria libertà sulla base della paura di essere ascoltati, equivocati, sorpresi in confidenze, eccetera eccetera.
Adesso, questa legge, quando passerà al Senato, ci darà un po’ più di respiro, ripristinerà il diritto della persona come superiore al diritto del collettivo, della massa a cui offrire in pasto l’intimità di singoli più o meno impotenti, ma comunque in quel momento colpiti a tradimento.
SHOAH/ Il miracolo di Anna Frank: l’esperienza di un dolore che non diventa ideologia - INT. Ugo Volli - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Oggi sarebbe l’ottantesimo compleanno di Anna Frank e il 67mo del suo “diario”. La ragazza lo ricevette infatti come regalo per il suo tredicesimo genetliaco e da allora scrisse ininterrottamente fino al suo arresto da parte della Gestapo, riportando la cronaca degli ultimi suoi anni di vita e della trasformazione dell’Europa in un incubo. Confinata in una soffitta con un folto numero di familiari e persone appartenenti al suo stesso popolo Anna Frank è divenuta testimone non solo dell’Olocausto, ma dell’irriducibile capacità di sperare insita in tutti gli uomini.
Prendendo spunto da questa importante ricorrenza abbiamo chiesto al professor Ugo Volli di commentare da una parte la fortuna di quest’opera e dall’altra di aiutarci a capire la radice di un odio, quello antisemita, che purtroppo sembra ancora oggi non essersi placato.
Ci sono varie opere che raccontano dell’orrore della Shoah tanto che si può parlare a pieno titolo di “letteratura dell’Olocausto”. Come mai fra queste ha avuto così tanto successo il diario di Anna Frank?
Sono fermamente convinto che la prima ragione risieda in un fattore emotivo, non per questo puerile: ossia il fatto che si tratti di una ragazzina. A questo si unisce la forma del diario che per sua natura acquista un’irripetibile connotazione di concretezza per i fatti che si susseguono, per quell’orrore che l’Europa vedeva accadere giorno per giorno. Nel diario di Anna Frank non si assiste a una teorizzazione del male nazista, bensì a una registrazione quotidiana degli effetti di questo male. Questo ha contribuito a una diffusione più semplice e capillare negli strati culturali europei del dopoguerra, quando cioè si cominciarono a giudicare i crimini compiuti dal nazismo.
Inoltre desta fascino, se così si può definire, l’idea che in quest’opera non venga descritto l’abominio dei campi di concentramento, come invece avviene per esempio nell'opera di Primo Levi, bensì piuttosto l’ansia, l’attesa, il nascondersi dalla shoah. Sicuramente anche questo particolare “stato” di vita descritto nelle pagine di Anna Frank contribuì a commuovere le generazioni che hanno letto il diario.
Per molto tempo è sembrato che il patrimonio di testimonianze e di scritti lasciato dal popolo ebraico sia stato esclusivo appannaggio, almeno in Italia, di alcune correnti politiche. È d’accordo con questo tipo di lettura?
La questione posta è duplice. Da un lato infatti ci si può chiedere se c’è stato un uso della sinistra, tanto per parlar chiaro, sui temi del nazismo e dell’olocausto. D’altro canto ci si può porre la domanda se la sofferenza passata dal popolo ebraico possa davvero appartenere a qualcuno di diverso. La risposta a questo secondo quesito è certamente no. È chiaro che una storia di questo tipo appartiene in primo luogo alle sue vittime e di riflesso all’umanità, quindi non deve avere una strumentalizzazione di parte. Venendo dunque al primo interrogativo direi che sicuramente ci sono stati numerosi tentativi di strumentalizzare, ma, al contempo, anche di “addormentare”. Se si pensa per esempio al monumento italiano ad Auschwitz, custodito dall’ANED, ci si può rendere conto che questo è portatore di un significato che rischia di cadere in un’idea generalista. Si parla di vittime in maniera generica, appunto astraendo, al contrario di Anna Frank che era in primo luogo una persona concreta e che riferiva fatti concreti. Il rischio è quello di dimenticare un fatto autentico avvenuto nei confronti di un popolo, si dimenticano le cause e i motivi, si sottovaluta il carattere di volontà di distruzione del popolo ebraico.
Questo tipo di strumentalizzazione e di dimenticanza danneggia ancora oggi il popolo ebraico?
Ho la sensazione, e parlo da appartenente a quel popolo, che da un lato sia avvenuta una specie di santificazione collettiva per la quale tutti ripensando alle vittime dei campi di concentramento nazisti si sentono commossi. Oggi come oggi nessuno , a parte qualche nazista fanatico come quello che l’altro giorno ha sparato all’interno del museo della Shoah americana, si sentirebbe di appoggiare quanto avvenuto ad Auschwitz. E questo ovviamente è sacrosanto.
Va denunciata però una questione, ossia il manifestarsi di un fenomeno per il quale quando si parla di “ebrei vivi” le cose diventano diverse. Quando c’è chi in qualche modo si ripropone di compiere un percorso analogo a quello che ha condotto alla Shoah, come l’Iran di Ahmadinejad, il coro di persone commosse non è più così unanime e non è certo la sinistra a difenderci. Questo è sintomo proprio di quell’assenza di riferimenti concreti che dicevo prima.
Senza avere la pretesa di chiedere una “ricetta universale”, esiste a suo avviso un metodo per fare memoria in maniera davvero efficace e il meno possibile mistificante?
È molto difficile rispondere a una domanda come questa in effetti. Sono ad esempio molto perplesso su celebrazioni come la Giornata della Memoria, per le motivazioni sopra spiegate. Si ripete il rischio di inflazione su questo tema, come si è visto nello sfruttamento cinematografico infinito che ne è stato fatto. C’è il rischio di stancare e diventare celebrativi in maniera solo esteriore.
Io credo che si tratti invece di rendersi conto che non c’è stata una specie di gesto di follia e di pura malvagità al di fuori di ogni contesto. Credo che la cosa migliore per capire sia studiare la storia e approfondire fatti e complicità. Il solo richiamo a una memoria viva è in questo tipo di iniziative.
Quindi lei sostiene che il male verificatosi con la Shoah non possa essere ascrivibile soltanto a un determinato periodo storico?
Sì, ma non solo “storico”. Hitler ha avuto una serie di ammiratori in giro per il mondo, da Ford a Lindbergh.
Forse erano entrambi in buona fede. Questo significa che il problema non è quello di isolare un fenomeno ritenendolo superato e superabile sotto diversi punti di vista, ma individuare come il male prenda o possa prendere piede ancora oggi in comportamenti collettivi, il rischio è quindi proprio quello di definire come “isolata” la follia nazista e sentirsi a posto una volta che la si è condannata, esenti dal rischio di poter compiere un male analogo.
Fare teatro in carcere cosa significa? - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 11 giugno 2009
Ricordandomi di avere fatto parte di un gruppo teatrale carcerario, mi viene da dire che a volte il teatro entra in carcere esclusivamente per intrattenere e divertire, infatti molti spettacoli hanno avuto come unico obiettivo il gioco, l’animazione, senza che fosse richiesta alcuna professionalità, o vi fosse interesse ad ottenerla.
Il carcere può essere visto come un laboratorio in cui gli attori, in quanto dilettanti, risultano capaci di esprimere un’autenticità raramente rinvenibile in un professionista, una spontaneità e un’immediatezza che si fa evidente nei lapsus, negli scherzi, negli approcci.
La stessa genuinità che possiede probabilmente qualunque uomo della strada, dal momento in cui si trasforma in attore.
Il detenuto infatti anche se recita “dentro”, è il frutto di un “fuori”, che non può essere dissolto solo perché segregato e nascosto.
L’uomo della strada e l’uomo privato della libertà che si trasformano in attori non professionisti sono però divisi da una condizione imprescindibile: la reclusione.
La differenza diventa la forza e la magia del teatro in carcere, e si manifesta nel carico di “energie” che viene riversato sulla scena, un condensato di sofferenza e frustrazione, forzatamente compresso e coartato.
Per cui è possibile servire al teatro in quanto portatori di una umanità modificata dalla restrizione, che ricerca ed esalta le differenze, esprimendo, attraverso il lavoro, una potenza drammatica maggiore.
Recitare un testo teatrale offre un doppio sostegno a chi è in una cella a scontare la propria pena, permette il libero flusso di emozioni e sentimenti rimossi e repressi dalla contenzione carceraria e spinge alla cooperazione, alla solidarietà, allo scambio con gli altri.
La memoria e il dialogo sono tra i pochi mezzi efficaci per resistere alla quotidiana e progressiva corrosione di sé.
Qualsiasi rappresentazione teatrale migliora gli uomini e la dimensione in cui vivono, operando con modalità opposte dove è contenuta, collettive anziché individualizzatrici, coinvolgenti anziché segreganti, portatrici di arricchimento affettivo e artistico, anziché di coazione a ripetere.
Fare teatro può significare che l’uomo della pena riscatti temporaneamente il suo “involontario” isolamento, smettendo di mimetizzarsi, iniziando a narrare, a narrarsi.
Ma forse è anche il caso di chiederci oltre a quale significato dare al teatro in carcere, se l’ impossibilità a ristrutturare le fondamenta di questa istituzione, è confermata attraverso l’impegno teatrale o le buone intenzioni di qualche operatore o di un paio di direttori.
Alla domanda iniziale mi viene da rispondere che fare teatro in carcere consente di vedere la differenza tra significato e funzione, affinché non sia visto in termini di efficienza, di servizio utile in quanto terapeutico, pedagogico, ricreativo… ma tale in quanto terapia, pedagogia, ricreazione sono in sé valori del teatro.
Per buon ultimo, fare teatro in carcere non vuol dire creare false illusioni, l’uso di fantasticherie e sogni per evadere in altri spazi e in altri tempi, o in altri corpi, come può farci rammentare il falso benessere suscitato dalle droghe, tutte.
Come qualcuno ci ha lasciato detto “fare teatro in carcere riesce ad avere senso soltanto quando il teatro stesso se ne avvantaggia: non quando resta prigioniero”.
CATTOLICI E SOCIETÀ - Le domande sul senso della vita, la felicità e la sofferenza che stanno nel cuore di ogni uomo. E le risposte che il cristianesimo propone. Il presidente della Commissione Cei per la dottrina della fede illustra obiettivi e contenuti della 'Lettera ai cercatori di Dio' - DA ROMA SALVATORE MAZZA – Avvenire, 12 giugno 2009
A tutti coloro « che hanno nel cuore la domanda della felicità » . E dunque, in fondo, a tutti. A chi cerca Dio non conoscendolo, e a chi crede in lui.
Sono questi i destinatari della
Lettera ai cercatori di Dio che la Commissione episcopale per la Dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi diffonde oggi, e che pubblichiamo integralmente come inserto del giornale. « Una proposta di riflessione ai pensanti – spiega in questa intervista monsignor Bruno Forte, arcivescovo di ChietiVasto e presidente della Commissione Cei che ha redatto la
Lettera – e una sorta di sfida e di provocazione a quelli che fuggono la fatica del pensiero e della ricerca » . Uno strumento che si propone « come qualcosa di nuovo » , perché « in effetti – osserva Forte – noi abbiamo tante forme di proposta catechistica, ma forse mancava uno strumento per il primo annuncio come questo » .
Chi sono oggi i ' cercatori di Dio'?
Tutti coloro che hanno nel cuore la domanda della felicità, perché la felicità nell’attesa più profonda del cuore umano non può essere che un amore assoluto, un amore senza riserve, che ci avvolga totalmente: chi crede riconosce tutto questo in Dio. Ecco perché nella definizione di ' cercatori di Dio' non si comprendono soltanto quelli che cercano Dio non conoscendolo, ma anche i credenti, che anche nell’esperienza della fede restano assetati di felicità, di amore assoluto. Proprio per questo quella formula accomuna tutti, perfino gli indifferenti, quelli che sembrano distratti, lontani, e che però non possono non sentire nel cuore il desiderio di una vita piena, ricca di felicità. Così questa Lettera si rivolge veramente a tutti, agli uni come corrispondenza a una domanda del cuore, alla nostalgia di Dio, nostalgia di bellezza che è in noi; agli altri, ' non cercatori apparenti', con la speranza di suscitare domande, attese, desiderio.
Oggi sappiamo che c’è una grande richiesta di ' religioso', è quasi diventato anche questo un fenomeno consumistico con una molteplicità di ' offerta'. Rispetto a questo fenomeno, come si colloca la Lettera?
Il cosiddetto ' ritorno di Dio' in realtà è un fenomeno complesso.
Da una parte c’è certamente la domanda vera e profonda di quanti sono pensosi e alla ricerca di un senso ultimo della vita e della storia, capace di dare colore alla fatica dei giorni; sono quei cercatori di speranza, di cui parla per esempio la Spe salvi di Benedetto XVI, alludendo al bisogno di speranza che c’è in tutti noi. C’è però anche una forma di questo ' ritorno di Dio', che è una sorta di ricerca di sicurezza, di consolazione a buon mercato.
Evidentemente la Lettera, proprio in quanto parte dalle domande vere, inquieta questo tipo di possibili destinatari, nel senso che li stimola a non accontentarsi di certezze facili, di consolazioni di comodo. In questo senso vorrebbe al tempo stesso essere una proposta di riflessione ai pensanti e una sorta di sfida e di provocazione a quelli che fuggono la fatica del pensiero e della ricerca. Proprio così essa ha bisogno di essere mediata da testimoni, proposta come strumento di un primo annuncio a quelli che sono in ricerca pensosa, non negligente, ma anche in modo diverso a quelli che bisogna svegliare alla ricerca e dunque all’apertura del cuore al possibile incontro con Dio.
In che modo questa Lettera si propone come strumento anche per la comunità?
In due sensi. Il primo in quanto tutti siamo destinatari di una riflessione data dalle domande che ci accomunano tutti, felicità e sofferenza, amore e fallimenti, lavoro, festa, giustizia e pace, la stessa sfida di Dio, sono interrogativi rispetto ai quali nessuno di noi può sentirsi estraneo o lontano. Nello stesso tempo però, nel rivolgersi alla comunità cristiana, la Lettera interpella anche gli operatori pastorali, quelli che in modo speciale si consacrano all’annuncio del Vangelo di Gesù, perché nelle loro mani essa diventa un ponte di dialogo e di amicizia possibile con tutti i cercatori di Dio, e anche una via per accendere o stimolare domande in quelli che sembrano invece fuggirle, sempre all’insegna del rispetto e dell’amicizia per tutti. Così, questo testo vorrebbe anche esprimere il volto di una Chiesa amica, vicina alla complessità della nostra condizione umana, nei suoi risvolti più alti, inquieti, pensosi, ma anche in quelli umili e quotidiani, a volte negligenti e stanchi come spesso ci capita d’incontrare nell’esperienza umana.
Con tutto ciò, come inquadrebbe questo documento?
Questa Lettera si rivela come qualcosa di nuovo.
In effetti noi abbiamo tante forme di proposta catechistica, ma forse mancava uno strumento per il primo annuncio come questo. Uno strumento, cioè, che non voglia dire tutto del cristianesimo, ma si concentri sul messaggio centrale e sulle vie concrete per farne esperienza – la preghiera la Parola di Dio, i sacramenti, l’amore, il desiderio della vita eterna e della bellezza divina – partendo dalle domande del cuore umano e della società in cui ci troviamo. In questo senso l’auspicio dei vescovi è di aver offerto alla Chiesa in Italia uno strumento che possa aiutare i cercatori di Dio a fare un passo avanti nell’esperienza del suo volto, e quanti non lo ricercano a svegliarsi, a essere in qualche modo stimolati a questa ricerca su cui si gioca la verità e la bellezza della vita.
Un pensatore ebreo molti anni fa mi diceva: ' Vivere è cercare Dio, vivere veramente è trovare Dio'. La Lettera vorrebbe essere uno strumento per aiutarci a vivere e a vivere veramente.
Il documento si rivolge a tutti: agli uni come corrispondenza a una domanda del cuore, alla nostalgia di Dio, nostalgia di bellezza che è in noi; agli altri, non cercatori apparenti, con la speranza di suscitare domande, attese, desiderio
In alto, ' Il viandante sopra un mare di nebbia': questo dipinto di Caspar David Friedrich ( 1817) evoca la posizione dell’uomo di fronte all’infinito e al mistero, a una realtà che trascende la sua capacità di comprensione e da cui è al tempo stesso affascinato
Questo testo vuole esprimere il volto di una Chiesa amica, vicina alla complessità della condizione umana, nei suoi risvolti più alti, ma anche in quelli umili e quotidiani
1) Dibattito tra un Vescovo e un promotore dell'eutanasia
2) Un anno speciale per rimettere i preti a nuovo - L'ha indetto Benedetto XVI per rafforzare l'identità spirituale del clero e anche per ripulirlo dalla "sporcizia". I Legionari di Cristo nell'occhio del ciclone. Sui seminari, l'impietosa diagnosi del segretario della congregazione per l'educazione cattolica - di Sandro Magister
3) Come guardare un palloncino - Pigi Colognesi - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
4) MANIFESTO CDO/ 1. Una scuola che parla al futuro: idee per una rivoluzione - Redazione - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
5) INTERCETTAZIONI/ Il ddl tutela non solo le indagini, ma anche le persone. E a sinistra qualcuno l’ha capito - Renato Farina - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
6) SHOAH/ Il miracolo di Anna Frank: l’esperienza di un dolore che non diventa ideologia - INT. Ugo Volli - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
7) Fare teatro in carcere cosa significa? - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 11 giugno 2009
8) CATTOLICI E SOCIETÀ - Le domande sul senso della vita, la felicità e la sofferenza che stanno nel cuore di ogni uomo. E le risposte che il cristianesimo propone. Il presidente della Commissione Cei per la dottrina della fede illustra obiettivi e contenuti della 'Lettera ai cercatori di Dio' - DA ROMA SALVATORE MAZZA – Avvenire, 12 giugno 2009
Dibattito tra un Vescovo e un promotore dell'eutanasia
Monsignor Mario Iceta e l'anestesista Luis Montes sul fine vita
BILBAO, giovedì, 11 giugno 2009 (ZENIT.org).- Questo mercoledì la città di Bilbao (Spagna) ha ospitato un dibattito tra uno dei più famosi promotori dell'eutanasia e un Vescovo esperto di bioetica.
Si trattava di monsignor Mario Iceta, Vescovo ausiliare di Bilbao, che ha difeso le cure palliative, e dell'anestesista Luis Montes, promotore del “Manifesto Santander per una morte degna”.
Monsignor Iceta, laureato in Medicina, ha parlato della persona umana dal punto di vista “antropologico ed etico” e si è riferito alla malattia come a un “momento di crisi”.
Di fronte alle malattie terminali, ha sottolineato la necessità di una “grande umanità” e ha difeso le cure palliative.
In concreto, ha chiesto di riconoscere la Medicina Palliativa come specializzazione nelle università e di aumentare il numero dei centri dedicati esclusivamente ad assistere i malati incurabili.
Allo stesso modo, ha respinto “l'ostinazione e l'accanimento terapeutico che non riconosce i limiti della medicina” e il “provocare deliberatamente la morte del malato, il che è eutanasia”.
Da parte sua, Luis Montes ha affermato che “bisogna depenalizzare l'eutanasia attiva e la necessaria collaborazione”.
“Esiste un consenso popolare sulla capacità che abbiamo di decidere nelle situazioni limite”, ha osservato, dichiarandosi “laico” e difendendo il suo diritto a morire, “altrimenti la vita è un obbligo”.
L'anestesista si è riferito a situazioni in cui “non vale la pena di vivere”. Il Vescovo ha definito questa espressione “inopportuna” e ha considerato che “nessuno è costretto a soffrire ed è lecito trattare il dolore”, ma che “la vita umana è sempre degna”.
Allo stesso modo, ha sottolineato che “porre fine alla vita in modo deliberato, anche su propria richiesta o nonostante le condizioni di vita, non è la risposta adeguata perché nessuno può disporre della vita di un altro, né della propria”.
L'eutanasia, inoltre, “pone la medicina fuori dal proprio ambito, che è quello di curare”, ha segnalato il presule.
Legge andalusa della morte degna
Luis Montes si è riferito al disegno di legge per i Diritti e le Garanzie della Dignità della Persona nel Processo di Morte in Andalusia, approvato questo lunedì, che proibisce il “prolungare in modo inutile” la vita del paziente quando non si può più curare.
Per l'anestesista, ciò presuppone “un altro passo e un progresso per uscire dall'oscurità e dall'illegalità che noi operatori sanitari abbiamo sempre avuto su un tema così importante come il fine vita”.
Con questa norma, ha aggiunto, “si inizia a delimitare l'obiezione di coscienza dei medici contrari a questo tipo di pratiche”.
Sedazioni irregolari
Montes è noto per essere stato allontanato dal suo incarico dopo essere comparso davanti ai tribunali spagnoli con l'accusa di aver realizzato insieme alla sua équipe sedazioni irregolari nell'Ospedale Severo Ochoa di Leganés (Madrid).
Sulla questione, ha affermato che “c'è stata una confusione provocata, che ha inviato un messaggio di allarme sociale, confondendo la sedazione terminale con l'eutanasia”.
Il Vescovo Iceta ha ricordato che le sedazioni terminali sono accettate dalla Chiesa e ha chiesto che non vengano confuse con l'eutanasia.
“Non cercano la morte, ma il benessere del paziente, anche se hanno come effetto secondario accorciare la sua vita”, ha spiegato.
Secondo quanto ha reso noto a ZENIT la Fondazione Sabino Arana, che ha organizzato il dibattito, la giornata si è divisa in un dialogo a porte chiuse al mattino nell'Hotel Sheraton e in conferenze pubbliche seguite da molti uditori al pomeriggio, nel Palazzo Euskalduna.
L'attività del mattino ha incluso cinque interventi davanti a 40 esperti, tra cui rappresentanti di associazioni pro-vita e del diritto a morire degnamente, medici e magistrati.
Un anno speciale per rimettere i preti a nuovo - L'ha indetto Benedetto XVI per rafforzare l'identità spirituale del clero e anche per ripulirlo dalla "sporcizia". I Legionari di Cristo nell'occhio del ciclone. Sui seminari, l'impietosa diagnosi del segretario della congregazione per l'educazione cattolica - di Sandro Magister
ROMA, 10 giugno 2009 - Tra pochi giorni, venerdì 19, festa del Sacro Cuore di Gesù, avrà inizio lo speciale Anno Sacerdotale voluto da Benedetto XVI.
Le finalità sono state indicate da papa Joseph Ratzinger ai cardinali e vescovi che compongono la congregazione per il clero, riuniti lo scorso 16 marzo in assemblea plenaria.
La congregazione per il clero si chiamava fino al 1967 congregazione "del Concilio". Era stata costituita infatti dopo il Concilio di Trento per curare l'applicazione delle indicazioni conciliari da parte del clero in cura d'anime.
Il profilo di prete delineato dal Concilio di Trento ha caratterizzato la vita della Chiesa cattolica fino alla metà del Novecento. Ne è stato un modello il santo Curato d'Ars, Giovanni Maria Vianney, di cui ricorre il 150.mo anniversario della morte.
Negli ultimi decenni, però, l'identità del prete cattolico si è in varia misura mutata, offuscata, sbriciolata, sotto i colpi della secolarizzazione, fuori e dentro la Chiesa.
L'intento dell'Anno Sacerdotale è appunto quello di ricostruire nel prete una forte identità spirituale, fedele alla sua missione originaria. Ciò comporta anche un'energica opera di eliminazione della "sporcizia" che ha inquinato una parte del clero, quantitativamente limitata ma disastrosa sul piano della sua immagine globale.
A questo proposito va notata una coincidenza. Con l'inizio dell'Anno Sacerdotale avrà inizio anche la visita apostolica ordinata dalle autorità vaticane dentro la congregazione dei Legionari di Cristo. Questa congregazione si distingue per l'abbondanza delle vocazioni e il gran numero di nuovi preti. Nello stesso tempo, però, rischia di crollare così come è già crollata la figura del suo carismatico fondatore, il sacerdote Marcial Maciel, la cui doppia vita gravemente immorale - venuta definitivamente allo scoperto - è diventata oggi un terribile scandalo prima di tutto per quelli che furono i suoi più ferventi discepoli.
Ricostruire l'identità spirituale del clero implica quindi anche una speciale cura della sua formazione. Come i seminari sono stati una pietra miliare della riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento, così oggi è nei seminari che si forgia l'identità dei nuovi preti.
La congregazione del clero non si occupa dei seminari. Prende cura di essi la congregazione per l'educazione cattolica.
Anche quest'ultima, quindi, dovrà operare perché l'Anno Sacerdotale porti frutto. Qualcosa, anzi, ha già fatto, a giudicare dal discorso tenuto dal suo segretario, Jean-Louis Bruguès, ai rettori dei seminari pontifici convenuti a Roma nei giorni scorsi.
Monsignor Bruguès, 66 anni, domenicano, era fino al 2007 vescovo di Angers. Oltre che segretario della congregazione per l'educazione cattolica è vicepresidente della pontificia opera delle vocazioni sacerdotali e membro della commissione per la formazione dei candidati al sacerdozio. È inoltre accademico della pontificia accademia San Tommaso d'Aquino.
Il discorso che ha rivolto ai rettori di seminario non ha nulla del linguaggio curiale. È di una franchezza non comune. Descrive e denuncia senza mezzi termini i guasti del dopoconcilio, in particolare in Europa, compresa l'impressionante ignoranza sui punti elementari della dottrina che oggi si riscontra nei giovani che entrano in seminario.
Questa ignoranza è a tal punto che, tra i rimedi, monsignor Bruguès auspica che si dedichi un anno intero di seminario a far apprendere il Catechismo della Chiesa cattolica.
Il Catechismo "ad parochos" fu un'altra delle pietre miliari della riforma tridentina. Quattro secoli dopo, si è di nuovo lì.
Ecco qui di seguito il discorso del segretario della congregazione per l'educazione cattolica ai rettori dei seminari pontifici, reso pubblico da "L'Osservatore Romano" del 3 giugno 2009:
Formazione al sacerdozio, tra secolarismo e modelli di Chiesa - di Jean-Louis Bruguès
È sempre rischioso spiegare una situazione sociale a partire da una sola interpretazione. Tuttavia, alcune chiavi aprono più porte di altre. Da molto tempo sono convinto del fatto che la secolarizzazione sia diventata una parola-chiave per pensare oggi le nostre società, ma anche la nostra Chiesa.
La secolarizzazione rappresenta un processo storico molto antico, poiché è nato in Francia a metà del XVIII secolo, prima di estendersi all'insieme delle società moderne. Tuttavia, la secolarizzazione della società varia molto da un paese all'altro.
In Francia e in Belgio, per esempio, essa tende a bandire i segni dell'appartenenza religiosa dalla sfera pubblica e a riportare la fede nella sfera privata. Si osserva la stessa tendenza, ma meno forte, in Spagna, in Portogallo e in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, invece, la secolarizzazione si armonizza facilmente con l'espressione pubblica delle convinzioni religiose: l'abbiamo visto anche in occasione delle ultime elezioni presidenziali.
Da una decina d'anni a questa parte è emerso tra gli specialisti un dibattito molto interessante. Sembrava, fino ad allora, che si dovesse dare per scontato che la secolarizzazione all'europea costituisse la regola e il modello, mentre quella di tipo americano costituisse l'eccezione. Ora invece sono numerosi coloro i quali - Jürgen Habermas per esempio - pensano che è vero l'opposto e che anche nell'Europa post-moderna le religioni svolgeranno un nuovo ruolo sociale.
RICOMINCIARE DAL CATECHISMO
Qualunque sia la forma che ha assunto, la secolarizzazione ha provocato nei nostri paesi un crollo della cultura cristiana. I giovani che si presentano nei nostri seminari non conoscono più niente o quasi della dottrina cattolica, della storia della Chiesa e dei suoi costumi. Questa incultura generalizzata ci obbliga a effettuare delle revisioni importanti nella pratica seguita fino ad ora. Ne menzionerò due.
Per prima cosa, mi sembra indispensabile prevedere per questi giovani un periodo - un anno o più - di formazione iniziale, di "ricupero", di tipo catechetico e culturale al tempo stesso. I programmi possono essere concepiti in modo diverso, in funzione dei bisogni specifici di ciascun paese. Personalmente, penso a un intero anno dedicato all'assimilazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che si presenta come un compendio molto completo.
In secondo luogo occorrerebbe rivedere i nostri programmi di formazione. I giovani che entrano in seminario sanno di non sapere. Sono umili e desiderosi di assimilare il messaggio della Chiesa. Si può lavorare con loro veramente bene. La loro mancanza di cultura ha questo di positivo: non si portano più dietro i pregiudizi negativi dei loro fratelli maggiori. È una fortuna. Ci troviamo quindi a costruire su una "tabula rasa". Ecco perché sono a favore di una formazione teologica sintetica, organica e che punta all'essenziale.
Questo implica, da parte degli insegnanti e dei formatori, la rinuncia a una formazione iniziale contrassegnata da uno spirito critico - come era stato il caso della mia generazione, per la quale la scoperta della Bibbia e della dottrina è stata contaminata da uno spirito di critica sistematico - e alla tentazione di una specializzazione troppo precoce: precisamente perché manca a questi giovani il background culturale necessario.
Permettetemi di confidarvi alcune domande che mi sorgono in questo momento. Si ha mille volte ragione di voler dare ai futuri sacerdoti una formazione completa e d'alto livello. Come una madre attenta, la Chiesa desidera il meglio per i suoi futuri sacerdoti. Per questo i corsi si sono moltiplicati, ma al punto di appesantire i programmi in un modo a mio parere esagerato. Avete probabilmente percepito il rischio dello scoraggiamento in molti dei vostri seminaristi. Chiedo: una prospettiva enciclopedica è forse adatta per questi giovani che non hanno ricevuto alcuna formazione cristiana di base? Questa prospettiva non ha forse provocato una frammentazione della formazione, un'accumulazione dei corsi e un'impostazione eccessivamente storicizzante? È davvero necessario, per esempio, dare a dei giovani che non hanno mai imparato il catechismo una formazione approfondita nelle scienze umane, o nelle tecniche di comunicazione?
Consiglierei di scegliere la profondità piuttosto che l'estensione, la sintesi piuttosto che la dispersione nei dettagli, l'architettura piuttosto che la decorazione. Altrettante ragioni mi portano a credere che l'apprendimento della metafisica, per quanto impegnativo, rappresenti la fase preliminare assolutamente indispensabile allo studio della teologia. Quelli che vengono da noi hanno spesso ricevuto una solida formazione scientifica e tecnica - il che è una fortuna - ma la loro mancanza di cultura generale non permette ad essi di entrare con passo deciso nella teologia.
DUE GENERAZIONI, DUE MODELLI DI CHIESA
In numerose occasioni ho parlato delle generazioni: della mia, di quella che mi ha preceduto, delle generazioni future. È questo, per me, il nodo cruciale della presente situazione. Certo, il passaggio da una generazione all'altra ha sempre posto dei problemi d'adattamento, ma quello che viviamo oggi è assolutamente particolare.
Il tema della secolarizzazione dovrebbe aiutarci, anche qui, a comprendere meglio. Essa ha conosciuto un'accelerazione senza precedenti durante gli anni Sessanta. Per gli uomini della mia generazione, e ancor di più per coloro che mi hanno preceduto, spesso nati e cresciuti in un ambiente cristiano, essa ha costituito una scoperta essenziale, la grande avventura della loro esistenza. Sono dunque arrivati a interpretare l'"apertura al mondo" invocata dal Concilio Vaticano II come una conversione alla secolarizzazione.
Così di fatto abbiamo vissuto, o persino favorito, un'autosecolarizzazione estremamente potente nella maggior parte delle Chiese occidentali.
Gli esempi abbondano. I credenti sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie, ma credono alla vita eterna? Le nostre Chiese hanno compiuto un immenso sforzo per rinnovare la catechesi, ma questa stessa catechesi non tende a trascurare le realtà ultime? Le nostre Chiese si sono imbarcate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, sollecitate dall'opinione pubblica, ma quanto parlano del peccato, della grazia e della vita teologale? Le nostre Chiese hanno dispiegato felicemente dei tesori d'ingegno per far meglio partecipare i fedeli alla liturgia, ma quest'ultima non ha perso in gran parte il senso del sacro? Qualcuno può negare che la nostra generazione, forse senza rendersene conto, ha sognato una "Chiesa di puri", una fede purificata da ogni manifestazione religiosa, mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare come processioni, pellegrinaggi, eccetera?
L'impatto con la secolarizzazione delle nostre società ha trasformato profondamente le nostre Chiese. Potremmo avanzare l'ipotesi che siamo passati da una Chiesa di "appartenenza", nella quale la fede era data dal gruppo di nascita, a una Chiesa di "convinzione", in cui la fede si definisce come una scelta personale e coraggiosa, spesso in opposizione al gruppo di origine. Questo passaggio è stato accompagnato da variazioni numeriche impressionanti. Le presenze sono diminuite a vista d'occhio nelle chiese, nei corsi di catechesi, ma anche nei seminari. Anni fa il cardinale Lustiger aveva tuttavia dimostrato, cifre alla mano, che in Francia il rapporto fra il numero dei sacerdoti e quello dei praticanti effettivi era restato sempre lo stesso.
I nostri seminaristi, così come i nostri giovani sacerdoti, appartengono anch'essi a questa Chiesa di "convinzione". Non vengono più tanto dalle campagne, quanto piuttosto dalle città, soprattutto delle città universitarie. Sono cresciuti spesso in famiglie divise o "scoppiate", il che lascia in loro tracce di ferite e, talvolta, una sorta d'immaturità affettiva. L'ambiente sociale di appartenenza non li sostiene più: hanno scelto di essere sacerdoti per convinzione e hanno rinunciato, per questo fatto, ad ogni ambizione sociale (quello che dico non vale dovunque; conosco delle comunità africane in cui la famiglia o il villaggio portano ancora delle vocazioni sbocciate nel loro seno). Per questo essi offrono un profilo più determinato, individualità più forti e temperamenti più coraggiosi. A questo titolo, hanno diritto a tutta la nostra stima.
La difficoltà sulla quale vorrei attirare la vostra attenzione supera dunque la cornice di un semplice conflitto generazionale. La mia generazione, insisto, ha identificato l'apertura al mondo col convertirsi alla secolarizzazione, nei confronti della quale ha sperimentato un certo fascino. I più giovani, invece, sono sì nati nella secolarizzazione, che rappresenta il loro ambiente naturale, e l'hanno assimilata col latte della nutrice: ma cercano innanzitutto di prendere le distanze da essa, e rivendicano la loro identità e le loro differenze.
ACCOMODAMENTO COL MONDO O CONTESTAZIONE?
Esiste ormai nelle Chiese europee, e forse anche nella Chiesa americana, una linea di divisione, talora di frattura, tra una corrente di "composizione" e una corrente di "contestazione".
La prima ci porta a osservare che esistono nella secolarizzazione dei valori a forte matrice cristiana, come l'uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la responsabilità, e che deve essere possibile venire a patti con tale corrente e individuare dei campi di cooperazione.
La seconda corrente, al contrario, invita a prendere le distanze. Ritiene che le differenze o le opposizioni, soprattutto nel campo etico, diventeranno sempre più marcate. Propone dunque un modello alternativo al modello dominante, e accetta di sostenere il ruolo di una minoranza contestatrice.
La prima corrente è risultata predominante nel dopoconcilio; ha fornito la matrice ideologica delle interpretazioni del Vaticano II che si sono imposte alla fine degli anni Sessanta e nel decennio successivo.
Le cose si sono invertite a partire dagli anni Ottanta, soprattutto - ma non esclusivamente - sotto l'influenza di Giovanni Paolo II. La corrente della "composizione" è invecchiata, ma i suoi adepti detengono ancora delle posizioni chiave nella Chiesa. La corrente del modello alternativo si è rinforzata considerevolmente, ma non è ancora diventata dominante. Così si spiegherebbero le tensioni del momento in numerose Chiese del nostro continente.
Non mi sarebbe difficile illustrare con degli esempi la contrapposizione che ho appena descritto.
Le università cattoliche si distribuiscono oggi secondo questa linea di divisione. Alcune giocano la carta dell'adattamento e della cooperazione con la società secolarizzata, a costo di trovarsi costrette a prendere le distanze in senso critico nei confronti di questo o quell'aspetto della dottrina o della morale cattolica. Altre, d'ispirazione più recente, mettono l'accento sulla confessione della fede e la partecipazione attiva all'evangelizzazione. Lo stesso vale per le scuole cattoliche.
E lo stesso si potrebbe affermare, per ritornare al tema di questo incontro, nei riguardi della fisionomia tipica di coloro che bussano alla porta dei nostri seminari o delle nostre case religiose.
I candidati della prima tendenza sono diventati sempre più rari, con grande dispiacere dei sacerdoti delle generazioni più anziane. I candidati della seconda tendenza sono diventati oggi più numerosi dei primi, ma esitano a varcare la soglia dei nostri seminari, perché spesso non vi trovano ciò che cercano.
Essi sono portatori d'una preoccupazione d'identità (con un certo disprezzo vengono qualificati talvolta come "identitari"): identità cristiana - in che cosa ci dobbiamo distinguere da coloro che non condividono la nostra fede? - e identità del sacerdote, mentre l'identità del monaco e del religioso è più facilmente percepibile.
Come favorire un'armonia tra gli educatori, che appartengono spesso alla prima corrente, e i giovani che si identificano con la seconda? Gli educatori continueranno ad aggrapparsi a criteri d'ammissione e di selezione che risalgono ai loro tempi, ma non corrispondono più alle aspirazioni dei più giovani? Mi è stato raccontato il caso di un seminario francese nel quale le adorazioni del Santissimo Sacramento erano state bandite da una buona ventina d'anni, perché giudicate troppo devozionali: i nuovi seminaristi hanno dovuto battersi per parecchi anni perché fossero ripristinate, mentre alcuni docenti hanno preferito dare le dimissioni davanti a ciò che giudicavano come un "ritorno al passato"; cedendo alle richieste dei più giovani, avevano l'impressione di rinnegare ciò per cui si erano battuti per tutta la vita.
Nella diocesi di cui ero vescovo ho conosciuto difficoltà simili quando dei sacerdoti più anziani - oppure intere comunità parrocchiali - provavano una grande difficoltà a rispondere alle aspirazioni dei giovani sacerdoti che erano stati loro mandati.
Comprendo le difficoltà che incontrate nel vostro ministero di rettori di seminari. Più che il passaggio da una generazione ad un'altra, dovete assicurare armoniosamente il passaggio da un'interpretazione del Concilio Vaticano II ad un'altra, e forse da un modello ecclesiale a un altro. La vostra posizione è delicata, ma è assolutamente essenziale per la Chiesa.
Come guardare un palloncino - Pigi Colognesi - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Un’attenta lettrice, mi ha proposto un commento molto interessante sull’editoriale della settimana scorsa, quello su Anna e il palloncino elettorale. Scrive: «Avere una mente aperta, critica, curiosa non è da tutti. Bisogna coltivarla e aver avuto bravi maestri (non solo a scuola) e buoni esempi».
Prima di tutto mi sembra importante intendersi su quel «non è da tutti». Io credo che tutti si venga al mondo con una «mente aperta, critica, curiosa». Proprio questa apertura curiosa, capace di criticare - cioè di vagliare in un paragone con criteri che uno si trova dentro - è quello che fa di un bipede non troppo robusto rispetto a tanti consimili rappresentanti del regno animale un uomo. Del resto qualcuno ha sostento che quell’animale si sia sollevato sulle gambe proprio per poter osservare con più agio attorno a sé (curiosità) e perfino lanciare lo sguardo alla volta stellata (de-sidera: desiderio). Nessun uomo è originariamente privato di questa distintiva caratteristica.
Eppure è facile osservare - non solo negli altri, ma anche in noi stessi - che questa struttura originale può essere coartata, può essere in un certo modo disattivata, resa non operativa. Come uno a cui tenessero sempre legato un braccio: dopo un po’ di tempo non riesce più ad articolare bene il movimento; il braccio ce l’ha ma gli funziona male. Ecco perché quella apertura, come scrive la mia lettrice, «bisogna coltivarla». Si potrebbe dire: «educarla», ma anche la parola «coltivarla» ha una sua particolare forza evocativa. Attenzione: coltivarla e non seminarla; il seme c’è già, come abbiamo detto. E coltivarla significa sostanzialmente due operazioni complementari.
La prima è quella di togliere le erbacce che rischiano di soffocare l’apertura originale. La gramigna sono i preconcetti mai vagliati, le chiusure ormai codificate, lo strapotere dei luoghi comuni, il permanente rumore di sottofondo che non consente di sentire la voce di quell’apertura desiderosa, la paura resa clima esistenziale (un’insegnante mi diceva che la nota che qualifica i suoi allievi è la paura: paura dei rapporti, delle novità, di guardarsi intorno). La gramigna può essere anche un grande dolore, come una gelata improvvisa che sembra uccidere il seme.
A questo proposito Aleksandr Solženicyn nel suo Divisione cancro ha una pagina memorabile. Quando il protagonista, malato di tumore, finalmente guarisce, esce dall’ospedale e si ferma stupefatto di fronte a un albicocco in fiore. L’aveva visto tante volte dalle finestre della camerata, ma ora quell’albero, coi fiori luccicanti di rugiada, egli lo guarda in modo nuovo e la commozione dell’esistenza di quel semplice albero lo fa sentire come se fosse il primo uomo il primo giorno della creazione.
Tolte le erbacce - ed è operazione mai finita perché rinascono sempre - bisogna nutrire il seme. Qui entrano in campo «i buoni maestri e i buoni esempi». È vero. Non si coltiva quell’apertura originaria ragionandoci su; si ha bisogno di vedere persone aperte, persone che insegnino a guardare, educatori (forse anche per questo la Conferenza Episcopale Italiana ha individuato nell’educazione il tema della propria pastorale per tutto il prossimo decennio).
Occorrono maestri/testimoni che introducano all’esperienza che, nel dramma teatrale di Oscar Millosz, ha fatto Miguel Mañara dopo l’incontro con Girolama: «Voi avete acceso una lampada nel mio cuore; ed eccomi come il malato che s’addormenta nelle tenebre, con la brace della febbre sulla fronte ed il gelo dell’abbandono nel cuore, che poi si risveglia di soprasalto in una bella camera in cui ogni cosa è immersa nella musica discreta della luce. Perché non ho appreso prima di avere l’anima buona?».
MANIFESTO CDO/ 1. Una scuola che parla al futuro: idee per una rivoluzione - Redazione - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Con un approccio nuovo e veramente significativo il documento che la Compagnia delle Opere dedica alla scuola, e che qui presentiamo, evidenzia la stretta connessione che intercorre tra il tema educazione e il tema istruzione.
Le proposte che qui vengono avanzate per un cambiamento del sistema scolastico sono per lo più riconosciute e condivise dai migliori centri di studio e di approfondimento sul tema istruzione, quali l’Associazione TreeLLLe, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, la Fondazione Agnelli ecc.
I punti sono noti: autonomia (nuova governance) e parità, contro lo statalismo ipercentralista; reale valutazione del sistema scolastico; nuova professionalità e carriera per i docenti; personalizzazione dei percorsi; abolizione del valore legale del titolo di studio. Sono tutti punti essenziali, la cui importanza è anche in un certo senso sistemica: una cosa senza l’altra (ad esempio, autonomia senza valutazione) sarebbe una cosa fatta a metà, e quindi fatta male. A tutti questi temi il nostro giornale ha già dedicato moltissimi interventi di approfondimento e continuerà a farlo.
Il punto caratterizzante del documento è un altro: non solo la centralità del tema educazione, ma la diretta consequenzialità e correlazione tra la tensione educativa e la ricerca di risposte concrete a livello di sistema di istruzione. Non c’è educazione che non entri nel merito anche delle scelte concrete, sia nella didattica che nella politica scolastica; e d’altro canto parlare di istruzione senza porsi il problema educativo sarebbe ridurre tutto a un vacuo tecnicismo utopistico. Non si creerà mai un sistema talmente perfetto da rendere superfluo il rapporto educativo tra docente e studente, elemento centrale della scuola; ma non si darà mai vera incidenza alla tensione educativa se la si lascerà a lato delle problematiche della scuola (riducendola di fatto a ciò che è lo svago del sabato sera rispetto alla settimana lavorativa).
Nel documento “Una scuola che parla al futuro” è segnata una stretta interdipendenza tra i due aspetti. Basta confrontare i punti essenziali alla voce “Educazione” e le proposte programmatiche, e si vedrà che dai primi discendono le seconde: quando si dice che «la prima condizione che realizza l’educazione è la presenza di figure adulte autorevoli» significa, di conseguenza, che è necessario che ci siano «docenti e dirigenti come veri professionisti» (d’altronde, finché lo studente continuerà a guardare al professore come a un fallito nella scala sociale tutto resterà molto difficile); quando si dice che «l’autorevolezza deriva dalla partecipazione ad un cammino unitario di costruzione del proprio io» e che «gli alunni non sono da intendere come il terminale astratto di iniziative che li vedono passivi», ne deriva la necessità di avere «percorsi di studio flessibili e personalizzati». E così via. Le esigenze educative si concretano in scelte di politica scolastica, che non saranno mai la soluzione perfetta, ma permetteranno o di facilitare il processo educativo, o quanto meno (e già sarebbe molto!) di non ostacolarlo.
Questa è dunque la grande sfida che questo documento lancia nel dibattito sulla scuola. In un momento in cui, per altro, l’emergenza educativa è sempre più evidente e centrale. In questo senso, le molte indagini e ricerche (alcune recentissime) che testimoniano la totale indifferenza degli studenti verso la loro esperienza scolastica sono un dato drammatico e ineludibile: i docenti non sono un punto di riferimento, né umano né culturale; le cose che contano veramente le si imparano altrove; la scuola non è né buona né cattiva, ma semplicemente indifferente, perché da essa non ci si aspetta nulla. Ecco come educazione e istruzione vengono allora a coincidere: nel momento in cui ci si rende pienamente conto che, come fu detto autorevolmente, non c’è cosa più assurda della risposta a una domanda che non si pone. Far emergere la domanda di sapere e conoscenza è compito educativo, che si realizza dentro un’autorevole e riconosciuta professionalità didattica che abbia come fine l’istruzione.
Un ultimo appunto, che rende particolarmente importante e attuale il documento Cdo: proprio in questi giorni l’Assemblea della Conferenza episcopale italiana ha rilanciato il tema educazione come tema del prossimo decennio. Significa che c’è una grande responsabilità, non solo per i cattolici, e un impegno per tutti, in termini di riflessione, approfondimento, lavoro concreto: l’educazione e la scuola dovranno essere i pilastri del dibattito politico-culturale nei prossimi anni.
INTERCETTAZIONI/ Il ddl tutela non solo le indagini, ma anche le persone. E a sinistra qualcuno l’ha capito - Renato Farina - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Per la prima volta nella storia della Repubblica ci sono stati i franchi tiratori all’incontrario. Franchi specialmente con la loro coscienza. Il loro voto non serviva, a rigor di logica. La legge sarebbe passata lo stesso. E allora come si spiega questa faccenda? Un’idea l’ho: c’è stato un sussulto di coscienza, una ribellione rispetto all’invasione senza regole né rispetto da parte della magistratura e subito dopo dei giornali che pubblicano e distruggono la gente rovinandone la reputazione per il gusto di farlo o per ragioni di avversione politica.
Sto parlando della legge sulle intercettazioni telefoniche, ovvio. Ieri è passata alla Camera e dovrà essere definitivamente approvata al Senato. È andata così: siccome c’è di mezzo una questione delicata e con implicazioni eticamente sensibili si è votato segretamente. La sinistra sperava in un ribaltamento, visto che solo Dio vedeva. Ecco. Ventuno deputati dell’opposizione hanno votato con la maggioranza. Hanno liberato le mani dai legacci e dal ricatto di partito e delle lobby che se non obbedisci loro ti mettono in croce (quella dei giornalisti e quella dei forcaioli, oltre che quella più cospicua che è la magistratura).
Un paradosso simpatico. Si pensi che le sinistre e (in parte) anche l’Udc hanno motivato la loro opposizione alla legge sostenendo che non ci sarebbe stata più la possibilità di investigare, e soprattutto che questa legge legherà le mani ai cronisti, soffocherà la libertà di esprimersi, ucciderà l’articolo 21 della Costituzione che garantisce la libertà di pensiero e di parola. E il cui primo paragrafo dice: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. I poveri 21 onorevoli di sinistra hanno dovuto agire in segreto, impossibilitati a dire davvero ciò che sentono in coscienza. A loro in fondo è stato impedito di esercitare in pienezza il diritto sancito dall’articolo 21 (ironia del numero 21).
Il lamento della sinistra è dunque duplice. I delinquenti potranno agire impunemente. Inoltre, siccome ora non si potranno più pubblicare intercettazioni prima del processo né in alcun caso conversazioni non attinenti a reati, si dice che la Costituzione è violata, e oltre alla giustizia è morta anche l’informazione.
In realtà c’è un articolo che in Italia non è mai trattato con il peso che dovrebbe avere. L’articolo 15, che tutela la riservatezza delle comunicazioni. Dice: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”.
Ecco, questa legge stabilisce quali motivazioni debba dare l’autorità giudiziaria per violare libertà e segretezza delle comunicazioni, e stabilisce garanzie anche per chi questa violazione deve subire per ragioni di giustizia (tipo non buttare in piazza tutto; tipo limitare a 60 giorni).
Molti hanno sottolineato le spese folli di queste intercettazioni (quasi 500 milioni di euro l’anno), il numero spaventoso di intercettati (sono milioni i tabulati analizzati, e i tabulati consentono di seguire i movimenti e le relazioni del proprietario del telefono). Ora accade questo oggi: non solo è violato l’articolo 15 della Costituzione. È violato proprio l’articolo 21, perché questa quantità enorme di intercettazioni, e la probabilità niente affatto piccola di essere ascoltati da altri, e per di più poi trasformati in spettacolo per i clienti dei giornali e delle tivù, induce molti a non esprimersi liberamente, a limitare la propria libertà sulla base della paura di essere ascoltati, equivocati, sorpresi in confidenze, eccetera eccetera.
Adesso, questa legge, quando passerà al Senato, ci darà un po’ più di respiro, ripristinerà il diritto della persona come superiore al diritto del collettivo, della massa a cui offrire in pasto l’intimità di singoli più o meno impotenti, ma comunque in quel momento colpiti a tradimento.
SHOAH/ Il miracolo di Anna Frank: l’esperienza di un dolore che non diventa ideologia - INT. Ugo Volli - venerdì 12 giugno 2009 – ilsussidiario.net
Oggi sarebbe l’ottantesimo compleanno di Anna Frank e il 67mo del suo “diario”. La ragazza lo ricevette infatti come regalo per il suo tredicesimo genetliaco e da allora scrisse ininterrottamente fino al suo arresto da parte della Gestapo, riportando la cronaca degli ultimi suoi anni di vita e della trasformazione dell’Europa in un incubo. Confinata in una soffitta con un folto numero di familiari e persone appartenenti al suo stesso popolo Anna Frank è divenuta testimone non solo dell’Olocausto, ma dell’irriducibile capacità di sperare insita in tutti gli uomini.
Prendendo spunto da questa importante ricorrenza abbiamo chiesto al professor Ugo Volli di commentare da una parte la fortuna di quest’opera e dall’altra di aiutarci a capire la radice di un odio, quello antisemita, che purtroppo sembra ancora oggi non essersi placato.
Ci sono varie opere che raccontano dell’orrore della Shoah tanto che si può parlare a pieno titolo di “letteratura dell’Olocausto”. Come mai fra queste ha avuto così tanto successo il diario di Anna Frank?
Sono fermamente convinto che la prima ragione risieda in un fattore emotivo, non per questo puerile: ossia il fatto che si tratti di una ragazzina. A questo si unisce la forma del diario che per sua natura acquista un’irripetibile connotazione di concretezza per i fatti che si susseguono, per quell’orrore che l’Europa vedeva accadere giorno per giorno. Nel diario di Anna Frank non si assiste a una teorizzazione del male nazista, bensì a una registrazione quotidiana degli effetti di questo male. Questo ha contribuito a una diffusione più semplice e capillare negli strati culturali europei del dopoguerra, quando cioè si cominciarono a giudicare i crimini compiuti dal nazismo.
Inoltre desta fascino, se così si può definire, l’idea che in quest’opera non venga descritto l’abominio dei campi di concentramento, come invece avviene per esempio nell'opera di Primo Levi, bensì piuttosto l’ansia, l’attesa, il nascondersi dalla shoah. Sicuramente anche questo particolare “stato” di vita descritto nelle pagine di Anna Frank contribuì a commuovere le generazioni che hanno letto il diario.
Per molto tempo è sembrato che il patrimonio di testimonianze e di scritti lasciato dal popolo ebraico sia stato esclusivo appannaggio, almeno in Italia, di alcune correnti politiche. È d’accordo con questo tipo di lettura?
La questione posta è duplice. Da un lato infatti ci si può chiedere se c’è stato un uso della sinistra, tanto per parlar chiaro, sui temi del nazismo e dell’olocausto. D’altro canto ci si può porre la domanda se la sofferenza passata dal popolo ebraico possa davvero appartenere a qualcuno di diverso. La risposta a questo secondo quesito è certamente no. È chiaro che una storia di questo tipo appartiene in primo luogo alle sue vittime e di riflesso all’umanità, quindi non deve avere una strumentalizzazione di parte. Venendo dunque al primo interrogativo direi che sicuramente ci sono stati numerosi tentativi di strumentalizzare, ma, al contempo, anche di “addormentare”. Se si pensa per esempio al monumento italiano ad Auschwitz, custodito dall’ANED, ci si può rendere conto che questo è portatore di un significato che rischia di cadere in un’idea generalista. Si parla di vittime in maniera generica, appunto astraendo, al contrario di Anna Frank che era in primo luogo una persona concreta e che riferiva fatti concreti. Il rischio è quello di dimenticare un fatto autentico avvenuto nei confronti di un popolo, si dimenticano le cause e i motivi, si sottovaluta il carattere di volontà di distruzione del popolo ebraico.
Questo tipo di strumentalizzazione e di dimenticanza danneggia ancora oggi il popolo ebraico?
Ho la sensazione, e parlo da appartenente a quel popolo, che da un lato sia avvenuta una specie di santificazione collettiva per la quale tutti ripensando alle vittime dei campi di concentramento nazisti si sentono commossi. Oggi come oggi nessuno , a parte qualche nazista fanatico come quello che l’altro giorno ha sparato all’interno del museo della Shoah americana, si sentirebbe di appoggiare quanto avvenuto ad Auschwitz. E questo ovviamente è sacrosanto.
Va denunciata però una questione, ossia il manifestarsi di un fenomeno per il quale quando si parla di “ebrei vivi” le cose diventano diverse. Quando c’è chi in qualche modo si ripropone di compiere un percorso analogo a quello che ha condotto alla Shoah, come l’Iran di Ahmadinejad, il coro di persone commosse non è più così unanime e non è certo la sinistra a difenderci. Questo è sintomo proprio di quell’assenza di riferimenti concreti che dicevo prima.
Senza avere la pretesa di chiedere una “ricetta universale”, esiste a suo avviso un metodo per fare memoria in maniera davvero efficace e il meno possibile mistificante?
È molto difficile rispondere a una domanda come questa in effetti. Sono ad esempio molto perplesso su celebrazioni come la Giornata della Memoria, per le motivazioni sopra spiegate. Si ripete il rischio di inflazione su questo tema, come si è visto nello sfruttamento cinematografico infinito che ne è stato fatto. C’è il rischio di stancare e diventare celebrativi in maniera solo esteriore.
Io credo che si tratti invece di rendersi conto che non c’è stata una specie di gesto di follia e di pura malvagità al di fuori di ogni contesto. Credo che la cosa migliore per capire sia studiare la storia e approfondire fatti e complicità. Il solo richiamo a una memoria viva è in questo tipo di iniziative.
Quindi lei sostiene che il male verificatosi con la Shoah non possa essere ascrivibile soltanto a un determinato periodo storico?
Sì, ma non solo “storico”. Hitler ha avuto una serie di ammiratori in giro per il mondo, da Ford a Lindbergh.
Forse erano entrambi in buona fede. Questo significa che il problema non è quello di isolare un fenomeno ritenendolo superato e superabile sotto diversi punti di vista, ma individuare come il male prenda o possa prendere piede ancora oggi in comportamenti collettivi, il rischio è quindi proprio quello di definire come “isolata” la follia nazista e sentirsi a posto una volta che la si è condannata, esenti dal rischio di poter compiere un male analogo.
Fare teatro in carcere cosa significa? - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 11 giugno 2009
Ricordandomi di avere fatto parte di un gruppo teatrale carcerario, mi viene da dire che a volte il teatro entra in carcere esclusivamente per intrattenere e divertire, infatti molti spettacoli hanno avuto come unico obiettivo il gioco, l’animazione, senza che fosse richiesta alcuna professionalità, o vi fosse interesse ad ottenerla.
Il carcere può essere visto come un laboratorio in cui gli attori, in quanto dilettanti, risultano capaci di esprimere un’autenticità raramente rinvenibile in un professionista, una spontaneità e un’immediatezza che si fa evidente nei lapsus, negli scherzi, negli approcci.
La stessa genuinità che possiede probabilmente qualunque uomo della strada, dal momento in cui si trasforma in attore.
Il detenuto infatti anche se recita “dentro”, è il frutto di un “fuori”, che non può essere dissolto solo perché segregato e nascosto.
L’uomo della strada e l’uomo privato della libertà che si trasformano in attori non professionisti sono però divisi da una condizione imprescindibile: la reclusione.
La differenza diventa la forza e la magia del teatro in carcere, e si manifesta nel carico di “energie” che viene riversato sulla scena, un condensato di sofferenza e frustrazione, forzatamente compresso e coartato.
Per cui è possibile servire al teatro in quanto portatori di una umanità modificata dalla restrizione, che ricerca ed esalta le differenze, esprimendo, attraverso il lavoro, una potenza drammatica maggiore.
Recitare un testo teatrale offre un doppio sostegno a chi è in una cella a scontare la propria pena, permette il libero flusso di emozioni e sentimenti rimossi e repressi dalla contenzione carceraria e spinge alla cooperazione, alla solidarietà, allo scambio con gli altri.
La memoria e il dialogo sono tra i pochi mezzi efficaci per resistere alla quotidiana e progressiva corrosione di sé.
Qualsiasi rappresentazione teatrale migliora gli uomini e la dimensione in cui vivono, operando con modalità opposte dove è contenuta, collettive anziché individualizzatrici, coinvolgenti anziché segreganti, portatrici di arricchimento affettivo e artistico, anziché di coazione a ripetere.
Fare teatro può significare che l’uomo della pena riscatti temporaneamente il suo “involontario” isolamento, smettendo di mimetizzarsi, iniziando a narrare, a narrarsi.
Ma forse è anche il caso di chiederci oltre a quale significato dare al teatro in carcere, se l’ impossibilità a ristrutturare le fondamenta di questa istituzione, è confermata attraverso l’impegno teatrale o le buone intenzioni di qualche operatore o di un paio di direttori.
Alla domanda iniziale mi viene da rispondere che fare teatro in carcere consente di vedere la differenza tra significato e funzione, affinché non sia visto in termini di efficienza, di servizio utile in quanto terapeutico, pedagogico, ricreativo… ma tale in quanto terapia, pedagogia, ricreazione sono in sé valori del teatro.
Per buon ultimo, fare teatro in carcere non vuol dire creare false illusioni, l’uso di fantasticherie e sogni per evadere in altri spazi e in altri tempi, o in altri corpi, come può farci rammentare il falso benessere suscitato dalle droghe, tutte.
Come qualcuno ci ha lasciato detto “fare teatro in carcere riesce ad avere senso soltanto quando il teatro stesso se ne avvantaggia: non quando resta prigioniero”.
CATTOLICI E SOCIETÀ - Le domande sul senso della vita, la felicità e la sofferenza che stanno nel cuore di ogni uomo. E le risposte che il cristianesimo propone. Il presidente della Commissione Cei per la dottrina della fede illustra obiettivi e contenuti della 'Lettera ai cercatori di Dio' - DA ROMA SALVATORE MAZZA – Avvenire, 12 giugno 2009
A tutti coloro « che hanno nel cuore la domanda della felicità » . E dunque, in fondo, a tutti. A chi cerca Dio non conoscendolo, e a chi crede in lui.
Sono questi i destinatari della
Lettera ai cercatori di Dio che la Commissione episcopale per la Dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi diffonde oggi, e che pubblichiamo integralmente come inserto del giornale. « Una proposta di riflessione ai pensanti – spiega in questa intervista monsignor Bruno Forte, arcivescovo di ChietiVasto e presidente della Commissione Cei che ha redatto la
Lettera – e una sorta di sfida e di provocazione a quelli che fuggono la fatica del pensiero e della ricerca » . Uno strumento che si propone « come qualcosa di nuovo » , perché « in effetti – osserva Forte – noi abbiamo tante forme di proposta catechistica, ma forse mancava uno strumento per il primo annuncio come questo » .
Chi sono oggi i ' cercatori di Dio'?
Tutti coloro che hanno nel cuore la domanda della felicità, perché la felicità nell’attesa più profonda del cuore umano non può essere che un amore assoluto, un amore senza riserve, che ci avvolga totalmente: chi crede riconosce tutto questo in Dio. Ecco perché nella definizione di ' cercatori di Dio' non si comprendono soltanto quelli che cercano Dio non conoscendolo, ma anche i credenti, che anche nell’esperienza della fede restano assetati di felicità, di amore assoluto. Proprio per questo quella formula accomuna tutti, perfino gli indifferenti, quelli che sembrano distratti, lontani, e che però non possono non sentire nel cuore il desiderio di una vita piena, ricca di felicità. Così questa Lettera si rivolge veramente a tutti, agli uni come corrispondenza a una domanda del cuore, alla nostalgia di Dio, nostalgia di bellezza che è in noi; agli altri, ' non cercatori apparenti', con la speranza di suscitare domande, attese, desiderio.
Oggi sappiamo che c’è una grande richiesta di ' religioso', è quasi diventato anche questo un fenomeno consumistico con una molteplicità di ' offerta'. Rispetto a questo fenomeno, come si colloca la Lettera?
Il cosiddetto ' ritorno di Dio' in realtà è un fenomeno complesso.
Da una parte c’è certamente la domanda vera e profonda di quanti sono pensosi e alla ricerca di un senso ultimo della vita e della storia, capace di dare colore alla fatica dei giorni; sono quei cercatori di speranza, di cui parla per esempio la Spe salvi di Benedetto XVI, alludendo al bisogno di speranza che c’è in tutti noi. C’è però anche una forma di questo ' ritorno di Dio', che è una sorta di ricerca di sicurezza, di consolazione a buon mercato.
Evidentemente la Lettera, proprio in quanto parte dalle domande vere, inquieta questo tipo di possibili destinatari, nel senso che li stimola a non accontentarsi di certezze facili, di consolazioni di comodo. In questo senso vorrebbe al tempo stesso essere una proposta di riflessione ai pensanti e una sorta di sfida e di provocazione a quelli che fuggono la fatica del pensiero e della ricerca. Proprio così essa ha bisogno di essere mediata da testimoni, proposta come strumento di un primo annuncio a quelli che sono in ricerca pensosa, non negligente, ma anche in modo diverso a quelli che bisogna svegliare alla ricerca e dunque all’apertura del cuore al possibile incontro con Dio.
In che modo questa Lettera si propone come strumento anche per la comunità?
In due sensi. Il primo in quanto tutti siamo destinatari di una riflessione data dalle domande che ci accomunano tutti, felicità e sofferenza, amore e fallimenti, lavoro, festa, giustizia e pace, la stessa sfida di Dio, sono interrogativi rispetto ai quali nessuno di noi può sentirsi estraneo o lontano. Nello stesso tempo però, nel rivolgersi alla comunità cristiana, la Lettera interpella anche gli operatori pastorali, quelli che in modo speciale si consacrano all’annuncio del Vangelo di Gesù, perché nelle loro mani essa diventa un ponte di dialogo e di amicizia possibile con tutti i cercatori di Dio, e anche una via per accendere o stimolare domande in quelli che sembrano invece fuggirle, sempre all’insegna del rispetto e dell’amicizia per tutti. Così, questo testo vorrebbe anche esprimere il volto di una Chiesa amica, vicina alla complessità della nostra condizione umana, nei suoi risvolti più alti, inquieti, pensosi, ma anche in quelli umili e quotidiani, a volte negligenti e stanchi come spesso ci capita d’incontrare nell’esperienza umana.
Con tutto ciò, come inquadrebbe questo documento?
Questa Lettera si rivela come qualcosa di nuovo.
In effetti noi abbiamo tante forme di proposta catechistica, ma forse mancava uno strumento per il primo annuncio come questo. Uno strumento, cioè, che non voglia dire tutto del cristianesimo, ma si concentri sul messaggio centrale e sulle vie concrete per farne esperienza – la preghiera la Parola di Dio, i sacramenti, l’amore, il desiderio della vita eterna e della bellezza divina – partendo dalle domande del cuore umano e della società in cui ci troviamo. In questo senso l’auspicio dei vescovi è di aver offerto alla Chiesa in Italia uno strumento che possa aiutare i cercatori di Dio a fare un passo avanti nell’esperienza del suo volto, e quanti non lo ricercano a svegliarsi, a essere in qualche modo stimolati a questa ricerca su cui si gioca la verità e la bellezza della vita.
Un pensatore ebreo molti anni fa mi diceva: ' Vivere è cercare Dio, vivere veramente è trovare Dio'. La Lettera vorrebbe essere uno strumento per aiutarci a vivere e a vivere veramente.
Il documento si rivolge a tutti: agli uni come corrispondenza a una domanda del cuore, alla nostalgia di Dio, nostalgia di bellezza che è in noi; agli altri, non cercatori apparenti, con la speranza di suscitare domande, attese, desiderio
In alto, ' Il viandante sopra un mare di nebbia': questo dipinto di Caspar David Friedrich ( 1817) evoca la posizione dell’uomo di fronte all’infinito e al mistero, a una realtà che trascende la sua capacità di comprensione e da cui è al tempo stesso affascinato
Questo testo vuole esprimere il volto di una Chiesa amica, vicina alla complessità della condizione umana, nei suoi risvolti più alti, ma anche in quelli umili e quotidiani