Nella rassegna stampa di oggi:
1)Comunicato Stampa Enciclica: nota di Comunione e Liberazione 8 luglio 2009
2)Benedetto XVI presenta ai fedeli l'Enciclica "Caritas in Veritate" - Intervento nell'Udienza generale
3)La forza della carità - di Davide Perillo - 08/07/2009 - Il legame inscindibile con la verità. L’annuncio di Cristo come «primo fattore di sviluppo». E poi la sussidiarietà, il mercato, la libertà… Così Giorgio Vittadini legge per Tracce la nuova enciclica di Benedetto XVI – Anteprima Tracce luglio – agosto 2009
4)Progresso e morale - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 8 luglio 2009
5)Romano Guardini e le «tribolazioni umane» - L'uomo malato e la brutalità dei sani - di Ferdinando Cancelli – L'Osservatore Romano, 9 luglio 2009
6)Nota critica del cardinale Rigali sulle nuove linee guida del National Institutes of Health - La ricerca sulle staminali negli Stati Uniti non può ignorare l'opinione dei cattolici – L'Osservatore Romano, 9 luglio 2009
7)ENCICLICA/ Scola: la testimonianza di Cristo, al cuore dello sviluppo - INT. Angelo Scola giovedì 9 luglio 2009 – ilsussidiario.net
8)LETTERATURA/ Lucrezio, il primo “illuminista” alla ricerca del senso della vita - Laura Cioni giovedì 9 luglio 2009 – ilsussidiario.it
9)NUOVO SLANCIO DI PENSIERO - ORIENTARE LA GLOBALIZZAZIONE NEL SENSO DELLA RAZIONALITÀ - P IERO C ODA – Avvenire, 9 luglio 2009
10)Suicidio assistito, Londra si ferma. Per ora - di Elisabetta Del Soldato – Avvenire, 9 luglio 2009
Comunicato Stampa Enciclica: nota di Comunione e Liberazione 8 luglio 2009
Siamo grati al Santo Padre che anche nella sua enciclica sociale ha riproposto l’originalità della fede e il contributo che i cristiani possono dare alla convivenza sociale e allo sviluppo.
Ci sembra decisivo che all’inizio di un’enciclica dedicata al fare dell’uomo il Papa richiami tutti con grande realismo a una evidenza elementare, negando la quale ogni tentativo dell’uomo diventa ingiusto fino alla violenza: «Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa presunzione che discende dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell’interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società». L’esperienza anche recente, infatti, insegna che la pretesa di autosufficienza e di «eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere e di azione sociale».
Al contrario, la verità di noi stessi ci è prima di tutto “data”: «La verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta». Per questo il Papa afferma che «la carità nella verità è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità. In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona».
Benedetto XVI ci richiama al fatto - sempre più spesso dimenticato, come l’attualità ci testimonia - che «un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo».
La Caritas in veritate sottolinea che la Chiesa «non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende di intromettersi nella politica», ma ha una missione da compiere: annunciare Cristo come «il primo e principale fattore di sviluppo».
Su questa strada della testimonianza ci sentiamo sfidati a verificare - dentro le vicende della vita - la portata della fede in Cristo, come Colui che ci mette nelle condizioni ottimali per affrontare la miriade di problemi di ordine economico, finanziario, sociale e politico che l’enciclica elenca.
l’ufficio stampa di CL
Milano, 8 luglio 2009.
Benedetto XVI presenta ai fedeli l'Enciclica "Caritas in Veritate" - Intervento nell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 8 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato da Benedetto XVI questo mercoledì mattina in occasione dell'Udienza generale, dedicata alla presentazione dell'Enciclica "Caritas in Veritate", presentata questo martedì.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
La mia nuova Enciclica Caritas in veritate, che ieri è stata ufficialmente presentata, si ispira per la sua visione fondamentale ad un passo della lettera di san Paolo agli Efesini, dove l'Apostolo parla dell'agire secondo verità nella carità: "Agendo - lo abbiamo sentito ora -secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a Lui, che è il capo, Cristo" (4,15). La carità nella verità è quindi la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera. Per questo, attorno al principio "caritas in veritate", ruota l'intera dottrina sociale della Chiesa. Solo con la carità, illuminata dalla ragione e dalla fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di valenza umana e umanizzante. La carità nella verità "è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi" (n. 6). L'Enciclica richiama subito nell'introduzione due criteri fondamentali: la giustizia e il bene comune. La giustizia è parte integrante di quell'amore "coi fatti e nella verità" (1 Gv 3,18), a cui esorta l'apostolo Giovanni (cfr n. 6). E "amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c'è un bene legato al vivere sociale delle persone... Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera" per il bene comune. Due sono quindi i criteri operativi, la giustizia e il bene comune; grazie a quest'ultimo, la carità acquista una dimensione sociale. Ogni cristiano - dice l'Enciclica - è chiamato a questa carità, ed aggiunge: "E' questa la via istituzionale ... della carità" (cfr n. 7).
Come altri documenti del Magistero, anche questa Enciclica riprende, continua ed approfondisce l'analisi e la riflessione della Chiesa su tematiche sociali di vitale interesse per l'umanità del nostro secolo. In modo speciale, si riallaccia a quanto scrisse Paolo VI, oltre 40 anni or sono, nella Populorum progressio, pietra miliare dell'insegnamento sociale della Chiesa, nella quale il grande Pontefice traccia alcune linee decisive, e sempre attuali, per lo sviluppo integrale dell'uomo e del mondo moderno. La situazione mondiale, come ampiamente dimostra la cronaca degli ultimi mesi, continua a presentare non piccoli problemi e lo "scandalo" di disuguaglianze clamorose, che permangono nonostante gli impegni presi nel passato. Da una parte, si registrano segni di gravi squilibri sociali ed economici; dall'altra, si invocano da più parti riforme non più procrastinabili per colmare il divario nello sviluppo dei popoli. Il fenomeno della globalizzazione può, a tal fine, costituire una reale opportunità, ma per questo è importante che si ponga mano ad un profondo rinnovamento morale e culturale e ad un responsabile discernimento circa le scelte da compiere per il bene comune. Un futuro migliore per tutti è possibile, se lo si fonderà sulla riscoperta dei fondamentali valori etici. Occorre cioè una nuova progettualità economica che ridisegni lo sviluppo in maniera globale, basandosi sul fondamento etico della responsabilità davanti a Dio e all'essere umano come creatura di Dio.
L'Enciclica certo non mira ad offrire soluzioni tecniche alle vaste problematiche sociali del mondo odierno - non è questa la competenza del Magistero della Chiesa (cfr n. 9). Essa ricorda però i grandi principi che si rivelano indispensabili per costruire lo sviluppo umano dei prossimi anni. Tra questi, in primo luogo, l'attenzione alla vita dell'uomo, considerata come centro di ogni vero progresso; il rispetto del diritto alla libertà religiosa, sempre collegato strettamente con lo sviluppo dell'uomo; il rigetto di una visione prometeica dell'essere umano, che lo ritenga assoluto artefice del proprio destino. Un'illimitata fiducia nelle potenzialità della tecnologia si rivelerebbe alla fine illusoria. Occorrono uomini retti tanto nella politica quanto nell'economia, che siano sinceramente attenti al bene comune. In particolare, guardando alle emergenze mondiali, è urgente richiamare l'attenzione della pubblica opinione sul dramma della fame e della sicurezza alimentare, che investe una parte considerevole dell'umanità. Un dramma di tali dimensioni interpella la nostra coscienza: è necessario affrontarlo con decisione, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri. Sono certo che questa via solidaristica allo sviluppo dei Paesi più poveri aiuterà certamente ad elaborare un progetto di soluzione della crisi globale in atto. Indubbiamente va attentamente rivalutato il ruolo e il potere politico degli Stati, in un'epoca in cui esistono di fatto limitazioni alla loro sovranità a causa del nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale. E d'altro canto, non deve mancare la responsabile partecipazione dei cittadini alla politica nazionale e internazionale, grazie pure a un rinnovato impegno delle associazioni dei lavoratori chiamati a instaurare nuove sinergie a livello locale e internazionale. Un ruolo di primo piano giocano, anche in questo campo, i mezzi di comunicazione sociale per il potenziamento del dialogo tra culture e tradizioni diverse.
Volendo dunque programmare uno sviluppo non viziato dalle disfunzioni e distorsioni oggi ampiamente presenti, si impone da parte di tutti una seria riflessione sul senso stesso dell'economia e sulle sue finalità. Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo domanda la crisi culturale e morale dell'uomo che emerge con evidenza in ogni parte del globo. L'economia ha bisogno dell'etica per il suo corretto funzionamento; ha bisogno di recuperare l'importante contributo del principio di gratuità e della "logica del dono" nell'economia di mercato, dove la regola non può essere il solo profitto. Ma questo è possibile unicamente grazie all'impegno di tutti, economisti e politici, produttori e consumatori e presuppone una formazione delle coscienze che dia forza ai criteri morali nell'elaborazione dei progetti politici ed economici. Giustamente, da più parti si fa appello al fatto che i diritti presuppongono corrispondenti doveri, senza i quali i diritti rischiano di trasformarsi in arbitrio. Occorre, si va sempre più ripetendo, un diverso stile di vita da parte dell'umanità intera, in cui i doveri di ciascuno verso l'ambiente si colleghino a quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri. L'umanità è una sola famiglia e il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che arricchirla, rendendo più efficace l'opera della carità nel sociale, e costituendo la cornice appropriata per incentivare la collaborazione tra credenti e non credenti, nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace nel mondo. Come criteri-guida per questa fraterna interazione, nell'Enciclica indico i principi di sussidiarietà e di solidarietà, in stretta connessione tra loro. Ho infine segnalato, dinanzi alle problematiche tanto vaste e profonde del mondo di oggi, la necessità di un'Autorità politica mondiale regolata dal diritto, che si attenga ai menzionati principi di sussidiarietà e solidarietà e sia fermamente orientata alla realizzazione del bene comune, nel rispetto delle grandi tradizioni morali e religiose dell'umanità.
Il Vangelo ci ricorda che non di solo pane vive l'uomo: non con beni materiali soltanto si può soddisfare la sete profonda del suo cuore. L'orizzonte dell'uomo è indubbiamente più alto e più vasto; per questo ogni programma di sviluppo deve tener presente, accanto a quella materiale, la crescita spirituale della persona umana, che è dotata appunto di anima e di corpo. E' questo lo sviluppo integrale, a cui costantemente la dottrina sociale della Chiesa fa riferimento, sviluppo che ha il suo criterio orientatore nella forza propulsiva della "carità nella verità". Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché anche questa Enciclica possa aiutare l'umanità a sentirsi un'unica famiglia impegnata nel realizzare un mondo di giustizia e di pace. Preghiamo perché i credenti, che operano nei settori dell'economia e della politica, avvertano quanto sia importante la loro coerente testimonianza evangelica nel servizio che rendono alla società. In particolare, vi invito a pregare per i Capi di Stato e di Governo del G8 che si incontrano in questi giorni a L'Aquila. Da questo importante summit mondiale possano scaturire decisioni ed orientamenti utili al vero progresso di tutti i Popoli, specialmente di quelli più poveri. Affidiamo queste intenzioni alla materna intercessione di Maria, Madre della Chiesa e dell'umanità.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Mentre rivolgo un cordiale benvenuto ai gruppi venuti dalla Romania e dalla Bulgaria, saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana. In particolare sono lieto di accogliere le Suore Missionarie del Catechismo, che celebrano il centenario della nascita dei Fondatori, Padre Vincenzo Idà e Madre Pasqua Condò, e le Suore Francescane Angeline, nel 125° di fondazione dell'Istituto. Per entrambe le Famiglie religiose invoco una rinnovata effusione dello Spirito Santo. Saluto inoltre i fedeli di Vibonati, accompagnati dal Vescovo di Teggiano-Policastro, Mons. Angelo Spinillo; come pure quelli della parrocchia di San Marone in Civitanova Marche.
Come di consueto, il pensiero finale va ai giovani, ai malati e agli sposi novelli oggi presenti. Cari giovani, so che molti di voi approfittano del tempo estivo per vivere un'esperienza significativa di spiritualità e di servizio: vi incoraggio in questo e vi addito l'esempio di un vostro coetaneo, il beato Piergiorgio Frassati. A voi, cari malati, auguro di trovare conforto nelle parole dell'apostolo Paolo, che la liturgia ci ha riproposto domenica scorsa: "Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo" (2 Cor 12,9). E voi, cari sposi novelli, sappiate sempre coltivare, con la preghiera e l'amore vicendevole, la relazione coniugale che avete sigillato con il Sacramento nuziale.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
La forza della carità - di Davide Perillo - 08/07/2009 - Il legame inscindibile con la verità. L’annuncio di Cristo come «primo fattore di sviluppo». E poi la sussidiarietà, il mercato, la libertà… Così Giorgio Vittadini legge per Tracce la nuova enciclica di Benedetto XVI
Giorgio Vittadini.
L’attesa è stata lunga: due anni abbondanti, da quel 2007 in cui si cominciò a parlare della «ormai prossima enciclica sociale di Benedetto XVI» (doveva uscire per il quarantennale della Populorum progressio di Paolo VI). Poi, sull’andirivieni di bozze, si è innestata la crisi globale. E la necessità di correggere, approfondire, rivedere. Risultato: il testo è stato firmato il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, ed è uscito la settimana dopo.
Attesa conclusa, quindi. Inizia la lettura. Densa, visto che si tratta di 79 paragrafi in cui si spazia dal lavoro alla finanza, dalle organizzazioni internazionali allo sviluppo, passando per la tecnica, il consumo, l’ambiente… «Ma il primo dato che colpisce è un altro», dice Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà: «Il legame con la prima enciclica di questo Pontefice, la Deus caritas est. Anche lì, a ben guardare, si parlava della carità legandola a doppio filo alla verità. Qui il Papa fa lo stesso, sin dalle prime battute».
Come a dire che il problema sociale e dei rapporti tra gli uomini è anzitutto una questione ontologica, non etica. Un problema di conoscenza, potremmo dire. Che ne pensi?
Definendo la carità come verità il Papa ne elimina qualunque possibile riduzione di tipo moralistico. In questo senso è vero, la lega proprio alla conoscenza. Mi viene in mente un vecchio volantino degli anni 80 che riprendeva un intervento di Giovanni Paolo II: “La verità è la forza della pace”. Ecco, fondare la carità sulla verità vuol dire riportarla all’aspetto proprio delle virtù teologali: fede, speranza e carità. Mentre la parola “carità”, molte volte, può essere percepita in modo riduttivo.
«Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo», dice il Papa…
Appunto. Qui, invece, si parla di amore, ma come amore al destino dell’uomo. E lo si lega all’aspetto ontologico e di conoscenza. La conoscenza come punto di partenza dell’amore, dello sviluppo. Secondo me, è molto importante: in questo modo nel clima di confusione in cui viviamo - e in cui questi valori sono stati molte volte slegati da un’esperienza umana e storica - viene riportato tutto ad un’oggettività.
E ad un’affermazione potente: «L’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo».
Perché è Cristo che compie il destino dell’uomo. Questo è un tema che viene fuori praticamente in tutta l’enciclica. Il Papa ne parla nelle prime battute, quando riprende la Populorum progressio e la rivede in modo non ridotto. Benedetto XVI sottolinea che Paolo VI poneva in modo chiaro il rapporto tra l’annuncio di Cristo, la persona e la società. Ma ne parla anche andando avanti, quando più volte afferma che la Chiesa è il vero punto di riferimento del progresso dell’uomo. Infatti, ponendo il tema della carità nella verità afferma che «in Cristo la carità nella verità diventa il volto della Sua persona» e che la Chiesa custodisce questa concezione della realtà. Il Papa parla della dottrina sociale, ma mette in luce che anch’essa nasce dall’avvenimento cristiano.
Parla anche dello sviluppo come «vocazione» e non solo «incremento dell’avere». Perché?
Lo spiega così: «Nel disegno di Dio ogni uomo è chiamato a uno sviluppo perché ogni vita è vocazione». Nelle pagine dell’enciclica c’è un contrappunto continuo sul fatto che lo sviluppo dell’uomo ha a che fare con il «senso del suo camminare nella storia». Pensa a come parla di povertà, all’inizio del quinto capitolo: la mette in rapporto con il non senso perché nasce dalla «solitudine» e dal «rifiuto dell’amore di Dio». È come se il Papa mettesse in guardia continuamente sul fatto che qualunque problema sociale non è trattato in modo completo ed equilibrato se si prescinde dal rapporto con Dio. Fattore importantissimo, soprattutto se pensiamo a come il tema “evangelizzazione e promozione umana” è stato trattato negli anni, anche negli ambienti ecclesiastici, come fossero due aspetti disgiunti. «Non basta la carità, ci vuole la giustizia». Quante volte l’abbiamo sentito ripetere? Come se la carità potesse essere ingiusta e la giustizia fosse qualcosa che l’uomo può darsi da sé!
Non ti sembra notevole l’attualità di Paolo VI?
Sì. Ma colpisce anche che Benedetto XVI legga proprio la Populorum progressio, che è stata una delle encicliche più forzate nell’interpretazione. Se l’Humanae vitae, altra famosa enciclica di Montini, è stata letta come chiusura, la Populorum progressio è stata interpretata come cedimento al mondo. Invece il Papa la rilegge nella sua accezione vera: il tentativo di mostrare come la fede in Dio e l’esperienza cristiana siano i fattori più determinanti per lo sviluppo integrale dell’uomo.
Però è impressionante anche l’attualità di quella intuizione di don Giussani datata 1976. “Evangelizzazione e promozione umana” era il titolo del convegno della Chiesa italiana di quell’anno, tutto imperniato sulla distinzione. Don Giussani a quella “e” avrebbe voluto che si mettesse un accento: annunciare Cristo è promuovere l’umano…
Guarda, leggendo l’enciclica non ho potuto fare a meno di pensare in molti punti al trittico L’io, il potere e le opere, il libro di don Giussani. È il radicarsi sull’io dotato di un desiderio di verità, giustizia e bellezza che fonda un’azione sociale. E infatti, più avanti, l’enciclica parla letteralmente di «opera». Non confinandola ad un aspetto marginale della vita economica e sociale, il Terzo settore visto come qualcosa a fianco di liberismo e comunismo. È il mercato che, per Benedetto XVI, deve essere trapuntato di gratuità, di imprese in cui il profitto è uno strumento, ma lo scopo è più grande.
L’espressione esatta è «opere che rechino impresso lo spirito del dono»…
Esattamente, quindi si parla di opere che nascono dall’esperienza cristiana, di associazioni imprenditoriali che nascono con questo scopo. Qui si legge il mercato, e la stessa vita economica, come qualcosa che non si lascia alle opposte ideologie, ma come uno strumento di qualcosa di più grande. «Non si tratta solo del terzo settore», dice nel paragrafo 46, «ma di una nuova, ampia realtà composita che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto ma lo considera come strumento per realizzare finalità umane e sociali». E poi: «Sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro». È come se rileggesse la storia economica, non solo italiana ma europea, dal 1850 ad oggi: il movimento cattolico, il movimento operaio, lo sviluppo di un’imprenditoria operosa mossa dal desiderio di migliorare le condizioni di vita dell’uomo.
E che cosa emerge da questa rilettura?
Noi cattolici abbiamo avuto per anni un complesso di inferiorità. C’era l’idea che la società è quel che è, con le sue leggi, e noi dobbiamo darle i valori etici e occuparci dei poveri. Stop. Bene, il Papa ribalta questa posizione. E mostra che il mercato è qualcosa di molto più complesso e variegato di quel moncherino astratto descritto da certi editorialisti. Così legge anche la crisi finanziaria, non solo come l’esito di meccanismi sbagliati, ma come l’esito dell’azione di uomini che si sono mossi con un’umanità ridotta. Ne è esempio uno dei problemi più gravi di questa crisi finanziaria: la crisi di fiducia reciproca che l’ha amplificata. La crisi di fiducia non è una crisi che nasce da meccanismi economici, ma nasce dalla crisi dell’uomo in rapporto con altri uomini. In questo senso il vero tema dell’enciclica è il soggetto umano che sta dietro l’attività economica e la determina.
È per questo che l’altro filo rosso è la libertà? È una parola che ricorre 38 volte…
Perché il Papa invita a superare una concezione di economia legata a meccanismi in cui l’uomo non c’entra. Se guardiamo al dibattito post-crisi su certi giornali, si vede come le vie d’uscita non prevedano un’autocritica a riguardo della concezione di uomo che guida l’attività economica. Sembra che bisogna solo riparare le macchine che si sono guastate, e perciò ci si ingrippa di nuovo. Chi, come il Papa si chiede chi sia e cosa voglia l’uomo che guida l’economia, mostra perciò una visione assolutamente innovativa dell’economia e della società, che mette al centro la responsabilità del singolo e delle aggregazioni, dei corpi intermedi, in cui si mette insieme ad altri uomini, in nome di comuni visioni ideali. Infatti, non a caso, l’altra grande parola dell’enciclica è “sussidiarietà”. Benedetto XVI ne parla sempre come di un metodo legato alla responsabilità: «La sussidiarietà è un aiuto alla persona attraverso l’autonomia dei corpi intermedi». Vuol dire che è lo strumento che permette che l’io, nei corpi intermedi, possa sviluppare le sue potenzialità. La sussidiarietà «favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità».
Come leggi questa definizione?
In maniera dinamica. Diciamo che la sussidiarietà pone le condizioni per cui la persona, viene messa in grado di sviluppare tutta la sua capacità creativa, e attraverso i corpi intermedi cui appartiene, diviene capace di dare risposta ai bisogni della società. Dall’io all’opera. Il desiderio diventa opera, costruzione di una risposta organica al bisogno. È una concezione di uomo e un’esperienza in atto che sorregge la definizione di sussidiarietà.
E qui si torna al concetto iniziale dello sviluppo come «vocazione».
Ma il bello è che il Papa lo dice sia al livello dell’io, che delle opere, che della stessa globalizzazione. E questa è una tesi molto ardita, soprattutto a livello internazionale. I vari G8 e simili ci hanno abituato al fatto che il mondo va avanti grazie ai vertici dei capi di Stato. Siamo agli antipodi della sussidiarietà. Il Papa, invece, dice che anche un’autorità mondiale dovrà «attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà». Pensa a cosa vuol dire, per esempio, per un’Unione europea soffocata dallo statalismo, dagli interessi nazionali, dalle burocrazie...
Il Papa lega la sussidiarietà alla solidarietà. Perché questa sottolineatura così insistita?
Anzitutto dobbiamo pensare che nel mondo non c’è l’universalità del welfare come in Europa. Il mondo americano, per esempio, non lo concepisce così. E anche l’Europa, avendo perso lo scopo dei sistemi di welfare che è il servizio alla persona, finisce spesso per difendere uno Stato inteso come unico garante del bene della persona e un’iniziativa privata senza ideali, come unica espressione della libertà. Sottolineare il nesso tra solidarietà e sussidiarietà vuol dire che il primo modo per difendere e aiutare a sviluppare l’io e il popolo vuol dire favorire la nascita e la crescita di realtà che proprio per essere mosse da criteri ideali, si battono per il bene comune e per rispondere alle necessità dei più poveri e più bisognosi. Da questo punto di vista la solidarietà che si coniuga alla sussidiarietà trova la sua radice in quella carità intesa come «dono di sé commosso», secondo la definizione di don Giussani.
Paradossalmente, in questo senso non c’è niente di più sussidiario della stessa Chiesa: nasce e vive apposta per permettere all’io di trovare la risposta al suo bisogno.
Infatti a un certo punto, “stranamente” in un’enciclica sociale, c’è tutto un paragrafo sulla libertas Ecclesiae e sulla libertà religiosa. Perché se non c’è un soggetto che sottolinea l’idea dell’io unico e irripetibile, del valore della persona prima che nelle sue espressioni operative nella sua concezione, io non posso costruire una realtà che sia sussidiaria. A differenza di quello che dicono i suoi oppositori, la Chiesa ha come scopo l’educazione al senso religioso della persona, al suo rapporto con il Mistero e quindi, vale a dire, al crescere della sua libertà. In questo senso è interessante come nell’enciclica si affermi che solo un uomo che viva integralmente questo rapporto con il Mistero possa davvero difendere la vita, l’ambiente, usare in modo equilibrato le tecniche. Da questo punto di vista, si ripropone in modo originale una vecchia dottrina cattolica di cui noi abbiamo parlato moltissimo in questi anni: dove non c’è libertà per la Chiesa non ci può essere libertà personale e sociale.
È anche per questo che ricorre spesso pure la parola “educazione”?
Certo. Non per niente l’educazione viene posta in nesso stretto con la sussidiarietà. Se è vero che il problema è permettere lo sviluppo dell’io, il desiderio deve essere educato. E non è educato innanzitutto dal punto di vista funzionale, non è educato innanzitutto perché dico «ti do la possibilità di gestire le scuole e di fare gli ospedali». È educato al bello, è educato al vero, è educato alla carità nella verità. È educato ad aprirsi, perché come diceva Romano Guardini (e don Giussani con lui) «nell’esperienza di un grande amore tutto diventa un avvenimento nel suo ambito». Allora diventa capace di costruire, di mettersi insieme, di impegnarsi e sacrificarsi per il bene comune.
Mentre senza questa dimensione tutto diventa confuso: «Senza Dio, l’uomo non sa dove andare», conclude il Papa.
Ma si potrebbe aggiungere, parafrasando un famoso film, che “Dio ha bisogno degli uomini”. È una sfida aperta a ciascuno di noi nella concretezza di tutti i giorni.
Progresso e morale - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 8 luglio 2009
“Caritas in veritate” è il contributo della Chiesa alla creazione di un equilibrio fra progresso e morale
«La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. L’amore – “caritas” – è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. E’ una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (Gv 8,22). Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, “si compiace della verità” (1 Cor 13,6). Tutti gli uomini avvertono l’interiore impulso ad amare in modo autentico: amore e verità non li abbandonano mai completamente, poiché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù Cristo purifica e libera dalle nostre povertà umane la ricerca dell’amore e della verità e si svela in pienezza l’iniziativa di amore e il progetto di vita vera che Dio ha preparato per noi. In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la verità.
La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. Ogni responsabilità e impegno delineati da tale dottrina sono attinti alla carità che, secondo l’insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (Mt 22,3640). Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro – relazioni:rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro – relazioni: rapporti sociali, economici, politici. Per la Chiesa – ammaestrata dal Vangelo – la carità è tutto perché come insegna san Giovanni (1 Gv 4,8.16) e come ho ricordato nella mia prima Lettera enciclica, “Dio è carità”: dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza.
Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l’irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali…La verità va cercata, trovata ed espressa nell’”economia” della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità…La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l’intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza verità la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che priva di respiro umano e universale…Nell’attuale contesto sociale e culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità porta a comprendere che l’adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale» [Benedetto XVI, Caritas in veritate, paragrafo 1, 2,3,4].
La parola “morale”comincia lentamente a riacquistare un posto di rilievo per cui “l’amore nella verità – caritas in veritate – è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante…” (n. 9). L’umanità oggi corre il rischio di essere distrutta dall’interno, dal suo stesso declino morale. Tuttavia, invece di lottare contro questa malattia potenzialmente morale che dissolve le essenze umane essa fissa, come ipnotizzata, il pericolo esterno, nucleare o di altre armi micidiali per le esistenze o di abuso dell’ambiente, che è solo un effetto secondario della sua malattia morale interiore che di conseguenza prima di distruggere le esistenze distrugge le essenze come l’amore, la giustizia, la verità, i valori sociali.
Ora, tutti ci rendiamo conto che il valore attribuito alla competenza tecnica, all’efficienza è del tutto sproporzionato rispetto alla scarsa attenzione rivolta verso “criteri orientativi dell’azione morale” (n.6). Oggi sappiamo molto di più in merito a come si costruiscono le bombe rispetto a come giudicare se sia morale o meno usarle. Questo squilibrio a discapito della morale è la questione fondamentale del nostro tempo. Perciò la Chiesa stessa potrà sopravvivere solamente se sarà in condizione di aiutare il genere umano a superare questo momento difficile. Per fare ciò, deve porsi come autorità morale, e lo deve fare in due modi:
- deve offrire dei modelli,
- deve ridestare la volontà e la capacità delle persone di aderire a tali modelli.
“Ne desidero – Benedetto XVI in Caritas in veritate – richiamare due in particolare, dettati in special modo dall’impegno per lo sviluppo in una società in via di globalizzazione: la giustizia e il bene comune (cioè di ogni persona esistente che Dio ama). La giustizia anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni società elabora un proprio sistema di giustizia. La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all’altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso “donare” all’altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro” (n.6).
Però quando consideriamo il contributo che la Chiesa può dare alla creazione di un equilibrio fra il progresso e la morale, la materia prima di cui l’uomo anche attualmente dispone per la propria esistenza e per la realizzazione di un futuro in cui valga la pena essere delle persone, ci rendiamo conto che la Chiesa non è una sorta di club per la soddisfazione di bisogni ideali in ambito sociale o personale. Vediamo al contrario che essa svolge una funzione essenziale proprio nel cuore delle tensioni che la società sta attraversando. “La complessità e gravità dell’attuale situazione economica giustamente ci preoccupa, ma dobbiamo assumere con realismo, con fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui richiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente” (n. 21). La Chiesa offre le sorgenti della conoscenza morale e delle loro problematiche di fronte alla povertà del mondo moderno al riguardo: la sua mancanza di idee di fronte alla questione morale, l’insufficiente sviluppo della ragione morale se paragonato alla ragione speculativa. Ma la Chiesa non è, innanzitutto, una sorta di “istituzione morale”: questo è il modo in cui si è cercato di descriverla e di giustificare la sua esistenza all’epoca dell’illuminismo e in Italia dell’idealismo gentiliano. Ciò nonostante, è vero che essa ha a che fare con le risorse morali dell’umanità di fronte alla deregolamentazione del lavoro che rischia di condurre le persone al degrado umano, di fronte all’urgenza di eliminare lo scandalo della fame nel mondo come imperativo etico e via unica per salvaguardare la pace e la stabilità del pianeta, di fronte ad una economia di mercato che non funziona senza forme interne di solidarietà, di sussidiarietà e di fiducia, di fronte ad una impresa che non può ridursi all’interesse dei proprietari come merce di cui disporre senza assumere responsabilità sociali, perché l’autorità politica vada distribuitasi in piani diversi, perché la crescita demografica non impedisca lo sviluppo occorre un’apertura responsabile alla vita, perché la natura non sia considerata né un tabù intoccabile e né si debba abusarne, perché la globalizzazione vada governata da un’autorità organizzata in modo sussidiario e divisa in vari livelli decisionali, perché l’attuale emigrazione vada governata, come ogni fenomeno della globalizzazione, ma senza dimenticare mai i diritti umani, per i nuovi compiti dei sindacati che devono strutturarsi per affrontare i problemi del mercato globale e tutelare anche i non iscritti, perché la finanza appiattita sul breve termine, senza regole morali e che ha funzionato male, abbia operatori che riscoprano il fondamento etico della loro attività a sostegno del vero sviluppo. E qui Benedetto XVI nel primo capitolo riprende il magistero di Paolo VI nella Populorum progressio, nell’Humanae vitae, nell’Evangelii nuntiandi.
Possiamo vedere che la fede non solo professata, celebrata, pregata ma vissuta dalla Chiesa è in accordo con le principali tradizioni religiose e morali dell’umanità su diversi punti, in grado di instaurare un vero dialogo, in questo momento di globalizzazione, con le altre culture, nelle quali la dimensione religiosa è fortemente presente, oltre a poter rispondere alle domande fondamentali sul senso religioso e sulla direzione della nostra vita. La fede cristiana crede che solo Dio possa essere la misura di ogni uomo, e che solo la volontà divina possa imporsi in modo incondizionato su ogni uomo che, comunque ridotto è contrassegnato da un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza. Crede inoltre che la rivelazione di Dio che possiede un volto umano in Gesù Cristo che ci ha amato sino alla fine, ogni persona e l’umanità nel suo insieme, ci collochi entro un modello di vita comunitaria basato su un di noi, il cui orizzonte globale e la cui direzione non possono essere spiegate in termini di sola volontà umana.
Chiaramente ogni cattolico guarda a questo noi ecclesiale – le cui consuetudini nella continuità del popolo di Dio ebraico - cristiano - costituiscono la sorgente più vicina alla conoscenza morale – non semplicemente come alla società in cui vive, ma come a una nuova società, che può essere spiegata solo attraverso la rivelazione e che trascende tutte le società locali (è “cattolica”), subordinandole fin dal Sinai, da Gesù Cristo ai dettami della volontà divina che sono rivolti a tutte loro.
E’ impossibile una morale soltanto in una razionalità a-storica e storicamente possiamo indicare quattro sorgenti della morale.
- il comportamento morale deve rendere giustizia alla verità. In questo senso la realtà – e la ragione, che conosce e spiega la realtà – è senza dubbio un’insostituibile sorgente della morale.
- Seconda sorgente è la coscienza.
- Terza sorgente è la saggezza della tradizione, incarnata in un “noi” vivente, una comunità attiva che per il cristiano si realizza concretamente nella nuova comunità della Chiesa.
- Tutte queste sorgenti conducono alla vera morale solo quando sia presente la volontà di Dio. Infatti, in ultima istanza, solo la volontà di Dio può stabilire i confini far ciò che è bene e ciò che è male, che è qualcosa di diverso dal confine fra ciò che è utile o meno o fra ciò che è dimostrato e ciò che è ignoto. La Chiesa cattolica vede un’importante conferma del suo insegnamento nel fatto che, al suo interno, questi elementi si compenetrano e si illuminano vicendevolmente. Il suo insegnamento consente alla coscienza di esprimersi. La coscienza è ritenuta valida proprio perché incorpora l’intima verità delle cose in accordo con la realtà, che è, in definitiva, la voce del Creatore.
Questi tre elementi – oggettività, tradizione e coscienza – rimandano in successione ai comandamenti divini. Questi comandamenti, da un lato, costituiscono il fondamento della dottrina sociale della Chiesa: formano le coscienze e rendono la realtà intelligibile; d’altro lato, poiché essi corrispondono alla realtà così come è percepita dalla coscienza, possono da parte loro essere confermati quali autentiche rivelazioni della volontà divina.
Così conclude Benedetto XVI ai nn. 78 e 79
“Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. Di fronte agli enormi problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto e alla resa, ci viene in aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa consapevoli: “Senza di me non potete far nulla” (Mt 28,20). Di fronte alla vastità del lavoro da compiere, siamo sostenuti dalla fede nella presenza di Dio accanto a coloro che si uniscono nel suo nome e lavorano per la giustizia. Paolo VI ci ha ricordato nella Populorum progressio che l’uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare da sé un vero umanesimo. Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremmo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale. La maggiore forza a servizio dello sviluppo è quindi un umanesimo cristiano, che ravvivi la carità e si faccia guidare dalla verità, accogliendo l’una e l’altra come dono permanente di Dio. La disponibilità verso Dio apre alla disponibilità verso i fratelli, verso una vita intesa come compito solidale e gioioso. Al contrario la chiusura ideologica a Dio e l’ateismo dell’indifferenza, che dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo. L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano. Solo un umanesimo aperto all’Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di vita sociale e civile – nell’ambito delle strutture, delle istituzioni, della cultura, dell’ethos – salvaguardandoci dal rischio di divenire prigionieri delle mode del momento. E’ la consapevolezza dell’Amore indistruttibile di Dio che ci sostiene nel faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra successi ed insuccessi, nell’incessante perseguimento di retti ordinamenti per le cose umane. L’amore di Dio ci chiama d uscire da ciò che è limitato e non definitivo, ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti, anche se non si realizza immediatamente, anche se quello che riusciamo ad attuare, noi le autorità politiche e gli operatori economici, è sempre meno di ciò che aneliamo. Dio ci dà la forza di lottare di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande.
La sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace”.
Romano Guardini e le «tribolazioni umane» - L'uomo malato e la brutalità dei sani - di Ferdinando Cancelli – L'Osservatore Romano, 9 luglio 2009
"Ci sono due modi di venir incontro alle tribolazioni umane. Uno è ovvio. Consiste nel lenire i dolori ed eliminare le cause immediate dei guai. L'altro non è così evidente, ma è altrettanto importante, anzi lo è ancora di più. Consiste nell'aiutare l'uomo affinché conservi nelle tribolazioni la visione della vita nella sua totalità, il sentimento di ciò che è essenziale, il senso delle distinzioni assolute, e superi con tale animo quanto gli accade. Per quanto sia importante il primo modo, se contraddice il secondo si trasforma in danno". Ad appena due anni di distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale così si esprimeva, in una conferenza Romano Guardini, scomparso nel 1968. Il testo, pubblicato due anni dopo essere stato pronunciato, è stato riproposto in lingua italiana con il titolo "Il diritto alla vita prima della nascita" nel volume Scritti politici (Brescia, Morcelliana, 2005) nell'ambito della pubblicazione dell'opera omnia del grande filosofo e teologo, italiano d'origine ma trasferitosi in Germania in giovanissima età.
Il testo, breve e incisivo, permette di apprezzare la visione di Guardini nei confronti della vita umana nascente e, in molti passaggi, consente di ricavare molti principi alla base di quel "profondo ethos del medico" che rappresentano i pilastri dell'esercizio della professione sanitaria. È interessante notare come i concetti espressi dall'autore a proposito della vita al suo inizio tornino, alcuni anni più tardi, in una lezione tenuta all'Università di Monaco di Baviera, riproposta con il titolo "Il medico e l'arte di guarire" nel volume Una morale per la vita (Brescia, Morcelliana, 2009, pagine 192, euro 15). Qui però l'attenzione dell'autore è focalizzata sulla vita resa fragile dalla malattia o dalla prossimità della morte e sul compito del medico di fronte a essa.
Dunque vita nascente e vita sofferente o al termine, ci dice Guardini, come occasioni per ribadire ciò che rende l'uomo inviolabile e richiamare direttamente la responsabilità del medico. "Un uomo è inviolabile - scrive il teologo - non già perché vive e ha quindi diritto alla vita. Un simile diritto l'avrebbe anche l'animale, poiché anch'esso vive (...) ma la vita dell'uomo non può essere violata perché l'uomo è persona". E poco oltre continua affermando che "la persona non è un che di natura psicologica, bensì esistenziale. Non dipende fondamentalmente da età o condizioni psico-fisiche o doti naturali, bensì dall'anima spirituale che è in ogni uomo". Di fronte a ciò il medico è chiamato secondo Guardini a farsi difensore in ogni caso della dignità intrinseca di ogni essere umano dal concepimento fino alla morte e, quasi come l'educatore che "rappresenta il senso della gioventù di fronte alle pretese autoritarie della società", il medico "rappresenta il diritto dell'uomo malato di fronte alla brutalità dei sani (...) e il diritto dell'uomo in divenire di fronte all'egoismo degli adulti". "Qui occorre - continua - quell'incorruttibilità che riposa su una chiara visione dell'essenza dell'uomo", lontana da ogni utilitarismo e da ogni pretesa di possesso sugli altri che, "specialmente quando si effettua sotto l'egida della legge, prepara lo Stato totalitario".
A questo proposito ancora più incisive risultano le parole di Guardini se lette nella cornice storica nella quale furono pronunciate: solo pochi anni prima in Germania si era visto il lato pratico dello "spaventoso concetto di una vita priva di valore vitale: prime vittime furono i malati mentali e gli idioti, sarebbero seguiti gli incurabili - e, infatti, molti di essi vennero uccisi - e i vecchi e gli inabili al lavoro avrebbero chiuso la serie".
Paradossalmente la società pare oscillare sempre sul baratro della tentazione di sbarazzarsi dei più deboli, degli "inutili", non accorgendosi che così rischia di eliminare se stessa: "Senza il contrappeso del carattere di persona proprio di ogni uomo e della sua intangibilità - afferma Guardini - le strutture del potere sono destinate alla rovina di per se stesse; se rettamente intesi, gli ammalati, i minorati, gli sprovveduti sono i difensori dei sani e li custodiscono dall'hybris e dalla crudeltà, possibilità sempre presenti nella condizione di chi è sano e forte".
Di fronte alla denuncia della profonda crisi nella quale "la figura e l'attività del medico sembrano oggi trovarsi" - crisi della quale, con straordinaria preveggenza, Guardini vede un sintomo nel "fatto che da diverso tempo la figura e la vita del medico sono diventati un soggetto del romanzo e della cinematografia" - l'autore individua nella "concezione fondamentale dell'uomo in senso meccanicistico" una delle cause principali dello smarrimento in cui già allora spesso versava l'agire medico. "Il singolo diviene irrilevante, il trattamento si fa schematico, le prescrizioni divengono burocratiche (...) e poi la tendenza a considerare ogni sistema come autoreferenziale e a dimenticare che esso esiste in funzione dei malati, solo per loro". È difficile non vedere in quell'"oggi" di più di mezzo secolo fa molti risvolti della nostra attuale situazione, nella quale ancora "il malato vuol sentire che la malattia è concepita come un processo di vita e che la guarigione è un atto che aiuta a vivere e non la riparazione di un guasto in una macchina", e nella quale si riaffaccia sempre la tentazione di mettere a punto raffinati strumenti per misurare la "qualità della vita" che rischiano di oscurarne il valore intrinseco insuperabile.
Quello del medico, si potrebbe concludere con Guardini, si profila come un "compito non soltanto scientifico ma anche etico", che deve manifestare la disponibilità ad assumere nella propria responsabilità la vita della persona dagli albori al tramonto. La posta in gioco è alta ed esige lo sviluppo di alcuni tratti essenziali di quella che l'autore definisce "la personalità tipica del medico: la serietà della coscienza di responsabilità con cui vuol servire il malato, l'acutezza vigile dell'attenzione, la trasparenza della dedizione personale, la forza di concentrazione. E insieme a questi anche l'impegno dell'autoformazione". "Un medico - afferma Guardini - non può vivere a suo piacere". Solo così si può imparare a conservare "nelle tribolazioni la visione della vita nella sua totalità, il sentimento di ciò che è essenziale e il senso delle distinzioni assolute" venendo "incontro alle tribolazioni umane".
(©L'Osservatore Romano - 9 luglio 2009)
Nota critica del cardinale Rigali sulle nuove linee guida del National Institutes of Health - La ricerca sulle staminali negli Stati Uniti non può ignorare l'opinione dei cattolici – L'Osservatore Romano, 9 luglio 2009
Washington, 8. Una nota critica nei confronti della versione finale delle linee guida per la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane da parte del National Institutes of Health (Nih) è stata diffusa ieri dal cardinale Justin Francis Rigali, arcivescovo di Philadelphia, che si è pronunciato sul delicato argomento nella sua qualità di responsabile del Comitato per le attività Pro-Life dei vescovi cattolici degli Stati Uniti.
Nella nota, il cardinale Rigali sottolinea che la sua posizione non è affatto mutata da quando "in aprile avevo criticato la bozza delle linee guida del Nih per la ricerca distruttiva sulle cellule staminali embrionali, affermando che, secondo queste linee guida, i fondi derivati dalle imposte federali sarebbero stati usati per incoraggiare la distruzione di embrioni umani in vita per la ricerca sulle cellule staminali, includendo esseri umani che altrimenti potrebbero sopravvivere fino alla nascita".
Secondo la nota critica del porporato "le linee guida finali pubblicate concedono margini ancora più ampi. I genitori a cui viene richiesto di considerare che i loro embrioni possano essere distrutti per fini di ricerca non dovranno più essere informati sulle altre possibili scelte opzionali ma solo su quelle disponibili presso il loro centro medico per la cura della fertilità. Inoltre, secondo le linee guida finali, le catene di cellule staminali esistenti precedentemente all'entrata in vigore del regolamento, o che sono prodotte in nazioni estere, possono essere usate per ricerche sovvenzionate da fondi federali anche se esse sono state ottenute in modi che violano uno o più requisiti stabiliti dallo stesso Nih per il consenso informato".
"In questo modo - continua la nota critica del cardinale Rigali - i pareri di decine di migliaia di americani sfavorevoli alla distruzione di vite umane innocenti per la ricerca sulle cellule staminali verrebbero ignorati da questa procedura. Perfino i pareri espressi dalla Conferenza dei vescovi cattolici e da altri organismi contro abusi specifici presenti nella bozza delle linee guida non sono stati presi in considerazione. Per esempio, verranno autorizzati a essere finanziati con fondi federali ricercatori che innestano cellule staminali embrionali umane negli embrioni di specie animali diverse dai primati; sovvenzioni federali saranno disponibili perfino per i ricercatori che in prima persona distruggono embrioni umani per ottenere cellule staminali per la loro ricerca. Nelle linee guida, non viene dato il dovuto riguardo alla legge federale esistente contro il finanziamento di ricerche in cui gli embrioni umani sono danneggiati o distrutti".
La nota critica del cardinale Rigali sulle linee guida dei Nih conclude sottolineando che "questo dibattito ora passa al Congresso, dove alcuni membri hanno affermato che questo modo di trattare gli esseri umani come oggetti da creare, manipolare e distruggere per altri fini non avrà un lungo futuro. Spero che gli americani informati su questo argomento scrivano ai loro rappresentanti eletti esortandoli a non sottoscrivere un regolamento inteso a maggiormente espandere questa condotta non etica".
Sulla bozza delle linee guida dei Nih erano stati espressi circa quarantanovemila commenti. Di essi, oltre trentamila davano parere contrario all'uso dei fondi federali per la ricerca sulle cellule staminali. Tuttavia l'attuale direttore dei Nih, Raynard Kington, ha recentemente sottolineato che "i pareri non possono essere espressi sul concedere i fondi federali o meno ma solo sui modi in cui essi possono essere concessi".
In risposta a Kington, Richard Doerflinger, direttore associato del Segretariato per le attività Pro-Life della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, ha affermato che suona "insincera" l'affermazione di Kington secondo cui tutti i pareri che esprimono giudizi contrari alle linee guida debbano essere ignorati.
(©L'Osservatore Romano - 9 luglio 2009)
ENCICLICA/ Scola: la testimonianza di Cristo, al cuore dello sviluppo - INT. Angelo Scola giovedì 9 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Molti commentatori, a due giorni dall'uscita delle Caritas in veritate ne hanno sottolineato gli aspetti più innovativi da un punto di vista filosofico, economico, ed etico di fronte alla grande Crisi economica. ilsussidiario.net ha raggiunto il Patriarca di Venezia, Cardinal Angelo Scola per entrare con lui nel merito di questa ultima grande enciclica sociale.
Eminenza, qual è la portata della sfida che con la Caritas in veritate il Papa lancia al mondo contemporaneo?
Dopo una prima attenta lettura, non esito a dire che ha una portata veramente storica.
Per la prima volta in termini così espliciti e diretti, quasi tecnici, il magistero pontificio fa una proposta, sottolineo proposta, di innovazione radicale in ambito economico.
In che cosa consiste l’originalità di questa enciclica, nell’ambito della tradizione costituita dalle altre encicliche sociali?
La sua originalità emerge in due punti che, a mio giudizio, rappresentano i cardini del documento.
Il Papa parte dalla “ragione economica” (per due volte nel testo ricorre questa espressione) e mostra come la sua proposta si innesti in domande che sorgono dall’interno dell’economia. La Caritas in veritate non è una sorta di verniciatura che si sovrappone ad un sistema economico già in sé compiuto, ma raccoglie le domande inevase che vengono dall’economia e da suggerimenti per una nuova “civilizzazione dell’economia”. In secondo luogo il contenuto fondamentale di tali suggerimenti è dato dal “principio di gratuità” e dalla “logica del dono tesa alla costruzione di una fraternità”. Solo da qui può venire lo sviluppo integrale dell’uomo. Sono molti gli esempi e le descrizioni proposte dal Santo Padre in chiave direi “tecnica”, di come questo principio di gratuità sia intrinseco all’economia.
In tutto questo io riscontro una radicale novità.
Perché un uomo del nostro tempo impegnato con la realtà (economica ma non solo) dovrebbe accettare di confrontarsi con quanto scritto e suggerito dal Papa?
Perché, se è un osservatore appassionato ed attento di tutta la realtà, non può non avere nel cuore - soprattutto in quest’epoca - una serie di domande irrisolte. Domande assai concrete, relative alla vita personale e sociale, a problemi materiali e spirituali che trovano in questa enciclica delle piste nuove e convincenti per essere affrontate. Basta sfogliare l’indice per rendersene conto.
Il Papa è molto chiaro e netto nella Caritas in veritate sulla natura del cristianesimo. Questo è anche un giudizio sulla Chiesa e sul cristianesimo nel mondo contemporaneo?
Sì, questo è un insegnamento che deve far riflettere tutti noi cristiani. Non mi piace il generico riferimento alla Chiesa, perché essa è un soggetto di comunione che, in ultima analisi, riposa nella persona di ciascuno di noi.
Tocca al magistero della Chiesa, soprattutto al magistero di Pietro - perché Gesù questo ha ordinato -, proporre un insegnamento. La Caritas in veritate implica sicuramente da parte di tutti noi cristiani una precisa autocritica circa il nostro modo di stare dentro la realtà contemporanea.
Cosa chiede il Papa ai cristiani impegnati nella società?
Il Papa chiede il coraggio umile di mostrare le ragioni adeguate per incontrare la bellezza dell’avvenimento di Gesù Cristo dall’interno della propria vita quotidiana fatta di affetti, di lavoro e di riposo.
Occuparsi di economia, di impresa, di diritti e di doveri, di vita, di tecnica, di fraternità, significa prendersi cura di tutto l’umano.
Ai cristiani è chiesto di assumere questo insegnamento papale domandando con umiltà al Signore l’energia di rinnovare la propria esperienza e la propria testimonianza.
«L’annuncio di Cristo è il primo fattore di sviluppo». Cosa vuol dire?
Vuol dire che al cuore dello sviluppo non ci possono essere delle strutture, che sono solo delle condizioni per lo sviluppo, ma ci deve essere l’uomo.
Come ha insegnato la Gaudium et Spes, in Cristo l’uomo può scoprire il suo vero volto. Cristo vive oggi attraverso i cristiani, Dio ha bisogno degli uomini. Quindi annunciare Cristo attraverso la propria vita, dentro tutti gli ambiti della propria esistenza, è la prima condizione dello sviluppo.
CARITAS IN VERITATE/ Vittadini: dagli artigiani alle coop, l'Italia vicina all'enciclica - INT. Giorgio Vittadini giovedì 9 luglio 2009 - Nell’enciclica di Benedetto XVI c’è l’idea che lo sviluppo debba far spazio al «principio di gratuità». Utopia? - ilsussidiario.net
«Anche una lucidatrice o una macchina per fresare il legno possono essere un aspetto della gratuità».
Prego, professore?
«Pensi al mondo della piccola e media impresa, ai tanti che vogliono sì il profitto, ma come strumento: per vivere e far vivere meglio, ma anche per il bene comune. Sono gli imprenditori a cui piace fare impresa e le cose per bene, che hanno cura del prodotto perché ci tengono e desiderano creare un ambiente confortevole, allearsi col lavoratore, rendere ricco il territorio...». Giorgio Vittadini, fondatore della Compagnia delle Opere, è presidente della Fondazione per la sussidiarietà. Un tema centrale, nella Caritas in veritate. «Penso alla tradizione del mercato italiano, al movimento cattolico e a quello operaio...».
E che c’entra?
«C’entra, c’entra. Per fare l’esempio dell’Italia, sono movimenti che da subito hanno reso il capitalismo intriso degli ideali di giustizia e di ricerca del bene comune, al di là del vituperato liberismo finanziario. Del resto, all’inizio del secolo scorso le casse rurali e di risparmio o le banche popolari facevano finanza creando bene comune».
Non c’è utopia, dunque?
«C’è una lettura profetica, piuttosto, fondata sulla realtà. La sussidiarietà e il mercato sono affrontati a partire da una concezione dell’uomo. Anni fa si parlava al massimo di "risorsa umana", qui si pone l’uomo al cuore dell’economia: carità nella verità. È rivoluzionario: la carità - il "dono di sé commosso", diceva Don Giussani - è la verità dell’uomo fatto a immagine di Dio, che è carità. Quindi l’uomo è responsabile verso gli altri uomini».
E allora?
«E allora la sussidiarietà è la valorizzazione di questo uomo che non sta da solo ed è capace di fare il bene. Nasce da un domanda: come posso portare il bene comune? Con lo Stato, dall’alto? O piuttosto dando valore a tutte quelle persone, movimenti e corpi intermedi della società che dal basso, essendo espressione dell’uomo, non possono che agire per il bene?».
Il Papa si riferisce alla globalizzazione...
«Il governo dall’alto, come unione di Stati, rischia di non avere effetto perché non valorizza soggetti capaci di fare del bene. Nel mondo ci sono comunità locali, associazioni, movimenti, realtà che operano per la libertà e la giustizia, per l’ambiente o contro il lavoro minorile, esistono persone come l’economista Muhammad Yunus che vanno coinvolte. C’è un’interconnessione di realtà virtuose che dice molto più dei modelli teorici».
E la realtà italiana può essere un modello?
«In Italia c’è già un mercato molto più vicino a quello di cui parla l’enciclica. Dalle piccole e medie imprese alle associazioni artigiane alla Lega delle cooperative alla CdO, abbiamo un’economia che accetta il mercato avendo però uno scopo ideale».
L’etica nell’economia?
«Il mercato può essere inteso come egoismo puro o come condivisione o come offerta di beni che migliori la vita delle persone. Uno dei grandi meriti dell’enciclica è di non dire "no" al mercato e all’impresa e "sì" solo a non profit e volontariato. Ridefinisce impresa e finanza in modo meno isterico, offre un’idea di mercato più sfaccettata. Rappresenta la fine dell’ideologia per cui l’economia, per definirsi, non ha bisogno dell’uomo».
Va bene, ma la lucidatrice?
«Adam Smith distingueva tra valore d’uso e valore di scambio. E il valore di scambio c’è perché questa cosa è utile, fatta bene e bella, quindi vivo meglio. Se il profitto è uno strumento, qual è lo scopo? Il "dono di sé commosso": l’imprenditore guarda al profitto ma insieme cerca di rendere il suo prodotto migliore. Quella del Papa è un’idea di economia più ricca, a colori, reale».
(Gian Guido Vecchi)
Pubblicato su Il Corriere della Sera del 9 luglio 2009
LETTERATURA/ Lucrezio, il primo “illuminista” alla ricerca del senso della vita - Laura Cioni giovedì 9 luglio 2009 – ilsussidiario.it
Gli antichi Romani non amavano molto la filosofia, la ritenevano un’occupazione inutile, quando non dannosa. Ma Lucrezio, uno dei loro massimi poeti, tradusse in un vasto poema il pensiero di Epicuro. La sua opera parla di lui come di un uomo che ebbe dallo studio della natura momenti di ebbrezza, ma non la felicità promessa. Egli soffre e conosce lucidamente la ragione del suo male, l’inspiegabile amarezza dell’inquietudine che afferra alla gola proprio in mezzo al piacere: medio de fonte leporum / surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat
In tutta la sua opera l’ammirazione sconfinata per la vastità del cosmo nel quale le cose si muovono incessantemente si intreccia con la percezione del limite. Il moto degli atomi che dà agli elementi della natura origine, consistenza e ordine ne spiega anche la decadenza e la morte; l’entusiasmo per l’indagine della ragione umana capace di strappare alla natura le sue leggi sfocia nella constatazione realista che tutto deperisce e si avvia verso la tomba. Proprio questo l’uomo teme sopra ogni cosa, la fine.
Lucrezio si propone di mostrare come solo la scienza sia in grado di sconfiggere questa paura, rivelando come stiano in realtà le cose. Occupazione importante, non certo gioco intellettuale, perché è in causa l’eternità, non un’ora sola: temporis aeterni quondam, non unius horae,/ ambigitur status. Occupazione coraggiosa, perché se è vero che nelle avversità si rivela di che pasta è fatto un uomo, occorre essere forti quando eripitur persona, manet res, strappata la maschera dell’apparenza e dell’illusione, rimane la cruda realtà.
La felicità è per Lucrezio il frutto di un’incessante battaglia contro l’ignoranza e il dolore, conquista conoscitiva ed etica insieme. Il saggio deve esercitare il distacco dalla passione degli eventi che passano per immergersi nel lavoro che gli è proprio, quello di lasciare che le cose rivelino il loro segreto. In una età in cui le enormi conquiste territoriali mettono in crisi le antiche istituzioni repubblicane, il poeta non si sottrae alla lotta che impegna il popolo romano con tutte le sue risorse. Lucrezio, come insegna Bergson nelle sue giovanili lezioni di latino, contribuisce allo sforzo comune, indicando nella ragione il farmaco che guarisca la paura della morte da cui nascono l’avidità della ricchezza, la brama degli onori, l’ambizione del potere, il disprezzo della sobrietà, la soppressione degli avversari.
Tutta la nostra vita si dibatte nell’oscurità: simili ai bambini che tremano e si impauriscono di tutto nelle tenebre cieche, noi, in piena luce, spesso temiamo pericoli tanto poco terribili quanto quelli che l’immaginazione teme e crede di vedere avvicinarsi. Questi terrori, queste tenebre dello spirito, li devono dissipare non i raggi del sole né i dardi luminosi del giorno, ma lo studio e la comprensione della natura.
Se questo sia sufficiente, ognuno lo può stabilire in base alla propria esperienza di sé e del mondo. Resta il fatto che in quel suo tempo ormai privo di dei e non ancora visitato da Dio, la sua proposta isolata e sofferta giunge come un correttivo e un avvertimento. Dopo l’opera di Lucrezio i Romani per la prima volta riconoscono al pensare una dignità pari a quella di altre opere più appariscenti.
NUOVO SLANCIO DI PENSIERO - ORIENTARE LA GLOBALIZZAZIONE NEL SENSO DELLA RAZIONALITÀ - P IERO C ODA – Avvenire, 9 luglio 2009
La vasta e positiva eco che la Caritas in veritate di Benedetto XVI sta incontrando a livello mondiale non è propiziata soltanto dalla particolare congiuntura in cui ha visto la luce. Anche se la coincidenza della sua pubblicazione con l’apertura del G8 a L’Aquila e, su più largo orizzonte, con la crisi economica e finanziaria internazionale amplificano senz’altro l’audience di una parola lucida, ponderata e attesa come questa. A leggerla con un po’ d’attenzione non si fatica a percepire che c’è dell’altro. Il fatto è che l’intervento di Benedetto XVI non solo invita a un nuovo 'slancio del pensiero' per discernere e affrontare la sfida globale che, nelle sue molteplici e correlate espressioni, tutti c’interpella. Ma di tale slancio abbozza con rigore i necessari presupposti. Riproponendo e riattualizzando il profilo profetico che qualifica la dottrina sociale della Chiesa: dalla Rerum novarum di Leone XIII, alla
Gaudium et spes del Concilio ecumenico Vaticano II alla Populorum progressio di Paolo VI. Con ciò illustrando ancora una volta al nostro tempo – e con un’evidenza apprezzabile da ogni persona di buona volontà – l’inesausta virtualità forgiatrice di storia ch’è per sé insita nel vangelo di Gesù; e insieme la missione di compagnia attenta e solidale con cui la Chiesa s’impegna programmaticamente ad accompagnare il cammino e il destino della storia. La
Caritas in veritate , in realtà, attesta in uno l’incessante e organico sviluppo del magistero sociale, l’originale contributo che vi apporta la penetrante intelligenza teologica di Benedetto XVI e la maturazione vissuta, soprattutto in questi ultimi decenni, grazie alle sperimentazioni e alle riflessioni messe in atto dalla comunità cristiana nel concreto della prassi sociale e in obbedienza all’imperativo di seminare il lievito e il sale del Vangelo nel mondo complesso e ambivalente del mercato e della tecnica.
Ma in che consiste, se si guarda al suo nucleo ispiratore, lo slancio di pensiero auspicato da Benedetto XVI? A ben vedere, tutto è già racchiuso nell’ incipit : «La carità nella verità». Se la carità dice Dio e dice l’uomo secondo Gesù, ed è pertanto «la via maestra della dottrina sociale della Chiesa», ne segue che essa, la carità, non è motivata da un vago sentimento o da un’intenzione meramente soggettiva: ma è intrinsecamente abitata da una luce che investe e rischiara il significato di tutta l’esistenza, nei suoi risvolti personali e sociali, politici ed economici. In altri termini – scrive il Papa – «vivere la carità nella verità porta a comprendere che l’adesione al Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale». Ciò che dunque propone la dottrina sociale della Chiesa non è un fatto decorativo od opzionale, non è un semplice correttivo etico dell’agire economico o politico: ma dischiude la via concreta della gratuità, del dono, della reciprocità seguendo la quale soltanto le persone e i popoli realizzano insieme il loro destino. Se questa è verità di sempre, oggi essa acquista una singolare incisività: nel momento in cui la globalizzazione dei mercati e, più in profondità, dei progetti e delle esperienze di vita invoca la messa in opera di uno sviluppo integrale e interdipendente dei singoli e dei popoli. Come aveva intuito Paolo VI.
Ciò comporta, con urgenza, creatività, capacità di dialogo e sinergia, al fine di «orientare la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione». Da un lato, 'civilizzando' l’economia di mercato: e cioè liberandone il valore e il significato di costruzione della persona e della società nel loro esplicarsi attraverso la produzione, la gestione e la distribuzione dei beni nel segno dello scambio e della partecipazione. E dall’altro apparecchiando con lungimiranza e realismo quegli strumenti e quegli organismi politici, a livello nazionale e internazionale, che siano in grado di governare, nel rispetto e nella valorizzazione della sussidiarietà e della poliarchia, i processi non solo economici e politici, ma in primis antropologici e culturali della globalizzazione.
Benedetto XVI invita dunque con forza tutte le coscienze, non solo chi è discepolo di Gesù, a far proprio coraggiosamente e in spirito di unità quello slancio di pensiero che solo è in grado – con il 'di più' che viene da Dio riconosciuto senza laicismi o integrismi di sorta nella sua rilevanza pubblica – di educare l’uomo e la donna capaci di «esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale ».
Suicidio assistito, Londra si ferma. Per ora - di Elisabetta Del Soldato – Avvenire, 9 luglio 2009
Di fronte alla possibilità di cambiare l’attuale legge, permettendo ai familiari di aiutare un proprio caro a suicidarsi, i Lords hanno risposto picche Chi proverà a farlo rischierà ancora fino a 14 anni di prigione Sinora sono 115 i britannici che si sono recati a morire in Svizzera, nel centro Dignitas di Zurigo, ma più di 800 sarebbero quelli che aspettano di farlo
La Gran Bretagna ancora una volta ha deciso di non fare un passo avanti verso il suicidio assistito. Messo di fronte alla possibilità di cambiare una legge e permettere ai familiari di aiutare un malato terminale a morire, Westminster ha detto chiaramente di no. La legge, hanno votato 194 Lord contro 141, rimarrà tale e quale a com’è ora e chi assisterà una persona al suicidio rischierà come sempre fino a 14 anni di prigione. Il dibattito sul suicidio assistito si è infuocato in Gran Bretagna negli ultimi due anni in seguito ad alcuni casi di persone malate terminali che hanno chiesto all’Alta Corte e a quella di Appello di sollevare da incriminazioni gli amici e i familiari che li avrebbero portati a morire all’estero, nella maggior parte dei casi alla clinica svizzera Dignitas. La questione ha raggiunto priorità alla Camera dei Lord quando Lord Falconer ha deciso di chiedere un voto e mentre si contavano i casi di persone che si sono recate alla clinica Dignitas e di quelle in lista d’attesa. Fino a oggi sono infatti 115 i britannici morti nella clinica privata elvetica e più di ottocento sono quelli che aspettano di farlo. Ha fatto inoltre discutere qualche giorno fa la lista pubblicata dal Guardian delle persone suicidatesi in Svizzera, con le relative malattie: su 115, 36 erano affette da diverse forme di cancro; 27 da Sclerosi laterale amiotrofica e 17 da sclerosi multipla. Gli altri denunciavano malattie gravi che richiedono la dialisi o il trapianto di organi.
Ieri il vescovo anglicano di Exeter, Michael Langrish, che ha una figlia con sindrome di down, ha detto ai Lord che un emendamento all’attuale legge rappresenterebbe « un passo gigantesco verso l’introduzione del suicidio assistito in Gran Bretagna » . Qualche anno fa un altro membro della Camera dei Lord, Lord Joffe, aveva tentato di aprire la porta al suicidio assistito, ma senza successo.
Per la prima volta, nel 2002, Joffe propose di cambiare la legge e permettere a « un adulto competente che soffre in modo insostenibile di ricevere assistenza medica per morire, se lo richiede » . Più tardi lo stesso Joffe cercò di nuovo di presentare la sua proposta dal titolo « Assisted Dying for the Terminally Ill Bill » ai Lord, ma anche quella volta fu bloccata.
La necessità di cambiare la legge, spiegò allora il Lord, è confermata dai casi di malati terminali che decidono di farsi accompagnare a morire in Paesi come la Svizzera e si rivolgono ai giudici per sollevare da incriminazioni i loro cari disposti ad aiutarli. La prima persona a presentarsi all’Alta Corte fu Debbie Purdy, una signora di 45 anni malata di sclerosi multipla che chiedeva che il marito non fosse incriminato qualora l’avesse portata in Svizzera. La volontà della donna è stata respinta anche in appello, ma la Purdy continua la sua battaglia e poche settimane fa il suo caso è stato discusso anche dalla Camera dei Lord. Nel riferire il verdetto alla Purdy il giudice della corte d’appello aveva menzionato il caso di Dan James, un ragazzo di 23 anni, giocatore di rugby rimasto paralizzato dopo un incidente in un allenamento, morto l’anno scorso presso Dignitas. I genitori del ragazzo, Mark e Julie, hanno accompagnato il figlio in Svizzera e quando sono tornati in Gran Bretagna sono stati fermati dalla polizia e interrogati ma non sono stati incriminati. In questo caso il giudice aveva sottolineato l’importanza della compassione.
Anche il premier Gordon Brown ha ribadito in più di un’occasione la sua contrarietà a cambiare una legge che funziona per proteggere i soggetti più deboli dalle pressioni dei familiari e della società. « L’ultima cosa che desidero – ha dichiarato Brown qualche mese fa – è quella di far credere alle persone malate e vulnerabili che sono un peso. Sono invece una ricchezza » . È molto probabile, ci spiegava ieri Peter Saunders di Care Not Killing, un’associazione che promuove le cure palliative e si batte contro l’eutanasia e il suicidio assistito, che la lobby proeutanasia non si fermerà qui.
Prima Lord Joffe e ora Lord Falconer. Gli interessi coinvolti sono enormi, come il poter sollevare ospedali e famiglie da cure lunghe, impegnative e soprattutto molto onerose.
Non credo che arriveremo presto a questo punto, ma la proposta di Lord Falconer è pericolosa perché mette a rischio una vita che potrebbe essere vissuta diversamente se custodita da cure e affetto.
Sono convinto che molte delle persone che ha scelto di morire all’estero non l’avrebbero fatto se non si fossero sentite un peso per la società e la famiglia » .
1)Comunicato Stampa Enciclica: nota di Comunione e Liberazione 8 luglio 2009
2)Benedetto XVI presenta ai fedeli l'Enciclica "Caritas in Veritate" - Intervento nell'Udienza generale
3)La forza della carità - di Davide Perillo - 08/07/2009 - Il legame inscindibile con la verità. L’annuncio di Cristo come «primo fattore di sviluppo». E poi la sussidiarietà, il mercato, la libertà… Così Giorgio Vittadini legge per Tracce la nuova enciclica di Benedetto XVI – Anteprima Tracce luglio – agosto 2009
4)Progresso e morale - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 8 luglio 2009
5)Romano Guardini e le «tribolazioni umane» - L'uomo malato e la brutalità dei sani - di Ferdinando Cancelli – L'Osservatore Romano, 9 luglio 2009
6)Nota critica del cardinale Rigali sulle nuove linee guida del National Institutes of Health - La ricerca sulle staminali negli Stati Uniti non può ignorare l'opinione dei cattolici – L'Osservatore Romano, 9 luglio 2009
7)ENCICLICA/ Scola: la testimonianza di Cristo, al cuore dello sviluppo - INT. Angelo Scola giovedì 9 luglio 2009 – ilsussidiario.net
8)LETTERATURA/ Lucrezio, il primo “illuminista” alla ricerca del senso della vita - Laura Cioni giovedì 9 luglio 2009 – ilsussidiario.it
9)NUOVO SLANCIO DI PENSIERO - ORIENTARE LA GLOBALIZZAZIONE NEL SENSO DELLA RAZIONALITÀ - P IERO C ODA – Avvenire, 9 luglio 2009
10)Suicidio assistito, Londra si ferma. Per ora - di Elisabetta Del Soldato – Avvenire, 9 luglio 2009
Comunicato Stampa Enciclica: nota di Comunione e Liberazione 8 luglio 2009
Siamo grati al Santo Padre che anche nella sua enciclica sociale ha riproposto l’originalità della fede e il contributo che i cristiani possono dare alla convivenza sociale e allo sviluppo.
Ci sembra decisivo che all’inizio di un’enciclica dedicata al fare dell’uomo il Papa richiami tutti con grande realismo a una evidenza elementare, negando la quale ogni tentativo dell’uomo diventa ingiusto fino alla violenza: «Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa presunzione che discende dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell’interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società». L’esperienza anche recente, infatti, insegna che la pretesa di autosufficienza e di «eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere e di azione sociale».
Al contrario, la verità di noi stessi ci è prima di tutto “data”: «La verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta». Per questo il Papa afferma che «la carità nella verità è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità. In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona».
Benedetto XVI ci richiama al fatto - sempre più spesso dimenticato, come l’attualità ci testimonia - che «un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo».
La Caritas in veritate sottolinea che la Chiesa «non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende di intromettersi nella politica», ma ha una missione da compiere: annunciare Cristo come «il primo e principale fattore di sviluppo».
Su questa strada della testimonianza ci sentiamo sfidati a verificare - dentro le vicende della vita - la portata della fede in Cristo, come Colui che ci mette nelle condizioni ottimali per affrontare la miriade di problemi di ordine economico, finanziario, sociale e politico che l’enciclica elenca.
l’ufficio stampa di CL
Milano, 8 luglio 2009.
Benedetto XVI presenta ai fedeli l'Enciclica "Caritas in Veritate" - Intervento nell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 8 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato da Benedetto XVI questo mercoledì mattina in occasione dell'Udienza generale, dedicata alla presentazione dell'Enciclica "Caritas in Veritate", presentata questo martedì.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
La mia nuova Enciclica Caritas in veritate, che ieri è stata ufficialmente presentata, si ispira per la sua visione fondamentale ad un passo della lettera di san Paolo agli Efesini, dove l'Apostolo parla dell'agire secondo verità nella carità: "Agendo - lo abbiamo sentito ora -secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a Lui, che è il capo, Cristo" (4,15). La carità nella verità è quindi la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera. Per questo, attorno al principio "caritas in veritate", ruota l'intera dottrina sociale della Chiesa. Solo con la carità, illuminata dalla ragione e dalla fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di valenza umana e umanizzante. La carità nella verità "è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi" (n. 6). L'Enciclica richiama subito nell'introduzione due criteri fondamentali: la giustizia e il bene comune. La giustizia è parte integrante di quell'amore "coi fatti e nella verità" (1 Gv 3,18), a cui esorta l'apostolo Giovanni (cfr n. 6). E "amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c'è un bene legato al vivere sociale delle persone... Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera" per il bene comune. Due sono quindi i criteri operativi, la giustizia e il bene comune; grazie a quest'ultimo, la carità acquista una dimensione sociale. Ogni cristiano - dice l'Enciclica - è chiamato a questa carità, ed aggiunge: "E' questa la via istituzionale ... della carità" (cfr n. 7).
Come altri documenti del Magistero, anche questa Enciclica riprende, continua ed approfondisce l'analisi e la riflessione della Chiesa su tematiche sociali di vitale interesse per l'umanità del nostro secolo. In modo speciale, si riallaccia a quanto scrisse Paolo VI, oltre 40 anni or sono, nella Populorum progressio, pietra miliare dell'insegnamento sociale della Chiesa, nella quale il grande Pontefice traccia alcune linee decisive, e sempre attuali, per lo sviluppo integrale dell'uomo e del mondo moderno. La situazione mondiale, come ampiamente dimostra la cronaca degli ultimi mesi, continua a presentare non piccoli problemi e lo "scandalo" di disuguaglianze clamorose, che permangono nonostante gli impegni presi nel passato. Da una parte, si registrano segni di gravi squilibri sociali ed economici; dall'altra, si invocano da più parti riforme non più procrastinabili per colmare il divario nello sviluppo dei popoli. Il fenomeno della globalizzazione può, a tal fine, costituire una reale opportunità, ma per questo è importante che si ponga mano ad un profondo rinnovamento morale e culturale e ad un responsabile discernimento circa le scelte da compiere per il bene comune. Un futuro migliore per tutti è possibile, se lo si fonderà sulla riscoperta dei fondamentali valori etici. Occorre cioè una nuova progettualità economica che ridisegni lo sviluppo in maniera globale, basandosi sul fondamento etico della responsabilità davanti a Dio e all'essere umano come creatura di Dio.
L'Enciclica certo non mira ad offrire soluzioni tecniche alle vaste problematiche sociali del mondo odierno - non è questa la competenza del Magistero della Chiesa (cfr n. 9). Essa ricorda però i grandi principi che si rivelano indispensabili per costruire lo sviluppo umano dei prossimi anni. Tra questi, in primo luogo, l'attenzione alla vita dell'uomo, considerata come centro di ogni vero progresso; il rispetto del diritto alla libertà religiosa, sempre collegato strettamente con lo sviluppo dell'uomo; il rigetto di una visione prometeica dell'essere umano, che lo ritenga assoluto artefice del proprio destino. Un'illimitata fiducia nelle potenzialità della tecnologia si rivelerebbe alla fine illusoria. Occorrono uomini retti tanto nella politica quanto nell'economia, che siano sinceramente attenti al bene comune. In particolare, guardando alle emergenze mondiali, è urgente richiamare l'attenzione della pubblica opinione sul dramma della fame e della sicurezza alimentare, che investe una parte considerevole dell'umanità. Un dramma di tali dimensioni interpella la nostra coscienza: è necessario affrontarlo con decisione, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri. Sono certo che questa via solidaristica allo sviluppo dei Paesi più poveri aiuterà certamente ad elaborare un progetto di soluzione della crisi globale in atto. Indubbiamente va attentamente rivalutato il ruolo e il potere politico degli Stati, in un'epoca in cui esistono di fatto limitazioni alla loro sovranità a causa del nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale. E d'altro canto, non deve mancare la responsabile partecipazione dei cittadini alla politica nazionale e internazionale, grazie pure a un rinnovato impegno delle associazioni dei lavoratori chiamati a instaurare nuove sinergie a livello locale e internazionale. Un ruolo di primo piano giocano, anche in questo campo, i mezzi di comunicazione sociale per il potenziamento del dialogo tra culture e tradizioni diverse.
Volendo dunque programmare uno sviluppo non viziato dalle disfunzioni e distorsioni oggi ampiamente presenti, si impone da parte di tutti una seria riflessione sul senso stesso dell'economia e sulle sue finalità. Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo domanda la crisi culturale e morale dell'uomo che emerge con evidenza in ogni parte del globo. L'economia ha bisogno dell'etica per il suo corretto funzionamento; ha bisogno di recuperare l'importante contributo del principio di gratuità e della "logica del dono" nell'economia di mercato, dove la regola non può essere il solo profitto. Ma questo è possibile unicamente grazie all'impegno di tutti, economisti e politici, produttori e consumatori e presuppone una formazione delle coscienze che dia forza ai criteri morali nell'elaborazione dei progetti politici ed economici. Giustamente, da più parti si fa appello al fatto che i diritti presuppongono corrispondenti doveri, senza i quali i diritti rischiano di trasformarsi in arbitrio. Occorre, si va sempre più ripetendo, un diverso stile di vita da parte dell'umanità intera, in cui i doveri di ciascuno verso l'ambiente si colleghino a quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri. L'umanità è una sola famiglia e il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che arricchirla, rendendo più efficace l'opera della carità nel sociale, e costituendo la cornice appropriata per incentivare la collaborazione tra credenti e non credenti, nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace nel mondo. Come criteri-guida per questa fraterna interazione, nell'Enciclica indico i principi di sussidiarietà e di solidarietà, in stretta connessione tra loro. Ho infine segnalato, dinanzi alle problematiche tanto vaste e profonde del mondo di oggi, la necessità di un'Autorità politica mondiale regolata dal diritto, che si attenga ai menzionati principi di sussidiarietà e solidarietà e sia fermamente orientata alla realizzazione del bene comune, nel rispetto delle grandi tradizioni morali e religiose dell'umanità.
Il Vangelo ci ricorda che non di solo pane vive l'uomo: non con beni materiali soltanto si può soddisfare la sete profonda del suo cuore. L'orizzonte dell'uomo è indubbiamente più alto e più vasto; per questo ogni programma di sviluppo deve tener presente, accanto a quella materiale, la crescita spirituale della persona umana, che è dotata appunto di anima e di corpo. E' questo lo sviluppo integrale, a cui costantemente la dottrina sociale della Chiesa fa riferimento, sviluppo che ha il suo criterio orientatore nella forza propulsiva della "carità nella verità". Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché anche questa Enciclica possa aiutare l'umanità a sentirsi un'unica famiglia impegnata nel realizzare un mondo di giustizia e di pace. Preghiamo perché i credenti, che operano nei settori dell'economia e della politica, avvertano quanto sia importante la loro coerente testimonianza evangelica nel servizio che rendono alla società. In particolare, vi invito a pregare per i Capi di Stato e di Governo del G8 che si incontrano in questi giorni a L'Aquila. Da questo importante summit mondiale possano scaturire decisioni ed orientamenti utili al vero progresso di tutti i Popoli, specialmente di quelli più poveri. Affidiamo queste intenzioni alla materna intercessione di Maria, Madre della Chiesa e dell'umanità.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Mentre rivolgo un cordiale benvenuto ai gruppi venuti dalla Romania e dalla Bulgaria, saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana. In particolare sono lieto di accogliere le Suore Missionarie del Catechismo, che celebrano il centenario della nascita dei Fondatori, Padre Vincenzo Idà e Madre Pasqua Condò, e le Suore Francescane Angeline, nel 125° di fondazione dell'Istituto. Per entrambe le Famiglie religiose invoco una rinnovata effusione dello Spirito Santo. Saluto inoltre i fedeli di Vibonati, accompagnati dal Vescovo di Teggiano-Policastro, Mons. Angelo Spinillo; come pure quelli della parrocchia di San Marone in Civitanova Marche.
Come di consueto, il pensiero finale va ai giovani, ai malati e agli sposi novelli oggi presenti. Cari giovani, so che molti di voi approfittano del tempo estivo per vivere un'esperienza significativa di spiritualità e di servizio: vi incoraggio in questo e vi addito l'esempio di un vostro coetaneo, il beato Piergiorgio Frassati. A voi, cari malati, auguro di trovare conforto nelle parole dell'apostolo Paolo, che la liturgia ci ha riproposto domenica scorsa: "Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo" (2 Cor 12,9). E voi, cari sposi novelli, sappiate sempre coltivare, con la preghiera e l'amore vicendevole, la relazione coniugale che avete sigillato con il Sacramento nuziale.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
La forza della carità - di Davide Perillo - 08/07/2009 - Il legame inscindibile con la verità. L’annuncio di Cristo come «primo fattore di sviluppo». E poi la sussidiarietà, il mercato, la libertà… Così Giorgio Vittadini legge per Tracce la nuova enciclica di Benedetto XVI
Giorgio Vittadini.
L’attesa è stata lunga: due anni abbondanti, da quel 2007 in cui si cominciò a parlare della «ormai prossima enciclica sociale di Benedetto XVI» (doveva uscire per il quarantennale della Populorum progressio di Paolo VI). Poi, sull’andirivieni di bozze, si è innestata la crisi globale. E la necessità di correggere, approfondire, rivedere. Risultato: il testo è stato firmato il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, ed è uscito la settimana dopo.
Attesa conclusa, quindi. Inizia la lettura. Densa, visto che si tratta di 79 paragrafi in cui si spazia dal lavoro alla finanza, dalle organizzazioni internazionali allo sviluppo, passando per la tecnica, il consumo, l’ambiente… «Ma il primo dato che colpisce è un altro», dice Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà: «Il legame con la prima enciclica di questo Pontefice, la Deus caritas est. Anche lì, a ben guardare, si parlava della carità legandola a doppio filo alla verità. Qui il Papa fa lo stesso, sin dalle prime battute».
Come a dire che il problema sociale e dei rapporti tra gli uomini è anzitutto una questione ontologica, non etica. Un problema di conoscenza, potremmo dire. Che ne pensi?
Definendo la carità come verità il Papa ne elimina qualunque possibile riduzione di tipo moralistico. In questo senso è vero, la lega proprio alla conoscenza. Mi viene in mente un vecchio volantino degli anni 80 che riprendeva un intervento di Giovanni Paolo II: “La verità è la forza della pace”. Ecco, fondare la carità sulla verità vuol dire riportarla all’aspetto proprio delle virtù teologali: fede, speranza e carità. Mentre la parola “carità”, molte volte, può essere percepita in modo riduttivo.
«Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo», dice il Papa…
Appunto. Qui, invece, si parla di amore, ma come amore al destino dell’uomo. E lo si lega all’aspetto ontologico e di conoscenza. La conoscenza come punto di partenza dell’amore, dello sviluppo. Secondo me, è molto importante: in questo modo nel clima di confusione in cui viviamo - e in cui questi valori sono stati molte volte slegati da un’esperienza umana e storica - viene riportato tutto ad un’oggettività.
E ad un’affermazione potente: «L’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo».
Perché è Cristo che compie il destino dell’uomo. Questo è un tema che viene fuori praticamente in tutta l’enciclica. Il Papa ne parla nelle prime battute, quando riprende la Populorum progressio e la rivede in modo non ridotto. Benedetto XVI sottolinea che Paolo VI poneva in modo chiaro il rapporto tra l’annuncio di Cristo, la persona e la società. Ma ne parla anche andando avanti, quando più volte afferma che la Chiesa è il vero punto di riferimento del progresso dell’uomo. Infatti, ponendo il tema della carità nella verità afferma che «in Cristo la carità nella verità diventa il volto della Sua persona» e che la Chiesa custodisce questa concezione della realtà. Il Papa parla della dottrina sociale, ma mette in luce che anch’essa nasce dall’avvenimento cristiano.
Parla anche dello sviluppo come «vocazione» e non solo «incremento dell’avere». Perché?
Lo spiega così: «Nel disegno di Dio ogni uomo è chiamato a uno sviluppo perché ogni vita è vocazione». Nelle pagine dell’enciclica c’è un contrappunto continuo sul fatto che lo sviluppo dell’uomo ha a che fare con il «senso del suo camminare nella storia». Pensa a come parla di povertà, all’inizio del quinto capitolo: la mette in rapporto con il non senso perché nasce dalla «solitudine» e dal «rifiuto dell’amore di Dio». È come se il Papa mettesse in guardia continuamente sul fatto che qualunque problema sociale non è trattato in modo completo ed equilibrato se si prescinde dal rapporto con Dio. Fattore importantissimo, soprattutto se pensiamo a come il tema “evangelizzazione e promozione umana” è stato trattato negli anni, anche negli ambienti ecclesiastici, come fossero due aspetti disgiunti. «Non basta la carità, ci vuole la giustizia». Quante volte l’abbiamo sentito ripetere? Come se la carità potesse essere ingiusta e la giustizia fosse qualcosa che l’uomo può darsi da sé!
Non ti sembra notevole l’attualità di Paolo VI?
Sì. Ma colpisce anche che Benedetto XVI legga proprio la Populorum progressio, che è stata una delle encicliche più forzate nell’interpretazione. Se l’Humanae vitae, altra famosa enciclica di Montini, è stata letta come chiusura, la Populorum progressio è stata interpretata come cedimento al mondo. Invece il Papa la rilegge nella sua accezione vera: il tentativo di mostrare come la fede in Dio e l’esperienza cristiana siano i fattori più determinanti per lo sviluppo integrale dell’uomo.
Però è impressionante anche l’attualità di quella intuizione di don Giussani datata 1976. “Evangelizzazione e promozione umana” era il titolo del convegno della Chiesa italiana di quell’anno, tutto imperniato sulla distinzione. Don Giussani a quella “e” avrebbe voluto che si mettesse un accento: annunciare Cristo è promuovere l’umano…
Guarda, leggendo l’enciclica non ho potuto fare a meno di pensare in molti punti al trittico L’io, il potere e le opere, il libro di don Giussani. È il radicarsi sull’io dotato di un desiderio di verità, giustizia e bellezza che fonda un’azione sociale. E infatti, più avanti, l’enciclica parla letteralmente di «opera». Non confinandola ad un aspetto marginale della vita economica e sociale, il Terzo settore visto come qualcosa a fianco di liberismo e comunismo. È il mercato che, per Benedetto XVI, deve essere trapuntato di gratuità, di imprese in cui il profitto è uno strumento, ma lo scopo è più grande.
L’espressione esatta è «opere che rechino impresso lo spirito del dono»…
Esattamente, quindi si parla di opere che nascono dall’esperienza cristiana, di associazioni imprenditoriali che nascono con questo scopo. Qui si legge il mercato, e la stessa vita economica, come qualcosa che non si lascia alle opposte ideologie, ma come uno strumento di qualcosa di più grande. «Non si tratta solo del terzo settore», dice nel paragrafo 46, «ma di una nuova, ampia realtà composita che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto ma lo considera come strumento per realizzare finalità umane e sociali». E poi: «Sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro». È come se rileggesse la storia economica, non solo italiana ma europea, dal 1850 ad oggi: il movimento cattolico, il movimento operaio, lo sviluppo di un’imprenditoria operosa mossa dal desiderio di migliorare le condizioni di vita dell’uomo.
E che cosa emerge da questa rilettura?
Noi cattolici abbiamo avuto per anni un complesso di inferiorità. C’era l’idea che la società è quel che è, con le sue leggi, e noi dobbiamo darle i valori etici e occuparci dei poveri. Stop. Bene, il Papa ribalta questa posizione. E mostra che il mercato è qualcosa di molto più complesso e variegato di quel moncherino astratto descritto da certi editorialisti. Così legge anche la crisi finanziaria, non solo come l’esito di meccanismi sbagliati, ma come l’esito dell’azione di uomini che si sono mossi con un’umanità ridotta. Ne è esempio uno dei problemi più gravi di questa crisi finanziaria: la crisi di fiducia reciproca che l’ha amplificata. La crisi di fiducia non è una crisi che nasce da meccanismi economici, ma nasce dalla crisi dell’uomo in rapporto con altri uomini. In questo senso il vero tema dell’enciclica è il soggetto umano che sta dietro l’attività economica e la determina.
È per questo che l’altro filo rosso è la libertà? È una parola che ricorre 38 volte…
Perché il Papa invita a superare una concezione di economia legata a meccanismi in cui l’uomo non c’entra. Se guardiamo al dibattito post-crisi su certi giornali, si vede come le vie d’uscita non prevedano un’autocritica a riguardo della concezione di uomo che guida l’attività economica. Sembra che bisogna solo riparare le macchine che si sono guastate, e perciò ci si ingrippa di nuovo. Chi, come il Papa si chiede chi sia e cosa voglia l’uomo che guida l’economia, mostra perciò una visione assolutamente innovativa dell’economia e della società, che mette al centro la responsabilità del singolo e delle aggregazioni, dei corpi intermedi, in cui si mette insieme ad altri uomini, in nome di comuni visioni ideali. Infatti, non a caso, l’altra grande parola dell’enciclica è “sussidiarietà”. Benedetto XVI ne parla sempre come di un metodo legato alla responsabilità: «La sussidiarietà è un aiuto alla persona attraverso l’autonomia dei corpi intermedi». Vuol dire che è lo strumento che permette che l’io, nei corpi intermedi, possa sviluppare le sue potenzialità. La sussidiarietà «favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità».
Come leggi questa definizione?
In maniera dinamica. Diciamo che la sussidiarietà pone le condizioni per cui la persona, viene messa in grado di sviluppare tutta la sua capacità creativa, e attraverso i corpi intermedi cui appartiene, diviene capace di dare risposta ai bisogni della società. Dall’io all’opera. Il desiderio diventa opera, costruzione di una risposta organica al bisogno. È una concezione di uomo e un’esperienza in atto che sorregge la definizione di sussidiarietà.
E qui si torna al concetto iniziale dello sviluppo come «vocazione».
Ma il bello è che il Papa lo dice sia al livello dell’io, che delle opere, che della stessa globalizzazione. E questa è una tesi molto ardita, soprattutto a livello internazionale. I vari G8 e simili ci hanno abituato al fatto che il mondo va avanti grazie ai vertici dei capi di Stato. Siamo agli antipodi della sussidiarietà. Il Papa, invece, dice che anche un’autorità mondiale dovrà «attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà». Pensa a cosa vuol dire, per esempio, per un’Unione europea soffocata dallo statalismo, dagli interessi nazionali, dalle burocrazie...
Il Papa lega la sussidiarietà alla solidarietà. Perché questa sottolineatura così insistita?
Anzitutto dobbiamo pensare che nel mondo non c’è l’universalità del welfare come in Europa. Il mondo americano, per esempio, non lo concepisce così. E anche l’Europa, avendo perso lo scopo dei sistemi di welfare che è il servizio alla persona, finisce spesso per difendere uno Stato inteso come unico garante del bene della persona e un’iniziativa privata senza ideali, come unica espressione della libertà. Sottolineare il nesso tra solidarietà e sussidiarietà vuol dire che il primo modo per difendere e aiutare a sviluppare l’io e il popolo vuol dire favorire la nascita e la crescita di realtà che proprio per essere mosse da criteri ideali, si battono per il bene comune e per rispondere alle necessità dei più poveri e più bisognosi. Da questo punto di vista la solidarietà che si coniuga alla sussidiarietà trova la sua radice in quella carità intesa come «dono di sé commosso», secondo la definizione di don Giussani.
Paradossalmente, in questo senso non c’è niente di più sussidiario della stessa Chiesa: nasce e vive apposta per permettere all’io di trovare la risposta al suo bisogno.
Infatti a un certo punto, “stranamente” in un’enciclica sociale, c’è tutto un paragrafo sulla libertas Ecclesiae e sulla libertà religiosa. Perché se non c’è un soggetto che sottolinea l’idea dell’io unico e irripetibile, del valore della persona prima che nelle sue espressioni operative nella sua concezione, io non posso costruire una realtà che sia sussidiaria. A differenza di quello che dicono i suoi oppositori, la Chiesa ha come scopo l’educazione al senso religioso della persona, al suo rapporto con il Mistero e quindi, vale a dire, al crescere della sua libertà. In questo senso è interessante come nell’enciclica si affermi che solo un uomo che viva integralmente questo rapporto con il Mistero possa davvero difendere la vita, l’ambiente, usare in modo equilibrato le tecniche. Da questo punto di vista, si ripropone in modo originale una vecchia dottrina cattolica di cui noi abbiamo parlato moltissimo in questi anni: dove non c’è libertà per la Chiesa non ci può essere libertà personale e sociale.
È anche per questo che ricorre spesso pure la parola “educazione”?
Certo. Non per niente l’educazione viene posta in nesso stretto con la sussidiarietà. Se è vero che il problema è permettere lo sviluppo dell’io, il desiderio deve essere educato. E non è educato innanzitutto dal punto di vista funzionale, non è educato innanzitutto perché dico «ti do la possibilità di gestire le scuole e di fare gli ospedali». È educato al bello, è educato al vero, è educato alla carità nella verità. È educato ad aprirsi, perché come diceva Romano Guardini (e don Giussani con lui) «nell’esperienza di un grande amore tutto diventa un avvenimento nel suo ambito». Allora diventa capace di costruire, di mettersi insieme, di impegnarsi e sacrificarsi per il bene comune.
Mentre senza questa dimensione tutto diventa confuso: «Senza Dio, l’uomo non sa dove andare», conclude il Papa.
Ma si potrebbe aggiungere, parafrasando un famoso film, che “Dio ha bisogno degli uomini”. È una sfida aperta a ciascuno di noi nella concretezza di tutti i giorni.
Progresso e morale - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 8 luglio 2009
“Caritas in veritate” è il contributo della Chiesa alla creazione di un equilibrio fra progresso e morale
«La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. L’amore – “caritas” – è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. E’ una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (Gv 8,22). Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, “si compiace della verità” (1 Cor 13,6). Tutti gli uomini avvertono l’interiore impulso ad amare in modo autentico: amore e verità non li abbandonano mai completamente, poiché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù Cristo purifica e libera dalle nostre povertà umane la ricerca dell’amore e della verità e si svela in pienezza l’iniziativa di amore e il progetto di vita vera che Dio ha preparato per noi. In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la verità.
La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. Ogni responsabilità e impegno delineati da tale dottrina sono attinti alla carità che, secondo l’insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (Mt 22,3640). Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro – relazioni:rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro – relazioni: rapporti sociali, economici, politici. Per la Chiesa – ammaestrata dal Vangelo – la carità è tutto perché come insegna san Giovanni (1 Gv 4,8.16) e come ho ricordato nella mia prima Lettera enciclica, “Dio è carità”: dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza.
Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l’irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali…La verità va cercata, trovata ed espressa nell’”economia” della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità…La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l’intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza verità la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che priva di respiro umano e universale…Nell’attuale contesto sociale e culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità porta a comprendere che l’adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale» [Benedetto XVI, Caritas in veritate, paragrafo 1, 2,3,4].
La parola “morale”comincia lentamente a riacquistare un posto di rilievo per cui “l’amore nella verità – caritas in veritate – è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante…” (n. 9). L’umanità oggi corre il rischio di essere distrutta dall’interno, dal suo stesso declino morale. Tuttavia, invece di lottare contro questa malattia potenzialmente morale che dissolve le essenze umane essa fissa, come ipnotizzata, il pericolo esterno, nucleare o di altre armi micidiali per le esistenze o di abuso dell’ambiente, che è solo un effetto secondario della sua malattia morale interiore che di conseguenza prima di distruggere le esistenze distrugge le essenze come l’amore, la giustizia, la verità, i valori sociali.
Ora, tutti ci rendiamo conto che il valore attribuito alla competenza tecnica, all’efficienza è del tutto sproporzionato rispetto alla scarsa attenzione rivolta verso “criteri orientativi dell’azione morale” (n.6). Oggi sappiamo molto di più in merito a come si costruiscono le bombe rispetto a come giudicare se sia morale o meno usarle. Questo squilibrio a discapito della morale è la questione fondamentale del nostro tempo. Perciò la Chiesa stessa potrà sopravvivere solamente se sarà in condizione di aiutare il genere umano a superare questo momento difficile. Per fare ciò, deve porsi come autorità morale, e lo deve fare in due modi:
- deve offrire dei modelli,
- deve ridestare la volontà e la capacità delle persone di aderire a tali modelli.
“Ne desidero – Benedetto XVI in Caritas in veritate – richiamare due in particolare, dettati in special modo dall’impegno per lo sviluppo in una società in via di globalizzazione: la giustizia e il bene comune (cioè di ogni persona esistente che Dio ama). La giustizia anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni società elabora un proprio sistema di giustizia. La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all’altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso “donare” all’altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro” (n.6).
Però quando consideriamo il contributo che la Chiesa può dare alla creazione di un equilibrio fra il progresso e la morale, la materia prima di cui l’uomo anche attualmente dispone per la propria esistenza e per la realizzazione di un futuro in cui valga la pena essere delle persone, ci rendiamo conto che la Chiesa non è una sorta di club per la soddisfazione di bisogni ideali in ambito sociale o personale. Vediamo al contrario che essa svolge una funzione essenziale proprio nel cuore delle tensioni che la società sta attraversando. “La complessità e gravità dell’attuale situazione economica giustamente ci preoccupa, ma dobbiamo assumere con realismo, con fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui richiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente” (n. 21). La Chiesa offre le sorgenti della conoscenza morale e delle loro problematiche di fronte alla povertà del mondo moderno al riguardo: la sua mancanza di idee di fronte alla questione morale, l’insufficiente sviluppo della ragione morale se paragonato alla ragione speculativa. Ma la Chiesa non è, innanzitutto, una sorta di “istituzione morale”: questo è il modo in cui si è cercato di descriverla e di giustificare la sua esistenza all’epoca dell’illuminismo e in Italia dell’idealismo gentiliano. Ciò nonostante, è vero che essa ha a che fare con le risorse morali dell’umanità di fronte alla deregolamentazione del lavoro che rischia di condurre le persone al degrado umano, di fronte all’urgenza di eliminare lo scandalo della fame nel mondo come imperativo etico e via unica per salvaguardare la pace e la stabilità del pianeta, di fronte ad una economia di mercato che non funziona senza forme interne di solidarietà, di sussidiarietà e di fiducia, di fronte ad una impresa che non può ridursi all’interesse dei proprietari come merce di cui disporre senza assumere responsabilità sociali, perché l’autorità politica vada distribuitasi in piani diversi, perché la crescita demografica non impedisca lo sviluppo occorre un’apertura responsabile alla vita, perché la natura non sia considerata né un tabù intoccabile e né si debba abusarne, perché la globalizzazione vada governata da un’autorità organizzata in modo sussidiario e divisa in vari livelli decisionali, perché l’attuale emigrazione vada governata, come ogni fenomeno della globalizzazione, ma senza dimenticare mai i diritti umani, per i nuovi compiti dei sindacati che devono strutturarsi per affrontare i problemi del mercato globale e tutelare anche i non iscritti, perché la finanza appiattita sul breve termine, senza regole morali e che ha funzionato male, abbia operatori che riscoprano il fondamento etico della loro attività a sostegno del vero sviluppo. E qui Benedetto XVI nel primo capitolo riprende il magistero di Paolo VI nella Populorum progressio, nell’Humanae vitae, nell’Evangelii nuntiandi.
Possiamo vedere che la fede non solo professata, celebrata, pregata ma vissuta dalla Chiesa è in accordo con le principali tradizioni religiose e morali dell’umanità su diversi punti, in grado di instaurare un vero dialogo, in questo momento di globalizzazione, con le altre culture, nelle quali la dimensione religiosa è fortemente presente, oltre a poter rispondere alle domande fondamentali sul senso religioso e sulla direzione della nostra vita. La fede cristiana crede che solo Dio possa essere la misura di ogni uomo, e che solo la volontà divina possa imporsi in modo incondizionato su ogni uomo che, comunque ridotto è contrassegnato da un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza. Crede inoltre che la rivelazione di Dio che possiede un volto umano in Gesù Cristo che ci ha amato sino alla fine, ogni persona e l’umanità nel suo insieme, ci collochi entro un modello di vita comunitaria basato su un di noi, il cui orizzonte globale e la cui direzione non possono essere spiegate in termini di sola volontà umana.
Chiaramente ogni cattolico guarda a questo noi ecclesiale – le cui consuetudini nella continuità del popolo di Dio ebraico - cristiano - costituiscono la sorgente più vicina alla conoscenza morale – non semplicemente come alla società in cui vive, ma come a una nuova società, che può essere spiegata solo attraverso la rivelazione e che trascende tutte le società locali (è “cattolica”), subordinandole fin dal Sinai, da Gesù Cristo ai dettami della volontà divina che sono rivolti a tutte loro.
E’ impossibile una morale soltanto in una razionalità a-storica e storicamente possiamo indicare quattro sorgenti della morale.
- il comportamento morale deve rendere giustizia alla verità. In questo senso la realtà – e la ragione, che conosce e spiega la realtà – è senza dubbio un’insostituibile sorgente della morale.
- Seconda sorgente è la coscienza.
- Terza sorgente è la saggezza della tradizione, incarnata in un “noi” vivente, una comunità attiva che per il cristiano si realizza concretamente nella nuova comunità della Chiesa.
- Tutte queste sorgenti conducono alla vera morale solo quando sia presente la volontà di Dio. Infatti, in ultima istanza, solo la volontà di Dio può stabilire i confini far ciò che è bene e ciò che è male, che è qualcosa di diverso dal confine fra ciò che è utile o meno o fra ciò che è dimostrato e ciò che è ignoto. La Chiesa cattolica vede un’importante conferma del suo insegnamento nel fatto che, al suo interno, questi elementi si compenetrano e si illuminano vicendevolmente. Il suo insegnamento consente alla coscienza di esprimersi. La coscienza è ritenuta valida proprio perché incorpora l’intima verità delle cose in accordo con la realtà, che è, in definitiva, la voce del Creatore.
Questi tre elementi – oggettività, tradizione e coscienza – rimandano in successione ai comandamenti divini. Questi comandamenti, da un lato, costituiscono il fondamento della dottrina sociale della Chiesa: formano le coscienze e rendono la realtà intelligibile; d’altro lato, poiché essi corrispondono alla realtà così come è percepita dalla coscienza, possono da parte loro essere confermati quali autentiche rivelazioni della volontà divina.
Così conclude Benedetto XVI ai nn. 78 e 79
“Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. Di fronte agli enormi problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto e alla resa, ci viene in aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa consapevoli: “Senza di me non potete far nulla” (Mt 28,20). Di fronte alla vastità del lavoro da compiere, siamo sostenuti dalla fede nella presenza di Dio accanto a coloro che si uniscono nel suo nome e lavorano per la giustizia. Paolo VI ci ha ricordato nella Populorum progressio che l’uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare da sé un vero umanesimo. Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremmo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale. La maggiore forza a servizio dello sviluppo è quindi un umanesimo cristiano, che ravvivi la carità e si faccia guidare dalla verità, accogliendo l’una e l’altra come dono permanente di Dio. La disponibilità verso Dio apre alla disponibilità verso i fratelli, verso una vita intesa come compito solidale e gioioso. Al contrario la chiusura ideologica a Dio e l’ateismo dell’indifferenza, che dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo. L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano. Solo un umanesimo aperto all’Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di vita sociale e civile – nell’ambito delle strutture, delle istituzioni, della cultura, dell’ethos – salvaguardandoci dal rischio di divenire prigionieri delle mode del momento. E’ la consapevolezza dell’Amore indistruttibile di Dio che ci sostiene nel faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra successi ed insuccessi, nell’incessante perseguimento di retti ordinamenti per le cose umane. L’amore di Dio ci chiama d uscire da ciò che è limitato e non definitivo, ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti, anche se non si realizza immediatamente, anche se quello che riusciamo ad attuare, noi le autorità politiche e gli operatori economici, è sempre meno di ciò che aneliamo. Dio ci dà la forza di lottare di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande.
La sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace”.
Romano Guardini e le «tribolazioni umane» - L'uomo malato e la brutalità dei sani - di Ferdinando Cancelli – L'Osservatore Romano, 9 luglio 2009
"Ci sono due modi di venir incontro alle tribolazioni umane. Uno è ovvio. Consiste nel lenire i dolori ed eliminare le cause immediate dei guai. L'altro non è così evidente, ma è altrettanto importante, anzi lo è ancora di più. Consiste nell'aiutare l'uomo affinché conservi nelle tribolazioni la visione della vita nella sua totalità, il sentimento di ciò che è essenziale, il senso delle distinzioni assolute, e superi con tale animo quanto gli accade. Per quanto sia importante il primo modo, se contraddice il secondo si trasforma in danno". Ad appena due anni di distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale così si esprimeva, in una conferenza Romano Guardini, scomparso nel 1968. Il testo, pubblicato due anni dopo essere stato pronunciato, è stato riproposto in lingua italiana con il titolo "Il diritto alla vita prima della nascita" nel volume Scritti politici (Brescia, Morcelliana, 2005) nell'ambito della pubblicazione dell'opera omnia del grande filosofo e teologo, italiano d'origine ma trasferitosi in Germania in giovanissima età.
Il testo, breve e incisivo, permette di apprezzare la visione di Guardini nei confronti della vita umana nascente e, in molti passaggi, consente di ricavare molti principi alla base di quel "profondo ethos del medico" che rappresentano i pilastri dell'esercizio della professione sanitaria. È interessante notare come i concetti espressi dall'autore a proposito della vita al suo inizio tornino, alcuni anni più tardi, in una lezione tenuta all'Università di Monaco di Baviera, riproposta con il titolo "Il medico e l'arte di guarire" nel volume Una morale per la vita (Brescia, Morcelliana, 2009, pagine 192, euro 15). Qui però l'attenzione dell'autore è focalizzata sulla vita resa fragile dalla malattia o dalla prossimità della morte e sul compito del medico di fronte a essa.
Dunque vita nascente e vita sofferente o al termine, ci dice Guardini, come occasioni per ribadire ciò che rende l'uomo inviolabile e richiamare direttamente la responsabilità del medico. "Un uomo è inviolabile - scrive il teologo - non già perché vive e ha quindi diritto alla vita. Un simile diritto l'avrebbe anche l'animale, poiché anch'esso vive (...) ma la vita dell'uomo non può essere violata perché l'uomo è persona". E poco oltre continua affermando che "la persona non è un che di natura psicologica, bensì esistenziale. Non dipende fondamentalmente da età o condizioni psico-fisiche o doti naturali, bensì dall'anima spirituale che è in ogni uomo". Di fronte a ciò il medico è chiamato secondo Guardini a farsi difensore in ogni caso della dignità intrinseca di ogni essere umano dal concepimento fino alla morte e, quasi come l'educatore che "rappresenta il senso della gioventù di fronte alle pretese autoritarie della società", il medico "rappresenta il diritto dell'uomo malato di fronte alla brutalità dei sani (...) e il diritto dell'uomo in divenire di fronte all'egoismo degli adulti". "Qui occorre - continua - quell'incorruttibilità che riposa su una chiara visione dell'essenza dell'uomo", lontana da ogni utilitarismo e da ogni pretesa di possesso sugli altri che, "specialmente quando si effettua sotto l'egida della legge, prepara lo Stato totalitario".
A questo proposito ancora più incisive risultano le parole di Guardini se lette nella cornice storica nella quale furono pronunciate: solo pochi anni prima in Germania si era visto il lato pratico dello "spaventoso concetto di una vita priva di valore vitale: prime vittime furono i malati mentali e gli idioti, sarebbero seguiti gli incurabili - e, infatti, molti di essi vennero uccisi - e i vecchi e gli inabili al lavoro avrebbero chiuso la serie".
Paradossalmente la società pare oscillare sempre sul baratro della tentazione di sbarazzarsi dei più deboli, degli "inutili", non accorgendosi che così rischia di eliminare se stessa: "Senza il contrappeso del carattere di persona proprio di ogni uomo e della sua intangibilità - afferma Guardini - le strutture del potere sono destinate alla rovina di per se stesse; se rettamente intesi, gli ammalati, i minorati, gli sprovveduti sono i difensori dei sani e li custodiscono dall'hybris e dalla crudeltà, possibilità sempre presenti nella condizione di chi è sano e forte".
Di fronte alla denuncia della profonda crisi nella quale "la figura e l'attività del medico sembrano oggi trovarsi" - crisi della quale, con straordinaria preveggenza, Guardini vede un sintomo nel "fatto che da diverso tempo la figura e la vita del medico sono diventati un soggetto del romanzo e della cinematografia" - l'autore individua nella "concezione fondamentale dell'uomo in senso meccanicistico" una delle cause principali dello smarrimento in cui già allora spesso versava l'agire medico. "Il singolo diviene irrilevante, il trattamento si fa schematico, le prescrizioni divengono burocratiche (...) e poi la tendenza a considerare ogni sistema come autoreferenziale e a dimenticare che esso esiste in funzione dei malati, solo per loro". È difficile non vedere in quell'"oggi" di più di mezzo secolo fa molti risvolti della nostra attuale situazione, nella quale ancora "il malato vuol sentire che la malattia è concepita come un processo di vita e che la guarigione è un atto che aiuta a vivere e non la riparazione di un guasto in una macchina", e nella quale si riaffaccia sempre la tentazione di mettere a punto raffinati strumenti per misurare la "qualità della vita" che rischiano di oscurarne il valore intrinseco insuperabile.
Quello del medico, si potrebbe concludere con Guardini, si profila come un "compito non soltanto scientifico ma anche etico", che deve manifestare la disponibilità ad assumere nella propria responsabilità la vita della persona dagli albori al tramonto. La posta in gioco è alta ed esige lo sviluppo di alcuni tratti essenziali di quella che l'autore definisce "la personalità tipica del medico: la serietà della coscienza di responsabilità con cui vuol servire il malato, l'acutezza vigile dell'attenzione, la trasparenza della dedizione personale, la forza di concentrazione. E insieme a questi anche l'impegno dell'autoformazione". "Un medico - afferma Guardini - non può vivere a suo piacere". Solo così si può imparare a conservare "nelle tribolazioni la visione della vita nella sua totalità, il sentimento di ciò che è essenziale e il senso delle distinzioni assolute" venendo "incontro alle tribolazioni umane".
(©L'Osservatore Romano - 9 luglio 2009)
Nota critica del cardinale Rigali sulle nuove linee guida del National Institutes of Health - La ricerca sulle staminali negli Stati Uniti non può ignorare l'opinione dei cattolici – L'Osservatore Romano, 9 luglio 2009
Washington, 8. Una nota critica nei confronti della versione finale delle linee guida per la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane da parte del National Institutes of Health (Nih) è stata diffusa ieri dal cardinale Justin Francis Rigali, arcivescovo di Philadelphia, che si è pronunciato sul delicato argomento nella sua qualità di responsabile del Comitato per le attività Pro-Life dei vescovi cattolici degli Stati Uniti.
Nella nota, il cardinale Rigali sottolinea che la sua posizione non è affatto mutata da quando "in aprile avevo criticato la bozza delle linee guida del Nih per la ricerca distruttiva sulle cellule staminali embrionali, affermando che, secondo queste linee guida, i fondi derivati dalle imposte federali sarebbero stati usati per incoraggiare la distruzione di embrioni umani in vita per la ricerca sulle cellule staminali, includendo esseri umani che altrimenti potrebbero sopravvivere fino alla nascita".
Secondo la nota critica del porporato "le linee guida finali pubblicate concedono margini ancora più ampi. I genitori a cui viene richiesto di considerare che i loro embrioni possano essere distrutti per fini di ricerca non dovranno più essere informati sulle altre possibili scelte opzionali ma solo su quelle disponibili presso il loro centro medico per la cura della fertilità. Inoltre, secondo le linee guida finali, le catene di cellule staminali esistenti precedentemente all'entrata in vigore del regolamento, o che sono prodotte in nazioni estere, possono essere usate per ricerche sovvenzionate da fondi federali anche se esse sono state ottenute in modi che violano uno o più requisiti stabiliti dallo stesso Nih per il consenso informato".
"In questo modo - continua la nota critica del cardinale Rigali - i pareri di decine di migliaia di americani sfavorevoli alla distruzione di vite umane innocenti per la ricerca sulle cellule staminali verrebbero ignorati da questa procedura. Perfino i pareri espressi dalla Conferenza dei vescovi cattolici e da altri organismi contro abusi specifici presenti nella bozza delle linee guida non sono stati presi in considerazione. Per esempio, verranno autorizzati a essere finanziati con fondi federali ricercatori che innestano cellule staminali embrionali umane negli embrioni di specie animali diverse dai primati; sovvenzioni federali saranno disponibili perfino per i ricercatori che in prima persona distruggono embrioni umani per ottenere cellule staminali per la loro ricerca. Nelle linee guida, non viene dato il dovuto riguardo alla legge federale esistente contro il finanziamento di ricerche in cui gli embrioni umani sono danneggiati o distrutti".
La nota critica del cardinale Rigali sulle linee guida dei Nih conclude sottolineando che "questo dibattito ora passa al Congresso, dove alcuni membri hanno affermato che questo modo di trattare gli esseri umani come oggetti da creare, manipolare e distruggere per altri fini non avrà un lungo futuro. Spero che gli americani informati su questo argomento scrivano ai loro rappresentanti eletti esortandoli a non sottoscrivere un regolamento inteso a maggiormente espandere questa condotta non etica".
Sulla bozza delle linee guida dei Nih erano stati espressi circa quarantanovemila commenti. Di essi, oltre trentamila davano parere contrario all'uso dei fondi federali per la ricerca sulle cellule staminali. Tuttavia l'attuale direttore dei Nih, Raynard Kington, ha recentemente sottolineato che "i pareri non possono essere espressi sul concedere i fondi federali o meno ma solo sui modi in cui essi possono essere concessi".
In risposta a Kington, Richard Doerflinger, direttore associato del Segretariato per le attività Pro-Life della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, ha affermato che suona "insincera" l'affermazione di Kington secondo cui tutti i pareri che esprimono giudizi contrari alle linee guida debbano essere ignorati.
(©L'Osservatore Romano - 9 luglio 2009)
ENCICLICA/ Scola: la testimonianza di Cristo, al cuore dello sviluppo - INT. Angelo Scola giovedì 9 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Molti commentatori, a due giorni dall'uscita delle Caritas in veritate ne hanno sottolineato gli aspetti più innovativi da un punto di vista filosofico, economico, ed etico di fronte alla grande Crisi economica. ilsussidiario.net ha raggiunto il Patriarca di Venezia, Cardinal Angelo Scola per entrare con lui nel merito di questa ultima grande enciclica sociale.
Eminenza, qual è la portata della sfida che con la Caritas in veritate il Papa lancia al mondo contemporaneo?
Dopo una prima attenta lettura, non esito a dire che ha una portata veramente storica.
Per la prima volta in termini così espliciti e diretti, quasi tecnici, il magistero pontificio fa una proposta, sottolineo proposta, di innovazione radicale in ambito economico.
In che cosa consiste l’originalità di questa enciclica, nell’ambito della tradizione costituita dalle altre encicliche sociali?
La sua originalità emerge in due punti che, a mio giudizio, rappresentano i cardini del documento.
Il Papa parte dalla “ragione economica” (per due volte nel testo ricorre questa espressione) e mostra come la sua proposta si innesti in domande che sorgono dall’interno dell’economia. La Caritas in veritate non è una sorta di verniciatura che si sovrappone ad un sistema economico già in sé compiuto, ma raccoglie le domande inevase che vengono dall’economia e da suggerimenti per una nuova “civilizzazione dell’economia”. In secondo luogo il contenuto fondamentale di tali suggerimenti è dato dal “principio di gratuità” e dalla “logica del dono tesa alla costruzione di una fraternità”. Solo da qui può venire lo sviluppo integrale dell’uomo. Sono molti gli esempi e le descrizioni proposte dal Santo Padre in chiave direi “tecnica”, di come questo principio di gratuità sia intrinseco all’economia.
In tutto questo io riscontro una radicale novità.
Perché un uomo del nostro tempo impegnato con la realtà (economica ma non solo) dovrebbe accettare di confrontarsi con quanto scritto e suggerito dal Papa?
Perché, se è un osservatore appassionato ed attento di tutta la realtà, non può non avere nel cuore - soprattutto in quest’epoca - una serie di domande irrisolte. Domande assai concrete, relative alla vita personale e sociale, a problemi materiali e spirituali che trovano in questa enciclica delle piste nuove e convincenti per essere affrontate. Basta sfogliare l’indice per rendersene conto.
Il Papa è molto chiaro e netto nella Caritas in veritate sulla natura del cristianesimo. Questo è anche un giudizio sulla Chiesa e sul cristianesimo nel mondo contemporaneo?
Sì, questo è un insegnamento che deve far riflettere tutti noi cristiani. Non mi piace il generico riferimento alla Chiesa, perché essa è un soggetto di comunione che, in ultima analisi, riposa nella persona di ciascuno di noi.
Tocca al magistero della Chiesa, soprattutto al magistero di Pietro - perché Gesù questo ha ordinato -, proporre un insegnamento. La Caritas in veritate implica sicuramente da parte di tutti noi cristiani una precisa autocritica circa il nostro modo di stare dentro la realtà contemporanea.
Cosa chiede il Papa ai cristiani impegnati nella società?
Il Papa chiede il coraggio umile di mostrare le ragioni adeguate per incontrare la bellezza dell’avvenimento di Gesù Cristo dall’interno della propria vita quotidiana fatta di affetti, di lavoro e di riposo.
Occuparsi di economia, di impresa, di diritti e di doveri, di vita, di tecnica, di fraternità, significa prendersi cura di tutto l’umano.
Ai cristiani è chiesto di assumere questo insegnamento papale domandando con umiltà al Signore l’energia di rinnovare la propria esperienza e la propria testimonianza.
«L’annuncio di Cristo è il primo fattore di sviluppo». Cosa vuol dire?
Vuol dire che al cuore dello sviluppo non ci possono essere delle strutture, che sono solo delle condizioni per lo sviluppo, ma ci deve essere l’uomo.
Come ha insegnato la Gaudium et Spes, in Cristo l’uomo può scoprire il suo vero volto. Cristo vive oggi attraverso i cristiani, Dio ha bisogno degli uomini. Quindi annunciare Cristo attraverso la propria vita, dentro tutti gli ambiti della propria esistenza, è la prima condizione dello sviluppo.
CARITAS IN VERITATE/ Vittadini: dagli artigiani alle coop, l'Italia vicina all'enciclica - INT. Giorgio Vittadini giovedì 9 luglio 2009 - Nell’enciclica di Benedetto XVI c’è l’idea che lo sviluppo debba far spazio al «principio di gratuità». Utopia? - ilsussidiario.net
«Anche una lucidatrice o una macchina per fresare il legno possono essere un aspetto della gratuità».
Prego, professore?
«Pensi al mondo della piccola e media impresa, ai tanti che vogliono sì il profitto, ma come strumento: per vivere e far vivere meglio, ma anche per il bene comune. Sono gli imprenditori a cui piace fare impresa e le cose per bene, che hanno cura del prodotto perché ci tengono e desiderano creare un ambiente confortevole, allearsi col lavoratore, rendere ricco il territorio...». Giorgio Vittadini, fondatore della Compagnia delle Opere, è presidente della Fondazione per la sussidiarietà. Un tema centrale, nella Caritas in veritate. «Penso alla tradizione del mercato italiano, al movimento cattolico e a quello operaio...».
E che c’entra?
«C’entra, c’entra. Per fare l’esempio dell’Italia, sono movimenti che da subito hanno reso il capitalismo intriso degli ideali di giustizia e di ricerca del bene comune, al di là del vituperato liberismo finanziario. Del resto, all’inizio del secolo scorso le casse rurali e di risparmio o le banche popolari facevano finanza creando bene comune».
Non c’è utopia, dunque?
«C’è una lettura profetica, piuttosto, fondata sulla realtà. La sussidiarietà e il mercato sono affrontati a partire da una concezione dell’uomo. Anni fa si parlava al massimo di "risorsa umana", qui si pone l’uomo al cuore dell’economia: carità nella verità. È rivoluzionario: la carità - il "dono di sé commosso", diceva Don Giussani - è la verità dell’uomo fatto a immagine di Dio, che è carità. Quindi l’uomo è responsabile verso gli altri uomini».
E allora?
«E allora la sussidiarietà è la valorizzazione di questo uomo che non sta da solo ed è capace di fare il bene. Nasce da un domanda: come posso portare il bene comune? Con lo Stato, dall’alto? O piuttosto dando valore a tutte quelle persone, movimenti e corpi intermedi della società che dal basso, essendo espressione dell’uomo, non possono che agire per il bene?».
Il Papa si riferisce alla globalizzazione...
«Il governo dall’alto, come unione di Stati, rischia di non avere effetto perché non valorizza soggetti capaci di fare del bene. Nel mondo ci sono comunità locali, associazioni, movimenti, realtà che operano per la libertà e la giustizia, per l’ambiente o contro il lavoro minorile, esistono persone come l’economista Muhammad Yunus che vanno coinvolte. C’è un’interconnessione di realtà virtuose che dice molto più dei modelli teorici».
E la realtà italiana può essere un modello?
«In Italia c’è già un mercato molto più vicino a quello di cui parla l’enciclica. Dalle piccole e medie imprese alle associazioni artigiane alla Lega delle cooperative alla CdO, abbiamo un’economia che accetta il mercato avendo però uno scopo ideale».
L’etica nell’economia?
«Il mercato può essere inteso come egoismo puro o come condivisione o come offerta di beni che migliori la vita delle persone. Uno dei grandi meriti dell’enciclica è di non dire "no" al mercato e all’impresa e "sì" solo a non profit e volontariato. Ridefinisce impresa e finanza in modo meno isterico, offre un’idea di mercato più sfaccettata. Rappresenta la fine dell’ideologia per cui l’economia, per definirsi, non ha bisogno dell’uomo».
Va bene, ma la lucidatrice?
«Adam Smith distingueva tra valore d’uso e valore di scambio. E il valore di scambio c’è perché questa cosa è utile, fatta bene e bella, quindi vivo meglio. Se il profitto è uno strumento, qual è lo scopo? Il "dono di sé commosso": l’imprenditore guarda al profitto ma insieme cerca di rendere il suo prodotto migliore. Quella del Papa è un’idea di economia più ricca, a colori, reale».
(Gian Guido Vecchi)
Pubblicato su Il Corriere della Sera del 9 luglio 2009
LETTERATURA/ Lucrezio, il primo “illuminista” alla ricerca del senso della vita - Laura Cioni giovedì 9 luglio 2009 – ilsussidiario.it
Gli antichi Romani non amavano molto la filosofia, la ritenevano un’occupazione inutile, quando non dannosa. Ma Lucrezio, uno dei loro massimi poeti, tradusse in un vasto poema il pensiero di Epicuro. La sua opera parla di lui come di un uomo che ebbe dallo studio della natura momenti di ebbrezza, ma non la felicità promessa. Egli soffre e conosce lucidamente la ragione del suo male, l’inspiegabile amarezza dell’inquietudine che afferra alla gola proprio in mezzo al piacere: medio de fonte leporum / surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat
In tutta la sua opera l’ammirazione sconfinata per la vastità del cosmo nel quale le cose si muovono incessantemente si intreccia con la percezione del limite. Il moto degli atomi che dà agli elementi della natura origine, consistenza e ordine ne spiega anche la decadenza e la morte; l’entusiasmo per l’indagine della ragione umana capace di strappare alla natura le sue leggi sfocia nella constatazione realista che tutto deperisce e si avvia verso la tomba. Proprio questo l’uomo teme sopra ogni cosa, la fine.
Lucrezio si propone di mostrare come solo la scienza sia in grado di sconfiggere questa paura, rivelando come stiano in realtà le cose. Occupazione importante, non certo gioco intellettuale, perché è in causa l’eternità, non un’ora sola: temporis aeterni quondam, non unius horae,/ ambigitur status. Occupazione coraggiosa, perché se è vero che nelle avversità si rivela di che pasta è fatto un uomo, occorre essere forti quando eripitur persona, manet res, strappata la maschera dell’apparenza e dell’illusione, rimane la cruda realtà.
La felicità è per Lucrezio il frutto di un’incessante battaglia contro l’ignoranza e il dolore, conquista conoscitiva ed etica insieme. Il saggio deve esercitare il distacco dalla passione degli eventi che passano per immergersi nel lavoro che gli è proprio, quello di lasciare che le cose rivelino il loro segreto. In una età in cui le enormi conquiste territoriali mettono in crisi le antiche istituzioni repubblicane, il poeta non si sottrae alla lotta che impegna il popolo romano con tutte le sue risorse. Lucrezio, come insegna Bergson nelle sue giovanili lezioni di latino, contribuisce allo sforzo comune, indicando nella ragione il farmaco che guarisca la paura della morte da cui nascono l’avidità della ricchezza, la brama degli onori, l’ambizione del potere, il disprezzo della sobrietà, la soppressione degli avversari.
Tutta la nostra vita si dibatte nell’oscurità: simili ai bambini che tremano e si impauriscono di tutto nelle tenebre cieche, noi, in piena luce, spesso temiamo pericoli tanto poco terribili quanto quelli che l’immaginazione teme e crede di vedere avvicinarsi. Questi terrori, queste tenebre dello spirito, li devono dissipare non i raggi del sole né i dardi luminosi del giorno, ma lo studio e la comprensione della natura.
Se questo sia sufficiente, ognuno lo può stabilire in base alla propria esperienza di sé e del mondo. Resta il fatto che in quel suo tempo ormai privo di dei e non ancora visitato da Dio, la sua proposta isolata e sofferta giunge come un correttivo e un avvertimento. Dopo l’opera di Lucrezio i Romani per la prima volta riconoscono al pensare una dignità pari a quella di altre opere più appariscenti.
NUOVO SLANCIO DI PENSIERO - ORIENTARE LA GLOBALIZZAZIONE NEL SENSO DELLA RAZIONALITÀ - P IERO C ODA – Avvenire, 9 luglio 2009
La vasta e positiva eco che la Caritas in veritate di Benedetto XVI sta incontrando a livello mondiale non è propiziata soltanto dalla particolare congiuntura in cui ha visto la luce. Anche se la coincidenza della sua pubblicazione con l’apertura del G8 a L’Aquila e, su più largo orizzonte, con la crisi economica e finanziaria internazionale amplificano senz’altro l’audience di una parola lucida, ponderata e attesa come questa. A leggerla con un po’ d’attenzione non si fatica a percepire che c’è dell’altro. Il fatto è che l’intervento di Benedetto XVI non solo invita a un nuovo 'slancio del pensiero' per discernere e affrontare la sfida globale che, nelle sue molteplici e correlate espressioni, tutti c’interpella. Ma di tale slancio abbozza con rigore i necessari presupposti. Riproponendo e riattualizzando il profilo profetico che qualifica la dottrina sociale della Chiesa: dalla Rerum novarum di Leone XIII, alla
Gaudium et spes del Concilio ecumenico Vaticano II alla Populorum progressio di Paolo VI. Con ciò illustrando ancora una volta al nostro tempo – e con un’evidenza apprezzabile da ogni persona di buona volontà – l’inesausta virtualità forgiatrice di storia ch’è per sé insita nel vangelo di Gesù; e insieme la missione di compagnia attenta e solidale con cui la Chiesa s’impegna programmaticamente ad accompagnare il cammino e il destino della storia. La
Caritas in veritate , in realtà, attesta in uno l’incessante e organico sviluppo del magistero sociale, l’originale contributo che vi apporta la penetrante intelligenza teologica di Benedetto XVI e la maturazione vissuta, soprattutto in questi ultimi decenni, grazie alle sperimentazioni e alle riflessioni messe in atto dalla comunità cristiana nel concreto della prassi sociale e in obbedienza all’imperativo di seminare il lievito e il sale del Vangelo nel mondo complesso e ambivalente del mercato e della tecnica.
Ma in che consiste, se si guarda al suo nucleo ispiratore, lo slancio di pensiero auspicato da Benedetto XVI? A ben vedere, tutto è già racchiuso nell’ incipit : «La carità nella verità». Se la carità dice Dio e dice l’uomo secondo Gesù, ed è pertanto «la via maestra della dottrina sociale della Chiesa», ne segue che essa, la carità, non è motivata da un vago sentimento o da un’intenzione meramente soggettiva: ma è intrinsecamente abitata da una luce che investe e rischiara il significato di tutta l’esistenza, nei suoi risvolti personali e sociali, politici ed economici. In altri termini – scrive il Papa – «vivere la carità nella verità porta a comprendere che l’adesione al Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale». Ciò che dunque propone la dottrina sociale della Chiesa non è un fatto decorativo od opzionale, non è un semplice correttivo etico dell’agire economico o politico: ma dischiude la via concreta della gratuità, del dono, della reciprocità seguendo la quale soltanto le persone e i popoli realizzano insieme il loro destino. Se questa è verità di sempre, oggi essa acquista una singolare incisività: nel momento in cui la globalizzazione dei mercati e, più in profondità, dei progetti e delle esperienze di vita invoca la messa in opera di uno sviluppo integrale e interdipendente dei singoli e dei popoli. Come aveva intuito Paolo VI.
Ciò comporta, con urgenza, creatività, capacità di dialogo e sinergia, al fine di «orientare la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione». Da un lato, 'civilizzando' l’economia di mercato: e cioè liberandone il valore e il significato di costruzione della persona e della società nel loro esplicarsi attraverso la produzione, la gestione e la distribuzione dei beni nel segno dello scambio e della partecipazione. E dall’altro apparecchiando con lungimiranza e realismo quegli strumenti e quegli organismi politici, a livello nazionale e internazionale, che siano in grado di governare, nel rispetto e nella valorizzazione della sussidiarietà e della poliarchia, i processi non solo economici e politici, ma in primis antropologici e culturali della globalizzazione.
Benedetto XVI invita dunque con forza tutte le coscienze, non solo chi è discepolo di Gesù, a far proprio coraggiosamente e in spirito di unità quello slancio di pensiero che solo è in grado – con il 'di più' che viene da Dio riconosciuto senza laicismi o integrismi di sorta nella sua rilevanza pubblica – di educare l’uomo e la donna capaci di «esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale ».
Suicidio assistito, Londra si ferma. Per ora - di Elisabetta Del Soldato – Avvenire, 9 luglio 2009
Di fronte alla possibilità di cambiare l’attuale legge, permettendo ai familiari di aiutare un proprio caro a suicidarsi, i Lords hanno risposto picche Chi proverà a farlo rischierà ancora fino a 14 anni di prigione Sinora sono 115 i britannici che si sono recati a morire in Svizzera, nel centro Dignitas di Zurigo, ma più di 800 sarebbero quelli che aspettano di farlo
La Gran Bretagna ancora una volta ha deciso di non fare un passo avanti verso il suicidio assistito. Messo di fronte alla possibilità di cambiare una legge e permettere ai familiari di aiutare un malato terminale a morire, Westminster ha detto chiaramente di no. La legge, hanno votato 194 Lord contro 141, rimarrà tale e quale a com’è ora e chi assisterà una persona al suicidio rischierà come sempre fino a 14 anni di prigione. Il dibattito sul suicidio assistito si è infuocato in Gran Bretagna negli ultimi due anni in seguito ad alcuni casi di persone malate terminali che hanno chiesto all’Alta Corte e a quella di Appello di sollevare da incriminazioni gli amici e i familiari che li avrebbero portati a morire all’estero, nella maggior parte dei casi alla clinica svizzera Dignitas. La questione ha raggiunto priorità alla Camera dei Lord quando Lord Falconer ha deciso di chiedere un voto e mentre si contavano i casi di persone che si sono recate alla clinica Dignitas e di quelle in lista d’attesa. Fino a oggi sono infatti 115 i britannici morti nella clinica privata elvetica e più di ottocento sono quelli che aspettano di farlo. Ha fatto inoltre discutere qualche giorno fa la lista pubblicata dal Guardian delle persone suicidatesi in Svizzera, con le relative malattie: su 115, 36 erano affette da diverse forme di cancro; 27 da Sclerosi laterale amiotrofica e 17 da sclerosi multipla. Gli altri denunciavano malattie gravi che richiedono la dialisi o il trapianto di organi.
Ieri il vescovo anglicano di Exeter, Michael Langrish, che ha una figlia con sindrome di down, ha detto ai Lord che un emendamento all’attuale legge rappresenterebbe « un passo gigantesco verso l’introduzione del suicidio assistito in Gran Bretagna » . Qualche anno fa un altro membro della Camera dei Lord, Lord Joffe, aveva tentato di aprire la porta al suicidio assistito, ma senza successo.
Per la prima volta, nel 2002, Joffe propose di cambiare la legge e permettere a « un adulto competente che soffre in modo insostenibile di ricevere assistenza medica per morire, se lo richiede » . Più tardi lo stesso Joffe cercò di nuovo di presentare la sua proposta dal titolo « Assisted Dying for the Terminally Ill Bill » ai Lord, ma anche quella volta fu bloccata.
La necessità di cambiare la legge, spiegò allora il Lord, è confermata dai casi di malati terminali che decidono di farsi accompagnare a morire in Paesi come la Svizzera e si rivolgono ai giudici per sollevare da incriminazioni i loro cari disposti ad aiutarli. La prima persona a presentarsi all’Alta Corte fu Debbie Purdy, una signora di 45 anni malata di sclerosi multipla che chiedeva che il marito non fosse incriminato qualora l’avesse portata in Svizzera. La volontà della donna è stata respinta anche in appello, ma la Purdy continua la sua battaglia e poche settimane fa il suo caso è stato discusso anche dalla Camera dei Lord. Nel riferire il verdetto alla Purdy il giudice della corte d’appello aveva menzionato il caso di Dan James, un ragazzo di 23 anni, giocatore di rugby rimasto paralizzato dopo un incidente in un allenamento, morto l’anno scorso presso Dignitas. I genitori del ragazzo, Mark e Julie, hanno accompagnato il figlio in Svizzera e quando sono tornati in Gran Bretagna sono stati fermati dalla polizia e interrogati ma non sono stati incriminati. In questo caso il giudice aveva sottolineato l’importanza della compassione.
Anche il premier Gordon Brown ha ribadito in più di un’occasione la sua contrarietà a cambiare una legge che funziona per proteggere i soggetti più deboli dalle pressioni dei familiari e della società. « L’ultima cosa che desidero – ha dichiarato Brown qualche mese fa – è quella di far credere alle persone malate e vulnerabili che sono un peso. Sono invece una ricchezza » . È molto probabile, ci spiegava ieri Peter Saunders di Care Not Killing, un’associazione che promuove le cure palliative e si batte contro l’eutanasia e il suicidio assistito, che la lobby proeutanasia non si fermerà qui.
Prima Lord Joffe e ora Lord Falconer. Gli interessi coinvolti sono enormi, come il poter sollevare ospedali e famiglie da cure lunghe, impegnative e soprattutto molto onerose.
Non credo che arriveremo presto a questo punto, ma la proposta di Lord Falconer è pericolosa perché mette a rischio una vita che potrebbe essere vissuta diversamente se custodita da cure e affetto.
Sono convinto che molte delle persone che ha scelto di morire all’estero non l’avrebbero fatto se non si fossero sentite un peso per la società e la famiglia » .