Nella rassegna stampa di oggi:
1)CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL’ENCICLICA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI DAL TITOLO: "CARITAS IN VERITATE" , 07.07.2009
2)Sintesi dell'Enciclica sociale di Benedetto XVI - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 7 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la sintesi non ufficiale dell'Enciclica di Benedetto XVI, “Caritas in Veritate”, distribuita dalla Sala Stampa vaticana.
3)"Caritas in veritate". Pagine scelte - Antologia della terza enciclica di questo pontificato, firmata dal papa il 29 giugno 2009 e resa pubblica il 7 luglio di Benedetto XVI
4) Quando la sofferenza è finestra per l’amore e la fede - Intervista al moderatore generale dei Silenziosi Operai della Croce - di Antonio Gaspari - ROMA, martedì, 7 luglio 2009 (ZENIT.org).- Il cristianesimo è veramente una religione originale: la sofferenza, da tutti temuta e respinta, acquista un senso nella parabola cristiana ed è indicata da Gesù Cristo come la via preferita da Dio per arrivare alla salvezza.
5) ENCICLICA/ 1. Zamagni: diciotto anni dopo la Chiesa non gioca in difesa ma va all’attacco - INT. Stefano Zamagni - mercoledì 8 luglio 2009 – ilsussidiario.net
6) MANIFESTO CDO/ È la carenza di “veri” adulti nella scuola la causa dell’emergenza educativa - Daniela Notarbartolo mercoledì 8 luglio 2009 – ilsussidiario.net
7)L’AUDACIA PAPALE STA NELLA SUA VISIONE - IN GIOCO LE CATEGORIE PER RIPENSARE IL SENSO DELL’UMANO - FRANCESCO BOTTURI – Avvenire, 8 luglio 2009
CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL’ENCICLICA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI DAL TITOLO: "CARITAS IN VERITATE" , 07.07.2009
Intervento dell'Em.mo Card. Renato Raffaele Martino, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace
La Caritas in veritate è la terza enciclica di Benedetto XVI ed è un’enciclica sociale. Essa si inserisce nella tradizione delle encicliche sociali che, nella loro fase moderna, siamo soliti far iniziare con la Rerum novarum di Leone XIII ed arriva dopo 18 anni dall’ultima enciclica sociale, la Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Quasi un ventennio ci separa quindi dall’ultimo grande documento di dottrina sociale. Non che in questo ventennio l’insegnamento sociale dei Pontefici e della Chiesa si sia ritirato in secondo piano. Si pensi per esempio al Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace nel 2004 o all’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI che contiene una parte centrale espressamente dedicata alla Dottrina sociale della Chiesa e che io, a suo tempo, ho definito una "piccola enciclica sociale". Si pensi soprattutto al magistero ordinario di Benedetto XVI, su cui tornerò tra poco. La scrittura di una enciclica, però, assume un valore particolare, rappresenta un sistematico passo in avanti dentro una tradizione che i pontefici assunsero in sé non per spirito di supplenza ma con la precisa convinzione di rispondere così alla loro missione apostolica e con l’intento di garantire alla religione cristiana il "diritto di cittadinanza" nella costruzione della società degli uomini.
Perché una nuova enciclica? Come sappiamo, la Dottrina sociale della Chiesa ha una dimensione che permane ed una che muta con i tempi. Essa è l’incontro del Vangelo con i problemi sempre nuovi che l’umanità deve affrontare. Questi ultimi cambiano, ed oggi lo fanno ad una velocità sorprendente. La Chiesa non ha soluzioni tecniche da proporre, come anche la Caritas in veritate ci ricorda, ma ha il dovere di illuminare la storia umana con la luce della verità e il calore dell’amore di Gesù Cristo, ben sapendo che "se il Signore non costruisce la casa invano si affannano i costruttori".
Se ci guardiamo indietro nel tempo e ripercorriamo questi vent’anni che ci separano dalla Centesimus annus ci accorgiamo che grandi cambiamenti sono avvenuti nella società degli uomini.
Le ideologie politiche, che avevano caratterizzato l’epoca precedente al 1989, sembrano aver perso di virulenza, sostituite però dalla nuova ideologia della tecnica. In questi venti anni, le possibilità di intervento della tecnica nella stessa identità della persona si sono purtroppo sposate con un riduzionismo delle possibilità conoscitive della ragione, su cui Benedetto XVI sta impostando da tempo un lungo insegnamento. Questo scostamento tra capacità operative, che ormai riguardano la vita stessa, e quadro di senso, che si assottiglia sempre di più, è tra le preoccupazioni più vive dell’umanità di oggi e, per questo, la Caritas in veritate lo ha affrontato. Se nel vecchio mondo dei blocchi politici contrapposti la tecnica era asservita all’ideologia politica ora, che i blocchi non ci sono più e il panorama geopolitico è di gran lunga cambiato, la tecnica tende a liberarsi da ogni ipoteca. L’ideologia della tecnica tende a nutrire questo suo arbitrio con la cultura del relativismo, alimentandola a sua volta. L’arbitrio della tecnica è uno dei massimi problemi del mondo d’oggi, come emerge in maniera evidente dalla Caritas in veritate.
Un secondo elemento distingue l’epoca attuale da quella di venti anni fa: l’accentuazione dei fenomeni di globalizzazione determinati, da un lato, dalla fine dei blocchi contrapposti e, dall’altro, dalla rete informatica e telematica mondiale. Iniziati nei primi anni Novanta del secolo scorso, questi due fenomeni hanno prodotto cambiamenti fondamentali in tutti gli aspetti della vita economica, sociale e politica. La Centesimus annus accennava al fenomeno, la Caritas in veritate lo affronta organicamente. L’enciclica analizza la globalizzazione non in un solo punto, ma in tutto il testo, essendo questo un fenomeno, come oggi si dice, "trasversale": economia e finanza, ambiente e famiglia, culture e religioni, migrazioni e tutela dei diritti dei lavoratori; tutti questi elementi, ed altri ancora, ne sono influenzati.
Un terzo elemento di cambiamento riguarda le religioni. Molti osservatori notano che in questo ventennio, pure a seguito della fine dei blocchi politici contrapposti, le religioni sono tornate alla ribalta della scena pubblica mondiale. A questo fenomeno, spesso contraddittorio e da decifrare con attenzione, si contrappone un laicismo militante, e talvolta esasperato, che tende ad estromettere la religione dalla sfera pubblica. Ne discendono conseguenze negative e spesso disastrose per il bene comune. La Caritas in veritate affronta il problema in più punti e lo vede come un capitolo molto importante per garantire all’umanità uno sviluppo degno dell’uomo.
Un quarto ed ultimo cambiamento su cui voglio soffermarmi è l’emergenza di alcuni grandi Paesi da una situazione di arretratezza, che sta mutando notevolmente gli equilibri geopolitici mondiali. La funzionalità degli organismi internazionali, il problema delle risorse energetiche, nuove forme di colonialismo e di sfruttamento sono anche collegate con questo fenomeno, positivo in sé, ma dirompente e che ha bisogno di essere bene indirizzato. Torna qui, impellente, il problema della governance internazionale.
Queste quattro grandi novità, emerse nel ventennio che ci separa dall’ultima enciclica sociale, novità rilevanti che hanno cambiato in profondità le dinamiche sociali mondiali, basterebbero da sole a motivare la scrittura di una nuova enciclica sociale. All’origine della Caritas in veritate, c’è, però, un altro motivo che non vorrei venisse dimenticato. Inizialmente la Caritas in veritate era stata pensata dal Santo Padre come una commemorazione dei 40 anni della Populorum progressio (PP) di Paolo VI. La redazione della Caritas in veritate ha richiesto più tempo e quindi la data del quarantennio della Populorum progressio – il 2007 – è stato superato. Ma questo non elimina l’importante collegamento con l’enciclica paolina, evidente già dal fatto che la Caritas in veritate viene detta una enciclica "sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità". Collegamento evidente, poi, per il primo capitolo dell’enciclica, che è dedicato proprio a riprendere la Populorum progressio, ed a rileggerne l’insegnamento dentro il magistero complessivo di Paolo VI. Il tema della Caritas in veritate non è lo "sviluppo dei popoli", ma "lo sviluppo umano integrale", senza che questo comporti una trascuratezza del primo. Si può dire, quindi, che la prospettiva della Populorum progressio venga allargata, in continuità con le sue profonde dinamiche.
Credo che non vada dimenticato che la Caritas in veritate dimostra con chiarezza non solo che il pontificato di Paolo VI non ha rappresentato nessun "arretramento" nei confronti della Dottrina sociale della Chiesa, come troppo spesso si è detto, ma che questo Papa ha contribuito in modo significativo ad impostare la visione della Dottrina sociale della Chiesa sulla scia della Gaudium et spes e della tradizione precedente ed ha costituito le basi, su cui si è poi potuto inserire Giovanni Paolo II. Non deve sfuggire l’importanza di queste valutazioni della Caritas in veritate, che eliminano tante interpretazioni che hanno pesato – e tuttora pesano – sull’utilizzo della Dottrina sociale della Chiesa e sulla stessa idea della sua natura ed utilità. La Caritas in veritate mette bene in luce come Paolo VI abbia strettamente collegato la Dottrina sociale della Chiesa con la evangelizzazione (Evangelii nuntiandi) ed abbia previsto l’importanza centrale che avrebbero assunto nelle problematiche sociali i temi legati alla procreazione (Humanae vitae).
La prospettiva di Paolo VI e gli spunti della Populorum progressio sono presenti in tutta la Caritas in veritate e non solo nel primo capitolo, espressamente dedicato a ciò. A parte l’utilizzo di alcuni spunti particolari relativi alle problematiche specifiche dello sviluppo dei Paesi poveri, la Caritas in veritate fa proprie tre prospettive di ampio respiro, contenute nell’enciclica di Paolo VI. La prima è l’idea che «il mondo soffre per mancanza di pensiero» (PP [Populorum progressio] 85). La Caritas in veritate sviluppa questo spunto articolando il tema della verità dello sviluppo e nello sviluppo fino a sottolineare l’esigenza di una interdisciplinarietà ordinata dei saperi e delle competenze a servizio dello sviluppo umano. La seconda è l’idea che "Non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto" (PP. 42) ed anche la Caritas in veritate si muove nella prospettiva di un umanesimo veramente integrale. Il traguardo di uno sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini è ancora davanti a noi. La terza è che all’origine del sottosviluppo c’è una mancanza di fraternità (PP 66). Anche Paolo VI faceva appello alla carità e alla verità quando invitava ad operare «con tutto il loro cuore e tutta la loro intelligenza» (PP. 82).
Alla Populorum progressio viene conferito lo stesso onore dato alla Rerum novarum: venire periodicamente ricordata e commentata. Essa è quindi la nuova Rerum novarum della famiglia umana globalizzata.
All’interno di questo umanesimo integrale, la Caritas in veritate parla anche della attuale crisi economica e finanziaria. La stampa si è dimostrata interessata soprattutto a questo aspetto ed i giornali si sono chiesti cosa avrebbe detto la nuova enciclica sulla crisi in atto. Vorrei dire che il tema centrale dell’enciclica non è questo, però la Caritas in veritate non si è sottratta alla problematica. L’ha affrontata, non in senso tecnico, ma valutandola alla luce dei principi di riflessione e dei criteri di giudizio della Dottrina sociale della Chiesa ed all’interno di una visione più generale dell’economia, dei suoi fini e della responsabilità dei suoi attori. La crisi in atto mette in evidenza, secondo la Caritas in veritate, che la necessità di ripensare anche il modello economico cosiddetto "occidentale", richiesta dalla Centesimus annus circa venti anni fa, non è stato attuato fino in fondo. Dice questo, però, dopo aver chiarito che - come già aveva visto Paolo VI e come ancor più vediamo noi oggi - il problema dello sviluppo si è fatto policentrico e il quadro delle responsabilità, dei meriti e delle colpe, si è molto articolato. Secondo la Caritas in veritate, «La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente» (n. 21). Dall’enciclica emerge una visione in positivo, di incoraggiamento all’umanità perché possa trovare le risorse di verità e di volontà per superare le difficoltà. Non un incoraggiamento sentimentale, dato che nella Caritas in veritate vengono individuati con lucidità e preoccupazione tutti i principali problemi del sottosviluppo di vaste aree del pianeta. Ma un incoraggiamento fondato, consapevole e realistico perché nel mondo sono all’opera molti protagonisti ed attori di verità e di amore e perché il Dio che è Verità e Amore è sempre all’opera nella storia umana.
Nel titolo della Caritas in veritate appaiono i due termini fondamentali del magistero di Benedetto XVI, appunto la Carità e la Verità. Questi due termini hanno segnato tutto il suo magistero in questi anni di pontificato, in quanto rappresentano l’essenza stessa della rivelazione cristiana. Essi, nella loro connessione, sono il motivo fondamentale della dimensione storica e pubblica del cristianesimo, sono all’origine, quindi, della Dottrina sociale della Chiesa. Infatti, «Per questo stretto collegamento con la verità, la carità può essere riconosciuta come espressione autentica di umanità e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di natura pubblica. Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta» (n. 3).
Sintesi dell'Enciclica sociale di Benedetto XVI - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 7 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la sintesi non ufficiale dell'Enciclica di Benedetto XVI, “Caritas in Veritate”, distribuita dalla Sala Stampa vaticana.
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"La Carità nella verità, di cui Gesù s’è fatto testimone" è "la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera": inizia, così, Caritas in Veritate, Enciclica indirizzata al mondo cattolico e "a tutti gli uomini di buona volontà". Nell’Introduzione, il Papa ricorda che "la carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa". D’altro canto, dato "il rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico", va coniugata con la verità. E avverte: "Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali". (1-4)
Lo sviluppo ha bisogno della verità. Senza di essa, afferma il Pontefice, "l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società". (5) Benedetto XVI si sofferma su due "criteri orientativi dell’azione morale" che derivano dal principio "carità nella verità": la giustizia e il bene comune. Ogni cristiano è chiamato alla carità anche attraverso una "via istituzionale" che incida nella vita della polis, del vivere sociale. (6-7) La Chiesa, ribadisce, "non ha soluzioni tecniche da offrire", ha però "una missione di verità da compiere" per "una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione". (8-9)
Il primo capitolo del documento è dedicato al Messaggio della Populorum Progressio di Paolo VI. "Senza la prospettiva di una vita eterna – avverte il Papa – il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro". Senza Dio, lo sviluppo viene negato, "disumanizzato".(10-12)
Paolo VI, si legge, ribadì "l’imprescindibile importanza del Vangelo per la costruzione della società secondo libertà e giustizia".(13) Nell’Enciclica Humanae Vitae, Papa Montini "indica i forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale". Anche oggi, "la Chiesa propone con forza questo collegamento". (14-15) Il Papa spiega il concetto di vocazione presente nella Populorum Progressio. "Lo sviluppo è vocazione" giacché "nasce da un appello trascendente". Ed è davvero "integrale", sottolinea, quando è "volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo". "La fede cristiana – soggiunge – si occupa dello sviluppo non contando su privilegi o su posizioni di potere", "ma solo su Cristo". (16-18) Il Pontefice evidenzia che "le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale". Sono innanzitutto nella volontà, nel pensiero e ancor più "nella mancanza di fraternità tra gli uomini e i popoli". "La società sempre più globalizzata – rileva – ci rende vicini, ma non ci rende fratelli". Bisogna allora mobilitarsi, affinché l’economia evolva "verso esiti pienamente umani". (19-20)
Nel secondo capitolo, il Papa entra nel vivo dello Sviluppo umano nel nostro tempo. L’esclusivo obiettivo del profitto "senza il bene comune come fine ultimo – osserva – rischia di distruggere ricchezza e creare povertà". Ed enumera alcune distorsioni dello sviluppo: un’attività finanziaria "per lo più speculativa", i flussi migratori "spesso solo provocati" e poi mal gestiti e, ancora, "lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra". Dinnanzi a tali problemi interconnessi, il Papa invoca "una nuova sintesi umanistica". La crisi "ci obbliga a riprogettare il nostro cammino". (21)
Lo sviluppo, constata il Papa, è oggi "policentrico". "Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità" e nascono nuove povertà. La corruzione, è il suo rammarico, è presente in Paesi ricchi e poveri; a volte grandi imprese transnazionali non rispettano i diritti dei lavoratori. D’altronde, "gli aiuti internazionali sono stati spesso distolti dalle loro finalità, per irresponsabilità" dei donatori e dei fruitori. Al contempo, denuncia il Pontefice, "ci sono forme eccessive di protezione della conoscenza da parte dei Paesi ricchi, mediante un utilizzo troppo rigido del diritto di proprietà intellettuale, specialmente nel campo sanitario". (22)
Dopo la fine dei "blocchi", viene ricordato, Giovanni Paolo II aveva chiesto "una riprogettazione globale dello sviluppo", ma questo "è avvenuto solo in parte". C’è oggi "una rinnovata valutazione" del ruolo dei "pubblici poteri dello Stato", ed è auspicabile una partecipazione della società civile alla politica nazionale e internazionale. Rivolge poi l’attenzione alla delocalizzazione di produzioni di basso costo da parte dei Paesi ricchi. "Questi processi – è il suo monito – hanno comportato la riduzione delle reti di sicurezza sociale" con "grave pericolo per i diritti dei lavoratori". A ciò si aggiunge che "i tagli alla spesa sociale, spesso anche promossi dalle istituzioni finanziarie internazionali, possono lasciare i cittadini impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi". D’altronde, si verifica anche che "i governi per ragioni di utilità economica, limitano spesso le libertà sindacali". Ricorda perciò ai governanti che "il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona nella sua integrità". (23-25)
Sul piano culturale, prosegue, le possibilità di interazioni aprono nuove prospettive di dialogo, ma vi è un duplice pericolo. In primo luogo, un eclettismo culturale in cui le culture vengono "considerate sostanzialmente equivalenti". Il pericolo opposto è "l’appiattimento culturale", "l’omologazione degli stili di vita". (26) Rivolge così il pensiero allo scandalo della fame. Manca, denuncia il Papa, "un assetto di istituzioni economiche in grado" di fronteggiare tale emergenza. Auspica il ricorso a "nuove frontiere" nelle tecniche di produzione agricola e un’equa riforma agraria nei Paesi in via di Sviluppo. (27)
Benedetto XVI tiene a sottolineare che il rispetto per la vita "non può in alcun modo essere disgiunto" dallo sviluppo dei popoli. In varie parti del mondo, avverte, perdurano pratiche di controllo demografico che "giungono a imporre anche l’aborto". Nei Paesi sviluppati si è diffusa una "mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale". Inoltre, prosegue, vi è "il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati" a "politiche sanitarie implicanti di fatto l’imposizione" del controllo delle nascite. Preoccupanti sono pure le "legislazioni che prevedono l’eutanasia". "Quando una società s’avvia verso la negazione e la soppressione della vita – avverte – finisce per non trovare più" motivazioni ed energie "per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo" (28).
Altro aspetto legato allo sviluppo è il diritto alla libertà religiosa. Le violenze, scrive il Papa, "frenano lo sviluppo autentico", ciò "si applica specialmente al terrorismo a sfondo fondamentalista". Al tempo stesso, la promozione dell’ateismo da parte di molti Paesi "contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane". (29) Per lo sviluppo, prosegue, serve l’interazione dei diversi livelli del sapere armonizzati dalla carità. (30-31)
Il Papa auspica, quindi, che le scelte economiche attuali continuino "a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro" per tutti. Benedetto XVI mette in guardia da un’economia "del breve e talvolta brevissimo termine" che determina "l’abbassamento del livello di tutela dei diritti dei lavoratori" per far acquisire ad un Paese "maggiore competitività internazionale". Per questo, esorta una correzione delle disfunzioni del modello di sviluppo come richiede oggi anche lo "stato di salute ecologica del pianeta". E conclude sulla globalizzazione: "Senza la guida della carità nella verità, questa spinta planetaria può concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni". E’ necessario, perciò, "un impegno inedito e creativo". (32-33)
Fraternità, Sviluppo economico e società civile è il tema del terzo capitolo dell’Enciclica, che si apre con un elogio dell’esperienza del dono, spesso non riconosciuta "a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza". La convinzione di autonomia dell’economia dalle "influenze di carattere morale – rileva il Papa – ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo". Lo sviluppo, "se vuole essere autenticamente umano", deve invece "fare spazio al principio di gratuità". (34) Ciò vale in particolare per il mercato.
"Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca – è il suo monito – il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica". Il mercato, ribadisce, "non può contare solo su se stesso", "deve attingere energie morali da altri soggetti" e non deve considerare i poveri un "fardello, bensì una risorsa". Il mercato non deve diventare "luogo della sopraffazione del forte sul debole". E soggiunge: la logica mercantile va "finalizzata al perseguimento del bene comune di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica". Il Papa precisa che il mercato non è negativo per natura. Dunque, ad essere chiamato in causa è l’uomo, "la sua coscienza morale e la sua responsabilità". L’attuale crisi, conclude il Papa, mostra che i "tradizionali principi dell’etica sociale" - trasparenza, onestà e responsabilità - "non possono venire trascurati". Al contempo, ricorda che l’economia non elimina il ruolo degli Stati ed ha bisogno di "leggi giuste". Riprendendo la Centesimus Annus, indica la "necessità di un sistema a tre soggetti": mercato, Stato e società civile e incoraggia una "civilizzazione dell’economia". Servono "forme economiche solidali". Mercato e politica necessitano "di persone aperte al dono reciproco". (35-39)
La crisi attuale, annota, richiede anche dei "profondi cambiamenti" per l’impresa. La sua gestione "non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari", ma "deve anche farsi carico" della comunità locale. Il Papa fa riferimento ai manager che spesso "rispondono solo alle indicazioni degli azionisti" ed invita ad evitare un impiego "speculativo" delle risorse finanziarie. (40-41)
Il capitolo si chiude con una nuova valutazione del fenomeno globalizzazione, da non intendere solo come "processo socio-economico". "Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti – esorta – procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità". Alla globalizzazione serve "un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza" capace di "correggerne le disfunzioni". C’è, aggiunge, "la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza", ma la diffusione del benessere non va frenato "con progetti egoistici, protezionistici". (42)
Nel quarto capitolo, l’Enciclica sviluppa il tema dello Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente. Si nota, osserva, "la rivendicazione del diritto al superfluo" nelle società opulente, mentre mancano cibo e acqua in certe regioni sottosviluppate. "I diritti individuali svincolati da un quadro di doveri", rileva, "impazziscono". Diritti e doveri, precisa, rimandano ad un quadro etico. Se invece "trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un’assemblea di cittadini" possono essere "cambiati in ogni momento". Governi e organismi internazionali non possono dimenticare "l’oggettività e l’indisponibilità" dei diritti. (43) Al riguardo, si sofferma sulle "problematiche connesse con la crescita demografica". E’ "scorretto", afferma, "considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo". Riafferma che la sessualità non si può "ridurre a mero fatto edonistico e ludico". Né si può regolare la sessualità con politiche materialistiche "di forzata pianificazione delle nascite". Sottolinea poi che "l’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica". Gli Stati, scrive, "sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità della famiglia". (44)
"L’economia – ribadisce ancora – ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi bensì di un’etica amica della persona". La stessa centralità della persona, afferma, deve essere il principio guida "negli interventi per lo sviluppo" della cooperazione internazionale, che devono sempre coinvolgere i beneficiari. "Gli organismi internazionali – esorta il Papa – dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici", "spesso troppo costosi". Capita a volte, constata, che "i poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni burocratiche". Di qui l’invito ad una "piena trasparenza" sui fondi ricevuti (45-47).
Gli ultimi paragrafi del capitolo sono dedicati all’ambiente. Per il credente, la natura è un dono di Dio da usare responsabilmente. In tale contesto, si sofferma sulle problematiche energetiche. "L’accaparramento delle risorse" da parte di Stati e gruppi di potere, denuncia il Pontefice, costituisce "un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri". La comunità internazionale deve perciò "trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili". "Le società tecnologicamente avanzate – aggiunge – possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico", mentre deve "avanzare la ricerca di energie alternative".
Infondo, esorta il Papa, "è necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita". Uno stile che oggi, in molte parti del mondo "è incline all’edonismo e al consumismo". Il problema decisivo, prosegue, "è la complessiva tenuta morale della società". E avverte: "Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale" la "coscienza umana finisce per perdere il concetto di ecologia umana" e quello di ecologia ambientale. (48-52)
La collaborazione della famiglia umana è il cuore del quinto capitolo, in cui Benedetto XVI evidenzia che "lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia". D’altronde, si legge, la religione cristiana può contribuire allo sviluppo "solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica". Con "la negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione", la politica "assume un volto opprimente e aggressivo". E avverte: "Nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo" tra la ragione e la fede. Rottura che "comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità". (53-56)
Il Papa fa quindi riferimento al principio di sussidiarietà, che offre un aiuto alla persona "attraverso l’autonomia dei corpi intermedi". La sussidiarietà, spiega, "è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista" ed è adatta ad umanizzare la globalizzazione. Gli aiuti internazionali, constata, "possono a volte mantenere un popolo in uno stato di dipendenza", per questo vanno erogati coinvolgendo i soggetti della società civile e non solo i governi. "Troppo spesso", infatti, "gli aiuti sono valsi a creare soltanto mercati marginali per i prodotti" dei Paesi in via di sviluppo. (57-58) Esorta poi gli Stati ricchi a "destinare maggiori quote" del Pil per lo sviluppo, rispettando gli impegni presi. Ed auspica un maggiore accesso all’educazione e ancor più alla "formazione completa della persona" rilevando che, cedendo al relativismo, si diventa più poveri. Un esempio, scrive, ci è offerto dal fenomeno perverso del turismo sessuale. "E’ doloroso constatare – osserva – che ciò si svolge spesso con l’avallo dei governi locali, con il silenzio di quelli da cui provengono i turisti e con la complicità di tanti operatori del settore". (59-61)
Affronta poi il fenomeno "epocale" delle migrazioni. "Nessun Paese da solo – è il suo monito – può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori". Ogni migrante, soggiunge, "è una persona umana" che "possiede diritti che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione". Il Papa chiede che i lavoratori stranieri non siano considerati come una merce ed evidenzia il "nesso diretto tra povertà e disoccupazione". Invoca un lavoro decente per tutti e invita i sindacati, distinti dalla politica, a volgere lo sguardo verso i lavoratori dei Paesi dove i diritti sociali vengono violati. (62-64)
La finanza, ripete, "dopo il suo cattivo utilizzo che ha danneggiato l’economia reale, ritorni ad essere uno strumento finalizzato" allo sviluppo. E aggiunge: "Gli operatori della finanza devono riscoprire il fondamento propriamente etico della loro attività". Il Papa chiede inoltre "una regolamentazione del settore" per garantire i soggetti più deboli. (65-66).
L’ultimo paragrafo del capitolo il Pontefice lo dedica "all’urgenza della riforma" dell’Onu e "dell’architettura economica e finanziaria internazionale". Urge "la presenza di una vera Autorità politica mondiale" che si attenga "in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà". Un’Autorità, afferma, che goda di "potere effettivo". E conclude con l’appello ad istituire "un grado superiore di ordinamento internazionale" per governare la globalizzazione. (67)
Il sesto ed ultimo capitolo è incentrato sul tema dello Sviluppo dei popoli e la tecnica. Il Papa mette in guardia dalla "pretesa prometeica" secondo cui "l’umanità ritiene di potersi ricreare avvalendosi dei ‘prodigi’ della tecnologia". La tecnica, è il suo monito, non può avere una "libertà assoluta". Rileva come "il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica". (68-72) Connessi con lo sviluppo tecnologico sono i mezzi di comunicazione sociale chiamati a promuovere "la dignità della persona e dei popoli". (73)
Campo primario "della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell’uomo è oggi quello della bioetica", spiega il Papa che aggiunge: "La ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza". La questione sociale diventa "questione antropologica". La ricerca sugli embrioni, la clonazione, è il rammarico del Pontefice, "sono promosse dall’attuale cultura" che "crede di aver svelato ogni mistero". Il Papa paventa "una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite". (74-75) Viene quindi ribadito che "lo sviluppo deve comprendere una crescita spirituale oltre che materiale". Infine, l’esortazione del Papa ad avere un "cuore nuovo" per "superare la visione materialistica degli avvenimenti umani". (76-77)
Nella Conclusione dell’Enciclica, il Papa sottolinea che lo sviluppo "ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera", di "amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace". (78-79)
"Caritas in veritate". Pagine scelte - Antologia della terza enciclica di questo pontificato, firmata dal papa il 29 giugno 2009 e resa pubblica il 7 luglio di Benedetto XVI
1. LA CARITÀ NELLA VERITÀ, di cui Gesù Cristo s'è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera. [...]
3. [...] Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. [...] Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme Agápe e Lógos: Carità e Verità, Amore e Parola.
4. [...] Un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività. [...]
28. Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l'importanza del tema del rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli. Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta assumendo una rilevanza sempre maggiore, obbligandoci ad allargare i concetti di povertà e di sottosviluppo alle questioni collegate con l'accoglienza della vita, soprattutto là dove essa è in vario modo impedita.
Non solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l'aborto. Nei paesi economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale.
Alcune organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell'aborto, promuovendo talvolta nei paesi poveri l'adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l'imposizione di un forte controllo delle nascite. Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che prevedono l'eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico. [...]
29. C'è un altro aspetto della vita di oggi, collegato in modo molto stretto con lo sviluppo: la negazione del diritto alla libertà religiosa. Non mi riferisco solo alle lotte e ai conflitti che nel mondo ancora si combattono per motivazioni religiose, anche se talvolta quella religiosa è solo la copertura di ragioni di altro genere, quali la sete di dominio e di ricchezza. Di fatto, oggi spesso si uccide nel nome sacro di Dio, come più volte è stato pubblicamente rilevato e deplorato dal mio predecessore Giovanni Paolo II e da me stesso. Le violenze frenano lo sviluppo autentico e impediscono l'evoluzione dei popoli verso un maggiore benessere socio-economico e spirituale. Ciò si applica specialmente al terrorismo a sfondo fondamentalista, che genera dolore, devastazione e morte, blocca il dialogo tra le Nazioni e distoglie grandi risorse dal loro impiego pacifico e civile. Va però aggiunto che, oltre al fanatismo religioso che in alcuni contesti impedisce l'esercizio del diritto di libertà di religione, anche la promozione programmata dell'indifferenza religiosa o dell'ateismo pratico da parte di molti paesi contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane. Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”. [...]
34. La carità nella verità pone l'uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. [...] Talvolta l'uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini. [...] La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l'uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell'economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l'uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano. Come ho affermato nella mia enciclica "Spe salvi", in questo modo si toglie dalla storia la speranza cristiana, che è invece una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale, cercato nella libertà e nella giustizia. La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà. È già presente nella fede, da cui anzi è suscitata. La carità nella verità se ne nutre e, nello stesso tempo, la manifesta. Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia. Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l'eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti. La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant'Agostino. [...]
35. Il mercato, se c'è fiducia reciproca e generalizzata, è l'istituzione economica che permette l'incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l'importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.
Opportunamente Paolo VI nella "Populorum progressio" sottolineava il fatto che lo stesso sistema economico avrebbe tratto vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia, in quanto i primi a trarre beneficio dallo sviluppo dei paesi poveri sarebbero stati quelli ricchi. Non si trattava solo di correggere delle disfunzioni mediante l'assistenza. I poveri non sono da considerarsi un "fardello", bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico. È tuttavia da ritenersi errata la visione di quanti pensano che l'economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio. È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.
36. [...] La Chiesa ritiene da sempre che l'agire economico non sia da considerare antisociale. Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest'ultimo comportasse "ipso facto" la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l'economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell'uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l'uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale.
La dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori di essa o "dopo" di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all'attività dell'uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente.
La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma anche un'esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità. [...]
42. [...] La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno. [...] I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l'intero mondo. [...]
43. [...] Si assiste oggi a una pesante contraddizione. Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l'altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell'umanità. Si è spesso notata una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli. La relazione sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri. L'esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri. [...]
44. [...] Considerare l'aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte, all'importante diminuzione della mortalità infantile e il prolungamento della vita media che si registrano nei paesi economicamente sviluppati; dall'altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità. Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l'altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale. La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell'uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell'esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l'educazione sessuale non si può ridurre a un'istruzione tecnica, con l'unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal "rischio" procreativo. [...]
L'apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica. Grandi nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti. Al contrario, nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere. La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto "indice di sostituzione", mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l'accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei "cervelli" a cui attingere per le necessità della nazione. Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà. Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale. Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società. [...]
45. [...] Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale. [...] È bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio di discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell'aggettivo "etico" che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell'uomo.
Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento. Su questo argomento la dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell'uomo "ad immagine di Dio" (Genesi 1, 27), un dato da cui discende l'inviolabile dignità della persona umana, come anche il trascendente valore delle norme morali naturali. Un'etica economica che prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni. Tra l'altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono. [...]
56. La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo "statuto di cittadinanza" della religione cristiana. [...] La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell'umanità.
57. Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace l'opera della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell'umanità. [...]
67. Di fronte all'inarrestabile crescita dell'interdipendenza mondiale, è fortemente sentita, anche in presenza di una recessione altrettanto mondiale, l'urgenza della riforma sia dell'Organizzazione delle Nazioni Unite che dell'architettura economica e finanziaria internazionale. [...] Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio predecessore, il beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l'osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti. Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali. In mancanza di ciò, infatti, il diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei vari campi, rischierebbe di essere condizionato dagli equilibri di potere tra i più forti. Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione. [...]
75. [...] Oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell'uomo. La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell'ibridazione umana nascono e sono promosse nell'attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita. Qui l'assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione. In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità tecnica. Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell'uomo e i nuovi potenti strumenti che la "cultura della morte" ha a disposizione. Alla diffusa, tragica, piaga dell'aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente "in nuce", una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite. Sul versante opposto, va facendosi strada una "mens eutanasica", manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta. Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana. Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana. Chi potrà misurare gli effetti negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell'indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l'indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite. Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell'opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l'umano. Dio svela l'uomo all'uomo; la ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell'uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale. [...]
79. Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l'amore pieno di verità, "caritas in veritate", da cui procede l'autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. [...] L'anelito del cristiano è che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come "Padre nostro!". Insieme al Figlio unigenito, possano tutti gli uomini imparare a pregare il Padre e a chiedere a Lui, con le parole che Gesù stesso ci ha insegnato, di saperlo santificare vivendo secondo la sua volontà, e poi di avere il pane quotidiano necessario, la comprensione e la generosità verso i debitori, di non essere messi troppo alla prova e di essere liberati dal male. […]
Quando la sofferenza è finestra per l’amore e la fede - Intervista al moderatore generale dei Silenziosi Operai della Croce - di Antonio Gaspari - ROMA, martedì, 7 luglio 2009 (ZENIT.org).- Il cristianesimo è veramente una religione originale: la sofferenza, da tutti temuta e respinta, acquista un senso nella parabola cristiana ed è indicata da Gesù Cristo come la via preferita da Dio per arrivare alla salvezza.
Seppur difficile da comprendere, ci sono gruppi di cristiani che assistono e praticano la Croce come carisma. Tra questi, un'associazione internazionale di fedeli, il cui nome è di “Silenziosi operai della croce” (http://www.sodcvs.org/it/chisiamo/sodc.htm) presenti in Italia, Polonia, Portogallo, Israele, Camerun, Colombia e Stati Uniti.
La Confederazione Centro Volontari della Sofferenza (CVS), che riunisce i Silenziosi Operai della Croce e le aggregazione diocesane del CVS, conta 82 associazioni aderenti, in Europa, Africa, Nord e Sud America, per un totale di circa 10.000 iscritti.
Per comprendere le ragioni, la spiritualità e le attività di questi gruppi di fedeli, ZENIT ha intervistato don Luciano Ruga, moderatore generale dei Silenziosi Operai della Croce.
Umanamente, tutti noi cerchiamo di sfuggire alla sofferenza. Come spiega l’esistenza di un’associazione denominata “Centro Volontari della Sofferenza”? Qual è la “follia” che li anima?
Don Luciano: L’impegno ad evitare la sofferenza è certamente universale, come lo è, inevitabilmente, il soffrire. Il nome “Centro Volontari della Sofferenza”, fin dai tempi in cui monsignor Luigi Novarese lo scelse per la sua opera, ha provocatoriamente rischiato il fraintendimento. Non si tratta, è ovvio, di voler soffrire e nemmeno di costituire un’organizzazione dedita al “volontariato”, nel senso che il termine ha assunto in ambito sociale.
La volontarietà cui allude il nome, riguarda una decisione personale e libera, la responsabilità da assumersi nel vivere la sofferenza. Come figli di Dio e non come schiavi. La rivelazione cristiana chiede di affrontare il dolore umano con la forza invincibile dell’amore. La realtà della sofferenza mette in questione l’intera persona ed è necessario che anche la risposta sia totalizzante.
Ora sappiamo che non vi è amore senza libertà, senza che si attivi una volontaria adesione. È veramente una questione di amore, di quella forza che muove la creatura umana a rispondere con tutta se stessa: mente, cuore e azione. Di conseguenza, per il cristiano, una vita “da risorti”, radicata nell’amore, è necessariamente espressione di libertà, di volontarietà che dice la piena partecipazione alla rinascita battesimale.
È una responsabilità molto grande, a cui nessuno può sottrarsi. Lo Spirito e l’esperienza della risurrezione non sono accordati in modo generico a ogni uomo, prescindendo dal desiderio e dalla volontà. Coloro che credono e gioiscono nella risurrezione del Signore sono chiamati a ricevere responsabilmente il dono dello Spirito, rispondendo, “con amore”, all’amore di Dio.
Si tratta di vivere alla presenza di Dio, consapevoli che l’unione con Cristo è la sorgente della gioia, il segreto della felicità. Tale unione è stata da Cristo liberamente realizzata in noi e per noi. Da essa nasce una gioia che sussiste anche in mezzo alle sofferenze del mondo, nonostante l’impotenza dell’umanità e i suoi fallimenti.
Qual è il carisma e la storia dei Silenziosi Operai della Croce e quali sono le attività di apostolato e di carità che promuovono?
Don Luciano: I Silenziosi Operai della Croce nascono storicamente all’interno del Centro Volontari della Sofferenza come forma di vita consacrata, con un’esigenza di radicalità per una connaturale dedizione “a tempo pieno” nell’apostolato per la “valorizzazione della sofferenza” e la “promozione integrale della persona sofferente”.
Come scrisse il nostro fondatore, il servo di Dio monsignor Luigi Novarese, “la vita di un Silenzioso Operaio della Croce deve essere una proclamazione vissuta della forza e perenne necessità della Croce, che scorre sul binario dell’umiltà e dell’ubbidienza, tracciato e percorso da Gesù Cristo in tutto l’arco della sua preziosissima esistenza fino alla morte di Croce, seguita poi dalla sua gloriosa risurrezione”.
Nell’ampio ed articolato mondo della sofferenza, i Silenziosi Operai della Croce attuano in se stessi e condividono con ogni persona, un cammino di crescita e di maturazione nella fede, affinché nella luce della Pasqua tutti si scoprano chiamati ad incontrare ed annunciare il senso della propria sofferenza e la gioia della salvezza. Tale finalità è attuata mediante gesti concreti di servizio alla persona e con tutti i mezzi di apostolato richiesti dalle differenti situazioni socio-culturali ed ambientali. L’intento di rendere “soggetto attivo” la persona sofferente, nella chiesa e nella società, anima la nostra azione pastorale (catechesi, animazione spirituale e liturgica, costituzione di associazioni diocesane confederate nel Centro Volontari della Sofferenza) e socio-riabilitativa (centri di riabilitazione psico-motoria).
Perché i cristiani sono così pazzi al punto da trovare la via della speranza proprio nella sofferenza della Croce? Qual è la logica che li anima?
Don Luciano: È molto logico cercare la soluzione vincente proprio all’interno di un problema che appare insuperabile. Non vi potrebbe essere, infatti, nulla di più efficace e risolutivo. Nell’esperienza umana ciò non sarebbe stato possibile senza l’intervento di colui che poteva espandere la forza della vita dentro una dimensione infinita ed eterna, vincendo “l’ultimo nemico”, la morte. La speranza del cristiano nasce dall’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, dal mistero pasquale, dalla vita che vince il male e la morte.
Nella lettera apostolica Salvifici Doloris (n. 24) è espresso in modo chiaro quale sia l’unico spazio in cui riconoscere un valore salvifico nell’esperienza del soffrire: l’amore. “In questa dimensione — nella dimensione dell'amore — la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costantemente”. In modo particolare, nel tempo della sofferenza, ciò che anima il cristiano è la possibilità di rispondere con amore all’amore di Dio in Cristo Gesù. Non vi può essere altra logica, dal momento che Dio stesso ha espresso nell’amore e nel dono di sé il compimento universale della salvezza.
Il male e le sofferenze colpiscono spesso persone buone e pie o bambini la cui innocenza è manifesta. Qual è la ragione che può dare senso a questa condizione che sembra in contrasto con il disegno della Divina Provvidenza?
Don Luciano: Il male, la sofferenza, sono espressioni del limite che è connaturale alla nostra umanità. Si tratta di una “naturalità” che Dio stesso ha preso su di sé. Il limite, dunque, fa parte di noi. Il modo di viverlo reca in sé le disarmonie causate dal peccato e ne facciamo esperienza. Così come sperimentiamo la bellezza di vivere “da rendenti” i nostri limiti, come sentiero di vita e occasione per amare. Non ha senso quindi legare la presenza di una malattia o il verificarsi di un incidente a criteri di colpa e punizione.
Non vi è contrasto tra la realtà naturale dell’uomo e la rivelazione che Dio ha dato di sé nel suo figlio unigenito. Nell’incarnazione tutta l’umana esperienza, eccetto il peccato, è stata vissuta da Gesù come vita dei figli di Dio. Lo è stato per lui, può esserlo per noi, ogni giorno.
In che modo e con quali risposte la vicenda umana si intreccia con quella di Gesù Cristo morto in Croce?
Don Luciano: Tutto ciò che entra in comunione con il mistero pasquale ne assume il movimento. È questa la forza stessa dell’amore. Gesù ha compiuto il suo personale cammino, che attraverso la croce lo ha condotto alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. In questo passaggio da morte a vita è ricompresa l’intera esistenza umana in ogni sua manifestazione. Come avviene nella sofferenza della Pasqua-passaggio, anche l’esperienza umana del dolore è sofferenza-passaggio, sofferenza pasquale.
Un passare oltre che conduce da una vita a un’altra. Un movimento che conduce verso una vita più ricca di energie, capace di vincere il male e la morte, il non senso e la schiavitù della paura. È questo un compito irrinunciabile per ciascuno, una responsabilità vitale.
Cristo crocifisso attraversa la realtà del dolore come un potente effluvio di vita che promana dal dono di sé. La creatura umana sofferente è come sospinta, nell’esperienza del dolore, verso quel transitare salvifico di Cristo, fino alla soglia della libertà, fino al momento in cui è necessario compiere il passo dell’amore, della volontà intesa come risposta libera all’interno di una relazione. Questa si esprime nelle molteplici manifestazioni umane (universali e non impedite da alcun carattere di malattia o disabilità), realizzando la piena adesione a Cristo dell’intera esistenza, raccolta entro i poli di nascita e morte.
Tale compito irrinunciabile ha in sé l’esigenza della missione, dell’annuncio. Sappiamo che non si attua alcuna pienezza in noi senza una trasmissione agli altri, senza portare frutto intorno a noi. L’apostolato del Centro Volontari della Sofferenza è azione pastorale concreta, incontro, vita di gruppo, presenza attiva dei sofferenti stessi come primi e più efficaci evangelizzatori, nella vita parrocchiale e diocesana, in tutte le dinamiche di azione che riteniamo proprie di ogni battezzato.
ENCICLICA/ 1. Zamagni: diciotto anni dopo la Chiesa non gioca in difesa ma va all’attacco - INT. Stefano Zamagni - mercoledì 8 luglio 2009 – ilsussidiario.net
È stata presentata ieri la terza enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate, che reca come sottotitolo “Sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”. Dei principali temi affrontati dal documento ilsussidiario.net ha parlato con Stefano Zamagni, economista: dalla divisione tra sfera economica e sfera sociale, al principio di fraternità e a quello di sussidiarietà, passando per il bene comune e la giustizia. Per arrivare alla crisi economica, «dominata dall’ethos dell’efficienza». Ma l’enciclica non contiene solo una critica, dice il professore; propone soluzioni.
Professore, ogni enciclica vuole aiutare a capire i “segni dei tempi”. Quali sono le sfide di oggi alle quali la Caritas in veritate vuole dare una risposta?
Dirò subito che questa è un’enciclica molto innovativa, perché non si limita, come ha detto lei, a una lettura dei segni dei tempi, ma va oltre: indica quali sono le linee lungo le quali muoversi se si vogliono risolvere i problemi che vengono denunciati. Rerum novarum e Centesimus annus sono state encicliche che hanno parlato in difensiva: la Chiesa esprimeva perplessità e dubbi e invitava gli uomini di buona volontà a correggere gli errori del sistema. Ma questa mi pare più propositiva.
Qual è, a suo modo di vedere, il vero centro dell’enciclica?
La critica e l’invito a superare la dicotomia tra la sfera dell’economico e la sfera del sociale, caratteristica dei due sistemi dottrinari ideologici che hanno dominato il ‘900: l’anarco-liberismo e il socialismo. Per entrambi l’economico, ripudiato o accettato, era la sfera “cattiva”, consistente nella massimizzazione del profitto a scapito dei diritti degli altri. Opposto a questa stava il sociale, come ambito di chi tentava di controbilanciare quello che di malato e perverso avveniva nell’economico.
È una divisione che ha avuto fortuna, le pare?
Certamente. È venuta da qui l’idea del welfare state: lo stato interviene nella società per redistribuire i beni derivanti dagli errori del mercato.
E i cattolici?
Il ruolo dei cattolici, ritagliato nel sociale, è sempre stato visto come un correttivo. Nella Caritas in veritate il Papa dice no a questa impostazione, perché gli elementi della socialità, come solidarietà e fraternità, devono “entrare” nell’economia e non starne fuori. È il superamento della logica dei due tempi: prima si fanno i soldi e poi si pensa alla redistribuzione. È una logica sbagliata, perché quando si mette mano alla redistribuzione potrebbe essere troppo tardi. E se io per ottenere quella ricchezza offendo la dignità delle persone, ogni redistribuzione diventa tardiva perché la dignità non può essere compensata.
Il principio di fraternità nell’enciclica assume un ruolo centrale. Perché?
Perché la società fraterna è anche solidale, ma non è vero il contrario. Prendiamo una società di socialismo reale: è solidale ma non fraterna. La fraternità è il principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di essere diversi. Uno deve poter essere libero di manifestare dentro la sfera economica la propria credenza a certi valori o una visione della società. Senza che questo sia compito dello stato.
È allo sviluppo della persona che si lega il concetto di giustizia, affrontato fin dall’introduzione?
Sì. C’è un concetto forte di giustizia che va oltre il mero rispetto delle leggi e che sta nel consentire a ciascuno, e a ciascun gruppo sociale, di esprimere il proprio potenziale e le proprie risorse. Ed è per questo che il Papa giustifica il principio di sussidiarietà. Perché se uno si chiede: come si può concretamente realizzare la società fraterna? La risposta è: applicando il principio di sussidiarietà. Una solidarietà senza sussidiarietà, aggiunge il Papa, scade nell’assistenzialismo e quindi nel dogmatismo statocentrico.
Nell’enciclica la sussidiarietà è estesa oltre limiti dello stato. Come mai?
Oggi il principio di sussidiarietà non può più venir limitato all’ambito nazionale, ma dev’essere applicato a livello globale. Ecco perché il Papa parla di una governance globale di tipo sussidiario. Globale ma di tipo poliarchico: basata cioè su una pluralità dei centri di potere, perché il potere non può stare nelle mani di uno solo, anche fosse la persona più illuminata. E la modalità attraverso la quale mettere le regole deve essere sussidiaria.
Qual è la “risposta” della Caritas in veritate alla crisi economica?
La crisi è figlia di due errori ideologici che hanno dominato gli ultimi trent’anni. Il primo è l’ethos dell’efficienza: l’idea secondo cui i diritti della persona vengono tacitati se questa non è efficiente, se non “vale” secondo criteri dettati dal principio dell’efficienza stessa. Oggi l’ideologia dell’efficienza regna sovrana e viene brandita come spada per legittimare lo status di tante diseguaglianze: se sei più povero di me è perché non vali niente. I manager superpagati, invece, erano così efficienti che hanno fatto fallire le banche.
Dunque la crisi affonda le sue radici più in un problema umano che strettamente tecnico?
Ma l’ethos dell’efficienza è proprio questo: il mito che si afferma quando viene negata la centralità della persona. L’altro errore invece è l’ideologia dell’impresa come merce: una merce come tutte le altre, che può essere comprata e venduta in base alle convenienze del momento. Ma questa è una novità assoluta, perché per secoli l’impresa è stata vista al contrario come un’istituzione destinata a durare nel tempo.
Senza contare le conseguenze per i lavoratori.
Più che di lavoratori parlerei di complessiva perdita di senso del capitale umano. Esso non può avere significato soltanto in quanto aumenta il prezzo di mercato dell’impresa. Così facendo viene eliminata la relazionalità, cioè il fatto che la persona umana è il vero fondamento dell’attività di impresa.
La crisi ha rimesso in discussione i fondamenti del mercato. Qual è il fattore principale che gli permette di funzionare?
La finalizzazione al bene comune. In questo l’enciclica riprende la linea di pensiero dell’economia civile. Personalmente ne sono lieto, perché l’enciclica ha sposato la mia linea, cosa che non mi aspettavo. Mentre l’economia capitalistica è finalizzata alla massimizzazione del profitto, l’economia civile è finalizzata alla massimizzazione del bene comune. Il tuo bene deve andare d’accordo col mio bene, che quindi non può prescindere dal tuo e da quello dell’altro. Il concetto di bene comune - altro caposaldo dell’enciclica - è anti individualistico, perché riconosce la dinamica relazionale propria della persona. Qui viene fuori tutta la ricchezza dell’impostazione cattolica.
Perché?
Perché il bene comune non è sacrificio, ma armonia di rispettivi interessi: io devo fare il mio interesse, ma non contro il tuo. È il concetto che stanno diffondendo da anni le Economie di comunione del movimento dei Focolari e Compagnia delle opere. Nelle loro attività veicolano concretamente l’idea che l’impresa per aiutare gli altri non deve andare fuori mercato e chiudere in perdita: deve anch’essa fare utile, ma consentendo anche agli altri di farlo.
Le faccio un’obiezione tipicamente laicista. Nell’enciclica è scritto che “la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende di intromettersi nella politica degli Stati”. Ma allora, le chiedo, perché parla?
La Chiesa non ha a cuore una formula politica o sociale, ma il bene dell’uomo. Quando vede che questo è messo a repentaglio da istituzioni e comportamenti egoistici e perversi interviene per correggere e insegnare. Dopo di che la traduzione in iniziative concrete è lasciata agli uomini che vivono nella società. Quindi da parte della Chiesa non c’è nessuna invasione di campo.
Lei ha fatto parte del gruppo di lavoro che ha redatto il documento. Si dice che abbia avuto una gestazione lunga e travagliata. È così?
Non direi. Basti pensare che la Centesimus Annus ha avuto una gestazione di ben cinque anni, dal 1986 al 1991, mentre quella della Caritas in veritate è durata due anni e mezzo. L’elaborazione è parsa più lunga del previsto e si è determinata una certa attesa perché qualcuno che avrebbe dovuto rispettare la consegna del silenzio non si è comportato nel modo corretto.
E l’esplosione della crisi economica ha imposto una revisione profonda?
La crisi è stata un evento contingente che ha allungato i lavori di quattro, cinque mesi, perché il testo era già pronto alla fine di settembre. Tra settembre e la data di uscita, inizialmente prevista per l’8 dicembre, c’è stata la crisi e allora si è pensato ad un supplemento di indagine che ne tenesse conto. In alcuni casi al Papa sono stati presentati dei punti in alternativa: a cominciare dal titolo, per esempio. Alcuni volevano “Caritas in veritate”, altri “Veritas in caritate”. In questo caso è stato lo stesso Benedetto XVI a sciogliere le riserve, scartando un’impostazione platonica per sottolineare il primato del bene sul vero.
MANIFESTO CDO/ È la carenza di “veri” adulti nella scuola la causa dell’emergenza educativa - Daniela Notarbartolo mercoledì 8 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Desidero partire dalla prima parte del documento della CDO: mi ha colpito soprattutto la giusta gerarchia fra gli oggetti, la precedenza dell’adulto che educa.
Chi è l’adulto, quando si trova di fronte un ragazzo? Egli è colui che riesce a cogliere nelle sue giuste dimensioni il bisogno del piccolo. Ogni padre sensato sa che il figlio non ha bisogno soltanto delle scarpe e del cibo, di condizioni di relativo benessere, ma di una positività che gli permetta di affrontare ogni prova della vita con la grinta necessaria: quella positività risiede prima di tutto nel rapporto che il padre ha con lui. Ogni genitore che non censuri la propria responsabilità sa benissimo che non può farsi un alibi di ciò che dà di materiale al proprio figlio, se non riconosce il vero bisogno e non risponde ragionevolmente: dedica attenzione, tempo, riconosce la sua identità come diverso da sé, gli pone dei limiti, lo accompagna e lo appoggia. Già l’idea dell’adulto come presenza positiva oggi è rivoluzionaria.
Anche a scuola questa posizione dell’adulto si traduce nella identificazione del bisogno vero del ragazzo: come si chiamano le cose che ho intorno ? A che servono ? Perché sono importanti e quale significato hanno attribuito nel tempo gli uomini alle cose ? Con quali strumenti (di pensiero, di organizzazione sociale, materiali) è possibile affrontare la complessità del mondo ? È quello che abbiamo sempre chiamato “senso”. Il senso delle cose: non un’ideologia fra le altre, non una parola d’ordine, ma semplicemente la risposta a un bisogno di avere ragioni adeguate per poter aderire all’essere: altrimenti non ci sarà intrapresa, non ci sarà responsabilità, non ci sarà creatività sociale e personale. Quest’idea di intrapresa mossa da una positiva adesione alle cose è la vera chiave di volta per tutto il resto, mentre la liquefazione dei rapporti e la mancanza di sfide vanno nella direzione contraria alla crescita.
In realtà, che la scuola dia una risposta del tutto parziale ai bisogni dei ragazzi è sotto gli occhi di tutti: dominano i giovani la noia e l’insoddisfazione, e spesso essi sopportano la scuola come un pedaggio necessario per accedere comunque alla vita adulta, un’enorme parentesi in cui stanno rinchiusi per anni. Ciò deriva in buona parte dal relativismo culturale degli insegnanti, una categoria che ha sistematicamente fatto del «non ho una verità da insegnare, una cosa vale l’altra» una garanzia di rispetto per i giovani, non accorgendosi di tradire tragicamente la loro aspettativa.
Ma non è solo il neutralismo il nemico dei giovani. Può essere una risposta ragionevole al proprio bisogno una scuola dove non si verifica mai se quello che si fa risponde alla domanda di sensatezza, dove le iniziative vengono lanciate a raffica e mai monitorate? Dove i risultati di apprendimento sono un optional? Dove i soldi sono spesi senza verificare l’efficacia e il raggiungimento degli obiettivi?
Dal punto di vista istituzionale, non incide meno sulla ragionevolezza di tutta l’operazione-istruzione-obbligatoria che i professori vengano messi in cattedra in modo semi-casuale, che le famiglie che iscrivono i figli in una certa sezione invece che in un’altra sperino nella buona stella, e si sappia fin dall’inizio che il titolo di studio è poco più che carta straccia. È necessario pensare anche al contesto in cui avviene il rapporto fra l’adulto e il ragazzo. Ecco perché parlare di valutazione esterna, di autonomia e libertà di scelta delle famiglie, di percorsi, di formazione degli insegnanti non è cosa diversa dal parlare di senso.
Di questo insieme di cose le materie scolastiche sono un aspetto, anche se centrale. Tanto per fare un esempio che mi compete, la padronanza linguistica, competenza numero uno fra le otto indispensabili per la vita attiva, passa certamente per gli insegnamenti scolastici. Il modo di esprimersi cresce insieme all’età: «quando ero bambino parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato» (S. Paolo ai Corinzi). Un ambito di sapere come la grammatica, ridotta a sapere astratto che fornisce al più categorie metacognitive di categorizzazione, non risponde al bisogno dei ragazzi. Osservare come funziona la lingua, quante mirabili possibilità di scelta offre in termini di risorse linguistiche per esprimere concetti e relazioni, e come la uso io, questo è umano. Sentire la differenza fra due frasi simili come «ho studiato, anche se ho preso un brutto voto» e «anche se ho studiato, ho preso un brutto voto» (tanto per mostrare l’incidenza della focalizzazione nel discorso) e decidere consapevolmente quale corrisponde al proprio stato d’animo, è indispensabile per la propria identità. Ma a scuola conta di più sapere che è una subordinata-concessiva-introdotta-da-congiunzione che non accorgersi di usarla tutti i giorni per lamentare lo scarto fra aspettative e realtà: la vita dentro le parole.
Lo sforzo da fare è quello di rendersi conto dall’interno, dalle classi e dai consigli di classe, che ci sono dei meccanismi bloccati nella scuola, un’ingessatura che impedisce il movimento anche ai migliori insegnanti, e provare a metterci mano una buona volta. Autonomia, valutazione, parità, formazione e carriera degli insegnanti: non sono parole d’ordine di qualcuno, ma cunei nel meccanismo per rimettere in moto il sistema. Non c’è più né destra né sinistra, né Gelmini né Fioroni, né Moratti né Berlinguer, ma tutti noi siamo uno, impantanati! Di solito si dice repetita iuvant, ma qui non sono bastati tentativi di cambiamento radicale come la legge dell’autonomia, la legge 62 sul sistema paritario di istruzione, la conferenza Stato-Regioni, il quaderno bianco di Fioroni e Padoa Schioppa: come se si dovesse sempre ricominciare il discorso da capo, e si sentisse ogni volta il dovere di difendere l’ineffabile unicità della scuola dall’aridità dei “valutatori esterni”, o dai poteri clericali, o dai nemici del liceo classico.
C’è molto da fare e non c’è tempo da perdere, non solo perché la stagione delle riforme non può durare in eterno (oltre tutto si fa fuori psicologicamente una generazione di insegnanti), ma soprattutto perché il tradimento delle aspettative dei giovani ha dei costi sociali e personali che una società non può permettersi di pagare. La società può ripartire da un atteggiamento ragionevole di fronte ai cambiamenti che prima di tutto sappia cogliere “di che si tratta”, e non lasci per miopia fuori dall’orizzonte quello che conta.
L’AUDACIA PAPALE STA NELLA SUA VISIONE - IN GIOCO LE CATEGORIE PER RIPENSARE IL SENSO DELL’UMANO - FRANCESCO BOTTURI – Avvenire, 8 luglio 2009
« G ià Paolo VI aveva riconosciuto e indicato l’orizzonte mondiale della questione sociale. Seguendolo su questa strada, oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75). Questa affermazione ci sembra riassumere bene la linea di fondo della nuova enciclica sociale. Benedetto XVI riprende il filo della Populorum progressio (1967) di Paolo VI, a cui dedica il primo capitolo, aggiornando il significato del suo tema principale, lo sviluppo: la nuova enciclica afferma con convinzione l’attualità dell’idea e insieme la sua nuova portata antropologica. Si direbbe che tutto lo sforzo dell’enciclica è di mostrare la ragionevolezza di coniugare in modo nuovo tecnica, economia e politica con una sapienza e una saggezza sull’umano senza le quali nessuno dei grandi problemi contemporanei può essere affrontato oggi con buon esito. «Lo sviluppo – dice il testo verso la fine – è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune» (71). Non si tratta, dunque, solamente di accompagnare o integrare l’economia e la finanza con qualche discorso morale, ma più radicalmente di avviare «una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini» (n. 32), con una nuova coscienza dell’impegno antropologico che la prassi e la teoria economica portano in sé. Cosa evidentemente di enorme portata e di così difficile attuazione per il condizionamento degli interessi in gioco e per il peso della tradizione scientifica dell’economia improntata a un’idea dell’homo oeconomicus , così distante da quella delineata da Benedetto XVI.
Ma il Papa non teme di sfidare la difficoltà, perché la drammaticità e l’urgenza delle situazioni, che richiama lungo la sua Lettera, chiedono operazioni culturali forti e coraggiose. L’età della globalizzazione – dice in vario modo il testo – rimette in gioco globalmente il senso dell’uomo e le nostre categorie culturali con cui pensare la totalità dell’umano in questione. Non solo, ma il motivo primo dell’audacia papale è nella visione di fede che egli ripropone, rilanciando l’idea della dottrina sociale della Chiesa come sapienza, ricca di molteplice sapere (teologico, filosofico, scientifico) a servizio dell’uomo; esercizio di un «amore ricco di intelligenza» e di «intelligenza piena di amore» (n. 30).
Il titolo dell’enciclica è in questo senso programmatico: «carità nella verità » è la sintesi di un esercizio dell’antropologia cristiana di cui parla con intensità l’Introduzione. A fondamento sta l’idea del Dio cristiano come Logos e come Agape, che papa Benedetto ha riproposto fin dall’inizio del suo pontificato, e che qui mostra in modo sistematico il suo significato per la vita storica dell’uomo alle prese con i problemi della nuova sociale mondiale. «Dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende»: l’enciclica chiede di porre qui l’angolo visuale con cui guardare alla vita sociale, nella consapevolezza che questo non estranea dai problemi, ma al contrario fornisce l’unica prospettiva entro cui la totalità dell’uomo può essere davvero vista. Una carità nel senso autentico del termine cristiano e quindi coniugata con la verità; anzitutto quella donata da Dio e manifestata in Cristo.
Anche questo porre all’inizio la «carità nella verità» va contro corrente rispetto alla tendenza – pur valida a un certo livello – di trattare le questioni sociali nel modo meno confessionale possibile, anche per un giusto tentativo di dialogo pubblico su di esse. Qui è proposto un certo rovesciamento della prospettiva: la carità nella verità come punto di partenza – non solo come motivazione ma anche come concezione (quella articolata dalla Dottrina sociale cristiana) – non è una limitazione di campo, ma al contrario spalancamento teorico e pratico, orizzonte entro cui lavorare con chiunque abbia a cuore le sorti storiche dell’uomo, sostenuti da un patrimonio di dottrina che ama la verità dell’uomo.
1)CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL’ENCICLICA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI DAL TITOLO: "CARITAS IN VERITATE" , 07.07.2009
2)Sintesi dell'Enciclica sociale di Benedetto XVI - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 7 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la sintesi non ufficiale dell'Enciclica di Benedetto XVI, “Caritas in Veritate”, distribuita dalla Sala Stampa vaticana.
3)"Caritas in veritate". Pagine scelte - Antologia della terza enciclica di questo pontificato, firmata dal papa il 29 giugno 2009 e resa pubblica il 7 luglio di Benedetto XVI
4) Quando la sofferenza è finestra per l’amore e la fede - Intervista al moderatore generale dei Silenziosi Operai della Croce - di Antonio Gaspari - ROMA, martedì, 7 luglio 2009 (ZENIT.org).- Il cristianesimo è veramente una religione originale: la sofferenza, da tutti temuta e respinta, acquista un senso nella parabola cristiana ed è indicata da Gesù Cristo come la via preferita da Dio per arrivare alla salvezza.
5) ENCICLICA/ 1. Zamagni: diciotto anni dopo la Chiesa non gioca in difesa ma va all’attacco - INT. Stefano Zamagni - mercoledì 8 luglio 2009 – ilsussidiario.net
6) MANIFESTO CDO/ È la carenza di “veri” adulti nella scuola la causa dell’emergenza educativa - Daniela Notarbartolo mercoledì 8 luglio 2009 – ilsussidiario.net
7)L’AUDACIA PAPALE STA NELLA SUA VISIONE - IN GIOCO LE CATEGORIE PER RIPENSARE IL SENSO DELL’UMANO - FRANCESCO BOTTURI – Avvenire, 8 luglio 2009
CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL’ENCICLICA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI DAL TITOLO: "CARITAS IN VERITATE" , 07.07.2009
Intervento dell'Em.mo Card. Renato Raffaele Martino, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace
La Caritas in veritate è la terza enciclica di Benedetto XVI ed è un’enciclica sociale. Essa si inserisce nella tradizione delle encicliche sociali che, nella loro fase moderna, siamo soliti far iniziare con la Rerum novarum di Leone XIII ed arriva dopo 18 anni dall’ultima enciclica sociale, la Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Quasi un ventennio ci separa quindi dall’ultimo grande documento di dottrina sociale. Non che in questo ventennio l’insegnamento sociale dei Pontefici e della Chiesa si sia ritirato in secondo piano. Si pensi per esempio al Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace nel 2004 o all’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI che contiene una parte centrale espressamente dedicata alla Dottrina sociale della Chiesa e che io, a suo tempo, ho definito una "piccola enciclica sociale". Si pensi soprattutto al magistero ordinario di Benedetto XVI, su cui tornerò tra poco. La scrittura di una enciclica, però, assume un valore particolare, rappresenta un sistematico passo in avanti dentro una tradizione che i pontefici assunsero in sé non per spirito di supplenza ma con la precisa convinzione di rispondere così alla loro missione apostolica e con l’intento di garantire alla religione cristiana il "diritto di cittadinanza" nella costruzione della società degli uomini.
Perché una nuova enciclica? Come sappiamo, la Dottrina sociale della Chiesa ha una dimensione che permane ed una che muta con i tempi. Essa è l’incontro del Vangelo con i problemi sempre nuovi che l’umanità deve affrontare. Questi ultimi cambiano, ed oggi lo fanno ad una velocità sorprendente. La Chiesa non ha soluzioni tecniche da proporre, come anche la Caritas in veritate ci ricorda, ma ha il dovere di illuminare la storia umana con la luce della verità e il calore dell’amore di Gesù Cristo, ben sapendo che "se il Signore non costruisce la casa invano si affannano i costruttori".
Se ci guardiamo indietro nel tempo e ripercorriamo questi vent’anni che ci separano dalla Centesimus annus ci accorgiamo che grandi cambiamenti sono avvenuti nella società degli uomini.
Le ideologie politiche, che avevano caratterizzato l’epoca precedente al 1989, sembrano aver perso di virulenza, sostituite però dalla nuova ideologia della tecnica. In questi venti anni, le possibilità di intervento della tecnica nella stessa identità della persona si sono purtroppo sposate con un riduzionismo delle possibilità conoscitive della ragione, su cui Benedetto XVI sta impostando da tempo un lungo insegnamento. Questo scostamento tra capacità operative, che ormai riguardano la vita stessa, e quadro di senso, che si assottiglia sempre di più, è tra le preoccupazioni più vive dell’umanità di oggi e, per questo, la Caritas in veritate lo ha affrontato. Se nel vecchio mondo dei blocchi politici contrapposti la tecnica era asservita all’ideologia politica ora, che i blocchi non ci sono più e il panorama geopolitico è di gran lunga cambiato, la tecnica tende a liberarsi da ogni ipoteca. L’ideologia della tecnica tende a nutrire questo suo arbitrio con la cultura del relativismo, alimentandola a sua volta. L’arbitrio della tecnica è uno dei massimi problemi del mondo d’oggi, come emerge in maniera evidente dalla Caritas in veritate.
Un secondo elemento distingue l’epoca attuale da quella di venti anni fa: l’accentuazione dei fenomeni di globalizzazione determinati, da un lato, dalla fine dei blocchi contrapposti e, dall’altro, dalla rete informatica e telematica mondiale. Iniziati nei primi anni Novanta del secolo scorso, questi due fenomeni hanno prodotto cambiamenti fondamentali in tutti gli aspetti della vita economica, sociale e politica. La Centesimus annus accennava al fenomeno, la Caritas in veritate lo affronta organicamente. L’enciclica analizza la globalizzazione non in un solo punto, ma in tutto il testo, essendo questo un fenomeno, come oggi si dice, "trasversale": economia e finanza, ambiente e famiglia, culture e religioni, migrazioni e tutela dei diritti dei lavoratori; tutti questi elementi, ed altri ancora, ne sono influenzati.
Un terzo elemento di cambiamento riguarda le religioni. Molti osservatori notano che in questo ventennio, pure a seguito della fine dei blocchi politici contrapposti, le religioni sono tornate alla ribalta della scena pubblica mondiale. A questo fenomeno, spesso contraddittorio e da decifrare con attenzione, si contrappone un laicismo militante, e talvolta esasperato, che tende ad estromettere la religione dalla sfera pubblica. Ne discendono conseguenze negative e spesso disastrose per il bene comune. La Caritas in veritate affronta il problema in più punti e lo vede come un capitolo molto importante per garantire all’umanità uno sviluppo degno dell’uomo.
Un quarto ed ultimo cambiamento su cui voglio soffermarmi è l’emergenza di alcuni grandi Paesi da una situazione di arretratezza, che sta mutando notevolmente gli equilibri geopolitici mondiali. La funzionalità degli organismi internazionali, il problema delle risorse energetiche, nuove forme di colonialismo e di sfruttamento sono anche collegate con questo fenomeno, positivo in sé, ma dirompente e che ha bisogno di essere bene indirizzato. Torna qui, impellente, il problema della governance internazionale.
Queste quattro grandi novità, emerse nel ventennio che ci separa dall’ultima enciclica sociale, novità rilevanti che hanno cambiato in profondità le dinamiche sociali mondiali, basterebbero da sole a motivare la scrittura di una nuova enciclica sociale. All’origine della Caritas in veritate, c’è, però, un altro motivo che non vorrei venisse dimenticato. Inizialmente la Caritas in veritate era stata pensata dal Santo Padre come una commemorazione dei 40 anni della Populorum progressio (PP) di Paolo VI. La redazione della Caritas in veritate ha richiesto più tempo e quindi la data del quarantennio della Populorum progressio – il 2007 – è stato superato. Ma questo non elimina l’importante collegamento con l’enciclica paolina, evidente già dal fatto che la Caritas in veritate viene detta una enciclica "sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità". Collegamento evidente, poi, per il primo capitolo dell’enciclica, che è dedicato proprio a riprendere la Populorum progressio, ed a rileggerne l’insegnamento dentro il magistero complessivo di Paolo VI. Il tema della Caritas in veritate non è lo "sviluppo dei popoli", ma "lo sviluppo umano integrale", senza che questo comporti una trascuratezza del primo. Si può dire, quindi, che la prospettiva della Populorum progressio venga allargata, in continuità con le sue profonde dinamiche.
Credo che non vada dimenticato che la Caritas in veritate dimostra con chiarezza non solo che il pontificato di Paolo VI non ha rappresentato nessun "arretramento" nei confronti della Dottrina sociale della Chiesa, come troppo spesso si è detto, ma che questo Papa ha contribuito in modo significativo ad impostare la visione della Dottrina sociale della Chiesa sulla scia della Gaudium et spes e della tradizione precedente ed ha costituito le basi, su cui si è poi potuto inserire Giovanni Paolo II. Non deve sfuggire l’importanza di queste valutazioni della Caritas in veritate, che eliminano tante interpretazioni che hanno pesato – e tuttora pesano – sull’utilizzo della Dottrina sociale della Chiesa e sulla stessa idea della sua natura ed utilità. La Caritas in veritate mette bene in luce come Paolo VI abbia strettamente collegato la Dottrina sociale della Chiesa con la evangelizzazione (Evangelii nuntiandi) ed abbia previsto l’importanza centrale che avrebbero assunto nelle problematiche sociali i temi legati alla procreazione (Humanae vitae).
La prospettiva di Paolo VI e gli spunti della Populorum progressio sono presenti in tutta la Caritas in veritate e non solo nel primo capitolo, espressamente dedicato a ciò. A parte l’utilizzo di alcuni spunti particolari relativi alle problematiche specifiche dello sviluppo dei Paesi poveri, la Caritas in veritate fa proprie tre prospettive di ampio respiro, contenute nell’enciclica di Paolo VI. La prima è l’idea che «il mondo soffre per mancanza di pensiero» (PP [Populorum progressio] 85). La Caritas in veritate sviluppa questo spunto articolando il tema della verità dello sviluppo e nello sviluppo fino a sottolineare l’esigenza di una interdisciplinarietà ordinata dei saperi e delle competenze a servizio dello sviluppo umano. La seconda è l’idea che "Non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto" (PP. 42) ed anche la Caritas in veritate si muove nella prospettiva di un umanesimo veramente integrale. Il traguardo di uno sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini è ancora davanti a noi. La terza è che all’origine del sottosviluppo c’è una mancanza di fraternità (PP 66). Anche Paolo VI faceva appello alla carità e alla verità quando invitava ad operare «con tutto il loro cuore e tutta la loro intelligenza» (PP. 82).
Alla Populorum progressio viene conferito lo stesso onore dato alla Rerum novarum: venire periodicamente ricordata e commentata. Essa è quindi la nuova Rerum novarum della famiglia umana globalizzata.
All’interno di questo umanesimo integrale, la Caritas in veritate parla anche della attuale crisi economica e finanziaria. La stampa si è dimostrata interessata soprattutto a questo aspetto ed i giornali si sono chiesti cosa avrebbe detto la nuova enciclica sulla crisi in atto. Vorrei dire che il tema centrale dell’enciclica non è questo, però la Caritas in veritate non si è sottratta alla problematica. L’ha affrontata, non in senso tecnico, ma valutandola alla luce dei principi di riflessione e dei criteri di giudizio della Dottrina sociale della Chiesa ed all’interno di una visione più generale dell’economia, dei suoi fini e della responsabilità dei suoi attori. La crisi in atto mette in evidenza, secondo la Caritas in veritate, che la necessità di ripensare anche il modello economico cosiddetto "occidentale", richiesta dalla Centesimus annus circa venti anni fa, non è stato attuato fino in fondo. Dice questo, però, dopo aver chiarito che - come già aveva visto Paolo VI e come ancor più vediamo noi oggi - il problema dello sviluppo si è fatto policentrico e il quadro delle responsabilità, dei meriti e delle colpe, si è molto articolato. Secondo la Caritas in veritate, «La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente» (n. 21). Dall’enciclica emerge una visione in positivo, di incoraggiamento all’umanità perché possa trovare le risorse di verità e di volontà per superare le difficoltà. Non un incoraggiamento sentimentale, dato che nella Caritas in veritate vengono individuati con lucidità e preoccupazione tutti i principali problemi del sottosviluppo di vaste aree del pianeta. Ma un incoraggiamento fondato, consapevole e realistico perché nel mondo sono all’opera molti protagonisti ed attori di verità e di amore e perché il Dio che è Verità e Amore è sempre all’opera nella storia umana.
Nel titolo della Caritas in veritate appaiono i due termini fondamentali del magistero di Benedetto XVI, appunto la Carità e la Verità. Questi due termini hanno segnato tutto il suo magistero in questi anni di pontificato, in quanto rappresentano l’essenza stessa della rivelazione cristiana. Essi, nella loro connessione, sono il motivo fondamentale della dimensione storica e pubblica del cristianesimo, sono all’origine, quindi, della Dottrina sociale della Chiesa. Infatti, «Per questo stretto collegamento con la verità, la carità può essere riconosciuta come espressione autentica di umanità e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di natura pubblica. Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta» (n. 3).
Sintesi dell'Enciclica sociale di Benedetto XVI - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 7 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la sintesi non ufficiale dell'Enciclica di Benedetto XVI, “Caritas in Veritate”, distribuita dalla Sala Stampa vaticana.
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"La Carità nella verità, di cui Gesù s’è fatto testimone" è "la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera": inizia, così, Caritas in Veritate, Enciclica indirizzata al mondo cattolico e "a tutti gli uomini di buona volontà". Nell’Introduzione, il Papa ricorda che "la carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa". D’altro canto, dato "il rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico", va coniugata con la verità. E avverte: "Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali". (1-4)
Lo sviluppo ha bisogno della verità. Senza di essa, afferma il Pontefice, "l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società". (5) Benedetto XVI si sofferma su due "criteri orientativi dell’azione morale" che derivano dal principio "carità nella verità": la giustizia e il bene comune. Ogni cristiano è chiamato alla carità anche attraverso una "via istituzionale" che incida nella vita della polis, del vivere sociale. (6-7) La Chiesa, ribadisce, "non ha soluzioni tecniche da offrire", ha però "una missione di verità da compiere" per "una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione". (8-9)
Il primo capitolo del documento è dedicato al Messaggio della Populorum Progressio di Paolo VI. "Senza la prospettiva di una vita eterna – avverte il Papa – il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro". Senza Dio, lo sviluppo viene negato, "disumanizzato".(10-12)
Paolo VI, si legge, ribadì "l’imprescindibile importanza del Vangelo per la costruzione della società secondo libertà e giustizia".(13) Nell’Enciclica Humanae Vitae, Papa Montini "indica i forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale". Anche oggi, "la Chiesa propone con forza questo collegamento". (14-15) Il Papa spiega il concetto di vocazione presente nella Populorum Progressio. "Lo sviluppo è vocazione" giacché "nasce da un appello trascendente". Ed è davvero "integrale", sottolinea, quando è "volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo". "La fede cristiana – soggiunge – si occupa dello sviluppo non contando su privilegi o su posizioni di potere", "ma solo su Cristo". (16-18) Il Pontefice evidenzia che "le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale". Sono innanzitutto nella volontà, nel pensiero e ancor più "nella mancanza di fraternità tra gli uomini e i popoli". "La società sempre più globalizzata – rileva – ci rende vicini, ma non ci rende fratelli". Bisogna allora mobilitarsi, affinché l’economia evolva "verso esiti pienamente umani". (19-20)
Nel secondo capitolo, il Papa entra nel vivo dello Sviluppo umano nel nostro tempo. L’esclusivo obiettivo del profitto "senza il bene comune come fine ultimo – osserva – rischia di distruggere ricchezza e creare povertà". Ed enumera alcune distorsioni dello sviluppo: un’attività finanziaria "per lo più speculativa", i flussi migratori "spesso solo provocati" e poi mal gestiti e, ancora, "lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra". Dinnanzi a tali problemi interconnessi, il Papa invoca "una nuova sintesi umanistica". La crisi "ci obbliga a riprogettare il nostro cammino". (21)
Lo sviluppo, constata il Papa, è oggi "policentrico". "Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità" e nascono nuove povertà. La corruzione, è il suo rammarico, è presente in Paesi ricchi e poveri; a volte grandi imprese transnazionali non rispettano i diritti dei lavoratori. D’altronde, "gli aiuti internazionali sono stati spesso distolti dalle loro finalità, per irresponsabilità" dei donatori e dei fruitori. Al contempo, denuncia il Pontefice, "ci sono forme eccessive di protezione della conoscenza da parte dei Paesi ricchi, mediante un utilizzo troppo rigido del diritto di proprietà intellettuale, specialmente nel campo sanitario". (22)
Dopo la fine dei "blocchi", viene ricordato, Giovanni Paolo II aveva chiesto "una riprogettazione globale dello sviluppo", ma questo "è avvenuto solo in parte". C’è oggi "una rinnovata valutazione" del ruolo dei "pubblici poteri dello Stato", ed è auspicabile una partecipazione della società civile alla politica nazionale e internazionale. Rivolge poi l’attenzione alla delocalizzazione di produzioni di basso costo da parte dei Paesi ricchi. "Questi processi – è il suo monito – hanno comportato la riduzione delle reti di sicurezza sociale" con "grave pericolo per i diritti dei lavoratori". A ciò si aggiunge che "i tagli alla spesa sociale, spesso anche promossi dalle istituzioni finanziarie internazionali, possono lasciare i cittadini impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi". D’altronde, si verifica anche che "i governi per ragioni di utilità economica, limitano spesso le libertà sindacali". Ricorda perciò ai governanti che "il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona nella sua integrità". (23-25)
Sul piano culturale, prosegue, le possibilità di interazioni aprono nuove prospettive di dialogo, ma vi è un duplice pericolo. In primo luogo, un eclettismo culturale in cui le culture vengono "considerate sostanzialmente equivalenti". Il pericolo opposto è "l’appiattimento culturale", "l’omologazione degli stili di vita". (26) Rivolge così il pensiero allo scandalo della fame. Manca, denuncia il Papa, "un assetto di istituzioni economiche in grado" di fronteggiare tale emergenza. Auspica il ricorso a "nuove frontiere" nelle tecniche di produzione agricola e un’equa riforma agraria nei Paesi in via di Sviluppo. (27)
Benedetto XVI tiene a sottolineare che il rispetto per la vita "non può in alcun modo essere disgiunto" dallo sviluppo dei popoli. In varie parti del mondo, avverte, perdurano pratiche di controllo demografico che "giungono a imporre anche l’aborto". Nei Paesi sviluppati si è diffusa una "mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale". Inoltre, prosegue, vi è "il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati" a "politiche sanitarie implicanti di fatto l’imposizione" del controllo delle nascite. Preoccupanti sono pure le "legislazioni che prevedono l’eutanasia". "Quando una società s’avvia verso la negazione e la soppressione della vita – avverte – finisce per non trovare più" motivazioni ed energie "per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo" (28).
Altro aspetto legato allo sviluppo è il diritto alla libertà religiosa. Le violenze, scrive il Papa, "frenano lo sviluppo autentico", ciò "si applica specialmente al terrorismo a sfondo fondamentalista". Al tempo stesso, la promozione dell’ateismo da parte di molti Paesi "contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane". (29) Per lo sviluppo, prosegue, serve l’interazione dei diversi livelli del sapere armonizzati dalla carità. (30-31)
Il Papa auspica, quindi, che le scelte economiche attuali continuino "a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro" per tutti. Benedetto XVI mette in guardia da un’economia "del breve e talvolta brevissimo termine" che determina "l’abbassamento del livello di tutela dei diritti dei lavoratori" per far acquisire ad un Paese "maggiore competitività internazionale". Per questo, esorta una correzione delle disfunzioni del modello di sviluppo come richiede oggi anche lo "stato di salute ecologica del pianeta". E conclude sulla globalizzazione: "Senza la guida della carità nella verità, questa spinta planetaria può concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni". E’ necessario, perciò, "un impegno inedito e creativo". (32-33)
Fraternità, Sviluppo economico e società civile è il tema del terzo capitolo dell’Enciclica, che si apre con un elogio dell’esperienza del dono, spesso non riconosciuta "a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza". La convinzione di autonomia dell’economia dalle "influenze di carattere morale – rileva il Papa – ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo". Lo sviluppo, "se vuole essere autenticamente umano", deve invece "fare spazio al principio di gratuità". (34) Ciò vale in particolare per il mercato.
"Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca – è il suo monito – il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica". Il mercato, ribadisce, "non può contare solo su se stesso", "deve attingere energie morali da altri soggetti" e non deve considerare i poveri un "fardello, bensì una risorsa". Il mercato non deve diventare "luogo della sopraffazione del forte sul debole". E soggiunge: la logica mercantile va "finalizzata al perseguimento del bene comune di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica". Il Papa precisa che il mercato non è negativo per natura. Dunque, ad essere chiamato in causa è l’uomo, "la sua coscienza morale e la sua responsabilità". L’attuale crisi, conclude il Papa, mostra che i "tradizionali principi dell’etica sociale" - trasparenza, onestà e responsabilità - "non possono venire trascurati". Al contempo, ricorda che l’economia non elimina il ruolo degli Stati ed ha bisogno di "leggi giuste". Riprendendo la Centesimus Annus, indica la "necessità di un sistema a tre soggetti": mercato, Stato e società civile e incoraggia una "civilizzazione dell’economia". Servono "forme economiche solidali". Mercato e politica necessitano "di persone aperte al dono reciproco". (35-39)
La crisi attuale, annota, richiede anche dei "profondi cambiamenti" per l’impresa. La sua gestione "non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari", ma "deve anche farsi carico" della comunità locale. Il Papa fa riferimento ai manager che spesso "rispondono solo alle indicazioni degli azionisti" ed invita ad evitare un impiego "speculativo" delle risorse finanziarie. (40-41)
Il capitolo si chiude con una nuova valutazione del fenomeno globalizzazione, da non intendere solo come "processo socio-economico". "Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti – esorta – procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità". Alla globalizzazione serve "un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza" capace di "correggerne le disfunzioni". C’è, aggiunge, "la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza", ma la diffusione del benessere non va frenato "con progetti egoistici, protezionistici". (42)
Nel quarto capitolo, l’Enciclica sviluppa il tema dello Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente. Si nota, osserva, "la rivendicazione del diritto al superfluo" nelle società opulente, mentre mancano cibo e acqua in certe regioni sottosviluppate. "I diritti individuali svincolati da un quadro di doveri", rileva, "impazziscono". Diritti e doveri, precisa, rimandano ad un quadro etico. Se invece "trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un’assemblea di cittadini" possono essere "cambiati in ogni momento". Governi e organismi internazionali non possono dimenticare "l’oggettività e l’indisponibilità" dei diritti. (43) Al riguardo, si sofferma sulle "problematiche connesse con la crescita demografica". E’ "scorretto", afferma, "considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo". Riafferma che la sessualità non si può "ridurre a mero fatto edonistico e ludico". Né si può regolare la sessualità con politiche materialistiche "di forzata pianificazione delle nascite". Sottolinea poi che "l’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica". Gli Stati, scrive, "sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità della famiglia". (44)
"L’economia – ribadisce ancora – ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi bensì di un’etica amica della persona". La stessa centralità della persona, afferma, deve essere il principio guida "negli interventi per lo sviluppo" della cooperazione internazionale, che devono sempre coinvolgere i beneficiari. "Gli organismi internazionali – esorta il Papa – dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici", "spesso troppo costosi". Capita a volte, constata, che "i poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni burocratiche". Di qui l’invito ad una "piena trasparenza" sui fondi ricevuti (45-47).
Gli ultimi paragrafi del capitolo sono dedicati all’ambiente. Per il credente, la natura è un dono di Dio da usare responsabilmente. In tale contesto, si sofferma sulle problematiche energetiche. "L’accaparramento delle risorse" da parte di Stati e gruppi di potere, denuncia il Pontefice, costituisce "un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri". La comunità internazionale deve perciò "trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili". "Le società tecnologicamente avanzate – aggiunge – possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico", mentre deve "avanzare la ricerca di energie alternative".
Infondo, esorta il Papa, "è necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita". Uno stile che oggi, in molte parti del mondo "è incline all’edonismo e al consumismo". Il problema decisivo, prosegue, "è la complessiva tenuta morale della società". E avverte: "Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale" la "coscienza umana finisce per perdere il concetto di ecologia umana" e quello di ecologia ambientale. (48-52)
La collaborazione della famiglia umana è il cuore del quinto capitolo, in cui Benedetto XVI evidenzia che "lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia". D’altronde, si legge, la religione cristiana può contribuire allo sviluppo "solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica". Con "la negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione", la politica "assume un volto opprimente e aggressivo". E avverte: "Nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo" tra la ragione e la fede. Rottura che "comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità". (53-56)
Il Papa fa quindi riferimento al principio di sussidiarietà, che offre un aiuto alla persona "attraverso l’autonomia dei corpi intermedi". La sussidiarietà, spiega, "è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista" ed è adatta ad umanizzare la globalizzazione. Gli aiuti internazionali, constata, "possono a volte mantenere un popolo in uno stato di dipendenza", per questo vanno erogati coinvolgendo i soggetti della società civile e non solo i governi. "Troppo spesso", infatti, "gli aiuti sono valsi a creare soltanto mercati marginali per i prodotti" dei Paesi in via di sviluppo. (57-58) Esorta poi gli Stati ricchi a "destinare maggiori quote" del Pil per lo sviluppo, rispettando gli impegni presi. Ed auspica un maggiore accesso all’educazione e ancor più alla "formazione completa della persona" rilevando che, cedendo al relativismo, si diventa più poveri. Un esempio, scrive, ci è offerto dal fenomeno perverso del turismo sessuale. "E’ doloroso constatare – osserva – che ciò si svolge spesso con l’avallo dei governi locali, con il silenzio di quelli da cui provengono i turisti e con la complicità di tanti operatori del settore". (59-61)
Affronta poi il fenomeno "epocale" delle migrazioni. "Nessun Paese da solo – è il suo monito – può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori". Ogni migrante, soggiunge, "è una persona umana" che "possiede diritti che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione". Il Papa chiede che i lavoratori stranieri non siano considerati come una merce ed evidenzia il "nesso diretto tra povertà e disoccupazione". Invoca un lavoro decente per tutti e invita i sindacati, distinti dalla politica, a volgere lo sguardo verso i lavoratori dei Paesi dove i diritti sociali vengono violati. (62-64)
La finanza, ripete, "dopo il suo cattivo utilizzo che ha danneggiato l’economia reale, ritorni ad essere uno strumento finalizzato" allo sviluppo. E aggiunge: "Gli operatori della finanza devono riscoprire il fondamento propriamente etico della loro attività". Il Papa chiede inoltre "una regolamentazione del settore" per garantire i soggetti più deboli. (65-66).
L’ultimo paragrafo del capitolo il Pontefice lo dedica "all’urgenza della riforma" dell’Onu e "dell’architettura economica e finanziaria internazionale". Urge "la presenza di una vera Autorità politica mondiale" che si attenga "in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà". Un’Autorità, afferma, che goda di "potere effettivo". E conclude con l’appello ad istituire "un grado superiore di ordinamento internazionale" per governare la globalizzazione. (67)
Il sesto ed ultimo capitolo è incentrato sul tema dello Sviluppo dei popoli e la tecnica. Il Papa mette in guardia dalla "pretesa prometeica" secondo cui "l’umanità ritiene di potersi ricreare avvalendosi dei ‘prodigi’ della tecnologia". La tecnica, è il suo monito, non può avere una "libertà assoluta". Rileva come "il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica". (68-72) Connessi con lo sviluppo tecnologico sono i mezzi di comunicazione sociale chiamati a promuovere "la dignità della persona e dei popoli". (73)
Campo primario "della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell’uomo è oggi quello della bioetica", spiega il Papa che aggiunge: "La ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza". La questione sociale diventa "questione antropologica". La ricerca sugli embrioni, la clonazione, è il rammarico del Pontefice, "sono promosse dall’attuale cultura" che "crede di aver svelato ogni mistero". Il Papa paventa "una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite". (74-75) Viene quindi ribadito che "lo sviluppo deve comprendere una crescita spirituale oltre che materiale". Infine, l’esortazione del Papa ad avere un "cuore nuovo" per "superare la visione materialistica degli avvenimenti umani". (76-77)
Nella Conclusione dell’Enciclica, il Papa sottolinea che lo sviluppo "ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera", di "amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace". (78-79)
"Caritas in veritate". Pagine scelte - Antologia della terza enciclica di questo pontificato, firmata dal papa il 29 giugno 2009 e resa pubblica il 7 luglio di Benedetto XVI
1. LA CARITÀ NELLA VERITÀ, di cui Gesù Cristo s'è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera. [...]
3. [...] Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. [...] Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme Agápe e Lógos: Carità e Verità, Amore e Parola.
4. [...] Un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività. [...]
28. Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l'importanza del tema del rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli. Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta assumendo una rilevanza sempre maggiore, obbligandoci ad allargare i concetti di povertà e di sottosviluppo alle questioni collegate con l'accoglienza della vita, soprattutto là dove essa è in vario modo impedita.
Non solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l'aborto. Nei paesi economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale.
Alcune organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell'aborto, promuovendo talvolta nei paesi poveri l'adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l'imposizione di un forte controllo delle nascite. Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che prevedono l'eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico. [...]
29. C'è un altro aspetto della vita di oggi, collegato in modo molto stretto con lo sviluppo: la negazione del diritto alla libertà religiosa. Non mi riferisco solo alle lotte e ai conflitti che nel mondo ancora si combattono per motivazioni religiose, anche se talvolta quella religiosa è solo la copertura di ragioni di altro genere, quali la sete di dominio e di ricchezza. Di fatto, oggi spesso si uccide nel nome sacro di Dio, come più volte è stato pubblicamente rilevato e deplorato dal mio predecessore Giovanni Paolo II e da me stesso. Le violenze frenano lo sviluppo autentico e impediscono l'evoluzione dei popoli verso un maggiore benessere socio-economico e spirituale. Ciò si applica specialmente al terrorismo a sfondo fondamentalista, che genera dolore, devastazione e morte, blocca il dialogo tra le Nazioni e distoglie grandi risorse dal loro impiego pacifico e civile. Va però aggiunto che, oltre al fanatismo religioso che in alcuni contesti impedisce l'esercizio del diritto di libertà di religione, anche la promozione programmata dell'indifferenza religiosa o dell'ateismo pratico da parte di molti paesi contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane. Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”. [...]
34. La carità nella verità pone l'uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. [...] Talvolta l'uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini. [...] La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l'uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell'economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l'uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano. Come ho affermato nella mia enciclica "Spe salvi", in questo modo si toglie dalla storia la speranza cristiana, che è invece una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale, cercato nella libertà e nella giustizia. La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà. È già presente nella fede, da cui anzi è suscitata. La carità nella verità se ne nutre e, nello stesso tempo, la manifesta. Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia. Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l'eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti. La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant'Agostino. [...]
35. Il mercato, se c'è fiducia reciproca e generalizzata, è l'istituzione economica che permette l'incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l'importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.
Opportunamente Paolo VI nella "Populorum progressio" sottolineava il fatto che lo stesso sistema economico avrebbe tratto vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia, in quanto i primi a trarre beneficio dallo sviluppo dei paesi poveri sarebbero stati quelli ricchi. Non si trattava solo di correggere delle disfunzioni mediante l'assistenza. I poveri non sono da considerarsi un "fardello", bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico. È tuttavia da ritenersi errata la visione di quanti pensano che l'economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio. È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.
36. [...] La Chiesa ritiene da sempre che l'agire economico non sia da considerare antisociale. Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest'ultimo comportasse "ipso facto" la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l'economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell'uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l'uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale.
La dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori di essa o "dopo" di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all'attività dell'uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente.
La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma anche un'esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità. [...]
42. [...] La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno. [...] I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l'intero mondo. [...]
43. [...] Si assiste oggi a una pesante contraddizione. Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l'altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell'umanità. Si è spesso notata una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli. La relazione sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri. L'esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri. [...]
44. [...] Considerare l'aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte, all'importante diminuzione della mortalità infantile e il prolungamento della vita media che si registrano nei paesi economicamente sviluppati; dall'altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità. Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l'altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale. La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell'uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell'esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l'educazione sessuale non si può ridurre a un'istruzione tecnica, con l'unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal "rischio" procreativo. [...]
L'apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica. Grandi nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti. Al contrario, nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere. La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto "indice di sostituzione", mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l'accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei "cervelli" a cui attingere per le necessità della nazione. Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà. Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale. Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società. [...]
45. [...] Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale. [...] È bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio di discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell'aggettivo "etico" che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell'uomo.
Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento. Su questo argomento la dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell'uomo "ad immagine di Dio" (Genesi 1, 27), un dato da cui discende l'inviolabile dignità della persona umana, come anche il trascendente valore delle norme morali naturali. Un'etica economica che prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni. Tra l'altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono. [...]
56. La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo "statuto di cittadinanza" della religione cristiana. [...] La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell'umanità.
57. Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace l'opera della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell'umanità. [...]
67. Di fronte all'inarrestabile crescita dell'interdipendenza mondiale, è fortemente sentita, anche in presenza di una recessione altrettanto mondiale, l'urgenza della riforma sia dell'Organizzazione delle Nazioni Unite che dell'architettura economica e finanziaria internazionale. [...] Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio predecessore, il beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l'osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti. Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali. In mancanza di ciò, infatti, il diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei vari campi, rischierebbe di essere condizionato dagli equilibri di potere tra i più forti. Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione. [...]
75. [...] Oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell'uomo. La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell'ibridazione umana nascono e sono promosse nell'attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita. Qui l'assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione. In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità tecnica. Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell'uomo e i nuovi potenti strumenti che la "cultura della morte" ha a disposizione. Alla diffusa, tragica, piaga dell'aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente "in nuce", una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite. Sul versante opposto, va facendosi strada una "mens eutanasica", manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta. Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana. Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana. Chi potrà misurare gli effetti negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell'indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l'indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite. Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell'opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l'umano. Dio svela l'uomo all'uomo; la ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell'uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale. [...]
79. Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l'amore pieno di verità, "caritas in veritate", da cui procede l'autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. [...] L'anelito del cristiano è che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come "Padre nostro!". Insieme al Figlio unigenito, possano tutti gli uomini imparare a pregare il Padre e a chiedere a Lui, con le parole che Gesù stesso ci ha insegnato, di saperlo santificare vivendo secondo la sua volontà, e poi di avere il pane quotidiano necessario, la comprensione e la generosità verso i debitori, di non essere messi troppo alla prova e di essere liberati dal male. […]
Quando la sofferenza è finestra per l’amore e la fede - Intervista al moderatore generale dei Silenziosi Operai della Croce - di Antonio Gaspari - ROMA, martedì, 7 luglio 2009 (ZENIT.org).- Il cristianesimo è veramente una religione originale: la sofferenza, da tutti temuta e respinta, acquista un senso nella parabola cristiana ed è indicata da Gesù Cristo come la via preferita da Dio per arrivare alla salvezza.
Seppur difficile da comprendere, ci sono gruppi di cristiani che assistono e praticano la Croce come carisma. Tra questi, un'associazione internazionale di fedeli, il cui nome è di “Silenziosi operai della croce” (http://www.sodcvs.org/it/chisiamo/sodc.htm) presenti in Italia, Polonia, Portogallo, Israele, Camerun, Colombia e Stati Uniti.
La Confederazione Centro Volontari della Sofferenza (CVS), che riunisce i Silenziosi Operai della Croce e le aggregazione diocesane del CVS, conta 82 associazioni aderenti, in Europa, Africa, Nord e Sud America, per un totale di circa 10.000 iscritti.
Per comprendere le ragioni, la spiritualità e le attività di questi gruppi di fedeli, ZENIT ha intervistato don Luciano Ruga, moderatore generale dei Silenziosi Operai della Croce.
Umanamente, tutti noi cerchiamo di sfuggire alla sofferenza. Come spiega l’esistenza di un’associazione denominata “Centro Volontari della Sofferenza”? Qual è la “follia” che li anima?
Don Luciano: L’impegno ad evitare la sofferenza è certamente universale, come lo è, inevitabilmente, il soffrire. Il nome “Centro Volontari della Sofferenza”, fin dai tempi in cui monsignor Luigi Novarese lo scelse per la sua opera, ha provocatoriamente rischiato il fraintendimento. Non si tratta, è ovvio, di voler soffrire e nemmeno di costituire un’organizzazione dedita al “volontariato”, nel senso che il termine ha assunto in ambito sociale.
La volontarietà cui allude il nome, riguarda una decisione personale e libera, la responsabilità da assumersi nel vivere la sofferenza. Come figli di Dio e non come schiavi. La rivelazione cristiana chiede di affrontare il dolore umano con la forza invincibile dell’amore. La realtà della sofferenza mette in questione l’intera persona ed è necessario che anche la risposta sia totalizzante.
Ora sappiamo che non vi è amore senza libertà, senza che si attivi una volontaria adesione. È veramente una questione di amore, di quella forza che muove la creatura umana a rispondere con tutta se stessa: mente, cuore e azione. Di conseguenza, per il cristiano, una vita “da risorti”, radicata nell’amore, è necessariamente espressione di libertà, di volontarietà che dice la piena partecipazione alla rinascita battesimale.
È una responsabilità molto grande, a cui nessuno può sottrarsi. Lo Spirito e l’esperienza della risurrezione non sono accordati in modo generico a ogni uomo, prescindendo dal desiderio e dalla volontà. Coloro che credono e gioiscono nella risurrezione del Signore sono chiamati a ricevere responsabilmente il dono dello Spirito, rispondendo, “con amore”, all’amore di Dio.
Si tratta di vivere alla presenza di Dio, consapevoli che l’unione con Cristo è la sorgente della gioia, il segreto della felicità. Tale unione è stata da Cristo liberamente realizzata in noi e per noi. Da essa nasce una gioia che sussiste anche in mezzo alle sofferenze del mondo, nonostante l’impotenza dell’umanità e i suoi fallimenti.
Qual è il carisma e la storia dei Silenziosi Operai della Croce e quali sono le attività di apostolato e di carità che promuovono?
Don Luciano: I Silenziosi Operai della Croce nascono storicamente all’interno del Centro Volontari della Sofferenza come forma di vita consacrata, con un’esigenza di radicalità per una connaturale dedizione “a tempo pieno” nell’apostolato per la “valorizzazione della sofferenza” e la “promozione integrale della persona sofferente”.
Come scrisse il nostro fondatore, il servo di Dio monsignor Luigi Novarese, “la vita di un Silenzioso Operaio della Croce deve essere una proclamazione vissuta della forza e perenne necessità della Croce, che scorre sul binario dell’umiltà e dell’ubbidienza, tracciato e percorso da Gesù Cristo in tutto l’arco della sua preziosissima esistenza fino alla morte di Croce, seguita poi dalla sua gloriosa risurrezione”.
Nell’ampio ed articolato mondo della sofferenza, i Silenziosi Operai della Croce attuano in se stessi e condividono con ogni persona, un cammino di crescita e di maturazione nella fede, affinché nella luce della Pasqua tutti si scoprano chiamati ad incontrare ed annunciare il senso della propria sofferenza e la gioia della salvezza. Tale finalità è attuata mediante gesti concreti di servizio alla persona e con tutti i mezzi di apostolato richiesti dalle differenti situazioni socio-culturali ed ambientali. L’intento di rendere “soggetto attivo” la persona sofferente, nella chiesa e nella società, anima la nostra azione pastorale (catechesi, animazione spirituale e liturgica, costituzione di associazioni diocesane confederate nel Centro Volontari della Sofferenza) e socio-riabilitativa (centri di riabilitazione psico-motoria).
Perché i cristiani sono così pazzi al punto da trovare la via della speranza proprio nella sofferenza della Croce? Qual è la logica che li anima?
Don Luciano: È molto logico cercare la soluzione vincente proprio all’interno di un problema che appare insuperabile. Non vi potrebbe essere, infatti, nulla di più efficace e risolutivo. Nell’esperienza umana ciò non sarebbe stato possibile senza l’intervento di colui che poteva espandere la forza della vita dentro una dimensione infinita ed eterna, vincendo “l’ultimo nemico”, la morte. La speranza del cristiano nasce dall’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, dal mistero pasquale, dalla vita che vince il male e la morte.
Nella lettera apostolica Salvifici Doloris (n. 24) è espresso in modo chiaro quale sia l’unico spazio in cui riconoscere un valore salvifico nell’esperienza del soffrire: l’amore. “In questa dimensione — nella dimensione dell'amore — la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costantemente”. In modo particolare, nel tempo della sofferenza, ciò che anima il cristiano è la possibilità di rispondere con amore all’amore di Dio in Cristo Gesù. Non vi può essere altra logica, dal momento che Dio stesso ha espresso nell’amore e nel dono di sé il compimento universale della salvezza.
Il male e le sofferenze colpiscono spesso persone buone e pie o bambini la cui innocenza è manifesta. Qual è la ragione che può dare senso a questa condizione che sembra in contrasto con il disegno della Divina Provvidenza?
Don Luciano: Il male, la sofferenza, sono espressioni del limite che è connaturale alla nostra umanità. Si tratta di una “naturalità” che Dio stesso ha preso su di sé. Il limite, dunque, fa parte di noi. Il modo di viverlo reca in sé le disarmonie causate dal peccato e ne facciamo esperienza. Così come sperimentiamo la bellezza di vivere “da rendenti” i nostri limiti, come sentiero di vita e occasione per amare. Non ha senso quindi legare la presenza di una malattia o il verificarsi di un incidente a criteri di colpa e punizione.
Non vi è contrasto tra la realtà naturale dell’uomo e la rivelazione che Dio ha dato di sé nel suo figlio unigenito. Nell’incarnazione tutta l’umana esperienza, eccetto il peccato, è stata vissuta da Gesù come vita dei figli di Dio. Lo è stato per lui, può esserlo per noi, ogni giorno.
In che modo e con quali risposte la vicenda umana si intreccia con quella di Gesù Cristo morto in Croce?
Don Luciano: Tutto ciò che entra in comunione con il mistero pasquale ne assume il movimento. È questa la forza stessa dell’amore. Gesù ha compiuto il suo personale cammino, che attraverso la croce lo ha condotto alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. In questo passaggio da morte a vita è ricompresa l’intera esistenza umana in ogni sua manifestazione. Come avviene nella sofferenza della Pasqua-passaggio, anche l’esperienza umana del dolore è sofferenza-passaggio, sofferenza pasquale.
Un passare oltre che conduce da una vita a un’altra. Un movimento che conduce verso una vita più ricca di energie, capace di vincere il male e la morte, il non senso e la schiavitù della paura. È questo un compito irrinunciabile per ciascuno, una responsabilità vitale.
Cristo crocifisso attraversa la realtà del dolore come un potente effluvio di vita che promana dal dono di sé. La creatura umana sofferente è come sospinta, nell’esperienza del dolore, verso quel transitare salvifico di Cristo, fino alla soglia della libertà, fino al momento in cui è necessario compiere il passo dell’amore, della volontà intesa come risposta libera all’interno di una relazione. Questa si esprime nelle molteplici manifestazioni umane (universali e non impedite da alcun carattere di malattia o disabilità), realizzando la piena adesione a Cristo dell’intera esistenza, raccolta entro i poli di nascita e morte.
Tale compito irrinunciabile ha in sé l’esigenza della missione, dell’annuncio. Sappiamo che non si attua alcuna pienezza in noi senza una trasmissione agli altri, senza portare frutto intorno a noi. L’apostolato del Centro Volontari della Sofferenza è azione pastorale concreta, incontro, vita di gruppo, presenza attiva dei sofferenti stessi come primi e più efficaci evangelizzatori, nella vita parrocchiale e diocesana, in tutte le dinamiche di azione che riteniamo proprie di ogni battezzato.
ENCICLICA/ 1. Zamagni: diciotto anni dopo la Chiesa non gioca in difesa ma va all’attacco - INT. Stefano Zamagni - mercoledì 8 luglio 2009 – ilsussidiario.net
È stata presentata ieri la terza enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate, che reca come sottotitolo “Sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”. Dei principali temi affrontati dal documento ilsussidiario.net ha parlato con Stefano Zamagni, economista: dalla divisione tra sfera economica e sfera sociale, al principio di fraternità e a quello di sussidiarietà, passando per il bene comune e la giustizia. Per arrivare alla crisi economica, «dominata dall’ethos dell’efficienza». Ma l’enciclica non contiene solo una critica, dice il professore; propone soluzioni.
Professore, ogni enciclica vuole aiutare a capire i “segni dei tempi”. Quali sono le sfide di oggi alle quali la Caritas in veritate vuole dare una risposta?
Dirò subito che questa è un’enciclica molto innovativa, perché non si limita, come ha detto lei, a una lettura dei segni dei tempi, ma va oltre: indica quali sono le linee lungo le quali muoversi se si vogliono risolvere i problemi che vengono denunciati. Rerum novarum e Centesimus annus sono state encicliche che hanno parlato in difensiva: la Chiesa esprimeva perplessità e dubbi e invitava gli uomini di buona volontà a correggere gli errori del sistema. Ma questa mi pare più propositiva.
Qual è, a suo modo di vedere, il vero centro dell’enciclica?
La critica e l’invito a superare la dicotomia tra la sfera dell’economico e la sfera del sociale, caratteristica dei due sistemi dottrinari ideologici che hanno dominato il ‘900: l’anarco-liberismo e il socialismo. Per entrambi l’economico, ripudiato o accettato, era la sfera “cattiva”, consistente nella massimizzazione del profitto a scapito dei diritti degli altri. Opposto a questa stava il sociale, come ambito di chi tentava di controbilanciare quello che di malato e perverso avveniva nell’economico.
È una divisione che ha avuto fortuna, le pare?
Certamente. È venuta da qui l’idea del welfare state: lo stato interviene nella società per redistribuire i beni derivanti dagli errori del mercato.
E i cattolici?
Il ruolo dei cattolici, ritagliato nel sociale, è sempre stato visto come un correttivo. Nella Caritas in veritate il Papa dice no a questa impostazione, perché gli elementi della socialità, come solidarietà e fraternità, devono “entrare” nell’economia e non starne fuori. È il superamento della logica dei due tempi: prima si fanno i soldi e poi si pensa alla redistribuzione. È una logica sbagliata, perché quando si mette mano alla redistribuzione potrebbe essere troppo tardi. E se io per ottenere quella ricchezza offendo la dignità delle persone, ogni redistribuzione diventa tardiva perché la dignità non può essere compensata.
Il principio di fraternità nell’enciclica assume un ruolo centrale. Perché?
Perché la società fraterna è anche solidale, ma non è vero il contrario. Prendiamo una società di socialismo reale: è solidale ma non fraterna. La fraternità è il principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di essere diversi. Uno deve poter essere libero di manifestare dentro la sfera economica la propria credenza a certi valori o una visione della società. Senza che questo sia compito dello stato.
È allo sviluppo della persona che si lega il concetto di giustizia, affrontato fin dall’introduzione?
Sì. C’è un concetto forte di giustizia che va oltre il mero rispetto delle leggi e che sta nel consentire a ciascuno, e a ciascun gruppo sociale, di esprimere il proprio potenziale e le proprie risorse. Ed è per questo che il Papa giustifica il principio di sussidiarietà. Perché se uno si chiede: come si può concretamente realizzare la società fraterna? La risposta è: applicando il principio di sussidiarietà. Una solidarietà senza sussidiarietà, aggiunge il Papa, scade nell’assistenzialismo e quindi nel dogmatismo statocentrico.
Nell’enciclica la sussidiarietà è estesa oltre limiti dello stato. Come mai?
Oggi il principio di sussidiarietà non può più venir limitato all’ambito nazionale, ma dev’essere applicato a livello globale. Ecco perché il Papa parla di una governance globale di tipo sussidiario. Globale ma di tipo poliarchico: basata cioè su una pluralità dei centri di potere, perché il potere non può stare nelle mani di uno solo, anche fosse la persona più illuminata. E la modalità attraverso la quale mettere le regole deve essere sussidiaria.
Qual è la “risposta” della Caritas in veritate alla crisi economica?
La crisi è figlia di due errori ideologici che hanno dominato gli ultimi trent’anni. Il primo è l’ethos dell’efficienza: l’idea secondo cui i diritti della persona vengono tacitati se questa non è efficiente, se non “vale” secondo criteri dettati dal principio dell’efficienza stessa. Oggi l’ideologia dell’efficienza regna sovrana e viene brandita come spada per legittimare lo status di tante diseguaglianze: se sei più povero di me è perché non vali niente. I manager superpagati, invece, erano così efficienti che hanno fatto fallire le banche.
Dunque la crisi affonda le sue radici più in un problema umano che strettamente tecnico?
Ma l’ethos dell’efficienza è proprio questo: il mito che si afferma quando viene negata la centralità della persona. L’altro errore invece è l’ideologia dell’impresa come merce: una merce come tutte le altre, che può essere comprata e venduta in base alle convenienze del momento. Ma questa è una novità assoluta, perché per secoli l’impresa è stata vista al contrario come un’istituzione destinata a durare nel tempo.
Senza contare le conseguenze per i lavoratori.
Più che di lavoratori parlerei di complessiva perdita di senso del capitale umano. Esso non può avere significato soltanto in quanto aumenta il prezzo di mercato dell’impresa. Così facendo viene eliminata la relazionalità, cioè il fatto che la persona umana è il vero fondamento dell’attività di impresa.
La crisi ha rimesso in discussione i fondamenti del mercato. Qual è il fattore principale che gli permette di funzionare?
La finalizzazione al bene comune. In questo l’enciclica riprende la linea di pensiero dell’economia civile. Personalmente ne sono lieto, perché l’enciclica ha sposato la mia linea, cosa che non mi aspettavo. Mentre l’economia capitalistica è finalizzata alla massimizzazione del profitto, l’economia civile è finalizzata alla massimizzazione del bene comune. Il tuo bene deve andare d’accordo col mio bene, che quindi non può prescindere dal tuo e da quello dell’altro. Il concetto di bene comune - altro caposaldo dell’enciclica - è anti individualistico, perché riconosce la dinamica relazionale propria della persona. Qui viene fuori tutta la ricchezza dell’impostazione cattolica.
Perché?
Perché il bene comune non è sacrificio, ma armonia di rispettivi interessi: io devo fare il mio interesse, ma non contro il tuo. È il concetto che stanno diffondendo da anni le Economie di comunione del movimento dei Focolari e Compagnia delle opere. Nelle loro attività veicolano concretamente l’idea che l’impresa per aiutare gli altri non deve andare fuori mercato e chiudere in perdita: deve anch’essa fare utile, ma consentendo anche agli altri di farlo.
Le faccio un’obiezione tipicamente laicista. Nell’enciclica è scritto che “la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende di intromettersi nella politica degli Stati”. Ma allora, le chiedo, perché parla?
La Chiesa non ha a cuore una formula politica o sociale, ma il bene dell’uomo. Quando vede che questo è messo a repentaglio da istituzioni e comportamenti egoistici e perversi interviene per correggere e insegnare. Dopo di che la traduzione in iniziative concrete è lasciata agli uomini che vivono nella società. Quindi da parte della Chiesa non c’è nessuna invasione di campo.
Lei ha fatto parte del gruppo di lavoro che ha redatto il documento. Si dice che abbia avuto una gestazione lunga e travagliata. È così?
Non direi. Basti pensare che la Centesimus Annus ha avuto una gestazione di ben cinque anni, dal 1986 al 1991, mentre quella della Caritas in veritate è durata due anni e mezzo. L’elaborazione è parsa più lunga del previsto e si è determinata una certa attesa perché qualcuno che avrebbe dovuto rispettare la consegna del silenzio non si è comportato nel modo corretto.
E l’esplosione della crisi economica ha imposto una revisione profonda?
La crisi è stata un evento contingente che ha allungato i lavori di quattro, cinque mesi, perché il testo era già pronto alla fine di settembre. Tra settembre e la data di uscita, inizialmente prevista per l’8 dicembre, c’è stata la crisi e allora si è pensato ad un supplemento di indagine che ne tenesse conto. In alcuni casi al Papa sono stati presentati dei punti in alternativa: a cominciare dal titolo, per esempio. Alcuni volevano “Caritas in veritate”, altri “Veritas in caritate”. In questo caso è stato lo stesso Benedetto XVI a sciogliere le riserve, scartando un’impostazione platonica per sottolineare il primato del bene sul vero.
MANIFESTO CDO/ È la carenza di “veri” adulti nella scuola la causa dell’emergenza educativa - Daniela Notarbartolo mercoledì 8 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Desidero partire dalla prima parte del documento della CDO: mi ha colpito soprattutto la giusta gerarchia fra gli oggetti, la precedenza dell’adulto che educa.
Chi è l’adulto, quando si trova di fronte un ragazzo? Egli è colui che riesce a cogliere nelle sue giuste dimensioni il bisogno del piccolo. Ogni padre sensato sa che il figlio non ha bisogno soltanto delle scarpe e del cibo, di condizioni di relativo benessere, ma di una positività che gli permetta di affrontare ogni prova della vita con la grinta necessaria: quella positività risiede prima di tutto nel rapporto che il padre ha con lui. Ogni genitore che non censuri la propria responsabilità sa benissimo che non può farsi un alibi di ciò che dà di materiale al proprio figlio, se non riconosce il vero bisogno e non risponde ragionevolmente: dedica attenzione, tempo, riconosce la sua identità come diverso da sé, gli pone dei limiti, lo accompagna e lo appoggia. Già l’idea dell’adulto come presenza positiva oggi è rivoluzionaria.
Anche a scuola questa posizione dell’adulto si traduce nella identificazione del bisogno vero del ragazzo: come si chiamano le cose che ho intorno ? A che servono ? Perché sono importanti e quale significato hanno attribuito nel tempo gli uomini alle cose ? Con quali strumenti (di pensiero, di organizzazione sociale, materiali) è possibile affrontare la complessità del mondo ? È quello che abbiamo sempre chiamato “senso”. Il senso delle cose: non un’ideologia fra le altre, non una parola d’ordine, ma semplicemente la risposta a un bisogno di avere ragioni adeguate per poter aderire all’essere: altrimenti non ci sarà intrapresa, non ci sarà responsabilità, non ci sarà creatività sociale e personale. Quest’idea di intrapresa mossa da una positiva adesione alle cose è la vera chiave di volta per tutto il resto, mentre la liquefazione dei rapporti e la mancanza di sfide vanno nella direzione contraria alla crescita.
In realtà, che la scuola dia una risposta del tutto parziale ai bisogni dei ragazzi è sotto gli occhi di tutti: dominano i giovani la noia e l’insoddisfazione, e spesso essi sopportano la scuola come un pedaggio necessario per accedere comunque alla vita adulta, un’enorme parentesi in cui stanno rinchiusi per anni. Ciò deriva in buona parte dal relativismo culturale degli insegnanti, una categoria che ha sistematicamente fatto del «non ho una verità da insegnare, una cosa vale l’altra» una garanzia di rispetto per i giovani, non accorgendosi di tradire tragicamente la loro aspettativa.
Ma non è solo il neutralismo il nemico dei giovani. Può essere una risposta ragionevole al proprio bisogno una scuola dove non si verifica mai se quello che si fa risponde alla domanda di sensatezza, dove le iniziative vengono lanciate a raffica e mai monitorate? Dove i risultati di apprendimento sono un optional? Dove i soldi sono spesi senza verificare l’efficacia e il raggiungimento degli obiettivi?
Dal punto di vista istituzionale, non incide meno sulla ragionevolezza di tutta l’operazione-istruzione-obbligatoria che i professori vengano messi in cattedra in modo semi-casuale, che le famiglie che iscrivono i figli in una certa sezione invece che in un’altra sperino nella buona stella, e si sappia fin dall’inizio che il titolo di studio è poco più che carta straccia. È necessario pensare anche al contesto in cui avviene il rapporto fra l’adulto e il ragazzo. Ecco perché parlare di valutazione esterna, di autonomia e libertà di scelta delle famiglie, di percorsi, di formazione degli insegnanti non è cosa diversa dal parlare di senso.
Di questo insieme di cose le materie scolastiche sono un aspetto, anche se centrale. Tanto per fare un esempio che mi compete, la padronanza linguistica, competenza numero uno fra le otto indispensabili per la vita attiva, passa certamente per gli insegnamenti scolastici. Il modo di esprimersi cresce insieme all’età: «quando ero bambino parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato» (S. Paolo ai Corinzi). Un ambito di sapere come la grammatica, ridotta a sapere astratto che fornisce al più categorie metacognitive di categorizzazione, non risponde al bisogno dei ragazzi. Osservare come funziona la lingua, quante mirabili possibilità di scelta offre in termini di risorse linguistiche per esprimere concetti e relazioni, e come la uso io, questo è umano. Sentire la differenza fra due frasi simili come «ho studiato, anche se ho preso un brutto voto» e «anche se ho studiato, ho preso un brutto voto» (tanto per mostrare l’incidenza della focalizzazione nel discorso) e decidere consapevolmente quale corrisponde al proprio stato d’animo, è indispensabile per la propria identità. Ma a scuola conta di più sapere che è una subordinata-concessiva-introdotta-da-congiunzione che non accorgersi di usarla tutti i giorni per lamentare lo scarto fra aspettative e realtà: la vita dentro le parole.
Lo sforzo da fare è quello di rendersi conto dall’interno, dalle classi e dai consigli di classe, che ci sono dei meccanismi bloccati nella scuola, un’ingessatura che impedisce il movimento anche ai migliori insegnanti, e provare a metterci mano una buona volta. Autonomia, valutazione, parità, formazione e carriera degli insegnanti: non sono parole d’ordine di qualcuno, ma cunei nel meccanismo per rimettere in moto il sistema. Non c’è più né destra né sinistra, né Gelmini né Fioroni, né Moratti né Berlinguer, ma tutti noi siamo uno, impantanati! Di solito si dice repetita iuvant, ma qui non sono bastati tentativi di cambiamento radicale come la legge dell’autonomia, la legge 62 sul sistema paritario di istruzione, la conferenza Stato-Regioni, il quaderno bianco di Fioroni e Padoa Schioppa: come se si dovesse sempre ricominciare il discorso da capo, e si sentisse ogni volta il dovere di difendere l’ineffabile unicità della scuola dall’aridità dei “valutatori esterni”, o dai poteri clericali, o dai nemici del liceo classico.
C’è molto da fare e non c’è tempo da perdere, non solo perché la stagione delle riforme non può durare in eterno (oltre tutto si fa fuori psicologicamente una generazione di insegnanti), ma soprattutto perché il tradimento delle aspettative dei giovani ha dei costi sociali e personali che una società non può permettersi di pagare. La società può ripartire da un atteggiamento ragionevole di fronte ai cambiamenti che prima di tutto sappia cogliere “di che si tratta”, e non lasci per miopia fuori dall’orizzonte quello che conta.
L’AUDACIA PAPALE STA NELLA SUA VISIONE - IN GIOCO LE CATEGORIE PER RIPENSARE IL SENSO DELL’UMANO - FRANCESCO BOTTURI – Avvenire, 8 luglio 2009
« G ià Paolo VI aveva riconosciuto e indicato l’orizzonte mondiale della questione sociale. Seguendolo su questa strada, oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75). Questa affermazione ci sembra riassumere bene la linea di fondo della nuova enciclica sociale. Benedetto XVI riprende il filo della Populorum progressio (1967) di Paolo VI, a cui dedica il primo capitolo, aggiornando il significato del suo tema principale, lo sviluppo: la nuova enciclica afferma con convinzione l’attualità dell’idea e insieme la sua nuova portata antropologica. Si direbbe che tutto lo sforzo dell’enciclica è di mostrare la ragionevolezza di coniugare in modo nuovo tecnica, economia e politica con una sapienza e una saggezza sull’umano senza le quali nessuno dei grandi problemi contemporanei può essere affrontato oggi con buon esito. «Lo sviluppo – dice il testo verso la fine – è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune» (71). Non si tratta, dunque, solamente di accompagnare o integrare l’economia e la finanza con qualche discorso morale, ma più radicalmente di avviare «una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini» (n. 32), con una nuova coscienza dell’impegno antropologico che la prassi e la teoria economica portano in sé. Cosa evidentemente di enorme portata e di così difficile attuazione per il condizionamento degli interessi in gioco e per il peso della tradizione scientifica dell’economia improntata a un’idea dell’homo oeconomicus , così distante da quella delineata da Benedetto XVI.
Ma il Papa non teme di sfidare la difficoltà, perché la drammaticità e l’urgenza delle situazioni, che richiama lungo la sua Lettera, chiedono operazioni culturali forti e coraggiose. L’età della globalizzazione – dice in vario modo il testo – rimette in gioco globalmente il senso dell’uomo e le nostre categorie culturali con cui pensare la totalità dell’umano in questione. Non solo, ma il motivo primo dell’audacia papale è nella visione di fede che egli ripropone, rilanciando l’idea della dottrina sociale della Chiesa come sapienza, ricca di molteplice sapere (teologico, filosofico, scientifico) a servizio dell’uomo; esercizio di un «amore ricco di intelligenza» e di «intelligenza piena di amore» (n. 30).
Il titolo dell’enciclica è in questo senso programmatico: «carità nella verità » è la sintesi di un esercizio dell’antropologia cristiana di cui parla con intensità l’Introduzione. A fondamento sta l’idea del Dio cristiano come Logos e come Agape, che papa Benedetto ha riproposto fin dall’inizio del suo pontificato, e che qui mostra in modo sistematico il suo significato per la vita storica dell’uomo alle prese con i problemi della nuova sociale mondiale. «Dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende»: l’enciclica chiede di porre qui l’angolo visuale con cui guardare alla vita sociale, nella consapevolezza che questo non estranea dai problemi, ma al contrario fornisce l’unica prospettiva entro cui la totalità dell’uomo può essere davvero vista. Una carità nel senso autentico del termine cristiano e quindi coniugata con la verità; anzitutto quella donata da Dio e manifestata in Cristo.
Anche questo porre all’inizio la «carità nella verità» va contro corrente rispetto alla tendenza – pur valida a un certo livello – di trattare le questioni sociali nel modo meno confessionale possibile, anche per un giusto tentativo di dialogo pubblico su di esse. Qui è proposto un certo rovesciamento della prospettiva: la carità nella verità come punto di partenza – non solo come motivazione ma anche come concezione (quella articolata dalla Dottrina sociale cristiana) – non è una limitazione di campo, ma al contrario spalancamento teorico e pratico, orizzonte entro cui lavorare con chiunque abbia a cuore le sorti storiche dell’uomo, sostenuti da un patrimonio di dottrina che ama la verità dell’uomo.