Nella rassegna stampa di oggi:
1)Le sfide per la libertà religiosa in Europa poste nell'OSCE - Tra le altre, ampliare l'obiezione di coscienza e ridurre la pressione
2)MARIOLOGIA: i valori dello Scapolare del Carmine
3)La novità della "Caritas in Veritate" - di Pierpaolo Donati* - ROMA, martedì, 21 luglio 2009 (ZENIT.org).- Dell’Enciclica Caritas in Veritate sono già state dette e scritte molte cose. Giustamente ci si è concentrati sul suo messaggio centrale, e cioè che la carità vissuta nella verità “è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (n. 1). Il richiamo del Papa a ritrovare il senso più profondo dell’agire umano nell’amore autentico verso Dio (che è Verità) e verso gli altri uomini è certamente il cuore dell’enciclica. Indubbiamente, è la stella polare che orienta sia l’analisi dei grandi problemi economici, sociali e politici del mondo contemporaneo, sia delle loro possibili soluzioni.
4)21/07/2009 15:34 – INDIA - La Corte Suprema revoca l’ordine di aborto per una 19enne orfana e disabile mentale - Violentata da due operatori della casa di accoglienze governativa in cui era ospitata, la giovane è alla 20ma settimana di attesa. Il tribunale del Punjab aveva ordinato l’interruzione di gravidanza perché la ragazza non poteva accudire il figlio e lo avrebbe considerato un “giocattolo”. La 19enne chiedeva di poter partorire.
5)L’indifferenza del sangue - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 21 luglio 2009
6)Il male oscuro delle mamme - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 21 luglio 2009
7)Il relativismo di Obama - Lorenzo Albacete mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
8)ALCOL/ Gary Reinbach e quella società “perfetta” dove la carità è un premio a punti - Renato Farina mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
9)CRISTIANESIMO/ Giovanni Calvino e Ignazio di Loyola, un problema di grazia e libertà - Giuseppe Reguzzoni mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
10)Sì al divieto/Che follia dire ai giovani: niente regole - di Michele Brambilla – IlGiornale, 22 luglio 2009
11)L’USURA NON CONOSCE BARRIERE - I PASSI PIÙ INFAMI SUI MARCIAPIEDI LUCIDI DELLA METROPOLI - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 22 luglio 2009
12)L’ I TALIA E IL COMMERCIO CLANDESTINO DI OVOCITI IN R OMANIA - Quel traffico di vita umana frenato da una legge rigorosa - BENEDETTO IPPOLITO – Avvenire, 22 luglio 2009
13)Fine vita, i medici bocciano la linea del loro presidente - Roccella: serve un diritto forte per evitare dubbi - DA R OMA P IER L UIGI F ORNARI – Avvenire, 22 luglio 2009
Le sfide per la libertà religiosa in Europa poste nell'OSCE - Tra le altre, ampliare l'obiezione di coscienza e ridurre la pressione
VIENNA, martedì, 21 luglio 2009 (ZENIT.org).- L'estensione dell'obiezione di coscienza a tutte le tematiche eticamente sensibili è apparsa come una delle sfide attuali per l'esercizio della libertà religiosa in Europa durante il seminario “Libertà di religione o di credo”, svoltosi a Vienna il 9 e il 10 luglio.
Attualmente solo l'obiezione di coscienza relativa al servizio militare obbligatorio è riconosciuta tra gli impegni dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE).
Uno dei relatori intervenuti al seminario, la docente dell'Università Cattolica del Sacro Cuore Ombretta Fumagalli Carulli, ha sottolineato la necessità di estendere l'obiezione di coscienza.
A suo avviso, dovrebbe essere riconosciuta anche in altri settori come l'aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l'adozione di minori da parte di coppie omosessuali e la ricerca con embrioni umani.
“In Europa, come nel Nord America, sono infatti ricorrenti i casi in cui medici, farmacisti, infermieri che rifiutano pratiche abortive sono licenziati”, ha segnalato nel suo discorso, come riporta “L'Osservatore Romano”.
“Ufficiali dello stato civile sono costretti a celebrare matrimoni tra persone dello stesso sesso o a dimettersi, magistrati che hanno espresso l'opinione che l'adozione dei minori non vada consentita alle coppie omosessuali sono allontanati dalla magistratura o destinati ad altre funzioni”.
La Fumagalli ha aggiunto che la libertà di religione o di credo continua ad essere violata quotidianamente nell'area dell'OSCE, nonostante i numerosi impegni degli Stati membri.
In questo senso, ha denunciato “episodi di violenza sulla base di motivazioni religiose contro cose (in particolare luoghi di culto e cimiteri) e persone (omicidi compresi)”, a cui si aggiungono “persecuzioni di autorità pubbliche (fermi, arresti, perquisizioni e sequestri arbitrari ed illegali), nonché sistematiche negazioni dei visti d'ingresso a religiosi e volontari e limitazioni indebite all'importazione e alla distribuzione di materiale religioso”.
Tra le sfide attuali per l'Europa, l'esperta ha ricordato anche le condizioni per l'effettivo e pieno esercizio della libertà religiosa quanto ai luoghi di culto, indicando anche che “il sistema della registrazione delle confessioni, di per sé non conflittuale con la libertà religiosa, è spesso un cavallo di Troia per limitare una serie di diritti, come la possibilità di avere in proprietà un luogo di culto, o di istituire seminari e istituti di formazione per il clero, o di garantire l'assistenza spirituale nella carceri, negli ospedali e nelle forze armate”.
La Fumagalli ha parlato di sfide meno tangibili constatando che “rimane altresì sullo sfondo, per ora silenziosa in sede OSCE ma vivace in circuiti culturali di società secolarizzate, la convinzione che le religioni, anziché elemento di progresso e di benessere, siano un fatto negativo da combattere”.
A suo avviso, “la riedizione in termini moderni di un siffatto ateismo antireligioso, con la eventuale pretesa per giunta che esso rientri nella tutela OSCE, sancendo un diritto alla rimozione della religione, significherebbe fare un passo indietro”.
Ciò, avverte, significherebbe “tornare alle scelte politiche di quei Paesi dell'Est che garantivano libertà solo alla propaganda antireligiosa”.
“Precipiteremmo insomma in una situazione di illibertà che proprio l'OSCE ha contribuito a superare con i suoi successi nella salvaguardia e implementazione della libertà religiosa”, ha constatato.
“È confortante che nessuno nel meeting di Vienna abbia posto in dubbio il ruolo delle religioni nella costruzione della 'città dell'uomo' – dichiara –. Ma, proprio perciò, è bene non abbassare la guardia”.
L'incontro “Libertà di religione o di credo” è stato organizzato dall'Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani (ODIHR) dell'OSCE.
I rappresentanti degli Stati dell'OSCE, e la Santa Sede come membro partecipante, hanno affrontato tre grandi temi: la salvaguardia della libertà di religione o di credo, lo status delle confessioni religiose e i luoghi di culto.
I partecipanti hanno concordato sui risultati raggiunti a favore della libertà religiosa o di credo, ma hanno anche constatato che i Governi non fanno abbastanza perché questi impegni vengano rispettati, segnala un comunicato dell'OSCE.
L'Organizzazione è formata attualmente da 56 Stati membri, di Europa (inclusi Federazione Russa, Turchia e tutti i Paesi dell'Unione Europea), Asia Centrale e America (Canada e Stati Uniti).
Partecipazione della società civile
Prima del seminario, un centinaio di rappresentanti della società civile di tutta l'area dell'OSCE ha esortato gli Stati membri a “creare attivamente un'atmosfera nello spazio pubblico in cui, con libertà di religione o credo, si possa prosperare meglio e le comunità religiose e di credenti possano partecipare a un dialogo pieno e fruttuoso”.
Le organizzazioni Observatorio para la Libertad Religiosa (Spagna), Alliance Defence Fund (Stati Uniti), Paneuropa Union (Austria) e la piattaforma christianophobia.eu hanno presentato un documento contenente raccomandazioni.
I rappresentanti della società civile hanno celebrato anche incontri e una plenaria con vari relatori.
Tra gli altri, è intervenuto il portavoce dell'Osservatorio per la Libertà Religiosa e di Coscienza (OLRC), Pablo Rodríguez, che ha esposto la situazione della Spagna riguardo all'insegnamento della materia di Educazione alla Cittadinanza.
“In Spagna non si è giunti a un consenso per quanto riguarda il concetto di 'tolleranza', e la materia di Educazione alla Cittadinanza che viene impartita obbligatoriamente nelle scuole ha già provocato più di 15.000 famiglie obiettrici, cifra non trascurabile”, ha dichiarato davanti agli inviati dei Paesi membri e alle centinaia di ONG internazionali presenti.
Rodríguez ha espresso la preoccupazione dell'Osservatorio per la possibilità che in Spagna alcuni diritti che sembravano consolidati si vedano messi in discussione in leggi recenti o bozze o disegni di legge attuali.
Queste norme, ha spiegato, “interessano materie fondamentali come il diritto dei genitori a che l'educazione dei figli si sviluppi in modo coerente con le loro convinzioni”.
A tale proposito, ha citato fattori come “l'obiezione di coscienza dei medici, del personale sanitario e dei farmacisti in questioni relative all'aborto e alla bioetica, o la presenza della religione, incluse le sue manifestazioni esterne, nella vita comunitaria e nella vita pubblica”.
MARIOLOGIA: i valori dello Scapolare del Carmine
1) Primo valore: la “consacrazione”
Lo Scapolare del Carmine è sintesi di molti, anzi di tutti i più sicuri valori della pietà dei fedeli verso Maria. Il primo è la “consacrazione”. È quella che Maria stessa fa dei suoi figli, vestendoli e segnandoli in modo speciale come appartenenti a lei. Il primo Santo che esprime in termini chiari l'offerta totale di sè alla Vergine è il grande vescovo predicatore- teologo Giovanni Damasceno (+ 749), nel quale si riassume l'insegnamento circa Maria di tutti i precedenti “Padri” della Chiesa: “Anche noi oggi ci presentiamo a Te, o Sovrana, sì, dico, o Sovrana Madre di Dio e Vergine: noi consacriamo a Te mente, anima, corpo, tutto il nostro essere... “ Chi porta lo Scapolare del Carmine pensa esattamente in tali termini. E tutti i più grandi Maestri dell'Ordine (S. Teresa d'Avila, S. Giovanni della Croce, S. Teresina...) lo ripeteranno continuamente.
2) Secondo valore: “consegna di sè” a Maria
È legato alla consacrazione, e significa quello che il devoto fa da parse sua. Da notare che tale consegna viene dalla mentalità medioevale, allorché un uomo, pur essendo libero e non già schiavo (né servo della gleba), sentendosi però poco sicuro nei propri affari, si presentava, con una corda al collo, ad un signore medioevale e si impegnava di stare al suo servizio (obsequium) pur di averne protezione.
Molte volte questo gesto era fatto di padre in figlio. Su questa base culturale, ecco spuntare nei secc. X-X1 delle bellissime preghiere in cui tanti devoti esprimono l'affidamento, il dono di sé, la dedizione completa, il senso di servizio alla Madonna, loro Signora. Una preghiera che risale a Fulberto di Chartres (+1028) contiene innanzitutto un chiaro riferimento alla consacrazione battesimale e poi mostra che da Gesù stesso (come avvenne sul Golgata) l’orante è stato affidato a Maria.
“Ricordati, Signora, che nel battesimo sono stato consacrato al Signore e ho professato con la mia bocca il nome cristiano. Purtroppo non ho osservato quanto ho promesso. Tuttavia sono stato consegnato e affidato a te dal mio Signore Dio vivo e vero. Salvami ora!,” Evidentemente lo Scapolare riprende fortemente questo sospiro filiale e lo proclama in maniera tutta particolare. La diffusione dello Scapolare, presso gente umile e anche presso gente di rango e di cultura, mostra che questo valore era sentito in modo vasto. Sentirsi protetti è uno dei bisogni più profondi e veri dell'uomo, così fragile ed esposto al male e così desideroso di amore e verità. E Maria è li, con lo Scapolare, a garantire il credente che il Vangelo, con il famoso “Donna, ecco tuo figlio!”, continua nel tempo.
3) Terzo valore: “intimità familiare” con Maria
Quando gli eremiti del Monte Carmelo, nel secolo XIII, “dedicarono” la loro chiesetta alla Madonna, essi, che volevano contemporaneamente essere alla “sequela” o al “servizio” del Signore Gesù, sanzionarono con la professione religiosa e quindi con un giuramento santo la loro scelta. La conseguenza fu, come per altro presso tutti i Medicanti, di appartenere solamente a Cristo: e quindi a nessun altro, neppure a se stessi; e di appartenervi - ecco l'aspetto tipico del Carmelo - attraverso uno “stare presso” o un “abitare in case” di Maria (la chiesetta era una replica della casa della Madonna nella vicina Nazareth). Quando nel 1479 Amoldo Bostio compose il De patronatu et patrocinio presentò Maria appunto come Madre-Sorella, sganciandola così dal modulo feudale della “Signora” e sottolineando la prerogativa della intimità del carmelitano “fratello” della Vergine. Lo Scapolare ha sempre voluto dire in modo tangibile proprio questo, tanto ai Frati consacrati con voti come a fedeli comuni rivestiti dell' “abito di Maria”
Fonte: http://www.lucisullest.it/dett_news.php?id=4930
La novità della "Caritas in Veritate" - di Pierpaolo Donati* - ROMA, martedì, 21 luglio 2009 (ZENIT.org).- Dell’Enciclica Caritas in Veritate sono già state dette e scritte molte cose. Giustamente ci si è concentrati sul suo messaggio centrale, e cioè che la carità vissuta nella verità “è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (n. 1). Il richiamo del Papa a ritrovare il senso più profondo dell’agire umano nell’amore autentico verso Dio (che è Verità) e verso gli altri uomini è certamente il cuore dell’enciclica. Indubbiamente, è la stella polare che orienta sia l’analisi dei grandi problemi economici, sociali e politici del mondo contemporaneo, sia delle loro possibili soluzioni.
In questo breve intervento io vorrei sottolineare un aspetto dell’enciclica che non è stato ancora approfondito. Alludo al nuovo ‘modo di pensare’ che Papa Ratzinger propone in questo testo. Si tratta di un modo di pensare che è centrato sulla relazionalità come categoria centrale per leggere la condizione umana e le vie da percorrere per un autentico sviluppo integrale della persona e dell’umanità (“Un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione”, n. 53).
Papa Ratzinger vede nella carità “la via maestra della dottrina sociale della Chiesa” con la seguente giustificazione: perché “essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici” (n. 2). Sin dall’inizio, appare chiaro che la chiave di volta dell’enciclica viene collocata nella qualità delle relazioni, micro e macro, passando per le relazioni meso (quelle proprie delle formazioni sociali intermedie di società civile, di cui si parla diffusamente nei capitoli 3,4,5).
Alla base di questa impostazione c’è l’idea che, ferma restando la verità perenne secondo cui la dignità umana consiste nella filiazione divina, è altrettanto vero che oggi cambia il senso (storico, culturale, contestuale) di ciò che è umano. Lo scenario ci pone davanti a un complesso di degradazioni di ogni genere, specie nel campo della manipolazione della vita umana e della famiglia, così come a tante emergenze, da quella educativa, alla disoccupazione, alla negazione di fondamentali diritti umani in tante parti del globo. Non si può affrontare questo nuovo scenario senza un’adeguata antropologia (“La questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica”, n. 75) e senza che tale antropologia sia capace di proiettarsi poi sull’intera società, cioè su tutti i rapporti sociali in cui è in gioco la vita umana.
La via che Benedetto XVI propone può essere, a mio avviso, chiamata ‘relazionale’ a motivo del fatto che è nella categoria della relazione che va cercata la soluzione. “La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l'uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L'importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche per i popoli. È, quindi, molto utile al loro sviluppo una visione metafisica della relazione tra le persone” (n. 53). E poco più oltre: “La rivelazione cristiana sull'unità del genere umano presuppone un'interpretazione metafisica dell'humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale” (n. 55).
Ecco dunque il filo rosso dell’enciclica: leggere l’umano attraverso la relazionalità e di qui procedere a svolgere un’analisi adeguata al nostro tempo delle varie questioni che ci attanagliano. La qualità delle relazioni sociali si qualifica per ciò che le persone amano di più, per le premure ‘ultime’ che le persone esprimono nelle loro relazioni. L’amore è dono di Dio, ma anche premura fondamentale delle persone umane. La sua presenza o la sua assenza spiega i problemi di cui soffriamo e dischiude le loro possibili soluzioni. Ma l’amore non è un bel sentimento, bensì è una certa relazione con se stessi, con gli altri e con Dio. L’enciclica insiste proprio sul fatto che la carità non può essere intesa come un generico sentimento, affetto o emozione. La carità di cui si parla, proprio perché è relazione, non può essere un fatto ‘privato’ (privato di responsabilità sociale). È invece la sorgente di ogni bene, in quanto bene relazionale. Per questa ragione, l’amore può e deve diventare un principio di organizzazione sociale (la civiltà dell’amore). “Il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società” (n. 51). Occorre che gli uomini tessano “delle reti di carità” (n. 5). “La ‘città dell'uomo’ non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l'amore di Dio” (n. 6).
Di qui, poi, le conseguenze operative. In sintesi: l’idea che le relazioni in cui la carità si concretizza, come il dono e la fraternità, possano e debbano diventare, da realtà marginali ed emarginate nella società moderna, dei principi che hanno un posto di primo piano nelle cose più pratiche, per esempio nel modo di organizzare e gestire le imprese economiche, un’associazione di consumatori, un sindacato, una rete di servizi sociali, lo Stato sociale, le relazioni fra i popoli, e così via. Fino a sostenere l’articolazione della società, del ‘fare società’ (associazioni in senso lato), su una governance di tipo societario e plurale, che realizza il bene comune attraverso una combinazione di solidarietà e sussidiarietà fra tutte le parti. Ciò vale dall’organizzazione di una famiglia su su fino alle relazioni internazionali.
Ma cosa può spingere gli uomini su questa via, stante l’attuale processo di globalizzazione guidato da un capitalismo rampante, da un individualismo sempre più pervasivo, da evidenti fenomeni di scollamento e frammentazione del tessuto sociale?
È qui che entra in gioco la verità, senza cui la carità sarebbe ridotta solo a emozioni: “senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività” (n. 4); e ancora: “la verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali” (n. 3).
Qui si rivela di nuovo l’importanza della chiave relazionale come ‘novità’ dell’enciclica. Infatti, lo specifico dell’enciclica, al di là dei temi ben noti (appello allo sviluppo umano integrale, alla lotta contro le vecchie e nuove povertà, ecc.), sta nell’evidenziare il mutuo interscambio tra carità e verità che si configura come un pensarli ‘relazionalmente’. È da tale relazionalità che possono scaturire i progetti di un nuovo umanesimo aperto alla trascendenza. Non c’è verità senza carità e non c’è carità senza verità. La verità ha bisogno della carità, così come la carità ha bisogno della verità. Questo nesso inscindibile è la relazione che caratterizza l’umano. In essa trovano le loro radici tutte le qualità che possiamo caratterizzare come autenticamente umane, le quali sono indispensabile per avere una ‘società dell’umano’, cioè un’economia, una politica, una tecnologia, una bioetica dal volto umano.
Il nesso relazionale tra amore e verità è sempre necessario, ma le sue forme e i suoi contenuti sono sempre contingenti a motivo della particolarità dei contesti, nello spazio e nel tempo. La portata di questa prospettiva è lo sviluppo di “un nuovo pensiero” (n. 78) che risponde al grido lanciato da Paolo VI: “il mondo soffre per mancanza di pensiero” (n. 53). La Caritas in Veritate ci invita ad abbracciare un nuovo pensiero additandoci una strada precisa, che sgorga da una visione teologica, ma è capace di dialogare e fecondare tutte le scienze umane e sociali.
La Chiesa non pretende di dare delle ricette, ma addita un nuovo modo di pensare che ha nella relazionalità, radicata nella realtà insieme trascendente e immanente della Trinità, la sua fonte. Questa prospettiva, dopo le prime pagine a carattere teologico, è particolarmente espressa come dialogo con le scienze umane e sociali nei nn. 53-55, e dà sostanza a tutte le altre considerazioni più ‘pratiche’ in merito alla configurazione delle relazioni economiche (una nuova economia civile), delle relazioni politiche (un nuovo welfare plurale, sussidiario, relazionale), delle relazioni famigliari e di cura della vita (una nuova bioetica relazionale), e così via.
Il messaggio più profondo dell’enciclica, a me pare, sta dunque nello scommettere su una nuova interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, su un pensiero relazionale che sia all’altezza delle nuove interdipendenze che si vengono a creare tra gli uomini e tra i popoli. Lo sviluppo umano sarà l’effetto emergente di questa nuova visione dello stare in società e delle pratiche che ne conseguono. Per esempio, la procreazione artificiale non potrà essere più pensata e praticata come espressione di un desiderio o di un sentimento privato (emozionale) di uno o due individui, perché ciò che conta è la dignità della relazione da cui nasce il figlio, dignità da cui dipende l’humanum nell’identità del figlio stesso. L’appello di Benedetto XVI “alla reciprocità delle coscienze e delle libertà” è un appello a ripensare la nostra vita in questa direzione, cioè come relazione in ciò che essa ha di umano. Da questo modo di pensare può scaturire una nuova società.
Nell’orizzonte di questa prospettiva il bene comune viene ripensato come bene relazionale, il quale può essere realizzato solo attraverso un uso appropriato e combinato dei principi di solidarietà e sussidiarietà, sulla base di una antropologia relazionale e di una visione relazionale dell’intera società, a partire dalla famiglia.
------------
*Pierpaolo Donati è professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, dove è anche coordinatore del Dottorato di ricerca in Sociologia e direttore del CEPOSS (Centro Studi di Politica Sociale e Sociologia Sanitaria). Past-President dell’Associazione Italiana di Sociologia, ha fondato il CIRS (Centro Interuniversitario per la ricerca sociale, una rete di reti accademiche di ricerca empirica). Dal 1997 è membro della Pontificia Accademia di Scienze Sociali.
21/07/2009 15:34 – INDIA - La Corte Suprema revoca l’ordine di aborto per una 19enne orfana e disabile mentale - Violentata da due operatori della casa di accoglienze governativa in cui era ospitata, la giovane è alla 20ma settimana di attesa. Il tribunale del Punjab aveva ordinato l’interruzione di gravidanza perché la ragazza non poteva accudire il figlio e lo avrebbe considerato un “giocattolo”. La 19enne chiedeva di poter partorire.
Mumbai (AsiaNews) - Può proseguire la gravidanza la ragazza 19enne, orfana e disabile mentale, rimasta incinta dopo essere stata violentata nel centro di accoglienza governativo, Nari Niketan, nella città di Chandigarh. L’Alta corte degli Stati indiani di Punjab e Haryana aveva deciso una “tempestiva e immediata” interruzione di gravidanza, ma la Corte suprema dell’India oggi ha confutato il verdetto accogliendo il desiderio della ragazza che vuole partorire.
Il 17 luglio il tribunale aveva ordinato l’aborto affermando che la ragazza “non aveva capacità intellettuali, sociali, personali, finanziarie e familiari per allevare un bambino” e avrebbe considerato il figlio un “giocattolo”. Per i giudici “la crescita e l’educazione del bambino avrebbe dovuto essere a carico di strutture governative” senza garanzie sul suo futuro.
La Corte suprema sembrava non voler interferire nella decisione del tribunale del Punjab, ma ha cambiato idea dopo l’intervento del legale rappresentante della ragazza, Tanu Bedi. L’avvocato ha ricordato che la maternità è un diritto e che la ragazza è alla 20 settimana di gravidanza in cui l’aborto comporta gravi danni fisici e mentali. Riferendosi alla supposta impossibilità ad accudire il figlio, ha detto: “Se la sua età mentale [secondo gli esperti ha un QI di 9 anni, ndr] è sufficiente per affermare che essa non può prendersi cura del bambino, perché alle donne povere, che non hanno sostanze per fra crescere i loro figli, dovrebbe essere permessa la maternità?”.
Interpellato da AsiaNews, mons. Agnelo Gracias, presidente della Commissione per la famiglia della Conferenza episcopale indiana, riconosce la complessità del caso, ma sottolinea che il giudizio espresso dalla Corte del Punjab sottovalutava troppi elementi. Per il vescovo era sommario il giudizio secondo cui “la ragazza consideri il bambino un giocattolo” e critica la facilità con cui è stato ignorato il suo desiderio di portare a termine la gravidanza. Egli ricorda che “il bambino è innocente” e chiede: “Anche se fosse vero quello che diceva il giudice sulla incapacità della ragazza di accudirlo, l’aborto era l’unica soluzione?”. Il vescovo sottolinea che il piccolo non deve per forza finire in carico al centro di accoglienza governativo, dove per altro la ragazza ha subito le violenze da due operatori. “Ci sono individui e istituzioni come le case di Madre Teresa, - ricorda mons. Gracias - in cui il bambino può ricevere le cure e crescere circondato da amore”.
Per Pascoal Carvalho, medico indiano e membro della Pontifica accademia della vita, “si compiono gravi violazioni della libertà dell’individuo sotto l’eufemismo della dignità umana”. Carvalho sottolinea i risvolti paradossali della vicenda in cui “la Corte del Punjab , invece di riconoscere che questa ragazza, disabile mentale, non era protetta e curata nella casa di accoglienza governativa, aveva ordinato l’interruzione di gravidanza”. Secondo il membro dell’organismo pontificio si è assistito ad un’escalation di violenza contro chi è più debole: “Lo stupro di una donna è un crimine ignominioso, ancor più tremendo è l’abuso di una disabile mentale, ma peggio ancora è l’attacco alla vita indifesa di un bambino”. (NC).
L’indifferenza del sangue - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 21 luglio 2009
Chi ricorda più l’uomo romeno ridotto al macero nella metropolitana a Napoli?
Ogni giorno andava a prendere la metro in compagnia della moglie, d’improvviso s’è scatenato l’uragano, gli scooter rombavano, le pistole crepitavano, in pochi attimi per terra morente un uomo, in piedi fortunatamente illesa la moglie, a gridare disperata un aiuto che non c’è stato.
Per sbaglio è stata colpita a morte una persona, poco importa se uno straniero, un uomo innocente, oppure una persona dal credito esaurito ai giorni a venire.
Quanto accaduto ai tornelli di quella stazione non solo è atroce per una vita annientata, lo è anche per l’atteggiamento nei confronti di una tragedia che non può lasciare indifferente alcuno, in quegli spazi di comuni partenze, in quegli attimi di coscienze nientificate.
In quel morto ammazzato, in quella sua compagna devastata dalla paura e dal dolore, in quel via vai di sconosciuti protesi a una fuga salva vita, c’è dell’altro, non si tratta solamente di un rinculo per lo spavento, c’è altro di più, c’è altro in meno.
Di più nell’eccesso di abitudine alla fatalità, alla sonnolenta indifferenza, un diritto acquisito sul campo a far finta di nulla, a passare avanti, tanto è cosa di tutti i giorni, come ieri i rifiuti sparsi qua e là, la solitudine delle vittime a fare la differenza oggi, che è già domani.
In meno c’è la compassione, quella dimensione che non fagocita cinismo né menefreghismo, non permette di fare foto ricordo sul corpo martoriato altrui, né di imbrattare la fratellanza umana con il trucco cinematografico della società aperta multiculturale solidale, un falso reso credibile da quella finta partecipazione che fa guadagnare una pseudo sopravvivenza, una cultura della solidarietà, dell’inclusione sociale, male recitata.
A Milano, a Palermo, a Bolzano, sarebbe stata la stessa cosa, infatti a volte l’istinto a ripararsi, a proteggersi, a correr via, la fuga è la miglior difesa della vita, ma lì, in quel di più e in quel di meno, c’è un dispiego inaudito di socialità indifferente, di fraternità indifferente, di pietà indifferente.
La violenza è nel piatto del cibo, nei calzini appena messi, nel biglietto del cinema da poco acquistato, nella scuola abbandonata, nella famiglia squassata per arrivare a sera.
La violenza è in ogni curva infilata dritta per arrivare primi, in ogni sgabuzzino camuffato a nascondiglio, in ogni feudo di potere conquistato sulla strada, chi se ne frega se abbattendo a una fermata del proprio viaggio, un uomo in compagnia di tutto il suo mondo.
Scompare persino la rabbia, non resiste alla gogna neppure l’indignazione, rimangono a fare rumore solo passi affrettati verso una salvezza dall’altra parte della carreggiata, senza volgere lo sguardo, proprio come fanno gli assassini, quelli che hanno addomesticato le passioni, le emozioni di una intera città, i sogni e desideri di una gioventù monca, recisa, troppo spesso buttata via a metà del percorso.
Non rimangono da usare neanche tante parole, per tentare di uscire sani di mente e di cuore da una simile circostanza, forse non è più sufficiente parlare di educazione, etica, morale, ora occorre scandire un tempo di trasformazione culturale, di fiducia in quegli uomini e in quelle donne che possono ricondurre la società al posto che le compete, quello del rispetto della vita.
Il male oscuro delle mamme - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 21 luglio 2009
Caldaro – Bolzano: Martina di appena 5 mesi trovata annegata nell'acqua di una cisterna, poco dopo nella stessa cisterna verrà trovata la mamma.
Parabiago: Lorenzo 4 anni, strangolato dalla mamma con un filo elettrico.
Martina aveva 5 mesi ed era nata con il morbo di down, la sua mamma Evi Drescher di anni ne aveva 44, la descrivono come una brava maestra d’asilo, una mamma attenta, aveva un altro figlio di 5 anni.
Le hanno trovate morte, in una cisterna piena d'acqua.
L’ipotesi più probabile è che Evi si sia calata nella cisterna con la piccola in braccio, pare che la nascita di Martina l’avesse fatta precipitare nella depressione post parto, per questo si stava curando.
Lorenzo aveva 4 anni, abitava a Parabiago, in una bella casa con il papà e la mamma, Marcella, 36 anni, una famiglia tranquilla, normale dicono i vicini, ma cos’è normale?
La nonna e la zia del piccolo, insospettite perché non riuscivano a mettersi in contatto con la mamma sono corse a casa e hanno trovato la mamma in stato di shock, Lorenzo in fin di vita, strangolato con il filo di un caricacellulare, è morto poco dopo. Si ipotizza che anche lei soffrisse di depressione.
Già, il male oscuro.
Lo chiamano così, una malattia che ti corrode l’anima, che ti toglie la capacità di vedere cosa di buono c’è intono a te, guardi, ma non vedi, e non ti consolano gli amici, le persone che ti amano, le carezze di un figlio, il guardarlo crescere, non c’è nulla che ti dia gioia.
C’è solo il buio, una grande fatica, una grande solitudine nella quale sprofondi, un nodo alla gola che non si vuole sciogliere.
Cos’è questo demone che ci succhia l’anima?
Perché pare che oggi più di ieri trovi terreno per mettere radici nella nostra anima?
Non bastano i medici e i sociologi a spiegarlo, non bastano i farmaci a fermarlo, si insinua nella normalità, e ti toglie il sorriso, rende tutto insignificante, inutile, il cuore impermeabile all’amore, e l’anima se ne sta inerte, come chiusa in una bottiglia di vetro, la vita tua e degli altri non ti pare più preziosa di un granello di polvere che puoi soffiare e disperdere nel vento.
Così di un figlio vedi solo la fatica di accudirlo, di chi ti ama vedi solo i difetti, degli amici vedi l’egoismo e ti sfugge il loro affetto, la loro disponibilità, di Dio vedi solo la possibilità di raggiungerlo per trovare la pace che non hai.
Cosa sia accaduto a queste donne e a molte altre non si sa, cosa faccia dire – basta – ad una vita che agli altri pare normale e a te insopportabile, nessuno lo sa spiegare.
Chi ha tentato il suicidio senza riuscirci e si è salvato ha detto – non cercate motivi, io che sono vivo non so perché ho tentato di morire.
La scienza non sa dirci come salvare queste mamme e questi figli, come farli sentire meno soli, chissà se la statistica può dirci se anche una volta, quando la vita era un dono di cui non si poteva disporre il male oscuro aveva la meglio?
Il relativismo di Obama - Lorenzo Albacete mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
La scorsa settimana, il presidente Obama ha scelto la Dottoressa Regina Beckman come Surgeon General (N.d.r. direttore della sanità pubblica) degli Stati uniti, una specie di “Dottore dell’America”. Qualche mese fa, la Casa Bianca aveva fatto circolare il nome di un neurochirurgo, il Dr. Sanjay Gupta, molto popolare perché consulente medico del notiziario via cavo della CNN, ma una decisa opposizione a questa nomina aveva convinto il presidente a ritirare la candidatura.
La ragione principale dell’opposizione era che Gupta non aveva alcuna esperienza di lavoro con i poveri e non era quindi in grado di capire le loro esigenze in materia di assistenza sanitaria. Questa settimana, invece, il presidente ha scelto una persona che ha senza dubbio l’esperienza richiesta, dato che ha speso l’intera carriera a favore dei poveri della Costa del Golfo in Alabama. La Dottoressa Beckman è afroamericana e cattolica. (Dove trova Obama questa gente? Penso anche a Sonia Sotomayor, che questa settimana ha superato l’esame del Senato e sarà quasi certamente confermata come giudice della Corte Suprema. È sopravvissuta all’esame rifiutandosi di scendere dalle vette di un’assoluta neutralità).
In effetti, la riserva apparentemente inesauribile che Obama sembra avere di questo tipo di persone ha confuso l’opposizione conservatrice e sconvolto molti dei suoi sostenitori progressisti. Questa settimana, il redattore per le questioni religiose del Time Magazine parla di una “sinistra radicale contro il presidente” intervistando Cornel West, professore a Princeton e “intellettuale pubblico”. West descrive se stesso come un membro della “sinistra religiosa”, per la quale Obama è sotto l’influenza delle “élite neoprogressiste” che ignorano le urgenti necessità dei poveri. E infatti, i poveri stanno ricavando ben pochi benefici dai programmi presidenziali di recupero per l’economia. In altri termini, l’accusa ad Obama è di avere abbandonato “l’opzione preferenziale per i poveri” che aveva portato la sinistra a sostenerlo con tanto entusiasmo.
Ma è questa la verità? Obama ha tradito le promesse elettorali?
In un recente incontro con la stampa cattolica, il presidente ha detto: “Credo che vi sia qualcuno che continua ad aspettarsi il peggio da parte nostra, non sulla base di qualcosa che ho detto o fatto, ma solo sulla percezione che il nostro è un programma duro e che siamo decisi a portarlo avanti”. Conservatori, neoconservatori, neoprogressisti e progressisti non sanno cosa fare con il presidente, perché in realtà è un moderno relativista le cui certezze non hanno alcun contenuto specifico.
Questa settimana ho anche pensato al quarantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna. Ho personalmente dato qualche contributo scientifico al programma spaziale, almeno credo, e quel giorno pensai che quei primi astronauti sulla Luna in qualche modo rappresentavano anche me. Tuttavia, in quel periodo avevo già deciso di diventare prete, francamente senza sentire alcuna discontinuità nel mio cammino. La mia guida era Paolo VI.
Gli astronauti che per primi sbarcarono sulla superficie lunare vi portarono e lasciarono un messaggio in cui citava il Salmo 8 sull’uomo e su Dio. Neil Armstrong ha detto che l’incontro con il Papa nell’ottobre di quello stesso anno fu uno degli avvenimenti salienti del suo viaggio nello spazio e del ritorno sulla Terra.
Cosa c’entra questo con il relativismo di Obama? Il presidente vuole riprendere i programmi spaziali e, come allora, molti nella sinistra si oppongono, mentre molti a destra lo appoggiano, pur non fidandosi di lui. (Chissà cosa vogliono questi neoconservatori e neoprogressisti!) Perché Obama vuole che si torni sulla Luna? Forse vede in questo una metafora per una conferma “scientifica” del suo relativismo. Forse non è così, ma se lo fosse, svuoterebbe l’avventura di ogni entusiasmo. Quarant’anni fa questo non sarebbe accaduto.
ALCOL/ Gary Reinbach e quella società “perfetta” dove la carità è un premio a punti - Renato Farina mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Un ragazzo di 22 anni, obeso, alcolizzato, malato di cirrosi epatica poteva salvarsi la vita solo con il trapianto del fegato. Però non ha potuto dimostrare di saperselo meritare, non è stato sobrio sotto controllo per sei mesi prima del ricovero, ma solo per dieci settimane. Ha chiesto, e un dottore pietoso con lui, di dargli un’opportunità. No, l’Uomo della Regola ha detto no: i medici hanno applicato la norma etica, niente trapianto. Così Gary Reinbach è morto.
Chiariamo subito un punto. Ce ne sono tanti in lista di attesa per un trapianto di fegato. In Gran Bretagna ne sono deceduti 400 solo l’anno scorso. Quindi è naturale che – qualsiasi criterio si applichi – una selezione c’è. E il merito non è per forza un cattivo sistema. Ci sono tanti fattori però per determinarlo. Uno di questi – lo grida la natura – è l’età. Prima le donne e i ragazzi. In Inghilterra il merito dato dal bisogno, dall’oggettività dell’età e delle precedenze naturali e tradizionali, è stato soppiantato dal contrario della carità, e cioè la coerenza. La coerenza con il timbro, una specie di ordalia dove chi perde è fuori dal gioco, eliminato, polverizzato, annichilito, come nel video game.
Alla pietà si è sostituito il codice dell’eticamente corretto. Il Comitato etico decide per chi far funzionare la ghigliottina o regalare un biscottino.
Sia chiaro. Guai a considerare la carità un diritto da riscuotere. Chi dona un suo organo non ha obblighi né civili né morali. La solidarietà non può essere imposta per legge. Dunque non è che a Gary sia stato negato un “diritto umano”. Di certo però è un mio, un tuo, un nostro dovere obbedire a quanto urla Dio nella Bibbia sin dall’Antico Testamento (Deuteronomio), e che coincide con il cuore, ciò che è buono, desiderabile, bello, giusto. Gesù Cristo ha seminato ieri, e dà testimonianza oggi attraverso i suoi figli di una presenza misericordiosa che chiede di essere seguita, imitata, conformandoci ai segni umano-divini che ci danno speranza. Stabilire un mondo dove la carità (che vuol dire gratis, grazia, amore gratuito, dono, misericordia, Dio che ti accarezza) è un premio da riscuotere con i bollini del cliente perfetto della società moralista è di una tristezza infinita, è peggio della bestemmia.
Vorremmo ripetere a Gary e a sua mamma che l’ha sentito supplicare: “Aiutatemi, non voglio morire”, le parole che ci suscitano adesso la speranza. Quelle che ha detto Gesù ai suoi amici più cari: “Nel mondo siete nella tribolazione. Coraggio. Io ho vinto il mondo!”.
CRISTIANESIMO/ Giovanni Calvino e Ignazio di Loyola, un problema di grazia e libertà - Giuseppe Reguzzoni mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Non fu propriamente un teologo, ma un umanista e un giurista, tuttavia pochissimi uomini hanno inciso così in profondità sulla storia religiosa dell’Europa moderna. Parliamo di Giovanni Calvino (Jean Cauvin), nato a Noyon in Piccardia il 10 luglio del 1509, dunque cinquecento anni fa. Personalità intelligentissima e incline agli studi letterari, per compiacere il padre prese la licenza in diritto all’università di Parigi, dove entrò per la prima volta in contatto con correnti di pensiero filoluterane. Alla morte del padre riprese gli amati studi umanistici proprio nello stesso periodo in cui iniziava a frequentare la Sorbona Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù e grande protagonista della Controriforma cattolica. Queste due personalità, che mai si incontrarono, si trovarono dunque nello stesso ambiente culturale nel medesimo periodo. Due storie parallele, due personalità fortissime e per molti versi anche molto simili. Calvino vedeva in Gesù Cristo il Giusto Giudice incoronato di gloria, Ignazio il Signore della Misericordia, la cui gloria è la croce. Il primo fece uscire la Riforma Protestante dai ristretti limiti del mondo germanico e, grazie alle sue capacità organizzative e al suo fascino, ne fece un fenomeno europeo e mondiale; il secondo passò dalla vita militare a una militanza appassionata per il Signore che gli si era manifestato nell’esperienza di Manresa, divenendo il cuore di un’intensa esperienza missionaria in tutto il mondo. A Parigi Ignazio di Loyola era venuto per consolidare la sua formazione teologica, Calvino per licenziarsi in diritto.
Non si può certo dire che Parigi fu la Manresa di Calvino, ma di certo in alcune correnti intellettuali filoprotestanti che vi stavano attecchendo, egli trovò un’importante conferma alle istanze rigoriste e alla critica della spiritualità tardomedievale che da qualche anno lo agitavano. L’incipiente Protestantesimo parigino era anzitutto un fenomeno intellettuale e a tratti aristocratico, che godeva di simpatie anche nell’ambiente di corte. Nell’ottobre del 1534 vennero diffusi a Parigi dei fogli contro la Messa cattolica, uno dei quali, a quanto pare, fu affisso persino nell’appartamento del re, Francesco I, che reagì con durezza, ordinando l’arresto di numerosi protestanti. Calvino abbandonò la Francia, prima per Strasburgo, poi per Basilea. Qui nell’agosto del 1535 completò la prima versione della sua «Institutio christianae relgionis», opera fortunatissima che avrebbe poi conosciuto tutta una serie di revisioni e di ampliamenti. Al centro di essa vi è l’idea che la Riforma non è che la ripresa delle origini cristiane, così come sono testimoniate nella Bibbia, e non una nuova chiesa. In modo particolare, per Calvino il cuore del messaggio cristiano viene spiegato con la teoria della doppia predestinazione: il destino di ogni persona, la dannazione o la salvezza, è già deciso prima della nascita; il successo in questa vita nell’adempiere le virtù è il segno dell’elezione divina. Per questo il fedele agendo in conformità con le cosiddette virtù calviniste – rigore morale, laboriosità, parsimonia, temperanza, sopportazione del dolore – può misurare sino a che punto Dio lo ha eletto alla salvezza. Le opere non giovano a nulla, ma attraverso di esse si può cogliere il segno della salvezza a cui si è destinata. Ne derivano un forte dinamismo confessionale e un acceso attivismo pratico, di cui la laboriosità e la parsimonia sono le espressioni più evidenti. A consentire la diffusione del modello calvinista fu però non tanto la suggestione delle idee, ma, almeno all’inizio, soprattutto tutta una serie di fortunate circostanze.
Nel maggio del 1536 Calvino lasciò Basilea per recarsi a Strasburgo, ma a causa dei conflitti locali che allora infiammavano l’Alsazia e la Germania meridionale, dovette fare tappa a Ginevra. Si trattava originariamente solo di una deviazione, ma, su insistenza del predicatore riformato Guillaume Farel, Calvino decise di fermarsi nella città sul Lemano. Ginevra aveva aderito alla Riforma più per fare dispetto ai Savoia, contro i quali stava costruendo la propria autonomia cittadina, che per reali convinzioni. Farel e Calvino si misero quindi all’opera per elaborare un Catechismo e una Professione di fede a cui avrebbero dovuto giurare fedeltà tutti i ginevrini, ma ben presto si manifestano fortissime resistenze da parte della popolazione. Calvino e Farel dovettero lasciare Ginevra e trasferirsi a Strasburgo. Qui Calvino approfondì i contatti con l’ambiente luterano, senza mai conoscere personalmente Martin Lutero. Quest’ultimo, peraltro, era diversissimo da Calvino, per personalità, sensibilità e storia. Lutero era un uomo passionale, perennemente in lotta con le tentazioni della carne, ma anche amante della buona tavola e della compagnia. Le Tischreden di Lutero sono la trascrizione delle conversazioni fatte a tavola, in cui frizzi, battute al limite dell’osceno e invettive teologiche spesso si mescolano. Calvino non conosce nulla di simile: nessuna traccia di angoscia e di passione, ma solo certezze indiscutibili e assolute, che per lui coincidevano con la vera e autentica tradizione. Anche la scelta di sposarsi è dovuta a motivazioni profondamente differenti. Per l’ex monaco agostiniano Lutero, profondamente sensuale e passionale, il matrimonio è remedium concupiscentiae, mentre per Calvino è una necessità sociale. Calvino, infatti, si sposò, ma non per amore, bensì per dare il buon esempio, e, non a caso, “scelse” una vedova con figli. Ma le differenze tra i due sono soprattutto di carattere dottrinale. Lutero non accetta la teoria della doppia predestinazione e afferma il valore della consustanziazione, per cui Cristo è realmente presente nel sacramento della Cena. Calvino, che assume una posizione di mezzo tra Zwingli (che nega ogni valore di presenza reale alla Cena) e Lutero, ammette al massimo una sorta di presenza spirituale. Le differenze dogmatiche tra Calvino e Lutero erano destinate a esplodere e a produrre una spaccatura profonda in seno al protestantesimo.
Nel 1541 il consiglio municipale ginevrino richiamò Calvino, accettando le sue proposte di riforma e l’introduzione di severe regole morali. Di fronte al progetto di rigido disciplinamento sociale e morale della città si manifestarono quasi immediatamente profondi dissensi e opposizioni, ma Calvino questa volta reagì con la massima durezza e con misure legali ferree e spietate. L’esempio più clamoroso fu quello del teologo spagnolo Michele Serveto, che aveva negato il dogma della Trinità e che per questo stava subendo un processo da parte dell’Inquisizione. Nel 1553 Serveto fuggì da Lione e cercò rifugio a Ginevra. Poco dopo il suo arrivo in città, Calvino lo fece arrestare e condannare al rogo come eretico. Nel frattempo si acuirono ulteriormente i contrasti con i Luterani che, a parere di Calvino avevano una concezione della Cena ancora troppo vicina a quella dei “papisti” , mentre maturò l’avvicinamento ad Heinrich Bullinger, successore di Zwingli a Zurigo. Da questo accordo nacque la chiesa riformata elvetica, che si contrapponeva ormai non solo alla Chiesa cattolica, ma anche alle chiese luterane.
Oltre al tema della doppia predestinazione e alla diversa concezione della Cena, molto importante era il diverso modo di pensare il rapporto stato chiesa. Per Lutero lo stato ha il diritto di riformare la chiesa e il cittadino deve ubbidire sempre allo stato, la cui autorità, come dice san Paolo, «viene da Dio». Per Calvino la chiesa ha il diritto di imporre le proprie leggi e i propri principi morali allo stato, come di fatto avvenne a Ginevra a partire dalle «Ordinanze ecclesiastiche» del 1541. La posizione di Calvino a Ginevra era ormai sempre più forte, anche grazie alla consistente immigrazione di protestanti provenienti da tutte le regioni della Francia (circa cinquemila su una popolazione di quindicimila abitanti). Ginevra si avviava così a essere la Roma del protestantesimo: vennero vietate le danze e la musica profana, il gioco delle carte, gli ornamenti e il lusso, la lettura di testi letterari non religiosi e non edificanti. Si bruciarono in pubblico non solo le opere dei “papisti” e degli eretici, ma anche i capolavori della letteratura rinascimentale, giudicata paganeggiante e immorale.
La riforma calvinista, come già quella zwingliana a Zurigo, fu violentemente iconoclasta e comportò in tutti i territori elvetici passati alla Riforma la spogliazione delle chiese e la distruzione di preziosissime opere d’arte. Tra il 1542 e il 1546, nel breve arco di quattro anni, quelli in cui fu applicata la nuova disciplina ecclesiastica, a Ginevra vennero eseguite più di sessanta condanne a morte per motivi morali o religiosi. Intanto, da tutta Europa arrivavano a Ginevra nuovi adepti, attirati dal fascino di Calvino, nei confronti del quale si generò un entusiasmo che spesso sconfinava nel fanatismo. Grazie alla collaborazione di Teodoro di Beza venne istituita la nuova accademia teologica di Ginevra, destinata a formare pastori e missionari da inviare in ogni parte d’Europa. Il monumento ai riformatori, eretto a Ginevra nel 1909, accanto a Calvino, Farel e Teodoro di Beza, colloca l’effigie di John Knox, riformatore della Scozia e organizzatore della chiesa presbiteriana, e quella di Oliver Cromwell, il fanatico puritano che guidò gli eserciti inglesi nella devastazione dell’Irlanda, in uno spaventoso eccidio che avrebbe dovuto cancellare il cattolicesimo da quell’isola.
Ginevra divenne così il centro del calvinismo europeo e mondiale. Nel frattempo, però, la salute di Calvino peggiorava progressivamente, al punto che, a causa della tubercolosi, negli ultimi mesi fu costretto a governare la città dal suo letto. Anche su questo punto la biografia di Calvino presenta un impressionante parallelo con sant’Ignazio di Loyola, che dal letto di morte inviava lettere ai missionari gesuiti sparsi in ogni parte del mondo, ma, ancora una volta, balza agli occhi anche la differenza, tra la fede assoluta di Calvino e l’ardente passione per Cristo e per la Chiesa di Ignazio. Calvino morì il 27 maggio 1564 a 54 anni di età. Aveva iniziato la sua opera di riforma ribellandosi all’autoritarismo della Chiesa romana, lasciò dietro di sé un regime tra i più intolleranti che la storia dell’Occidente abbia mai conosciuto. Identificando di fatto il cristianesimo con la purezza legale e la coerenza etica, Calvino, come scrive Daniel-Rops, finisce per essere l’antenato spirituale di Robespierre e del moderno fanatismo ideologico.
Sì al divieto/Che follia dire ai giovani: niente regole - di Michele Brambilla – IlGiornale, 22 luglio 2009
aiuto Fa tanto fico schierarsi contro i divieti. Si sta dalla parte dei liberali, degli illuminati che hanno fiducia nell’uomo e nella sua capacità di auto-regolamentazione quando non addirittura di auto-redenzione. Chi invece ritiene che almeno ogni tanto vada messo qualche paletto, segnato qualche stop, minacciata qualche sanzione, viene arruolato fra i dinosauri del proibizionismo, della reazione, del clerico-fascismo.
Banalmente, si dice che i primi sono di sinistra e i secondi di destra. Un teologo osservava che in fondo quel che divide sinistra e destra è la fede nel peccato originale, cioè nella libertà dell’uomo di fare il bene o il male. La sinistra non ci crede per nulla, e ritiene che l’umanità sia destinata a migliorare progressivamente, fino al giorno in cui diventeremo tutti buoni e non ci sarà più bisogno di leggi e prigioni. La destra ci crede troppo, ed è convinta che, al contrario, più si va avanti più ci si allontana da una mitica età dell’oro; l’umanità insomma procederebbe su un piano inclinato, e per imporre la virtù serviranno sempre i gendarmi.
Senza scomodare la teologia, credo sia sufficiente l’osservazione della realtà per evitare entrambi gli estremismi destra-sinistra, e valutare caso per caso. Nella fattispecie: il divieto di consumare alcolici per gli under 16 è sensato oppure no? A mio parere fra tanti diktat ridicoli che stanno facendo tornare di moda lo Stato etico - c’è perfino chi vieta di fumare all’aperto o nella propria automobile; oppure di consumare chewing-gum - questo deciso dal Comune di Milano è più che comprensibile: è opportuno.
Francamente non capisco le obiezioni. L’unico argomento che viene portato avanti dai «contrari» è: non servono i divieti, occorre l’educazione. Con tutta la buona volontà, non vedo alcun contrasto fra le due cose. Se si vieta il consumo di alcolici a ragazzini di quindici anni (poco più che bambini) viene automaticamente esclusa ogni opera di persuasione da parte delle famiglie, delle scuole, dei mass media? Una cosa esclude l’altra?
Credo di no, anzi credo che a volte i divieti siano parte integrante dell’educazione. A scuola guida si «educa» a circolare e a parcheggiare correttamente: ciò non toglie che le manovre e i parcheggi scorretti siano poi sanzionati dai vigili. I genitori poi educano (o dovrebbero educare) i figli ad avere rispetto degli insegnanti e dei compagni di classe: ciò non toglie che l’alunno che si comporta male possa (anzi debba) essere punito con una nota, o con una sospensione, o con un’insufficienza in condotta. Potremmo andare avanti con esempi infiniti.
Da che esiste il diritto (ed esiste da un pezzo) la legge - qualsiasi legge - non ha solo il compito di punire i rei. Ha anche e soprattutto quello di fissare dei principi, di stabilire che cosa è giusto e che cosa non lo è. Quando una legge liberalizza un comportamento sbagliato, si diffonde via via il convincimento che quel comportamento non sia poi così sbagliato. Se lo dice perfino la legge che posso fare una certa cosa, perché non dovrei farla?
Anche lo stabilire divieti, quindi, fa parte dell’educazione. Di quella vera. L’indefinita «educazione» con la quale si vorrebbe ora fermare la piaga dell’alcol fra i ragazzini (perché è una piaga: chi ha figli di quell’età lo sa bene) fa invece parte dei totem progressisti, del sessantottino vietato-vietare, dell’idea che con il mitico «dialogo» si possa risolvere ogni problema. Curioso che tanto blablabla pseudo-liberal torni di moda ora che, da un pezzo, è stata archiviata come una fallimentare utopia la bibbia del permessivismo del celeberrimo pediatra Benjamin Spock, di gran moda negli anni Sessanta. Qualche anno fa la teoria del dottor Spock (anch’egli poi ampiamente pentitosi di quel che aveva scritto) venne smontata dal libro di un’altra studiosa, la psicoterapeuta Asha Phillips. Il titolo era «I no che aiutano a crescere».
Ecco, il «no» del Comune di Milano può servire a far capire, a chi non è ancora in grado di capire, che bere alcol a quindici o quattordici o addirittura tredici anni è dannoso per sé e per gli altri. Oltre che a evitare, magari, qualcuna delle tante bravate, o delle tante morti in motorino, sulle quali poi tutti sono pronti a piangere.
L’USURA NON CONOSCE BARRIERE - I PASSI PIÙ INFAMI SUI MARCIAPIEDI LUCIDI DELLA METROPOLI - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 22 luglio 2009
L e mani che lo strozzavano infine sono diventate le sue. Le sue stesse mani. Quelle che dall’ombra di uffici strani, di finanziarie di copertura gli stavano togliendo il sonno, il fiato, la gioia, infine sono diventate le sue stesse mani. La sua stessa corda. La sua stessa volontà di tirare la corda. Di stringere il cappio che altri gli avevano messo al collo. Quando un uomo la fa finita così verrebbe da pensare subito a sordide storie dei vicoli dei tanti sud del mondo e d’Italia. Ma non è così. Il tragico gesto del tabaccaio milanese ci mostra con l’evidenza che taglia il respiro che anche nel civilissimo, sviluppatissimo nord arrivano le grinfie d’ombra di chi con il denaro si porta via anche la vita della gente.
La rovina economica di quest’uomo è simile a quella che può capitare e capita a tanti. La via del credito regolare, l’insufficienza di questo, l’anticamera dell’usura camuffata da uffici di un’allettante finanziaria che elargisce soldi. E poi il maledetto imbuto. Da cui non è riuscito a risalire. Che l’ha risucchiato. Preso per i soldi, afferrato per i debiti, l’intero uomo, cuore mente corpo, è precipitato. In solitudine, come spesso accade. Senza far trapelare quasi niente ai familiari e ai vicini. Fino allo schianto della notizia finale. Come per non voler disturbare. O almeno per non disturbare troppo a lungo. Capita spesso. È in un certo senso comprensibile. È difficile confidare a chi si ama il proprio fallimento. Insomma, ha voluto che i suoi non guardassero la sua vergogna. Ha preferito, come in una specie di gesto d’amore estremo, eppure contraddittorio, dare il taglio netto. Evitare a loro il logoramento che era stato suo.
È evidente che storie come questa sono segnate dal maledetto crimine dell’usura – che sempre la Chiesa ha additato come uno dei peggiori – così come sono segnate dalla solitudine. Quella del piccolo uomo d’affari. O del grande uomo d’affari. Solo con la sua impresa. O di famiglie che usano male il denaro. Senza senno, e senza confrontarsi con nessuno. Sempre più soli specie quando l’impresa vacilla, non ce la fa. E mentre si stringe il cappio dell’usura si stringe anche quello della solitudine. Le due mani che poi sono diventate le sue stesse mani. Perché la solitudine dell’imprenditore – piccolo o grande – è la prima alleata dell’usura. Solitudine che a volte resta tale al di sotto di categorie, di associazioni di facciata, formali. In questo aumento di storie di soffocamento per usura (come documentano anche i centri d’ascolto cattolici) c’è un avvertimento. Per i governanti, per gli imprenditori. E per i cittadini. L’usura è un male sociale. Vale a dire una cosa che ammala tutta la convivenza. Perché gli usurai – grandi o piccoli che siano – ingoiano il lavoro, la fatica, e spesso la vita della gente.
Lo stesso Dante Alighieri non cita mai suo padre e se ne vergogna perché forse fu usuraio. Acquattati come coccodrilli in una società che fa del business e della riuscita una specie di legge non scritta, ferrea e micidiale, eccoli pronti ad azzannare e a far sparire le loro vittime. Mentre non c’è nessuna ragione al mondo per cui un uomo che non riesce a tirare avanti debba finire così. I debiti non possono diventare una condanna a morte. Né al sud né al nord. E se lo diventano è perché ai coccodrilli si sono alleati solitudine e indifferenza. E la diseducazione all’uso del denaro. No, il caso del tabaccaio milanese non è un 'caso'. Ma un sintomo. Grave.
I signori dell’ombra sono ben piazzati ovunque, anche nell’Italia che come si dice 'tira'. E stanno nutrendo il loro cancro. Si deve combatterli spietatamente, favorendo la compagnia tra imprenditori e perseguendo le finte finanziarie, spezzando i tentacoli e i denti. Quelli che il tabaccaio di Milano ha sentito, insopportabili, fin dentro al cuore.
L’ I TALIA E IL COMMERCIO CLANDESTINO DI OVOCITI IN R OMANIA - Quel traffico di vita umana frenato da una legge rigorosa - BENEDETTO IPPOLITO – Avvenire, 22 luglio 2009
C ome insegna la saggezza antica, spesso riusciamo a comprendere meglio alcuni valori fondamentali quando ci confrontiamo con un accadimento specifico. Come quello che è avvenuto nella notte tra domenica e lunedì in Romania. In quelle ore, a Bucarest, si è svolto il blitz conclusivo di una maxi- operazione internazionale che ha messo fine a un commercio clandestino di ovociti. Sembrava una semplice azione di polizia, ma ben presto, però, è emerso il vero dramma umano che si nascondeva dietro alle molte coppie che da Paesi stranieri accorrevano nella capitale romena per realizzare il ' sogno' di avere figli, comprando ovociti da giovani donatrici pronte a vendere per denaro una parte del proprio corpo.
Le forze dell’ordine hanno verificato che all’interno della prestigiosa clinica ' Sabyc' veniva consumato l’ignobile traffico illegale di « materiale umano » , messo in piedi da un gruppo di medici israeliani. Anche in Israele e in Romania la cosiddetta donazione ( così come l’acquisto) di ovuli è illegale, e pertanto impossibile da mettere in pratica alla luce del sole.
Al naturale sconcerto che si prova al cospetto di persone che scelgono di muoversi consapevolmente fuori di ogni regola morale per risolvere problemi umani di così profonda e vasta portata, in Italia si è aggiunto un sovrappiù di polemica per il fatto che dal nostro Paese sembrano provenire non poche delle coppie coinvolte nell’indagine.
Alcuni hanno puntato indebitamente l’indice sulla legge 40, che come noto ponendo fine all’epoca di ' provetta selvaggia' ha anche interdetto la fecondazione eterologa ( cioè con intervento di soggetti estranei alla coppia interessata), nella convinzione che si tratti di una normativa che impedirebbe l’accesso ' pieno' ai metodi di fecondazione artificiale.
Tesi che fa tornare alla memoria i vecchi e speciosi argomenti utilizzati per legittimare l’aborto: il ricorso all’illegalità sarebbe la conseguenza disperata di una legislazione ingiusta, rigida e restrittiva.
Quanto emerge dalla vicenda romena è, invece, esattamente e in tutta chiarezza l’opposto. La legge 40 si dimostra una buona garanzia di tutela dell’indisponibilità della persona umana ad ogni forma di commercializzazione e di abuso legale, e il caso di Bucarest segnala anzi quanto sia indispensabile vigilare socialmente affinché l’integrità della persona sia garantita ovunque con la stessa intensità e sia sottratta ad ogni forma illegale di mercificazione. È, insomma, fondamentale evitare che si producano trasgressioni che possano mettere a repentaglio il principio dell’integrità individuale del nascituro, il quale possiede un diritto insopprimibile ad avere una paternità e una maternità inequivocabili, insindacabili e certe sin dall’inizio della sua vita.
E non si parli, per favore, di un ostacolo al progresso della scienza, perché proprio in questo particolare frangente si manifesta un fenomeno diverso, peraltro spiegato recentemente in alcune sue splendide riflessioni dal laicissimo filosofo tedesco Jürgen Habermas, ossia la capacità della tecnica di rendere effettivamente possibili, in taluni casi, le ingiustizie e le regressioni d’umanità più aberranti, specialmente quando consegna all’uomo la potestà di vendere e comprare se stesso o il suo simile per sopravvivere o per inseguire una qualche idea di felicità. Persino sulla pelle di chi è troppo piccolo e debole per difendersi da solo.
Fine vita, i medici bocciano la linea del loro presidente - Roccella: serve un diritto forte per evitare dubbi - DA R OMA P IER L UIGI F ORNARI – Avvenire, 22 luglio 2009
Va avanti il confronto tra gli ordini dei medici e la maggioranza, in un incontro con il gruppo del Pdl del Senato, mentre si dimostra sempre più un passo falso la forzatura nel documento sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), varato a Terni il 13 giugno dal consiglio nazionale della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), nonostante un ampio dissenso (5 contrari e 7 astensioni) di alcuni degli ordini più numerosi.
Il testo voluto dal presidente Bianco che ha prodotto la pesante spaccatura, invocando un «diritto mite», considera la nutrizione trattamento medico, quindi rifiutabile nelle Dat. «I pronunciamenti etico-deontologici sono sempre stati espressione della unanime volontà dei presidenti degli ordini. Si auspica che ciò, contrariamente a quanto avvenuto a Terni, ritorni ad essere la norma», ribatto- no i 18 vertici degli ordini di Aosta, Bologna, Caserta, Catania, Ferrara, Lodi, Lucca, Messina, Mantova, Milano, Oristano, Palermo, Pavia, Potenza, Roma, Rovigo, Trapani, Trieste. Il numero uno di Roma (l’ordine più grande, con il 10% dei medici), Mario Falcone, sottolinea nel suo intervento che il 13 giugno è «stata la prima volta che si è prodotto un dissenso sui principi del codice deontologico», una «scorciatoia» su una legge che la maggior parte dei medici non conosce, soprattutto la sua limitazione agli stati vegetativi. Il pronunciamento dei 18 presidenti ringrazia per l’invito «all’approfondimento » del ddl gli esponenti del Pdl e del governo e «la esauriente illustrazione» di Raffaele Calabrò, seguita da interventi dei presidenti di più ordini, con contributi migliorativi.
Invece benzina sul fuoco aveva gettato lunedì la notizia, riportata da un’agenzia, che i medici non avrebbero partecipato all’incontro, perché il presidente della Fnomceo, Amedeo Bianco, con una mail definiva «irrituale» la convocazione. Minimizza Gabriele Peperoni, segretario nazionale, negando che Bianco, assente per ferie, abbia invitato a non partecipare. Ma dal presidente nessuna smentita ufficiale. Peperoni si dice contrario allo «scontro», ma insiste sul «diritto mite».
«Se c’è divisione sui criteri deontologici – replica il sottosegretario, Eugenia Roccella – il legislatore non può mettere in campo un diritto mite, ma uno forte e chiaro, in modo che non ci possano essere dubbi sul piano deontologico». Il sottosegretario si dice «molto soddisfatta» della riunione. «ll dialogo con i medici è aperto – attesta – ed è fondamentale che prosegua», in particolare sui punti «caratterizzanti » del ddl. La Roccella riferisce che le associazioni dei malati in stato vegetativo hanno chiesto che alimentazione e idratazione siano «atti dovuti». Calabrò, dopo la sottolineatura delle concordanze con il documento della Federazione, definisce «equivoca » la richiesta dell’obiezione di coscienza e critica la considerazione di nutrizione come trattamento.
A questo proposito il vicepresidente dei senatori del Pdl, Gaetano Quagliariello, spiega la scelta del ddl con il principio laico di «precauzione». L’obiezione di coscienza, peraltro, è inutile, in quanto le Dat non sono vincolanti. Questo non vuol dire che la volontà del paziente «scompaia », anzi è «centrale» nell’alleanza terapeutica. Il ddl «non è il migliore possibile», comunque ha superato «oltre 60 votazioni segrete con una maggioranza più alta di quella prevista». Quindi invita i deputati «all’umilità di impegnarsi nello scavo di una materia molto complessa», piuttosto che nel compromesso politico. Il presidente, Maurizio Gasparri, rammenta che sono state «le sentenze della magistratura ad obbligare a fare una legge in una materia così difficile, con sofferenza e fatica». Il ministro Sacconi conferma da parte del governo la disponibilità al dialogo. «Il Parlamento è sovrano», assicura, ma l’esecutivo che ha espresso la «sua motivata opinione » con il decreto per salvare Eluana Englaro, si augura che sia prevalente la volontà «di confermare i contenuti fondamentali del ddl».
«Sono rimasto sorpreso – riferisce infine Antonio Tomassini – di fronte al documento di Terni, l’impessione è che si volesse effettuare un condizionamento politico». Il presidente della commissione competente, che ha organizzato l’incontro, ringrazia i medici per «la presenza numerosa», puntualizzando che il dibattito sul fine vita è inziato fin dalla XIV legislatura.
Si riferisce al documento di Terni, il presidente della Camera, Gianfranco Fini, sostenendo che se sul ddl i medici «esprimevano perplessità, forse dovremmo averle anche noi». Auspica, sperando nei voti segreti, perciò il testo venga modificato con «una formulazione meno dogmatica».
1)Le sfide per la libertà religiosa in Europa poste nell'OSCE - Tra le altre, ampliare l'obiezione di coscienza e ridurre la pressione
2)MARIOLOGIA: i valori dello Scapolare del Carmine
3)La novità della "Caritas in Veritate" - di Pierpaolo Donati* - ROMA, martedì, 21 luglio 2009 (ZENIT.org).- Dell’Enciclica Caritas in Veritate sono già state dette e scritte molte cose. Giustamente ci si è concentrati sul suo messaggio centrale, e cioè che la carità vissuta nella verità “è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (n. 1). Il richiamo del Papa a ritrovare il senso più profondo dell’agire umano nell’amore autentico verso Dio (che è Verità) e verso gli altri uomini è certamente il cuore dell’enciclica. Indubbiamente, è la stella polare che orienta sia l’analisi dei grandi problemi economici, sociali e politici del mondo contemporaneo, sia delle loro possibili soluzioni.
4)21/07/2009 15:34 – INDIA - La Corte Suprema revoca l’ordine di aborto per una 19enne orfana e disabile mentale - Violentata da due operatori della casa di accoglienze governativa in cui era ospitata, la giovane è alla 20ma settimana di attesa. Il tribunale del Punjab aveva ordinato l’interruzione di gravidanza perché la ragazza non poteva accudire il figlio e lo avrebbe considerato un “giocattolo”. La 19enne chiedeva di poter partorire.
5)L’indifferenza del sangue - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 21 luglio 2009
6)Il male oscuro delle mamme - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 21 luglio 2009
7)Il relativismo di Obama - Lorenzo Albacete mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
8)ALCOL/ Gary Reinbach e quella società “perfetta” dove la carità è un premio a punti - Renato Farina mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
9)CRISTIANESIMO/ Giovanni Calvino e Ignazio di Loyola, un problema di grazia e libertà - Giuseppe Reguzzoni mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
10)Sì al divieto/Che follia dire ai giovani: niente regole - di Michele Brambilla – IlGiornale, 22 luglio 2009
11)L’USURA NON CONOSCE BARRIERE - I PASSI PIÙ INFAMI SUI MARCIAPIEDI LUCIDI DELLA METROPOLI - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 22 luglio 2009
12)L’ I TALIA E IL COMMERCIO CLANDESTINO DI OVOCITI IN R OMANIA - Quel traffico di vita umana frenato da una legge rigorosa - BENEDETTO IPPOLITO – Avvenire, 22 luglio 2009
13)Fine vita, i medici bocciano la linea del loro presidente - Roccella: serve un diritto forte per evitare dubbi - DA R OMA P IER L UIGI F ORNARI – Avvenire, 22 luglio 2009
Le sfide per la libertà religiosa in Europa poste nell'OSCE - Tra le altre, ampliare l'obiezione di coscienza e ridurre la pressione
VIENNA, martedì, 21 luglio 2009 (ZENIT.org).- L'estensione dell'obiezione di coscienza a tutte le tematiche eticamente sensibili è apparsa come una delle sfide attuali per l'esercizio della libertà religiosa in Europa durante il seminario “Libertà di religione o di credo”, svoltosi a Vienna il 9 e il 10 luglio.
Attualmente solo l'obiezione di coscienza relativa al servizio militare obbligatorio è riconosciuta tra gli impegni dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE).
Uno dei relatori intervenuti al seminario, la docente dell'Università Cattolica del Sacro Cuore Ombretta Fumagalli Carulli, ha sottolineato la necessità di estendere l'obiezione di coscienza.
A suo avviso, dovrebbe essere riconosciuta anche in altri settori come l'aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l'adozione di minori da parte di coppie omosessuali e la ricerca con embrioni umani.
“In Europa, come nel Nord America, sono infatti ricorrenti i casi in cui medici, farmacisti, infermieri che rifiutano pratiche abortive sono licenziati”, ha segnalato nel suo discorso, come riporta “L'Osservatore Romano”.
“Ufficiali dello stato civile sono costretti a celebrare matrimoni tra persone dello stesso sesso o a dimettersi, magistrati che hanno espresso l'opinione che l'adozione dei minori non vada consentita alle coppie omosessuali sono allontanati dalla magistratura o destinati ad altre funzioni”.
La Fumagalli ha aggiunto che la libertà di religione o di credo continua ad essere violata quotidianamente nell'area dell'OSCE, nonostante i numerosi impegni degli Stati membri.
In questo senso, ha denunciato “episodi di violenza sulla base di motivazioni religiose contro cose (in particolare luoghi di culto e cimiteri) e persone (omicidi compresi)”, a cui si aggiungono “persecuzioni di autorità pubbliche (fermi, arresti, perquisizioni e sequestri arbitrari ed illegali), nonché sistematiche negazioni dei visti d'ingresso a religiosi e volontari e limitazioni indebite all'importazione e alla distribuzione di materiale religioso”.
Tra le sfide attuali per l'Europa, l'esperta ha ricordato anche le condizioni per l'effettivo e pieno esercizio della libertà religiosa quanto ai luoghi di culto, indicando anche che “il sistema della registrazione delle confessioni, di per sé non conflittuale con la libertà religiosa, è spesso un cavallo di Troia per limitare una serie di diritti, come la possibilità di avere in proprietà un luogo di culto, o di istituire seminari e istituti di formazione per il clero, o di garantire l'assistenza spirituale nella carceri, negli ospedali e nelle forze armate”.
La Fumagalli ha parlato di sfide meno tangibili constatando che “rimane altresì sullo sfondo, per ora silenziosa in sede OSCE ma vivace in circuiti culturali di società secolarizzate, la convinzione che le religioni, anziché elemento di progresso e di benessere, siano un fatto negativo da combattere”.
A suo avviso, “la riedizione in termini moderni di un siffatto ateismo antireligioso, con la eventuale pretesa per giunta che esso rientri nella tutela OSCE, sancendo un diritto alla rimozione della religione, significherebbe fare un passo indietro”.
Ciò, avverte, significherebbe “tornare alle scelte politiche di quei Paesi dell'Est che garantivano libertà solo alla propaganda antireligiosa”.
“Precipiteremmo insomma in una situazione di illibertà che proprio l'OSCE ha contribuito a superare con i suoi successi nella salvaguardia e implementazione della libertà religiosa”, ha constatato.
“È confortante che nessuno nel meeting di Vienna abbia posto in dubbio il ruolo delle religioni nella costruzione della 'città dell'uomo' – dichiara –. Ma, proprio perciò, è bene non abbassare la guardia”.
L'incontro “Libertà di religione o di credo” è stato organizzato dall'Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani (ODIHR) dell'OSCE.
I rappresentanti degli Stati dell'OSCE, e la Santa Sede come membro partecipante, hanno affrontato tre grandi temi: la salvaguardia della libertà di religione o di credo, lo status delle confessioni religiose e i luoghi di culto.
I partecipanti hanno concordato sui risultati raggiunti a favore della libertà religiosa o di credo, ma hanno anche constatato che i Governi non fanno abbastanza perché questi impegni vengano rispettati, segnala un comunicato dell'OSCE.
L'Organizzazione è formata attualmente da 56 Stati membri, di Europa (inclusi Federazione Russa, Turchia e tutti i Paesi dell'Unione Europea), Asia Centrale e America (Canada e Stati Uniti).
Partecipazione della società civile
Prima del seminario, un centinaio di rappresentanti della società civile di tutta l'area dell'OSCE ha esortato gli Stati membri a “creare attivamente un'atmosfera nello spazio pubblico in cui, con libertà di religione o credo, si possa prosperare meglio e le comunità religiose e di credenti possano partecipare a un dialogo pieno e fruttuoso”.
Le organizzazioni Observatorio para la Libertad Religiosa (Spagna), Alliance Defence Fund (Stati Uniti), Paneuropa Union (Austria) e la piattaforma christianophobia.eu hanno presentato un documento contenente raccomandazioni.
I rappresentanti della società civile hanno celebrato anche incontri e una plenaria con vari relatori.
Tra gli altri, è intervenuto il portavoce dell'Osservatorio per la Libertà Religiosa e di Coscienza (OLRC), Pablo Rodríguez, che ha esposto la situazione della Spagna riguardo all'insegnamento della materia di Educazione alla Cittadinanza.
“In Spagna non si è giunti a un consenso per quanto riguarda il concetto di 'tolleranza', e la materia di Educazione alla Cittadinanza che viene impartita obbligatoriamente nelle scuole ha già provocato più di 15.000 famiglie obiettrici, cifra non trascurabile”, ha dichiarato davanti agli inviati dei Paesi membri e alle centinaia di ONG internazionali presenti.
Rodríguez ha espresso la preoccupazione dell'Osservatorio per la possibilità che in Spagna alcuni diritti che sembravano consolidati si vedano messi in discussione in leggi recenti o bozze o disegni di legge attuali.
Queste norme, ha spiegato, “interessano materie fondamentali come il diritto dei genitori a che l'educazione dei figli si sviluppi in modo coerente con le loro convinzioni”.
A tale proposito, ha citato fattori come “l'obiezione di coscienza dei medici, del personale sanitario e dei farmacisti in questioni relative all'aborto e alla bioetica, o la presenza della religione, incluse le sue manifestazioni esterne, nella vita comunitaria e nella vita pubblica”.
MARIOLOGIA: i valori dello Scapolare del Carmine
1) Primo valore: la “consacrazione”
Lo Scapolare del Carmine è sintesi di molti, anzi di tutti i più sicuri valori della pietà dei fedeli verso Maria. Il primo è la “consacrazione”. È quella che Maria stessa fa dei suoi figli, vestendoli e segnandoli in modo speciale come appartenenti a lei. Il primo Santo che esprime in termini chiari l'offerta totale di sè alla Vergine è il grande vescovo predicatore- teologo Giovanni Damasceno (+ 749), nel quale si riassume l'insegnamento circa Maria di tutti i precedenti “Padri” della Chiesa: “Anche noi oggi ci presentiamo a Te, o Sovrana, sì, dico, o Sovrana Madre di Dio e Vergine: noi consacriamo a Te mente, anima, corpo, tutto il nostro essere... “ Chi porta lo Scapolare del Carmine pensa esattamente in tali termini. E tutti i più grandi Maestri dell'Ordine (S. Teresa d'Avila, S. Giovanni della Croce, S. Teresina...) lo ripeteranno continuamente.
2) Secondo valore: “consegna di sè” a Maria
È legato alla consacrazione, e significa quello che il devoto fa da parse sua. Da notare che tale consegna viene dalla mentalità medioevale, allorché un uomo, pur essendo libero e non già schiavo (né servo della gleba), sentendosi però poco sicuro nei propri affari, si presentava, con una corda al collo, ad un signore medioevale e si impegnava di stare al suo servizio (obsequium) pur di averne protezione.
Molte volte questo gesto era fatto di padre in figlio. Su questa base culturale, ecco spuntare nei secc. X-X1 delle bellissime preghiere in cui tanti devoti esprimono l'affidamento, il dono di sé, la dedizione completa, il senso di servizio alla Madonna, loro Signora. Una preghiera che risale a Fulberto di Chartres (+1028) contiene innanzitutto un chiaro riferimento alla consacrazione battesimale e poi mostra che da Gesù stesso (come avvenne sul Golgata) l’orante è stato affidato a Maria.
“Ricordati, Signora, che nel battesimo sono stato consacrato al Signore e ho professato con la mia bocca il nome cristiano. Purtroppo non ho osservato quanto ho promesso. Tuttavia sono stato consegnato e affidato a te dal mio Signore Dio vivo e vero. Salvami ora!,” Evidentemente lo Scapolare riprende fortemente questo sospiro filiale e lo proclama in maniera tutta particolare. La diffusione dello Scapolare, presso gente umile e anche presso gente di rango e di cultura, mostra che questo valore era sentito in modo vasto. Sentirsi protetti è uno dei bisogni più profondi e veri dell'uomo, così fragile ed esposto al male e così desideroso di amore e verità. E Maria è li, con lo Scapolare, a garantire il credente che il Vangelo, con il famoso “Donna, ecco tuo figlio!”, continua nel tempo.
3) Terzo valore: “intimità familiare” con Maria
Quando gli eremiti del Monte Carmelo, nel secolo XIII, “dedicarono” la loro chiesetta alla Madonna, essi, che volevano contemporaneamente essere alla “sequela” o al “servizio” del Signore Gesù, sanzionarono con la professione religiosa e quindi con un giuramento santo la loro scelta. La conseguenza fu, come per altro presso tutti i Medicanti, di appartenere solamente a Cristo: e quindi a nessun altro, neppure a se stessi; e di appartenervi - ecco l'aspetto tipico del Carmelo - attraverso uno “stare presso” o un “abitare in case” di Maria (la chiesetta era una replica della casa della Madonna nella vicina Nazareth). Quando nel 1479 Amoldo Bostio compose il De patronatu et patrocinio presentò Maria appunto come Madre-Sorella, sganciandola così dal modulo feudale della “Signora” e sottolineando la prerogativa della intimità del carmelitano “fratello” della Vergine. Lo Scapolare ha sempre voluto dire in modo tangibile proprio questo, tanto ai Frati consacrati con voti come a fedeli comuni rivestiti dell' “abito di Maria”
Fonte: http://www.lucisullest.it/dett_news.php?id=4930
La novità della "Caritas in Veritate" - di Pierpaolo Donati* - ROMA, martedì, 21 luglio 2009 (ZENIT.org).- Dell’Enciclica Caritas in Veritate sono già state dette e scritte molte cose. Giustamente ci si è concentrati sul suo messaggio centrale, e cioè che la carità vissuta nella verità “è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (n. 1). Il richiamo del Papa a ritrovare il senso più profondo dell’agire umano nell’amore autentico verso Dio (che è Verità) e verso gli altri uomini è certamente il cuore dell’enciclica. Indubbiamente, è la stella polare che orienta sia l’analisi dei grandi problemi economici, sociali e politici del mondo contemporaneo, sia delle loro possibili soluzioni.
In questo breve intervento io vorrei sottolineare un aspetto dell’enciclica che non è stato ancora approfondito. Alludo al nuovo ‘modo di pensare’ che Papa Ratzinger propone in questo testo. Si tratta di un modo di pensare che è centrato sulla relazionalità come categoria centrale per leggere la condizione umana e le vie da percorrere per un autentico sviluppo integrale della persona e dell’umanità (“Un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione”, n. 53).
Papa Ratzinger vede nella carità “la via maestra della dottrina sociale della Chiesa” con la seguente giustificazione: perché “essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici” (n. 2). Sin dall’inizio, appare chiaro che la chiave di volta dell’enciclica viene collocata nella qualità delle relazioni, micro e macro, passando per le relazioni meso (quelle proprie delle formazioni sociali intermedie di società civile, di cui si parla diffusamente nei capitoli 3,4,5).
Alla base di questa impostazione c’è l’idea che, ferma restando la verità perenne secondo cui la dignità umana consiste nella filiazione divina, è altrettanto vero che oggi cambia il senso (storico, culturale, contestuale) di ciò che è umano. Lo scenario ci pone davanti a un complesso di degradazioni di ogni genere, specie nel campo della manipolazione della vita umana e della famiglia, così come a tante emergenze, da quella educativa, alla disoccupazione, alla negazione di fondamentali diritti umani in tante parti del globo. Non si può affrontare questo nuovo scenario senza un’adeguata antropologia (“La questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica”, n. 75) e senza che tale antropologia sia capace di proiettarsi poi sull’intera società, cioè su tutti i rapporti sociali in cui è in gioco la vita umana.
La via che Benedetto XVI propone può essere, a mio avviso, chiamata ‘relazionale’ a motivo del fatto che è nella categoria della relazione che va cercata la soluzione. “La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l'uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L'importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche per i popoli. È, quindi, molto utile al loro sviluppo una visione metafisica della relazione tra le persone” (n. 53). E poco più oltre: “La rivelazione cristiana sull'unità del genere umano presuppone un'interpretazione metafisica dell'humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale” (n. 55).
Ecco dunque il filo rosso dell’enciclica: leggere l’umano attraverso la relazionalità e di qui procedere a svolgere un’analisi adeguata al nostro tempo delle varie questioni che ci attanagliano. La qualità delle relazioni sociali si qualifica per ciò che le persone amano di più, per le premure ‘ultime’ che le persone esprimono nelle loro relazioni. L’amore è dono di Dio, ma anche premura fondamentale delle persone umane. La sua presenza o la sua assenza spiega i problemi di cui soffriamo e dischiude le loro possibili soluzioni. Ma l’amore non è un bel sentimento, bensì è una certa relazione con se stessi, con gli altri e con Dio. L’enciclica insiste proprio sul fatto che la carità non può essere intesa come un generico sentimento, affetto o emozione. La carità di cui si parla, proprio perché è relazione, non può essere un fatto ‘privato’ (privato di responsabilità sociale). È invece la sorgente di ogni bene, in quanto bene relazionale. Per questa ragione, l’amore può e deve diventare un principio di organizzazione sociale (la civiltà dell’amore). “Il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società” (n. 51). Occorre che gli uomini tessano “delle reti di carità” (n. 5). “La ‘città dell'uomo’ non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l'amore di Dio” (n. 6).
Di qui, poi, le conseguenze operative. In sintesi: l’idea che le relazioni in cui la carità si concretizza, come il dono e la fraternità, possano e debbano diventare, da realtà marginali ed emarginate nella società moderna, dei principi che hanno un posto di primo piano nelle cose più pratiche, per esempio nel modo di organizzare e gestire le imprese economiche, un’associazione di consumatori, un sindacato, una rete di servizi sociali, lo Stato sociale, le relazioni fra i popoli, e così via. Fino a sostenere l’articolazione della società, del ‘fare società’ (associazioni in senso lato), su una governance di tipo societario e plurale, che realizza il bene comune attraverso una combinazione di solidarietà e sussidiarietà fra tutte le parti. Ciò vale dall’organizzazione di una famiglia su su fino alle relazioni internazionali.
Ma cosa può spingere gli uomini su questa via, stante l’attuale processo di globalizzazione guidato da un capitalismo rampante, da un individualismo sempre più pervasivo, da evidenti fenomeni di scollamento e frammentazione del tessuto sociale?
È qui che entra in gioco la verità, senza cui la carità sarebbe ridotta solo a emozioni: “senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività” (n. 4); e ancora: “la verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali” (n. 3).
Qui si rivela di nuovo l’importanza della chiave relazionale come ‘novità’ dell’enciclica. Infatti, lo specifico dell’enciclica, al di là dei temi ben noti (appello allo sviluppo umano integrale, alla lotta contro le vecchie e nuove povertà, ecc.), sta nell’evidenziare il mutuo interscambio tra carità e verità che si configura come un pensarli ‘relazionalmente’. È da tale relazionalità che possono scaturire i progetti di un nuovo umanesimo aperto alla trascendenza. Non c’è verità senza carità e non c’è carità senza verità. La verità ha bisogno della carità, così come la carità ha bisogno della verità. Questo nesso inscindibile è la relazione che caratterizza l’umano. In essa trovano le loro radici tutte le qualità che possiamo caratterizzare come autenticamente umane, le quali sono indispensabile per avere una ‘società dell’umano’, cioè un’economia, una politica, una tecnologia, una bioetica dal volto umano.
Il nesso relazionale tra amore e verità è sempre necessario, ma le sue forme e i suoi contenuti sono sempre contingenti a motivo della particolarità dei contesti, nello spazio e nel tempo. La portata di questa prospettiva è lo sviluppo di “un nuovo pensiero” (n. 78) che risponde al grido lanciato da Paolo VI: “il mondo soffre per mancanza di pensiero” (n. 53). La Caritas in Veritate ci invita ad abbracciare un nuovo pensiero additandoci una strada precisa, che sgorga da una visione teologica, ma è capace di dialogare e fecondare tutte le scienze umane e sociali.
La Chiesa non pretende di dare delle ricette, ma addita un nuovo modo di pensare che ha nella relazionalità, radicata nella realtà insieme trascendente e immanente della Trinità, la sua fonte. Questa prospettiva, dopo le prime pagine a carattere teologico, è particolarmente espressa come dialogo con le scienze umane e sociali nei nn. 53-55, e dà sostanza a tutte le altre considerazioni più ‘pratiche’ in merito alla configurazione delle relazioni economiche (una nuova economia civile), delle relazioni politiche (un nuovo welfare plurale, sussidiario, relazionale), delle relazioni famigliari e di cura della vita (una nuova bioetica relazionale), e così via.
Il messaggio più profondo dell’enciclica, a me pare, sta dunque nello scommettere su una nuova interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, su un pensiero relazionale che sia all’altezza delle nuove interdipendenze che si vengono a creare tra gli uomini e tra i popoli. Lo sviluppo umano sarà l’effetto emergente di questa nuova visione dello stare in società e delle pratiche che ne conseguono. Per esempio, la procreazione artificiale non potrà essere più pensata e praticata come espressione di un desiderio o di un sentimento privato (emozionale) di uno o due individui, perché ciò che conta è la dignità della relazione da cui nasce il figlio, dignità da cui dipende l’humanum nell’identità del figlio stesso. L’appello di Benedetto XVI “alla reciprocità delle coscienze e delle libertà” è un appello a ripensare la nostra vita in questa direzione, cioè come relazione in ciò che essa ha di umano. Da questo modo di pensare può scaturire una nuova società.
Nell’orizzonte di questa prospettiva il bene comune viene ripensato come bene relazionale, il quale può essere realizzato solo attraverso un uso appropriato e combinato dei principi di solidarietà e sussidiarietà, sulla base di una antropologia relazionale e di una visione relazionale dell’intera società, a partire dalla famiglia.
------------
*Pierpaolo Donati è professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, dove è anche coordinatore del Dottorato di ricerca in Sociologia e direttore del CEPOSS (Centro Studi di Politica Sociale e Sociologia Sanitaria). Past-President dell’Associazione Italiana di Sociologia, ha fondato il CIRS (Centro Interuniversitario per la ricerca sociale, una rete di reti accademiche di ricerca empirica). Dal 1997 è membro della Pontificia Accademia di Scienze Sociali.
21/07/2009 15:34 – INDIA - La Corte Suprema revoca l’ordine di aborto per una 19enne orfana e disabile mentale - Violentata da due operatori della casa di accoglienze governativa in cui era ospitata, la giovane è alla 20ma settimana di attesa. Il tribunale del Punjab aveva ordinato l’interruzione di gravidanza perché la ragazza non poteva accudire il figlio e lo avrebbe considerato un “giocattolo”. La 19enne chiedeva di poter partorire.
Mumbai (AsiaNews) - Può proseguire la gravidanza la ragazza 19enne, orfana e disabile mentale, rimasta incinta dopo essere stata violentata nel centro di accoglienza governativo, Nari Niketan, nella città di Chandigarh. L’Alta corte degli Stati indiani di Punjab e Haryana aveva deciso una “tempestiva e immediata” interruzione di gravidanza, ma la Corte suprema dell’India oggi ha confutato il verdetto accogliendo il desiderio della ragazza che vuole partorire.
Il 17 luglio il tribunale aveva ordinato l’aborto affermando che la ragazza “non aveva capacità intellettuali, sociali, personali, finanziarie e familiari per allevare un bambino” e avrebbe considerato il figlio un “giocattolo”. Per i giudici “la crescita e l’educazione del bambino avrebbe dovuto essere a carico di strutture governative” senza garanzie sul suo futuro.
La Corte suprema sembrava non voler interferire nella decisione del tribunale del Punjab, ma ha cambiato idea dopo l’intervento del legale rappresentante della ragazza, Tanu Bedi. L’avvocato ha ricordato che la maternità è un diritto e che la ragazza è alla 20 settimana di gravidanza in cui l’aborto comporta gravi danni fisici e mentali. Riferendosi alla supposta impossibilità ad accudire il figlio, ha detto: “Se la sua età mentale [secondo gli esperti ha un QI di 9 anni, ndr] è sufficiente per affermare che essa non può prendersi cura del bambino, perché alle donne povere, che non hanno sostanze per fra crescere i loro figli, dovrebbe essere permessa la maternità?”.
Interpellato da AsiaNews, mons. Agnelo Gracias, presidente della Commissione per la famiglia della Conferenza episcopale indiana, riconosce la complessità del caso, ma sottolinea che il giudizio espresso dalla Corte del Punjab sottovalutava troppi elementi. Per il vescovo era sommario il giudizio secondo cui “la ragazza consideri il bambino un giocattolo” e critica la facilità con cui è stato ignorato il suo desiderio di portare a termine la gravidanza. Egli ricorda che “il bambino è innocente” e chiede: “Anche se fosse vero quello che diceva il giudice sulla incapacità della ragazza di accudirlo, l’aborto era l’unica soluzione?”. Il vescovo sottolinea che il piccolo non deve per forza finire in carico al centro di accoglienza governativo, dove per altro la ragazza ha subito le violenze da due operatori. “Ci sono individui e istituzioni come le case di Madre Teresa, - ricorda mons. Gracias - in cui il bambino può ricevere le cure e crescere circondato da amore”.
Per Pascoal Carvalho, medico indiano e membro della Pontifica accademia della vita, “si compiono gravi violazioni della libertà dell’individuo sotto l’eufemismo della dignità umana”. Carvalho sottolinea i risvolti paradossali della vicenda in cui “la Corte del Punjab , invece di riconoscere che questa ragazza, disabile mentale, non era protetta e curata nella casa di accoglienza governativa, aveva ordinato l’interruzione di gravidanza”. Secondo il membro dell’organismo pontificio si è assistito ad un’escalation di violenza contro chi è più debole: “Lo stupro di una donna è un crimine ignominioso, ancor più tremendo è l’abuso di una disabile mentale, ma peggio ancora è l’attacco alla vita indifesa di un bambino”. (NC).
L’indifferenza del sangue - Autore: Andraous, Vincenzo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 21 luglio 2009
Chi ricorda più l’uomo romeno ridotto al macero nella metropolitana a Napoli?
Ogni giorno andava a prendere la metro in compagnia della moglie, d’improvviso s’è scatenato l’uragano, gli scooter rombavano, le pistole crepitavano, in pochi attimi per terra morente un uomo, in piedi fortunatamente illesa la moglie, a gridare disperata un aiuto che non c’è stato.
Per sbaglio è stata colpita a morte una persona, poco importa se uno straniero, un uomo innocente, oppure una persona dal credito esaurito ai giorni a venire.
Quanto accaduto ai tornelli di quella stazione non solo è atroce per una vita annientata, lo è anche per l’atteggiamento nei confronti di una tragedia che non può lasciare indifferente alcuno, in quegli spazi di comuni partenze, in quegli attimi di coscienze nientificate.
In quel morto ammazzato, in quella sua compagna devastata dalla paura e dal dolore, in quel via vai di sconosciuti protesi a una fuga salva vita, c’è dell’altro, non si tratta solamente di un rinculo per lo spavento, c’è altro di più, c’è altro in meno.
Di più nell’eccesso di abitudine alla fatalità, alla sonnolenta indifferenza, un diritto acquisito sul campo a far finta di nulla, a passare avanti, tanto è cosa di tutti i giorni, come ieri i rifiuti sparsi qua e là, la solitudine delle vittime a fare la differenza oggi, che è già domani.
In meno c’è la compassione, quella dimensione che non fagocita cinismo né menefreghismo, non permette di fare foto ricordo sul corpo martoriato altrui, né di imbrattare la fratellanza umana con il trucco cinematografico della società aperta multiculturale solidale, un falso reso credibile da quella finta partecipazione che fa guadagnare una pseudo sopravvivenza, una cultura della solidarietà, dell’inclusione sociale, male recitata.
A Milano, a Palermo, a Bolzano, sarebbe stata la stessa cosa, infatti a volte l’istinto a ripararsi, a proteggersi, a correr via, la fuga è la miglior difesa della vita, ma lì, in quel di più e in quel di meno, c’è un dispiego inaudito di socialità indifferente, di fraternità indifferente, di pietà indifferente.
La violenza è nel piatto del cibo, nei calzini appena messi, nel biglietto del cinema da poco acquistato, nella scuola abbandonata, nella famiglia squassata per arrivare a sera.
La violenza è in ogni curva infilata dritta per arrivare primi, in ogni sgabuzzino camuffato a nascondiglio, in ogni feudo di potere conquistato sulla strada, chi se ne frega se abbattendo a una fermata del proprio viaggio, un uomo in compagnia di tutto il suo mondo.
Scompare persino la rabbia, non resiste alla gogna neppure l’indignazione, rimangono a fare rumore solo passi affrettati verso una salvezza dall’altra parte della carreggiata, senza volgere lo sguardo, proprio come fanno gli assassini, quelli che hanno addomesticato le passioni, le emozioni di una intera città, i sogni e desideri di una gioventù monca, recisa, troppo spesso buttata via a metà del percorso.
Non rimangono da usare neanche tante parole, per tentare di uscire sani di mente e di cuore da una simile circostanza, forse non è più sufficiente parlare di educazione, etica, morale, ora occorre scandire un tempo di trasformazione culturale, di fiducia in quegli uomini e in quelle donne che possono ricondurre la società al posto che le compete, quello del rispetto della vita.
Il male oscuro delle mamme - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 21 luglio 2009
Caldaro – Bolzano: Martina di appena 5 mesi trovata annegata nell'acqua di una cisterna, poco dopo nella stessa cisterna verrà trovata la mamma.
Parabiago: Lorenzo 4 anni, strangolato dalla mamma con un filo elettrico.
Martina aveva 5 mesi ed era nata con il morbo di down, la sua mamma Evi Drescher di anni ne aveva 44, la descrivono come una brava maestra d’asilo, una mamma attenta, aveva un altro figlio di 5 anni.
Le hanno trovate morte, in una cisterna piena d'acqua.
L’ipotesi più probabile è che Evi si sia calata nella cisterna con la piccola in braccio, pare che la nascita di Martina l’avesse fatta precipitare nella depressione post parto, per questo si stava curando.
Lorenzo aveva 4 anni, abitava a Parabiago, in una bella casa con il papà e la mamma, Marcella, 36 anni, una famiglia tranquilla, normale dicono i vicini, ma cos’è normale?
La nonna e la zia del piccolo, insospettite perché non riuscivano a mettersi in contatto con la mamma sono corse a casa e hanno trovato la mamma in stato di shock, Lorenzo in fin di vita, strangolato con il filo di un caricacellulare, è morto poco dopo. Si ipotizza che anche lei soffrisse di depressione.
Già, il male oscuro.
Lo chiamano così, una malattia che ti corrode l’anima, che ti toglie la capacità di vedere cosa di buono c’è intono a te, guardi, ma non vedi, e non ti consolano gli amici, le persone che ti amano, le carezze di un figlio, il guardarlo crescere, non c’è nulla che ti dia gioia.
C’è solo il buio, una grande fatica, una grande solitudine nella quale sprofondi, un nodo alla gola che non si vuole sciogliere.
Cos’è questo demone che ci succhia l’anima?
Perché pare che oggi più di ieri trovi terreno per mettere radici nella nostra anima?
Non bastano i medici e i sociologi a spiegarlo, non bastano i farmaci a fermarlo, si insinua nella normalità, e ti toglie il sorriso, rende tutto insignificante, inutile, il cuore impermeabile all’amore, e l’anima se ne sta inerte, come chiusa in una bottiglia di vetro, la vita tua e degli altri non ti pare più preziosa di un granello di polvere che puoi soffiare e disperdere nel vento.
Così di un figlio vedi solo la fatica di accudirlo, di chi ti ama vedi solo i difetti, degli amici vedi l’egoismo e ti sfugge il loro affetto, la loro disponibilità, di Dio vedi solo la possibilità di raggiungerlo per trovare la pace che non hai.
Cosa sia accaduto a queste donne e a molte altre non si sa, cosa faccia dire – basta – ad una vita che agli altri pare normale e a te insopportabile, nessuno lo sa spiegare.
Chi ha tentato il suicidio senza riuscirci e si è salvato ha detto – non cercate motivi, io che sono vivo non so perché ho tentato di morire.
La scienza non sa dirci come salvare queste mamme e questi figli, come farli sentire meno soli, chissà se la statistica può dirci se anche una volta, quando la vita era un dono di cui non si poteva disporre il male oscuro aveva la meglio?
Il relativismo di Obama - Lorenzo Albacete mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
La scorsa settimana, il presidente Obama ha scelto la Dottoressa Regina Beckman come Surgeon General (N.d.r. direttore della sanità pubblica) degli Stati uniti, una specie di “Dottore dell’America”. Qualche mese fa, la Casa Bianca aveva fatto circolare il nome di un neurochirurgo, il Dr. Sanjay Gupta, molto popolare perché consulente medico del notiziario via cavo della CNN, ma una decisa opposizione a questa nomina aveva convinto il presidente a ritirare la candidatura.
La ragione principale dell’opposizione era che Gupta non aveva alcuna esperienza di lavoro con i poveri e non era quindi in grado di capire le loro esigenze in materia di assistenza sanitaria. Questa settimana, invece, il presidente ha scelto una persona che ha senza dubbio l’esperienza richiesta, dato che ha speso l’intera carriera a favore dei poveri della Costa del Golfo in Alabama. La Dottoressa Beckman è afroamericana e cattolica. (Dove trova Obama questa gente? Penso anche a Sonia Sotomayor, che questa settimana ha superato l’esame del Senato e sarà quasi certamente confermata come giudice della Corte Suprema. È sopravvissuta all’esame rifiutandosi di scendere dalle vette di un’assoluta neutralità).
In effetti, la riserva apparentemente inesauribile che Obama sembra avere di questo tipo di persone ha confuso l’opposizione conservatrice e sconvolto molti dei suoi sostenitori progressisti. Questa settimana, il redattore per le questioni religiose del Time Magazine parla di una “sinistra radicale contro il presidente” intervistando Cornel West, professore a Princeton e “intellettuale pubblico”. West descrive se stesso come un membro della “sinistra religiosa”, per la quale Obama è sotto l’influenza delle “élite neoprogressiste” che ignorano le urgenti necessità dei poveri. E infatti, i poveri stanno ricavando ben pochi benefici dai programmi presidenziali di recupero per l’economia. In altri termini, l’accusa ad Obama è di avere abbandonato “l’opzione preferenziale per i poveri” che aveva portato la sinistra a sostenerlo con tanto entusiasmo.
Ma è questa la verità? Obama ha tradito le promesse elettorali?
In un recente incontro con la stampa cattolica, il presidente ha detto: “Credo che vi sia qualcuno che continua ad aspettarsi il peggio da parte nostra, non sulla base di qualcosa che ho detto o fatto, ma solo sulla percezione che il nostro è un programma duro e che siamo decisi a portarlo avanti”. Conservatori, neoconservatori, neoprogressisti e progressisti non sanno cosa fare con il presidente, perché in realtà è un moderno relativista le cui certezze non hanno alcun contenuto specifico.
Questa settimana ho anche pensato al quarantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna. Ho personalmente dato qualche contributo scientifico al programma spaziale, almeno credo, e quel giorno pensai che quei primi astronauti sulla Luna in qualche modo rappresentavano anche me. Tuttavia, in quel periodo avevo già deciso di diventare prete, francamente senza sentire alcuna discontinuità nel mio cammino. La mia guida era Paolo VI.
Gli astronauti che per primi sbarcarono sulla superficie lunare vi portarono e lasciarono un messaggio in cui citava il Salmo 8 sull’uomo e su Dio. Neil Armstrong ha detto che l’incontro con il Papa nell’ottobre di quello stesso anno fu uno degli avvenimenti salienti del suo viaggio nello spazio e del ritorno sulla Terra.
Cosa c’entra questo con il relativismo di Obama? Il presidente vuole riprendere i programmi spaziali e, come allora, molti nella sinistra si oppongono, mentre molti a destra lo appoggiano, pur non fidandosi di lui. (Chissà cosa vogliono questi neoconservatori e neoprogressisti!) Perché Obama vuole che si torni sulla Luna? Forse vede in questo una metafora per una conferma “scientifica” del suo relativismo. Forse non è così, ma se lo fosse, svuoterebbe l’avventura di ogni entusiasmo. Quarant’anni fa questo non sarebbe accaduto.
ALCOL/ Gary Reinbach e quella società “perfetta” dove la carità è un premio a punti - Renato Farina mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Un ragazzo di 22 anni, obeso, alcolizzato, malato di cirrosi epatica poteva salvarsi la vita solo con il trapianto del fegato. Però non ha potuto dimostrare di saperselo meritare, non è stato sobrio sotto controllo per sei mesi prima del ricovero, ma solo per dieci settimane. Ha chiesto, e un dottore pietoso con lui, di dargli un’opportunità. No, l’Uomo della Regola ha detto no: i medici hanno applicato la norma etica, niente trapianto. Così Gary Reinbach è morto.
Chiariamo subito un punto. Ce ne sono tanti in lista di attesa per un trapianto di fegato. In Gran Bretagna ne sono deceduti 400 solo l’anno scorso. Quindi è naturale che – qualsiasi criterio si applichi – una selezione c’è. E il merito non è per forza un cattivo sistema. Ci sono tanti fattori però per determinarlo. Uno di questi – lo grida la natura – è l’età. Prima le donne e i ragazzi. In Inghilterra il merito dato dal bisogno, dall’oggettività dell’età e delle precedenze naturali e tradizionali, è stato soppiantato dal contrario della carità, e cioè la coerenza. La coerenza con il timbro, una specie di ordalia dove chi perde è fuori dal gioco, eliminato, polverizzato, annichilito, come nel video game.
Alla pietà si è sostituito il codice dell’eticamente corretto. Il Comitato etico decide per chi far funzionare la ghigliottina o regalare un biscottino.
Sia chiaro. Guai a considerare la carità un diritto da riscuotere. Chi dona un suo organo non ha obblighi né civili né morali. La solidarietà non può essere imposta per legge. Dunque non è che a Gary sia stato negato un “diritto umano”. Di certo però è un mio, un tuo, un nostro dovere obbedire a quanto urla Dio nella Bibbia sin dall’Antico Testamento (Deuteronomio), e che coincide con il cuore, ciò che è buono, desiderabile, bello, giusto. Gesù Cristo ha seminato ieri, e dà testimonianza oggi attraverso i suoi figli di una presenza misericordiosa che chiede di essere seguita, imitata, conformandoci ai segni umano-divini che ci danno speranza. Stabilire un mondo dove la carità (che vuol dire gratis, grazia, amore gratuito, dono, misericordia, Dio che ti accarezza) è un premio da riscuotere con i bollini del cliente perfetto della società moralista è di una tristezza infinita, è peggio della bestemmia.
Vorremmo ripetere a Gary e a sua mamma che l’ha sentito supplicare: “Aiutatemi, non voglio morire”, le parole che ci suscitano adesso la speranza. Quelle che ha detto Gesù ai suoi amici più cari: “Nel mondo siete nella tribolazione. Coraggio. Io ho vinto il mondo!”.
CRISTIANESIMO/ Giovanni Calvino e Ignazio di Loyola, un problema di grazia e libertà - Giuseppe Reguzzoni mercoledì 22 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Non fu propriamente un teologo, ma un umanista e un giurista, tuttavia pochissimi uomini hanno inciso così in profondità sulla storia religiosa dell’Europa moderna. Parliamo di Giovanni Calvino (Jean Cauvin), nato a Noyon in Piccardia il 10 luglio del 1509, dunque cinquecento anni fa. Personalità intelligentissima e incline agli studi letterari, per compiacere il padre prese la licenza in diritto all’università di Parigi, dove entrò per la prima volta in contatto con correnti di pensiero filoluterane. Alla morte del padre riprese gli amati studi umanistici proprio nello stesso periodo in cui iniziava a frequentare la Sorbona Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù e grande protagonista della Controriforma cattolica. Queste due personalità, che mai si incontrarono, si trovarono dunque nello stesso ambiente culturale nel medesimo periodo. Due storie parallele, due personalità fortissime e per molti versi anche molto simili. Calvino vedeva in Gesù Cristo il Giusto Giudice incoronato di gloria, Ignazio il Signore della Misericordia, la cui gloria è la croce. Il primo fece uscire la Riforma Protestante dai ristretti limiti del mondo germanico e, grazie alle sue capacità organizzative e al suo fascino, ne fece un fenomeno europeo e mondiale; il secondo passò dalla vita militare a una militanza appassionata per il Signore che gli si era manifestato nell’esperienza di Manresa, divenendo il cuore di un’intensa esperienza missionaria in tutto il mondo. A Parigi Ignazio di Loyola era venuto per consolidare la sua formazione teologica, Calvino per licenziarsi in diritto.
Non si può certo dire che Parigi fu la Manresa di Calvino, ma di certo in alcune correnti intellettuali filoprotestanti che vi stavano attecchendo, egli trovò un’importante conferma alle istanze rigoriste e alla critica della spiritualità tardomedievale che da qualche anno lo agitavano. L’incipiente Protestantesimo parigino era anzitutto un fenomeno intellettuale e a tratti aristocratico, che godeva di simpatie anche nell’ambiente di corte. Nell’ottobre del 1534 vennero diffusi a Parigi dei fogli contro la Messa cattolica, uno dei quali, a quanto pare, fu affisso persino nell’appartamento del re, Francesco I, che reagì con durezza, ordinando l’arresto di numerosi protestanti. Calvino abbandonò la Francia, prima per Strasburgo, poi per Basilea. Qui nell’agosto del 1535 completò la prima versione della sua «Institutio christianae relgionis», opera fortunatissima che avrebbe poi conosciuto tutta una serie di revisioni e di ampliamenti. Al centro di essa vi è l’idea che la Riforma non è che la ripresa delle origini cristiane, così come sono testimoniate nella Bibbia, e non una nuova chiesa. In modo particolare, per Calvino il cuore del messaggio cristiano viene spiegato con la teoria della doppia predestinazione: il destino di ogni persona, la dannazione o la salvezza, è già deciso prima della nascita; il successo in questa vita nell’adempiere le virtù è il segno dell’elezione divina. Per questo il fedele agendo in conformità con le cosiddette virtù calviniste – rigore morale, laboriosità, parsimonia, temperanza, sopportazione del dolore – può misurare sino a che punto Dio lo ha eletto alla salvezza. Le opere non giovano a nulla, ma attraverso di esse si può cogliere il segno della salvezza a cui si è destinata. Ne derivano un forte dinamismo confessionale e un acceso attivismo pratico, di cui la laboriosità e la parsimonia sono le espressioni più evidenti. A consentire la diffusione del modello calvinista fu però non tanto la suggestione delle idee, ma, almeno all’inizio, soprattutto tutta una serie di fortunate circostanze.
Nel maggio del 1536 Calvino lasciò Basilea per recarsi a Strasburgo, ma a causa dei conflitti locali che allora infiammavano l’Alsazia e la Germania meridionale, dovette fare tappa a Ginevra. Si trattava originariamente solo di una deviazione, ma, su insistenza del predicatore riformato Guillaume Farel, Calvino decise di fermarsi nella città sul Lemano. Ginevra aveva aderito alla Riforma più per fare dispetto ai Savoia, contro i quali stava costruendo la propria autonomia cittadina, che per reali convinzioni. Farel e Calvino si misero quindi all’opera per elaborare un Catechismo e una Professione di fede a cui avrebbero dovuto giurare fedeltà tutti i ginevrini, ma ben presto si manifestano fortissime resistenze da parte della popolazione. Calvino e Farel dovettero lasciare Ginevra e trasferirsi a Strasburgo. Qui Calvino approfondì i contatti con l’ambiente luterano, senza mai conoscere personalmente Martin Lutero. Quest’ultimo, peraltro, era diversissimo da Calvino, per personalità, sensibilità e storia. Lutero era un uomo passionale, perennemente in lotta con le tentazioni della carne, ma anche amante della buona tavola e della compagnia. Le Tischreden di Lutero sono la trascrizione delle conversazioni fatte a tavola, in cui frizzi, battute al limite dell’osceno e invettive teologiche spesso si mescolano. Calvino non conosce nulla di simile: nessuna traccia di angoscia e di passione, ma solo certezze indiscutibili e assolute, che per lui coincidevano con la vera e autentica tradizione. Anche la scelta di sposarsi è dovuta a motivazioni profondamente differenti. Per l’ex monaco agostiniano Lutero, profondamente sensuale e passionale, il matrimonio è remedium concupiscentiae, mentre per Calvino è una necessità sociale. Calvino, infatti, si sposò, ma non per amore, bensì per dare il buon esempio, e, non a caso, “scelse” una vedova con figli. Ma le differenze tra i due sono soprattutto di carattere dottrinale. Lutero non accetta la teoria della doppia predestinazione e afferma il valore della consustanziazione, per cui Cristo è realmente presente nel sacramento della Cena. Calvino, che assume una posizione di mezzo tra Zwingli (che nega ogni valore di presenza reale alla Cena) e Lutero, ammette al massimo una sorta di presenza spirituale. Le differenze dogmatiche tra Calvino e Lutero erano destinate a esplodere e a produrre una spaccatura profonda in seno al protestantesimo.
Nel 1541 il consiglio municipale ginevrino richiamò Calvino, accettando le sue proposte di riforma e l’introduzione di severe regole morali. Di fronte al progetto di rigido disciplinamento sociale e morale della città si manifestarono quasi immediatamente profondi dissensi e opposizioni, ma Calvino questa volta reagì con la massima durezza e con misure legali ferree e spietate. L’esempio più clamoroso fu quello del teologo spagnolo Michele Serveto, che aveva negato il dogma della Trinità e che per questo stava subendo un processo da parte dell’Inquisizione. Nel 1553 Serveto fuggì da Lione e cercò rifugio a Ginevra. Poco dopo il suo arrivo in città, Calvino lo fece arrestare e condannare al rogo come eretico. Nel frattempo si acuirono ulteriormente i contrasti con i Luterani che, a parere di Calvino avevano una concezione della Cena ancora troppo vicina a quella dei “papisti” , mentre maturò l’avvicinamento ad Heinrich Bullinger, successore di Zwingli a Zurigo. Da questo accordo nacque la chiesa riformata elvetica, che si contrapponeva ormai non solo alla Chiesa cattolica, ma anche alle chiese luterane.
Oltre al tema della doppia predestinazione e alla diversa concezione della Cena, molto importante era il diverso modo di pensare il rapporto stato chiesa. Per Lutero lo stato ha il diritto di riformare la chiesa e il cittadino deve ubbidire sempre allo stato, la cui autorità, come dice san Paolo, «viene da Dio». Per Calvino la chiesa ha il diritto di imporre le proprie leggi e i propri principi morali allo stato, come di fatto avvenne a Ginevra a partire dalle «Ordinanze ecclesiastiche» del 1541. La posizione di Calvino a Ginevra era ormai sempre più forte, anche grazie alla consistente immigrazione di protestanti provenienti da tutte le regioni della Francia (circa cinquemila su una popolazione di quindicimila abitanti). Ginevra si avviava così a essere la Roma del protestantesimo: vennero vietate le danze e la musica profana, il gioco delle carte, gli ornamenti e il lusso, la lettura di testi letterari non religiosi e non edificanti. Si bruciarono in pubblico non solo le opere dei “papisti” e degli eretici, ma anche i capolavori della letteratura rinascimentale, giudicata paganeggiante e immorale.
La riforma calvinista, come già quella zwingliana a Zurigo, fu violentemente iconoclasta e comportò in tutti i territori elvetici passati alla Riforma la spogliazione delle chiese e la distruzione di preziosissime opere d’arte. Tra il 1542 e il 1546, nel breve arco di quattro anni, quelli in cui fu applicata la nuova disciplina ecclesiastica, a Ginevra vennero eseguite più di sessanta condanne a morte per motivi morali o religiosi. Intanto, da tutta Europa arrivavano a Ginevra nuovi adepti, attirati dal fascino di Calvino, nei confronti del quale si generò un entusiasmo che spesso sconfinava nel fanatismo. Grazie alla collaborazione di Teodoro di Beza venne istituita la nuova accademia teologica di Ginevra, destinata a formare pastori e missionari da inviare in ogni parte d’Europa. Il monumento ai riformatori, eretto a Ginevra nel 1909, accanto a Calvino, Farel e Teodoro di Beza, colloca l’effigie di John Knox, riformatore della Scozia e organizzatore della chiesa presbiteriana, e quella di Oliver Cromwell, il fanatico puritano che guidò gli eserciti inglesi nella devastazione dell’Irlanda, in uno spaventoso eccidio che avrebbe dovuto cancellare il cattolicesimo da quell’isola.
Ginevra divenne così il centro del calvinismo europeo e mondiale. Nel frattempo, però, la salute di Calvino peggiorava progressivamente, al punto che, a causa della tubercolosi, negli ultimi mesi fu costretto a governare la città dal suo letto. Anche su questo punto la biografia di Calvino presenta un impressionante parallelo con sant’Ignazio di Loyola, che dal letto di morte inviava lettere ai missionari gesuiti sparsi in ogni parte del mondo, ma, ancora una volta, balza agli occhi anche la differenza, tra la fede assoluta di Calvino e l’ardente passione per Cristo e per la Chiesa di Ignazio. Calvino morì il 27 maggio 1564 a 54 anni di età. Aveva iniziato la sua opera di riforma ribellandosi all’autoritarismo della Chiesa romana, lasciò dietro di sé un regime tra i più intolleranti che la storia dell’Occidente abbia mai conosciuto. Identificando di fatto il cristianesimo con la purezza legale e la coerenza etica, Calvino, come scrive Daniel-Rops, finisce per essere l’antenato spirituale di Robespierre e del moderno fanatismo ideologico.
Sì al divieto/Che follia dire ai giovani: niente regole - di Michele Brambilla – IlGiornale, 22 luglio 2009
aiuto Fa tanto fico schierarsi contro i divieti. Si sta dalla parte dei liberali, degli illuminati che hanno fiducia nell’uomo e nella sua capacità di auto-regolamentazione quando non addirittura di auto-redenzione. Chi invece ritiene che almeno ogni tanto vada messo qualche paletto, segnato qualche stop, minacciata qualche sanzione, viene arruolato fra i dinosauri del proibizionismo, della reazione, del clerico-fascismo.
Banalmente, si dice che i primi sono di sinistra e i secondi di destra. Un teologo osservava che in fondo quel che divide sinistra e destra è la fede nel peccato originale, cioè nella libertà dell’uomo di fare il bene o il male. La sinistra non ci crede per nulla, e ritiene che l’umanità sia destinata a migliorare progressivamente, fino al giorno in cui diventeremo tutti buoni e non ci sarà più bisogno di leggi e prigioni. La destra ci crede troppo, ed è convinta che, al contrario, più si va avanti più ci si allontana da una mitica età dell’oro; l’umanità insomma procederebbe su un piano inclinato, e per imporre la virtù serviranno sempre i gendarmi.
Senza scomodare la teologia, credo sia sufficiente l’osservazione della realtà per evitare entrambi gli estremismi destra-sinistra, e valutare caso per caso. Nella fattispecie: il divieto di consumare alcolici per gli under 16 è sensato oppure no? A mio parere fra tanti diktat ridicoli che stanno facendo tornare di moda lo Stato etico - c’è perfino chi vieta di fumare all’aperto o nella propria automobile; oppure di consumare chewing-gum - questo deciso dal Comune di Milano è più che comprensibile: è opportuno.
Francamente non capisco le obiezioni. L’unico argomento che viene portato avanti dai «contrari» è: non servono i divieti, occorre l’educazione. Con tutta la buona volontà, non vedo alcun contrasto fra le due cose. Se si vieta il consumo di alcolici a ragazzini di quindici anni (poco più che bambini) viene automaticamente esclusa ogni opera di persuasione da parte delle famiglie, delle scuole, dei mass media? Una cosa esclude l’altra?
Credo di no, anzi credo che a volte i divieti siano parte integrante dell’educazione. A scuola guida si «educa» a circolare e a parcheggiare correttamente: ciò non toglie che le manovre e i parcheggi scorretti siano poi sanzionati dai vigili. I genitori poi educano (o dovrebbero educare) i figli ad avere rispetto degli insegnanti e dei compagni di classe: ciò non toglie che l’alunno che si comporta male possa (anzi debba) essere punito con una nota, o con una sospensione, o con un’insufficienza in condotta. Potremmo andare avanti con esempi infiniti.
Da che esiste il diritto (ed esiste da un pezzo) la legge - qualsiasi legge - non ha solo il compito di punire i rei. Ha anche e soprattutto quello di fissare dei principi, di stabilire che cosa è giusto e che cosa non lo è. Quando una legge liberalizza un comportamento sbagliato, si diffonde via via il convincimento che quel comportamento non sia poi così sbagliato. Se lo dice perfino la legge che posso fare una certa cosa, perché non dovrei farla?
Anche lo stabilire divieti, quindi, fa parte dell’educazione. Di quella vera. L’indefinita «educazione» con la quale si vorrebbe ora fermare la piaga dell’alcol fra i ragazzini (perché è una piaga: chi ha figli di quell’età lo sa bene) fa invece parte dei totem progressisti, del sessantottino vietato-vietare, dell’idea che con il mitico «dialogo» si possa risolvere ogni problema. Curioso che tanto blablabla pseudo-liberal torni di moda ora che, da un pezzo, è stata archiviata come una fallimentare utopia la bibbia del permessivismo del celeberrimo pediatra Benjamin Spock, di gran moda negli anni Sessanta. Qualche anno fa la teoria del dottor Spock (anch’egli poi ampiamente pentitosi di quel che aveva scritto) venne smontata dal libro di un’altra studiosa, la psicoterapeuta Asha Phillips. Il titolo era «I no che aiutano a crescere».
Ecco, il «no» del Comune di Milano può servire a far capire, a chi non è ancora in grado di capire, che bere alcol a quindici o quattordici o addirittura tredici anni è dannoso per sé e per gli altri. Oltre che a evitare, magari, qualcuna delle tante bravate, o delle tante morti in motorino, sulle quali poi tutti sono pronti a piangere.
L’USURA NON CONOSCE BARRIERE - I PASSI PIÙ INFAMI SUI MARCIAPIEDI LUCIDI DELLA METROPOLI - DAVIDE R ONDONI – Avvenire, 22 luglio 2009
L e mani che lo strozzavano infine sono diventate le sue. Le sue stesse mani. Quelle che dall’ombra di uffici strani, di finanziarie di copertura gli stavano togliendo il sonno, il fiato, la gioia, infine sono diventate le sue stesse mani. La sua stessa corda. La sua stessa volontà di tirare la corda. Di stringere il cappio che altri gli avevano messo al collo. Quando un uomo la fa finita così verrebbe da pensare subito a sordide storie dei vicoli dei tanti sud del mondo e d’Italia. Ma non è così. Il tragico gesto del tabaccaio milanese ci mostra con l’evidenza che taglia il respiro che anche nel civilissimo, sviluppatissimo nord arrivano le grinfie d’ombra di chi con il denaro si porta via anche la vita della gente.
La rovina economica di quest’uomo è simile a quella che può capitare e capita a tanti. La via del credito regolare, l’insufficienza di questo, l’anticamera dell’usura camuffata da uffici di un’allettante finanziaria che elargisce soldi. E poi il maledetto imbuto. Da cui non è riuscito a risalire. Che l’ha risucchiato. Preso per i soldi, afferrato per i debiti, l’intero uomo, cuore mente corpo, è precipitato. In solitudine, come spesso accade. Senza far trapelare quasi niente ai familiari e ai vicini. Fino allo schianto della notizia finale. Come per non voler disturbare. O almeno per non disturbare troppo a lungo. Capita spesso. È in un certo senso comprensibile. È difficile confidare a chi si ama il proprio fallimento. Insomma, ha voluto che i suoi non guardassero la sua vergogna. Ha preferito, come in una specie di gesto d’amore estremo, eppure contraddittorio, dare il taglio netto. Evitare a loro il logoramento che era stato suo.
È evidente che storie come questa sono segnate dal maledetto crimine dell’usura – che sempre la Chiesa ha additato come uno dei peggiori – così come sono segnate dalla solitudine. Quella del piccolo uomo d’affari. O del grande uomo d’affari. Solo con la sua impresa. O di famiglie che usano male il denaro. Senza senno, e senza confrontarsi con nessuno. Sempre più soli specie quando l’impresa vacilla, non ce la fa. E mentre si stringe il cappio dell’usura si stringe anche quello della solitudine. Le due mani che poi sono diventate le sue stesse mani. Perché la solitudine dell’imprenditore – piccolo o grande – è la prima alleata dell’usura. Solitudine che a volte resta tale al di sotto di categorie, di associazioni di facciata, formali. In questo aumento di storie di soffocamento per usura (come documentano anche i centri d’ascolto cattolici) c’è un avvertimento. Per i governanti, per gli imprenditori. E per i cittadini. L’usura è un male sociale. Vale a dire una cosa che ammala tutta la convivenza. Perché gli usurai – grandi o piccoli che siano – ingoiano il lavoro, la fatica, e spesso la vita della gente.
Lo stesso Dante Alighieri non cita mai suo padre e se ne vergogna perché forse fu usuraio. Acquattati come coccodrilli in una società che fa del business e della riuscita una specie di legge non scritta, ferrea e micidiale, eccoli pronti ad azzannare e a far sparire le loro vittime. Mentre non c’è nessuna ragione al mondo per cui un uomo che non riesce a tirare avanti debba finire così. I debiti non possono diventare una condanna a morte. Né al sud né al nord. E se lo diventano è perché ai coccodrilli si sono alleati solitudine e indifferenza. E la diseducazione all’uso del denaro. No, il caso del tabaccaio milanese non è un 'caso'. Ma un sintomo. Grave.
I signori dell’ombra sono ben piazzati ovunque, anche nell’Italia che come si dice 'tira'. E stanno nutrendo il loro cancro. Si deve combatterli spietatamente, favorendo la compagnia tra imprenditori e perseguendo le finte finanziarie, spezzando i tentacoli e i denti. Quelli che il tabaccaio di Milano ha sentito, insopportabili, fin dentro al cuore.
L’ I TALIA E IL COMMERCIO CLANDESTINO DI OVOCITI IN R OMANIA - Quel traffico di vita umana frenato da una legge rigorosa - BENEDETTO IPPOLITO – Avvenire, 22 luglio 2009
C ome insegna la saggezza antica, spesso riusciamo a comprendere meglio alcuni valori fondamentali quando ci confrontiamo con un accadimento specifico. Come quello che è avvenuto nella notte tra domenica e lunedì in Romania. In quelle ore, a Bucarest, si è svolto il blitz conclusivo di una maxi- operazione internazionale che ha messo fine a un commercio clandestino di ovociti. Sembrava una semplice azione di polizia, ma ben presto, però, è emerso il vero dramma umano che si nascondeva dietro alle molte coppie che da Paesi stranieri accorrevano nella capitale romena per realizzare il ' sogno' di avere figli, comprando ovociti da giovani donatrici pronte a vendere per denaro una parte del proprio corpo.
Le forze dell’ordine hanno verificato che all’interno della prestigiosa clinica ' Sabyc' veniva consumato l’ignobile traffico illegale di « materiale umano » , messo in piedi da un gruppo di medici israeliani. Anche in Israele e in Romania la cosiddetta donazione ( così come l’acquisto) di ovuli è illegale, e pertanto impossibile da mettere in pratica alla luce del sole.
Al naturale sconcerto che si prova al cospetto di persone che scelgono di muoversi consapevolmente fuori di ogni regola morale per risolvere problemi umani di così profonda e vasta portata, in Italia si è aggiunto un sovrappiù di polemica per il fatto che dal nostro Paese sembrano provenire non poche delle coppie coinvolte nell’indagine.
Alcuni hanno puntato indebitamente l’indice sulla legge 40, che come noto ponendo fine all’epoca di ' provetta selvaggia' ha anche interdetto la fecondazione eterologa ( cioè con intervento di soggetti estranei alla coppia interessata), nella convinzione che si tratti di una normativa che impedirebbe l’accesso ' pieno' ai metodi di fecondazione artificiale.
Tesi che fa tornare alla memoria i vecchi e speciosi argomenti utilizzati per legittimare l’aborto: il ricorso all’illegalità sarebbe la conseguenza disperata di una legislazione ingiusta, rigida e restrittiva.
Quanto emerge dalla vicenda romena è, invece, esattamente e in tutta chiarezza l’opposto. La legge 40 si dimostra una buona garanzia di tutela dell’indisponibilità della persona umana ad ogni forma di commercializzazione e di abuso legale, e il caso di Bucarest segnala anzi quanto sia indispensabile vigilare socialmente affinché l’integrità della persona sia garantita ovunque con la stessa intensità e sia sottratta ad ogni forma illegale di mercificazione. È, insomma, fondamentale evitare che si producano trasgressioni che possano mettere a repentaglio il principio dell’integrità individuale del nascituro, il quale possiede un diritto insopprimibile ad avere una paternità e una maternità inequivocabili, insindacabili e certe sin dall’inizio della sua vita.
E non si parli, per favore, di un ostacolo al progresso della scienza, perché proprio in questo particolare frangente si manifesta un fenomeno diverso, peraltro spiegato recentemente in alcune sue splendide riflessioni dal laicissimo filosofo tedesco Jürgen Habermas, ossia la capacità della tecnica di rendere effettivamente possibili, in taluni casi, le ingiustizie e le regressioni d’umanità più aberranti, specialmente quando consegna all’uomo la potestà di vendere e comprare se stesso o il suo simile per sopravvivere o per inseguire una qualche idea di felicità. Persino sulla pelle di chi è troppo piccolo e debole per difendersi da solo.
Fine vita, i medici bocciano la linea del loro presidente - Roccella: serve un diritto forte per evitare dubbi - DA R OMA P IER L UIGI F ORNARI – Avvenire, 22 luglio 2009
Va avanti il confronto tra gli ordini dei medici e la maggioranza, in un incontro con il gruppo del Pdl del Senato, mentre si dimostra sempre più un passo falso la forzatura nel documento sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), varato a Terni il 13 giugno dal consiglio nazionale della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), nonostante un ampio dissenso (5 contrari e 7 astensioni) di alcuni degli ordini più numerosi.
Il testo voluto dal presidente Bianco che ha prodotto la pesante spaccatura, invocando un «diritto mite», considera la nutrizione trattamento medico, quindi rifiutabile nelle Dat. «I pronunciamenti etico-deontologici sono sempre stati espressione della unanime volontà dei presidenti degli ordini. Si auspica che ciò, contrariamente a quanto avvenuto a Terni, ritorni ad essere la norma», ribatto- no i 18 vertici degli ordini di Aosta, Bologna, Caserta, Catania, Ferrara, Lodi, Lucca, Messina, Mantova, Milano, Oristano, Palermo, Pavia, Potenza, Roma, Rovigo, Trapani, Trieste. Il numero uno di Roma (l’ordine più grande, con il 10% dei medici), Mario Falcone, sottolinea nel suo intervento che il 13 giugno è «stata la prima volta che si è prodotto un dissenso sui principi del codice deontologico», una «scorciatoia» su una legge che la maggior parte dei medici non conosce, soprattutto la sua limitazione agli stati vegetativi. Il pronunciamento dei 18 presidenti ringrazia per l’invito «all’approfondimento » del ddl gli esponenti del Pdl e del governo e «la esauriente illustrazione» di Raffaele Calabrò, seguita da interventi dei presidenti di più ordini, con contributi migliorativi.
Invece benzina sul fuoco aveva gettato lunedì la notizia, riportata da un’agenzia, che i medici non avrebbero partecipato all’incontro, perché il presidente della Fnomceo, Amedeo Bianco, con una mail definiva «irrituale» la convocazione. Minimizza Gabriele Peperoni, segretario nazionale, negando che Bianco, assente per ferie, abbia invitato a non partecipare. Ma dal presidente nessuna smentita ufficiale. Peperoni si dice contrario allo «scontro», ma insiste sul «diritto mite».
«Se c’è divisione sui criteri deontologici – replica il sottosegretario, Eugenia Roccella – il legislatore non può mettere in campo un diritto mite, ma uno forte e chiaro, in modo che non ci possano essere dubbi sul piano deontologico». Il sottosegretario si dice «molto soddisfatta» della riunione. «ll dialogo con i medici è aperto – attesta – ed è fondamentale che prosegua», in particolare sui punti «caratterizzanti » del ddl. La Roccella riferisce che le associazioni dei malati in stato vegetativo hanno chiesto che alimentazione e idratazione siano «atti dovuti». Calabrò, dopo la sottolineatura delle concordanze con il documento della Federazione, definisce «equivoca » la richiesta dell’obiezione di coscienza e critica la considerazione di nutrizione come trattamento.
A questo proposito il vicepresidente dei senatori del Pdl, Gaetano Quagliariello, spiega la scelta del ddl con il principio laico di «precauzione». L’obiezione di coscienza, peraltro, è inutile, in quanto le Dat non sono vincolanti. Questo non vuol dire che la volontà del paziente «scompaia », anzi è «centrale» nell’alleanza terapeutica. Il ddl «non è il migliore possibile», comunque ha superato «oltre 60 votazioni segrete con una maggioranza più alta di quella prevista». Quindi invita i deputati «all’umilità di impegnarsi nello scavo di una materia molto complessa», piuttosto che nel compromesso politico. Il presidente, Maurizio Gasparri, rammenta che sono state «le sentenze della magistratura ad obbligare a fare una legge in una materia così difficile, con sofferenza e fatica». Il ministro Sacconi conferma da parte del governo la disponibilità al dialogo. «Il Parlamento è sovrano», assicura, ma l’esecutivo che ha espresso la «sua motivata opinione » con il decreto per salvare Eluana Englaro, si augura che sia prevalente la volontà «di confermare i contenuti fondamentali del ddl».
«Sono rimasto sorpreso – riferisce infine Antonio Tomassini – di fronte al documento di Terni, l’impessione è che si volesse effettuare un condizionamento politico». Il presidente della commissione competente, che ha organizzato l’incontro, ringrazia i medici per «la presenza numerosa», puntualizzando che il dibattito sul fine vita è inziato fin dalla XIV legislatura.
Si riferisce al documento di Terni, il presidente della Camera, Gianfranco Fini, sostenendo che se sul ddl i medici «esprimevano perplessità, forse dovremmo averle anche noi». Auspica, sperando nei voti segreti, perciò il testo venga modificato con «una formulazione meno dogmatica».