martedì 28 luglio 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1)Messaggio di Medjugorje 25 Luglio 2009"Cari figli, questo tempo sia per voi tempo di preghiera. Grazie per aver risposto alla mia chiamata."
2)SOCIETA'/ Scholz (Cdo): la riforma più urgente? Ripartire dalla persona: ecco cosa fare per famiglie e Pmi - INT. Bernhard Scholz domenica 26 luglio 2009 – ilsussidiario.net
3)Quel libro che fa paura alla Corea del Nord - Mario Mauro lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
4)CHIESA/ Leone XIII e la “Rerum Novarum”, una rivoluzione nel segno della dignità umana - INT. Alberto Cova lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
5)La mentalità eugenetica non dà segni di recessione - di padre John Flynn, LC
6)L'aborto nel pensiero femminista e femminile - ROMA, domenica, 26 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'articolo "L'aborto nel pensiero femminista e femminile" di Laura Palazzani, apparso sulla rivista della Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum "Studia Bioethica", Vol. 1, No. 2 (2008).
7)Ralph McInerny spiega le ragioni della crisi post-conciliare - di Antonio Gaspari
8)I musulmani a scuola di democrazia. La tv fa da maestra - Mentre in Vaticano si discute se la democrazia sia o no compatibile con l'islam, sui canali televisivi arabi trionfano i reality show e le soap opera. Una grande inchiesta ne analizza i messaggi. E le ambiguità - di Sandro Magister
9)Leggere l’ultimo libro di Baget Bozzo e scoprire i segreti dell’utopia dossettiana - di Roberto de Mattei - Le trasformazioni di un “professorino” costituente e partigiano. Il rapporto con Prodi, la sconfitta del modello Berlinguer e la vera influenza avuta da Dossetti nel centrosinistra. - [Da «Il Foglio», del 22 luglio 2009]
10)La storia di Natalina e di quell’abbraccio che unisce Sicilia e Brianza - Redazione lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
11)STUDIO INGLESE SUL FLOP DELLE CAMPAGNE PRO- CONTRACCETTIVI - Educare all’amore non al «porre rimedio» - GIACOMO S AMEK L ODOVICI – Avvenire, 28 luglio 2009
12)«Urgente un fisco a misura di famiglia» - DA F IUGGI (F ROSINONE ) A UGUSTO C INELLI – Avvenire, 28 luglio 2009
13)Hanoi, 500mila cattolici in piazza - HANOI. - Avvenire 28, luglio 2009
14)Pechino, Erode invisibile - INTERVISTA. Il dissidente cinese Wu, ospite al prossimo Meeting di Rimini: «Troppo silenzio sulla criminale politica del figlio unico» - DI L ORENZO F AZZINI – Avvenire, 28 luglio 2009
15)In difesa di Pio XII - Tra i sussurri e le grida la verità della storia - di Roberto Pertici - Università di Bergamo – L'Osservatore Romano, 28 Luglio 2009


SOCIETA'/ Scholz (Cdo): la riforma più urgente? Ripartire dalla persona: ecco cosa fare per famiglie e Pmi - INT. Bernhard Scholz domenica 26 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Berlusconi, la crisi e il governo. L’impresa, Draghi, il Papa. Il presidente della Compagnia delle Opere rompe l’operoso silenzio che lo accompagna da mesi e con Libero salta nell’attualità. A pochi giorni dall’inizio delle vacanze in cui si butta la politica per riemergere, il 24 agosto, proprio al Meeting di Cl. Bernhard Scholz, successore di Vittadini e Vignali alla guida della CdO, il “braccio operativo” di Comunione e Liberazione, pesa le parole col bilancino dell’orafo.



Il suo giudizio sul Cavaliere e le escort, a detta di molti ostacolo insormontabile per un cattolico affacciato alla politica, è articolato ma netto: «La coerenza personale, importante e desiderabile, non è il criterio esclusivo per valutare l’azione politica di chi governa. C’è una questione più importante: se la politica lascia libertà alle realtà che lavorano per il bene comune. Per noi uno dei criteri fondamentali è la vicinanza al principio di sussidiarietà».



Nessuna condanna dunque? Basta non avere la pretesa di dirsi santo?



«Qualcuno crede che il bene della società possa essere un frutto generato dallo Stato e dalle istituzioni politiche? La Chiesa e le associazioni, le imprese e le cooperative, le opere di carità e le scuole a che servirebbero? Le gerarchie cattoliche questo lo sanno bene. Noi abbiamo un visione molto laica della politica, rifiutiamo che di essa si faccia una religione o la si utilizzi per definire la vita degli uomini».



Cosa pensa della stampa che insiste sulle gesta di Berlusconi a Palazzo Grazioli?



«Non penso che tutto ciò che è stato scritto sia nato da un vero interesse per la “res publica”, per un confronto sui temi che interessano la vita quotidiana dei cittadini. Ma in fondo: chi è senza peccato scagli la prima pietra...».



Appurato che non è la coerenza, cosa chiedete al governo?



«Una politica che riconosca la centralità della persona come origine e scopo. Nel libro bianco del ministro Sacconi ci sono principi molto importanti: chiedono di essere applicati. Non vogliamo uno Stato che redistribuisca, ma che prenda solo quello che è veramente necessario e lasci il più possibile ai cittadini. Questa è la via maestra per creare lavoro, occupazione e benessere. Serve una detassazione, anche se il debito pubblico la rende difficile. E c'è bisogno del quoziente familiare, di una riforma scolastica e di altre che garantiscano un welfare basato sulla sussidiarietà».



Lei guida un esercito di oltre 30mila la imprese: a che punto siamo della crisi? Come si è mosso il governo? La moratoria del credito alle imprese è valutata positivamente dai vostri soci?



«La moratoria sarebbe un sostegno sostanziale alle nostre imprese, in una situazione difficile per cause a loro esterne, soprattutto nel manifatturiero. Aspettiamo di conoscere i contenuti di questo accordo. Oggi è più che mai importante che banche e imprese collaborino in un rapporto di fiducia: CdO si sta impegnando perché entrambe possano creare le condizioni per una ripresa. Il governo finora si è mosso bene: ha reagito in modo flessibile. L'allargamento della cassa integrazione alle aziende con meno di 15 dipendenti ha permesso a tanti di non licenziare. Lo sconto fiscale per gli investimenti industriali, così come lo sconto sul reinvestimento nel capitale aziendale e il piano casa sono segnali importanti. Le promesse sui pagamenti più rapidi del'amministrazione pubblica però vanno mantenute e la semplificazione burocratica deve procedere con più velocità. La riforma ormai improrogabile del processo civile consentirebbe alle imprese di ottenere ciò che spetta loro senza attendere cinque o sei anni».



Crisi a parte, che voti dà al governo? Cosa le sta più a cuore?



«L'introduzione del federalismo fiscale sottolinea la responsabilità dei territori. E il G8 ha comunicato un`immagine molto positiva del nostro Paese. Mi auguro che il ministro Gelmini prosegua con il suo dialogo aperto sul futuro di scuola e università. E chiediamo che i risparmi della riforma delle pensioni vadano alle famiglie».



Potrete chiederlo ai ministri in visita al Meeting: che edizione sarà?



«Il titolo del Meeting è, significativamente, "La conoscenza è sempre un avvenimento". Nei suoi 30 anni, il principale scopo della rassegna è stato approfondire la conoscenza e "allargare la ragione", come suggerisce Benedetto XVI, che anche nell`ultima enciclica scrive: "Ogni nostra conoscenza, anche la più semplice, è sempre un piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali che adoperiamo". La nostra storia provala connessione profonda tra tutti i temi trattati, dall`economia alla scienza, dallo spettacolo alla politica: sono legati dal grande desiderio dell'uomo di conoscere se stesso, il mondo, la vita e quello che chiamano Dio»



C'è Mario Draghi, uno non proprio affine alla storia culturale di Cl...



«Cerchiamo il dialogo con chi è interessato al bene comune. Draghi è persona di grande competenza e onestà intellettuale, con una sensibilità particolare per le questioni dell'educazione e dello sviluppo. Siamo molto contenti della sua partecipazione».



Eppure pare impossibile, per un "ciellino", aspirare a posizioni di rilievo oltre un certo livello, sia al governo sia in Europa. Perché?



«Mario Mauro si è messo al servizio dell'Europa senza focalizzarsi sul ruolo, all'interno di accordi dove l'Italia pesava meno. Chi fa parte di Cl non è interessato né a un'egemonia culturale o politica né ai ruoli, ma alla possibilità di contribuire nel modo più efficace possibile al bene comune. Se c'è la chance di una funzione importante, sarebbe sbagliato rifiutarla. Ma né politica porta la salvezza, né il ruolo politico dà la felicità alla persona. La questione è l'assunzione di una responsabilità personale nelle diverse circostanze, siano esse la politica o l'impresa»

(Pubblicato da Libero il 26 luglio 2009)


Quel libro che fa paura alla Corea del Nord - Mario Mauro lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Dal 1948 lo Stato della Corea del Nord è retto da una dittatura comunista di tipo staliniano riconosciuta come il regime peggiore per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. È comprovata l’esistenza di campi di internamento in cui sono detenute più di 150 000 persone in condizioni a dir poco disumane. La Commissione d’inchiesta contro i crimini dell’umanità ha recentemente pubblicato un rapporto nel quale denuncia una serie impressionante di crimini contro l’umanità commessi dal regime di Pyongyang, come ad esempio la condanna a morte per il furto di una mucca, per la vendita di film stranieri o per l’ascolto della radio Sud-coreana. Un ex capitano dell’esercito ha addirittura confessato che il regime utilizza come cavie bambini disabili per testare armi chimiche e biologiche.



In Corea del Nord, paese dove il dittatore viene considerato alla stregua di una divinità, anche la fede religiosa ovviamente è un tabù. Sono decine di migliaia i cristiani che si riuniscono in vere e proprie catacombe. È di sabato scorso la notizia sconvolgente della donna giustiziata in pubblico perché distribuiva la Bibbia. Questa è stata la terribile sorte di Ri hyon-ok, una donna coreana di 33 anni che viveva in una città al Nord ovest della Corea del Nord, non lontano dal confine cinese. Lo hanno rivelato nella giornata di sabato alcuni attivisti sudcoreani che si battono contro il brutale regime di Kim Jong-il a Pyongyang, l’ultimo baluardo dell’utopia Comunista del Pianeta. Gli stessi attivisti hanno fatto sapere che il regime ha reso prigionieri politici il marito e i figli della donna, accusata di essere una spia americana e quindi una minaccia per il regime. Ha ragione il regime di Pyongyang: quel libro può essere la più grande minaccia per un sistema che si regge sulla sistematica violazione di qualunque diritto dell’uomo, della repressione di coloro che desiderano perseguire liberamente i propri ideali e professare quindi il loro credo religioso.



In Corea siamo ancora fermi ai tempi in cui la politica non viene considerata come un tentativo di risposta alle esigenze dell’uomo “reale”, all’uomo che “esiste”, ma come un tentativo di immaginare un “uomo nuovo” frutto di elucubrazioni mentali. Le ideologie, i fondamentalismi e i relativismi sono accomunati dall’abbandono della verità, dal mancato riconoscimento dell’essere come principio della realtà e dall’utilizzo del potere per dare una nuova base alla realtà.



La storia delle grandi dittature del passato ci dimostra che Dio fa paura a chi ha la pretesa di sostituirsi a lui. Ma la storia ci ha insegnato anche che alla lunga la furia ideologica che ha nella negazione della libertà religiosa il suo strumento di massima distruzione della dignità dell’uomo, viene sconfitta dalla prorompenza della fede e del desiderio di libertà degli uomini. Ne abbiamo una dimostrazione lampante proprio in questi giorni con le grandi manifestazioni a Teheran contro la teocrazia iraniana. Lo abbiamo visto più da vicino noi europei quando si è sgretolata l’Unione sovietica.



Oggi siamo di fronte alla stessa prospettiva nei confronti della Corea del Nord e delle altre dittature che sconvolgono l’esistenza umana in tutto il mondo. Il compito dell’Europa insieme agli Stati Uniti e all’Onu è oggi quello di incoraggiare e accelerare il moltiplicarsi di movimenti democratici in quei paesi e di mostrarsi più che mai decisi e uniti nell’infinita battaglia nella difesa dei diritti inalienabili della persona, fondamento della democrazia.


CHIESA/ Leone XIII e la “Rerum Novarum”, una rivoluzione nel segno della dignità umana - INT. Alberto Cova lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
Le encicliche scandiscono il fluire della vita cristiana. I Papi le scrivono per esporre e definire quelle verità che ritengono eloquenti per la propria epoca. O per interpretare i segni dei tempi alla luce del contenuto della fede. Sono un affare interno alla Chiesa cattolica, ma la loro eco risuona nel mondo. Accade soprattutto per le encicliche sociali. Trattano in maniera specifica dei rapporti tra le istituzioni, gli uomini e le strutture del loro vivere; sono indirizzate – come le altre - ai vescovi e ai fedeli, ma per loro natura coinvolgono l’intera collettività. I politici, gli economisti e gli intellettuali contestano o accettano i principi contenuti in esse, ma difficilmente ne prescindono totalmente. Sarà così per l’ultima enciclica di Benedetto XVI, della quale si stanno già osservando significative conseguenze e il nascere di un dibattito globale. Fu così per la prima enciclica sociale, la Rerum Novarum, scritta da Leone XIII nel 1891 per affrontare il problema operaio. Di questa Alberto Cova, professore ordinario di Storia Economica nell’Università Cattolica di Milano, dove è stato preside della facoltà di Economia dal ’92 al 2008, ci illustra i concetti principali e la novità che rappresentò per quel momento storico.



La politica esiste da ben prima del 1891. Solo allora, però, un Papa decise di dedicarle interamente un’enciclica. Perché?



Perché in questo periodo - quando l’industrializzazione è ormai in fase avanzata - le classi sociali più deboli, gli operai e i contadini, sono coinvolte in un processo di emarginazione mai visto prima. Si accentuano le difficoltà, si esasperano le differenze economiche, si trasformano i rapporti sociali. E Leone XIII è molto sensibile nei confronti dell’inedita situazione; era stato, infatti, nunzio in Belgio, dove era entrato in contatto con la vita degli operai delle grandi imprese carbo-siderurgiche e delle miniere. E per questo, nel 91, ritiene che la Chiesa debba pronunciarsi e prendere le contromosse di fronte al degrado umano generato dall’era industriale.



Non avrà pesato anche il ricordo della ferita di Porta Pia, ancora fresco, e che la Chiesa si trovasse - dopo secoli - a non poter più incidere direttamente sulle vicende politiche?



Certo, nel ’91, il potere temporale è finito. Ma bisogna ricordare che il destinatario dell’enciclica era il mondo intero, non la sola Italia o lo Stato Pontificio. Il fatto è che la nuova condizione operaia non poteva essere affrontata con i vecchi strumenti di solidarietà - come le corporazioni medievali - né con le precedenti categorie intellettuali. Bisognava dare una risposta nuova a problemi nuovi.



Che risposta diede Leone XIII?



Secondo il Pontefice l’ambiente lavorativo riduceva l’operaio ad un mero mezzo di produzione, un fattore dell’ingranaggio pagato a livello di sussistenza per la prestazione che erogava all’interno di un modello organizzativo. La miseria e lo sfruttamento privavano i lavoratori delle qualità di soggetti e i rapporti interni all’ordine produttivo erano disumani. Dalle fabbriche era estromessa l’esperienza personale.



Non sembra un pensiero particolarmente originale



Certo, questa era la critica “in voga” all’epoca. Ma Leone XIII innova sul piano della proposta: il marxismo rispondeva con una soluzione radicale, da attuarsi con il divampare del conflitto e con la rivoluzione come i soli strumenti di rivalsa sociale. Per il Papa, invece, tra imprenditore e lavoratore doveva instaurarsi un rapporto di cooperazione nel quale far emergere la dignità della persona.

Attraverso le coordinate tradizionali del Cristianesimo – la specificità dell’uomo come persona, la carità, l’amore per il prossimo - l’enciclica ricordava che l’operaio è sì un fattore della produzione, ma con valori, speranze, una famiglia. Per questo il salario doveva tenere conto delle sue specificità, della necessità di un’esistenza decorosa o dell’istruzione dei figli. Gli orari e il lavoro effettivo, poi, dovevano essere il più sopportabili possibile.



E se il padrone non era d’accordo?



Il mondo operaio stava abbozzando una risposta collettiva al cambiamento. Nella grandi città industriali nascevano le cooperative di lavoro le società di mutuo soccorso. Il Papa suggeriva una forma aggregativa di questo genere. I Cattolici, dal canto loro, diedero vita alle leghe del lavoro bianche, come del resto i socialisti a quelle rosse.



Non era più semplice iscriversi al sindacato?



Il sindacato - che allora esisteva in fase embrionale ed era tutt’altro che una realtà ben definita - presupponeva l’esistenza di due soggetti in conflitto, tra i quali tendeva a sottolineare l’inconciliabilità. In Inghilterra, inoltre, chi se ne occupava era mandato in Australia, nelle colonie penali e in Francia era vietato dalla legge.



Quali furono gli effetti pratici più visibili prodotti dalla Rerum Novarum?



Basti pensare all’impulso che diede alla diffusione delle casse rurali e delle banche cooperative. Il mondo contadino con le sue piccole aziende aveva bisogno di sostegno. Chi possedeva un fazzoletto di terra, apportando innovazioni tecnologiche avrebbe potuto dar vita a una cultura specializzata che gli avrebbe permesso di guadagnare di più. Ma le banche non concedevano prestiti. Allora il credito venne istituito sul piano locale, a livello comunale. Se guardiamo le statistiche, scopriamo che nel 1922 in Italia ci sono ormai più di 3000 casse rurali, l’80 per cento delle quali cattoliche. La maggior parte di queste fondata da preti che avevano recepito gli insegnamenti del Papa. Tra gli anni ‘80 e ’90, poi, vi fu l’impennata della migrazione interna, e per la volta ci furono spostamenti massicci di ragazze. Grazie ai convitti per fanciulle, costituiti dalle chiese locali accanto alla fabbriche, le donne erano tolte dai pericoli della vita solitaria, lontano da casa, ricevevano un pasto caldo e spesso un’istruzione.



In che misura l’enciclica ha influito sulla successiva elaborazione della dottrina sociale?



Sul piano del contenuto, ogni enciclica sociale è diversa dalla altre. In comune rimangono le coordinate fondamentali. Ma la Rerum Novarum ha sicuramente influito dal punto di vista del metodo: il Pontefice ha un problema da risolvere, osserva la realtà, e si adopera per far crescere quel segmento della società che è in condizioni disagiate.



In molti rinfacciano alla Chiesa di essere arrivata in ritardo rispetto al marxismo, a proposito delle rivendicazioni della classe operaia e degli strati sociali più deboli. È così?



Se uno adopera lo strumento del forcone sì. È facile predicare la rivoluzione. Se uno invece usa il cervello, capisce che la Chiesa non si prese nient’altro che il tempo necessario per elaborare una risposta ufficiale, che fosse il più ragionevole e utile possibile.


La mentalità eugenetica non dà segni di recessione - di padre John Flynn, LC

ROMA, domenica, 26 luglio 2009 (ZENIT.org).- L'idea che alcune persone siano geneticamente inferiori e che debbano essere eliminate o rese sterili persiste nonostante l'unanime condanna delle atrocità commesse dal regime nazista.

In un'eloquente intervista pubblicata il 12 luglio sulla rivista Justice del New York Times, Ruth Bader Ginsburg, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, ha parlato tra l'altro anche dell'aborto.

Con riferimento alla decisione della Corte che ha aperto le porte all'aborto, la Roe contro Wade, e alle successive sentenze sul finanziamento pubblico dell'aborto, la Ginsburg ha commentato: "Francamente ero convinta che ai tempi della decisione Roe vi fosse preoccupazione per la crescita demografica e in particolare per la crescita della parte più indesiderata della popolazione".

Questa sorprendente affermazione non è stata approfondita e non è seguita alcuna spiegazione di quali gruppi possano rientrare nella popolazione più "indesiderata".

In un articolo d'opinione pubblicato il 14 luglio sul Los Angeles Times, Jonah Goldberg ha ammesso che il testo potrebbe essere interpretato come mera descrizione di una mentalità che stava alla base di quelle decisioni, e che quindi non possiamo essere certi che Ginsburg la condividesse.

Nonostante ciò, è certamente vero che l'avanzamento dell'aborto è stato in buona parte dovuto al desiderio di eliminare coloro che erano considerati non idonei, ha proseguito. È un fatto notorio che la fondatrice di Planned Parenthood, Margaret Sanger, "è stata di un razzismo eugenetico di prim'ordine".

Sterilizzazione forzata

Ancora il mese scorso, la triste storia delle sterilizzazioni forzate è stata commemorata nella Carolina del Nord.

Una targa in alluminio è stata scoperta a Raleigh in memoria delle migliaia di persone che sono state sterilizzate tra il 1933 e il 1973 perché considerate mentalmente disabili o geneticamente inferiori, secondo quanto riportato dall'Associated Press il 22 giugno.

Secondo l'articolo, il programma della Carolina del Nord aveva nel mirino soprattutto la gente povera e le persone in prigione o in manicomio.

Alcune erano magari state vittime di stupri. La Commissione statale sull'eugenetica ha continuato ad operare fino al 1977, quando i malati di mente sono stati posti sotto tutela del sistema giurisdizionale.

Ma le politiche di sterilizzazione non sono solo una realtà di interesse storico. Il 22 giugno scorso, il quotidiano Guardian ha riferito di donne in Africa affette da Hiv che sono state sottoposte a sterilizzazione forzata.

A quanto pare, alle interessate viene detto che la procedura è un trattamento di routine in caso di Aids. L'International Community of Women Living with HIV/AIDS ha fatto ricorso alla giustizia contro il Governo della Namibia per conto di un gruppo di donne sieropositive che sono state sterilizzate contro la loro volontà.

Il Guardian ha anche riferito che, secondo gli attivisti di questo settore, la sterilizzazione forzata viene praticata anche nella Repubblica Democratica del Congo, in Zambia e in Sudafrica.

La mentalità eugenetica è molto diffusa, sebbene in forma più subdola, in relazione a persone handicappate o che hanno difetti genetici, che spesso vengono semplicemente eliminate prima della nascita.

I progressi della scienza promettono di intensificare la minaccia contro queste persone. Il 1° luglio, il quotidiano londinese Times ha riferito di ricercatori che stanno sviluppando una diagnosi genetica prenatale universale che consentirà di rilevare quasi ogni malattia genetica.

La sperimentazione dovrebbe iniziare a breve e il professor Alan Handyside, della Bridge Clinic di Londra, ha spiegato al Times che il test sarà capace di identificare ognuna delle 15.000 patologie genetiche.

Attualmente solo il 2% dei difetti genetici può essere rilevato dallo screening.

Bambini su misura

Secondo l'articolo, questa tecnica nota come "karyomapping" è destinata ad esacerbare ulteriormente la polemica sui "bambini su misura". A quanto pare, la diagnosi potrà essere usata anche per selezionare embrioni con un particolare colore degli occhi, o con geni che incidono sull'altezza.

In ogni caso, questa tecnica sarebbe difficile da mettere in pratica, in quanto sarebbero necessari centinaia di embrioni per soddisfare la richiesta un determinato profilo genetico.

È invece una pratica già diffusa quella di eliminare embrioni o feti affetti dalla sindrome di Down. Dominic Lawson ha criticato questa tendenza in un articolo d'opinione pubblicato sul quotidiano britannico Independent dello scorso 25 novembre.

Lawson, che ha un figlio Down, ha tuttavia rilevato segnali di cambiamento. Secondo Carol Boys, responsabile della Down Syndrome Association, circa il 40% delle madri di embrioni risultati positivi alla sindrome di Down non si rifiuta di portare avanti la gravidanza.

Questo, secondo Boys, è in parte dovuto al fatto che le donne tendono ad avere figli ad un'età più avanzata e quindi con una maggiore consapevolezza di poter non essere in grado di averne altri. Queste donne, inoltre, hanno una carriera lavorativa avviata che dà loro maggiore fiducia nell'affrontare le pressioni dei medici che propendono per l'aborto.

Secondo Lawson, i medici in generale hanno "una tendenza viscerale a favore di un'azione eugenetica".

"Questo atteggiamento non è fondato su una valutazione realistica e aggiornata delle effettive prospettive di chi è affetto dalla sindrome di Down, né tantomeno della felicità che queste persone possono portare e portano alle famiglie e alle comunità nel loro insieme", ha aggiunto.

La causa di questo tipo di atteggiamento è data dal fatto che le persone affette dalla sindrome di Down graveranno sempre di più sul sistema sanitario pubblico, ha accusato.

Le nuove prospettive di diagnosi genetica riguardano anche la stessa sindrome di Down, secondo un articolo dell'American Spectator on-line dell'8 giugno. Sequenom, una società di prodotti per l'analisi genetica, ha sviluppato un nuovo test per la sindrome di Down.

Si chima SEQureDX, e dovrebbe essere più sicuro ed affidabile di ogni altro esame genetico prenatale.

I rischi

"Sebbene le nuove tecniche diagnostiche siano più sicure sia per la madre che per il figlio, esse contribuiranno ad un ambiente fortemente a rischio per i bambini che risulteranno positivi ad anormalità genetiche", secondo l'articolo.

Inoltre, almeno altre tre società stanno sviluppando simili esami genetici e sperano di metterli in commercio per la fine dell'anno.

La prospettiva di poter disporre di esami più affidabili mette in evidenza un fatto spesso sottaciuto: che a volte bambini perfettamente sani vengono abortiti a causa di diagnosi genetiche errate. In un articolo apparso sul quotidiano Guardian del 16 maggio, la dottoressa Anne Mackie, responsabile dei programmi di screening del Sistema sanitario nazionale del Regno Unito, ha riferito che 146 bambini l'anno, privi di qualsiasi anormalità, vengono persi in Inghilterra a causa di diagnosi non accurate.

Secondo Mackie, il 70% degli ospedali in Inghilterra ricorre ancora a tecniche con alte probabilità di dare dei "falsi positivi", ovvero di diagnosticare un alto rischio su feti perfettamente sani.

Il 21 febbraio, Benedetto XVI si è rivolto ai partecipanti di una conferenza organizzata dalla Pontificia Accademia per la vita, sul tema "Le nuove frontiere della genetica e il rischio dell'eugenetica".

Ogni essere umano, ha affermato il Pontefice, "è molto di più di una singolare combinazione di informazioni genetiche che gli vengono trasmesse dai genitori".

Dobbiamo essere consapevoli dei rischi dell'eugenetica, ha avvertito il Santo Padre, osservando che ancora oggi vi sono "manifestazioni preoccupanti di questa pratica odiosa".

Esiste, ha spiegato, una tendenza "a privilegiare le capacità operative, l'efficienza, la perfezione e la bellezza fisica a detrimento di altre dimensioni dell'esistenza non ritenute degne".

"Viene così indebolito il rispetto che è dovuto a ogni essere umano, anche in presenza di un difetto nel suo sviluppo o di una malattia genetica che potrà manifestarsi nel corso della sua vita, e sono penalizzati fin dal concepimento quei figli la cui vita è giudicata come non degna di essere vissuta".

Benedetto XVI ha quindi auspicato che ogni forma di discriminazione venga rigettata come un attentato contro l'intera umanità. Un appello all'azione, diretto a risvegliare le coscienze in tutto il mondo.


L'aborto nel pensiero femminista e femminile - ROMA, domenica, 26 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'articolo "L'aborto nel pensiero femminista e femminile" di Laura Palazzani, apparso sulla rivista della Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum "Studia Bioethica", Vol. 1, No. 2 (2008).

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1. La discussione sulla questione dell'aborto è strettamente connessa alla riflessione sulla donna, data la collocazione fisica del feto nel corpo della donna. È la donna che vive una esperienza che l'uomo non vive: vive contestualmente il proprio corpo e la presenza di un'altra vita nel proprio corpo. Emerge dunque il possibile conflitto tra il diritto di autodeterminazione della donna sul proprio corpo (sul feto come parte del proprio corpo) e il dovere di responsabilità nei confronti dell'altro nel proprio corpo (riconosciuto come soggetto). Il femminismo ha enfatizzato il diritto di autodeterminazione della donna, mentre il pensiero femminile ha temizzato il dovere di relazione responsabile nei confronti del feto.

Con l'espressione 'femminismo' si indica quella linea di pensiero (estremamente eterogenea) che focalizza l'attenzione sull'analisi delle ragioni della subordinazione delle donne e la teorizzazione di un cambiamento della condizione di marginalizzazione se non esclusione della donna rispetto all'uomo, criticando la discriminazione teorica e pratica delle donne e combattendo il sessismo (o discriminazione dei sessi), il maschilismo androcentrico patriarcale (o indebita prevaricazione dell'uomo sulla donna). Con 'pensiero femminile' si indica una riflessione fenomenologica sulla soggettività femminile, posta a confronto con la soggettività maschile, al fine di porre in evidenza elementi comuni e differenti, allo scopo di integrare il sapere tradizionale che non aveva posto specifica attenzione sul tema.

2. Il femminismo, nell'ambito della rivendicazione dei diritti delle donne, ha due obiettivi polemici principali. Il primo obiettivo polemico è il matrimonio (eterosessuale), considerato la istituzionalizzazione della oppressione delle donne a causa della assegnazione del ruolo privato-domestico alle donne e del ruolo pubblico agli uomini, con la conseguente gerarchizzazione e normalizzazione della priorità maschile che ha portato ad una svalutazione delle donne. Il secondo obiettivo polemico è la sessualità/procreazione, in riferimento al ruolo biologico riproduttivo della donna (gravidanza e parto) e al ruolo accuditivo, vissuti dalle donne come "giogo biologico" da cui riscattarsi. La liberazione delle donne (mogli/madri) si può ottenere, secondo il pensiero femminista, in due modalità: mediante l'annullamento della centralità del matrimonio eterosessuale (equiparandolo alle unioni di fatto anche omosessuali) e mediante la rivendicazione di diritti riproduttivi negativi (ossia il diritto a non procreare) e di diritti riproduttivi positivi (o diritto a scegliere come procreare). L'aborto rientra nei diritti riproduttivi negativi.


Il dibattito femminista sull'aborto si articola a due livelli: l'aborto come necessità politica e l'aborto come liceità morale.

L'aborto come necessità politica parte dalla considerazione della disuguaglianza e asimmetria tra uomo e donna: anche se il feto avesse valore dovrebbe essere sacrificato, secondo tale prospettiva, al fine di realizzare l'uguaglianza dei sessi e riequilibrare i rapporti di potere. Alla donna deve essere riconosciuto un potere sul proprio corpo: avendo un 'onere' aggiuntivo, in senso biologico, deve avere un 'potere' aggiuntivo. Ma tale argomento risulta fragile in quanto la morale trascende le condizioni storico-sociali: del resto anche se il patriarcato fosse abolito sul piano politico-sociale, rimarrebbe il problema morale dell'aborto.

La discussione sulla liceità morale dell'aborto (a partire dalla considerazione che la illiceità dell'aborto significherebbe perpetuazione del patriarcato) si sviluppa nell'ambito della prospettiva libertaria e della prospettiva relazionale.

I presupposti filosofici del femminismo libertario rimandano alla identificazione della soggettività (degna di rilevanza morale) con l'individuo autonomo; al soggettivismo etico, ritenendo che i valori non siano conoscibili oggettivamente (non cognitivismo etico) ma debbano essere posti e creati dal soggetto stesso; alla concezione neutrale del diritto come prodotto e strumento della volontà e difesa della volontà individuale. Nell'ambito di tale linea di pensiero si rivendica il diritto all'aborto come diritto di autodeterminazione della donna e come controllo della sessualità e del corpo. L'aborto è inteso come un metodo per il controllo della sessualità e per l'amplificazione della libertà sessuale identificata con il controllo delle nascite, se i metodi contraccettivi non funzionano o come metodo alternativo ai metodi contraccettivi (essendo considerata la contraccezione svantaggiosa, per la non sicurezza e il rischio per la salute della donna). L'aborto è considerato un mezzo per il controllo del corpo, in quanto la libertà è intesa come autonomia (o autodeterminazione arbitraria), la volontà individuale è considerata prioritaria rispetto al corpo e il feto è ridotto ad oggetto di proprietà. La radice filosofica di tale linea di pensiero è riconducibile al dualismo antropologico (la volontà è separata dal corpo, ridotto a materia) e alla non soggettività del feto (non ancora autonomo, ridotto ad oggetto in quanto parte del corpo).

Secondo questa linea di pensiero, la considerazione del feto come elemento eticamente rilevante nella scelta di non abortire ridurrebbe la donna a mero "contenitore fetale", non considerandola un "agente morale". Il feto costituirebbe una 'interferenza' alla autonomia e libera scelta della madre. L'argomento del femminismo libertario si basa sulla seguente considerazione: se A (madre) ha il dovere verso B (feto) non significa che B abbia un diritto verso A (non reversibilità diritti/dovere): la madre ha un dovere di beneficenza (aiutare chi ha bisogno, ossia il feto), ma astenersi dal dovere non implica ingiustizia (potrebbe semmai essere biasimevole in quanto comportamento egoista). È la tesi del "samaritano minimale" (in contrapposizione al 'buon samaritano' che riconosce doveri forti).

Vi sono alcuni elementi deboli del femminismo libertario. In primo luogo l'essere umano non è riducibile alle sue funzioni, quali l'autonomia: se cosi fosse, non solo il feto non sarebbe soggetto, ma anche l'individuo che dorme sarebbe escluso dalla soggettività, con conseguenze inaccettabili. Il feto, oltretutto è un essere umano a pieno titolo, data la continuità graduale e coordinata dello sviluppo umano dal momento del concepimento. In secondo luogo il concetto di autonomia non significa solo libero arbitrio, ma l'autonomia presuppone anche il limite della responsabilità verso gli altri (anche verso il feto, soggetto umano a pieno titolo). La vita è un bene fondamentale quale condizione di possibilità dell'esistenza e della coesistenza, dunque anche dell'esercizio dell'autonomia. In questo senso l'uccisione di una vita è un male in sé (non meramente un effetto collaterale sproporzionato) e l'aborto non è mancanza di assistenza/beneficenza, ma un attacco diretto alla vita. Il diritto non è riducibile a strumento della volontà arbitraria (quale prevaricazione del più forte sul più debole), ma è la condizione della coesistenza sociale che non può garantire tutta la libertà, ma deve assicurare la libertà di tutti (incluso il feto). La liberazione della donna a danno del nascituro non è pertanto libertà autentica.

La prospettiva del femminismo relazionale pone al centro della riflessione il soggetto relazionale, identificando la relazione con il possesso di funzioni astratte dall'individuo, quali l'autonomia, in senso minimale (fisico-psichica) e massimale (sociale). Se il feto non è soggetto perché non ha relazioni sociali, è invece soggetto nella misura in cui ha una relazione biologica con la madre: ma data la asimmetria e dipendenza del feto dalla madre, il suo valore (di soggetto relazionale) dipende dal riconoscimento della madre. Il feto non ha un valore in sé ma è la madre che attribuisce valore al feto, determinandone lo stato sociale: non importa il valore che danno altri al feto; la madre non è obbligata a tale riconoscimento (in quanto soggetto autonomo). Tale linea argomentativa risulta debole in quanto la relazione è una dimensione della soggettività, ma non la costituisce originariamente. L'individuo è già persona quando entra in un rapporto sociale di riconoscimento (ossia preesiste alla relazione): se si parla di riconoscimento significa che il valore c'è già. Vi è anche una considerazione fattuale: la possibilità della ectogenesi (ossia la possibilità tecnica che il feto possa esistere fuori dall'utero) dimostra che il feto potrebbe esistere anche senza la relazione biologica, potendo stabilire una relazione sociale con la madre, seppur dall'esterno o con il personale sanitario; ciò evidenzierebbe la indipendenza del feto dalla madre e dunque la sua soggettività morale.

3. All'interno dello stesso femminismo è sorta una linea "critica" che ha riconosciuto la illusione di una falsa emancipazione ("utopia della liberazione") della donna dal condizionamento maschile con l'esaltazione della autonomia, evidenziando il rischio che la donna divenga strumento asservito alla tecnoscienza, con la conseguente espropriazione del corpo femminile e della specificità del ruolo femminile. La nascita del 'pensiero femminile' mette in luce il contributo emergente dalla soggettività femminile a partire fenomenologicamente dalla diversità esistenziale fisico-psichico-sociale, dall'esperienza della differenza femminile/maschile al fine di riformulare ed integrare (non contrapporsi) all'etica tradizionale. Una delle categorie su cui il pensiero femminile ha posto attenzione è quella della 'cura', non nel significato ristretto di guarire, ma nel significato ampio di prendersi cura degli altri, preoccuparsi per gli altri, porsi in rapporto agli altri con atteggiamento di sollecitudine.

C. Gilligan, nel volume In a different voice: psychological theory and women's development (1982), studia lo sviluppo psicologico-morale di maschi e femmine: dalla rilevazione empirica trae alcune considerazioni generali sulla diversità (non gerarchica) di approcci morali (intesi come modi di ragionare in etica), distinguendo l'"approccio morale maschile" caratterizzato dalla autoreferenzialità, dalla metodologia formale, astratta, imparziale, dal ragionamento logico-deduttivo, secondo giustizia (in riferimento a principi universali, regole di simmetria e razionalità); e l'"approccio femminile" basato sulla relazionalità, la responsabilità, il coinvolgimento interiore personale, concreto e contestuale, il vincolo affettivo, basato su un ragionamento induttivo-esperienziale, in una modalità che pone al centro la cura (come attenzione, ascolto, empatia, preoccupazione, sollecitudine, compassione). Il prendersi cura è un atteggiamento strutturalmente relazionale nei confronti di chi è debole e vulnerabile, in condizione di non potere ricambiare le azioni (in contrapposizione all'individualismo, al contrattualismo e all'utilitarismo).

C. Gilligan applica questa visione anche alla riflessione sull'aborto, commentando interviste a donne che affrontano tale scelta, mettendo in evidenza il conflitto tra egoismo (cura di sé) e responsabilità (cura dell'altro), parlando di cura come "prendersi cura della vita". L'autrice mette in rilievo la percezione del legame che la donna sente con il feto dentro di sé, come legame che intercorre tra sé e l'altro dentro di sé; l'intuizione dell'interdipendenza (presenza di un altro dentro di sé); l'esperienza di appropriazione e di estraniazione, la trascendentalità del proprio corpo come non disponibilità arbitraria del corpo. La percezione della relazionalità asimmetrica e areciproca suscita un sentimento di responsabilità relazionale nei confronti di chi è debole, inerme, bisognoso di cure: è la "morale materna" della responsabilità totale per l'assoluta dipendenza (il feto non è percepito come ostacolo dell'autonomia, ma come essere vulnerabile che dipende dall'altro, dunque esige un atteggiamento di responsabilità). Il vissuto relazionale madre/figlio diviene narrazione della percezione della vita dentro di sé e drammatica consapevolezza che aborto significa uccisione; proprio la irreversibilità della scelta amplifica la responsabilità. Gilligan sottolinea l'accudimento e la cura come esigenza obiettiva del rapporto, come "impegno a prendersi cura della vita" quale "il principio più adeguato per risolvere i conflitti che sorgono nei rapporti umani".

Si tratta di un approccio interessante, ma il taglio psicologico (basato su intuizioni, percezioni, esperienze, vissuti) ne evidenzia la debolezza argomentativa, lasciando aperto il rischio che prevalga la cura di sé rispetto alla cura dell'altro, il rischio che la cura divenga affermazione del più forte sul più debole. È dunque necessaria un' integrazione filosofica che tematizzi lo statuto ontologico della vita nascente oltre che etico-giuridica che giustifichi la rilevanza di una compresenza complementare della cura e della giustizia: la cura non sostituisce la giustizia, ma la integra e la invera, presupponendo il riconoscimento della pari dignità ontologica di ogni essere umano, incluso il feto.


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Torniamo all’obbedienza al Magistero, sarà un progresso


Ralph McInerny spiega le ragioni della crisi post-conciliare - di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 27 luglio 2009 (ZENIT.org).- Il Concilio Vaticano II ha segnato la storia della Chiesa moderna. Svoltosi tra il 1962 ed il 1965, avrebbe dovuto risolvere i problemi sollevati dalla modernità, come la secolarizzazione, il relativismo, il rapporto con la tradizione, la perdita di fede, l’autorità della legge morale, l’obbedienza ed il rispetto del Primato di Pietro.

La discussione tra i padri conciliari è stata intensa e articolata. Il dibattito è stato vivacissimo. I documenti Conciliari sono solidi contributi alla dottrina ed al Magistero.

Eppure, dopo il Concilio, una parte di teologi, dell’episcopato del clero e del laicato, ha scelto di battere strade diverse, mettendo in discussione i risultati del Concilio, e soprattutto contestando l’autorità del Papa e del Magistero.

Non è chiaro se la crescente secolarizzazione è un segno dei tempi o un effetto della crisi post Concilio, sta di fatto che tutti i parametri relativi alle vocazioni sacerdotali, alle persone che frequentano la messa ed i sacramenti, al numero di iscrizioni nelle scuole cattoliche, hanno segnato un crollo significativo nel periodo post conciliare, soprattutto negli anni 1970- 1990.

Per cercare di capire cosa è accaduto, il professor Ralph McInerny, insegnante di filosofia per cinquant’anni all’Università Notre Dame nell’Indiana, la più grande università cattolica del mondo, considerato da molti il più importante filosofo cattolico vivente, ha appena pubblicato il saggio “Vaticano II. Che cosa è andato storto?” (Fede & Cultura, 91 pagine, 11,00 Euro).

Il prof. McInerny, tra i più grandi studiosi di San Tommaso, autore anche di una cinquantina di romanzi gialli con il sacerdote detective padre Dowling, spiega come la crisi nasce nel 1968 con quel “Sessantotto nella Chiesa” che è il rifiuto organizzato dell’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI da parte di centinaia di teologi.

Un rifiuto che va molto al di là delle questioni di morale sessuale e si pone come contestazione globale dell’autorità del Papa e del Magistero.

I teologi del dissenso dicono di fare appello al Vaticano II. “Ma – secondo McInerny – nulla nei documenti del Concilio giustifica la loro posizione”.

Si tratta allora di distinguere fra i testi del Vaticano II e la loro interpretazione, fra insegnamenti del Concilio ed evento mediatico, fra lettera e presunto “spirito” dell’assise conciliare.

Per McInerny la confusione fra questi elementi ha determinato per la Chiesa una delle più gravi crisi della sua storia.

Il professore americano suggerisce di riprendersi il Concilio, in quella piena fedeltà al Papa e al Magistero che costituisce l’unica via per uscire dalla crisi.

Per spiegare la crisi post-conciliare il noto docente di filosofia riporta i dati della Chiesa americana nel 1950.

C’erano 60.000 sacerdoti negli Stati Uniti e 25.000 seminaristi. 150.000 insegnanti religiosi nelle scuole. Cinque milioni di alunni nelle scuole cattoliche, dall’asilo all’università. E altri cinque milioni in scuole non cattoliche che comunque ricevevano un’istruzione religiosa cattolica.

Inoltre il 75% dei cattolici coniugati, partecipava alla Messa ogni domenica. Il 50% riceveva la comunione almeno una volta al mese. L’ottantacinque per cento dei non coniugati partecipava alla messa domenicale i tra loro il 50% si comunicava mensilmente. I cattolici con istruzione superiore erano i più assidui. Innumerevoli i movimenti apostolici laici.

Giovanni XXIII aprì il Concilio con grande ottimismo. Si discusse di un rinnovamento per diffondere la verità e della preparazione dei sacerdoti. Si auspicò la via della santità per tutti. La Gaudium et Spes indicò la via della Chiesa nel mondo moderno.

Dopo il Concilio i cattolici si aspettavano un grande balzo in avanti, invece sono emersi i segni di una crisi di fede e divisioni tra i fedeli e nel clero.

McInerny riporta alcuni dati americani, ma è facile constatare che sono simili a quelli europei.

Dopo il Concilio la partecipazione alla Messa è crollata. Negli Stati Uniti si stima che almeno dieci milioni di cattolici abbiano smesso di partecipare alla Messa domenicale.

Si stima che nelle grandi città solo il trenta per cento dei cattolici partecipi alla Messa. La diminuzione è stata particolarmente severa tra i giovani, anche tra quelli educati nel sistema cattolico.

C’è stata una diminuzione vertiginosa delle iscrizioni alle scuole cattoliche e sempre meno neonati vengono battezzati.

Sorge quindi la domanda: “Che cosa è che è andato storno nel dopo Concilio Vaticano II?”.

Nel saggio il filosofo statunitense racconta precisamente il dibattito svoltosi nel Concilio e nel dopo Concilio.

Precisa le posizioni di coloro che tentarono di indebolire l’autorità del Pontefice durante il Vaticano II e narra di come i dissidenti hanno organizzato una sorta di magistero parallelo nel dopo Concilio.

Per McInerny, è questa confusione ed aperta ribellione culminata con l’opposizione alla Enciclica Humanae Vitae che ha indebolito la Chiesa e generato la crisi di vocazioni e di perdita di fede.

Da allora il dissenso è diventata un abitudine e alcuni teologi hanno incitato alla disobbedienza generando una crisi di autorità.

La Santa Sede ha cercato di risolvere il dissenso con un Sinodo straordinario nel 1985, con una professione di fede e il giuramento di fedeltà degli insegnanti cattolici nel 1989, con il Catechismo nel 1992, con la Veritatis Splendor del 1993 e con la lettera apostolica Tuendam Fidem del 1998.

Quest’ultima lettera apostolica ha fatto del dissenso una violazione del diritto canonico e ha minacciato sanzioni ai dissidenti.

Ma la vera soluzione alla crisi di autorità, secondo il saggio di McInerny si trova negli argomenti ed in particolare nel riconquistare gli insegnamenti magisteriali del Concilio.

Il filosofo statunitense conclude invocando una conversione di cuori, e cita il capitolo della costituzione dogmatica Lumen Gentium sulla Beata Vergine Maria quale Madre della Chiesa.

Mc Inenrny conclude affermando che “Sarà seguendo i desideri di Maria come furono comunicati ai bambini di Fatima che la promessa del Vaticano II sarà mantenuta”.


I musulmani a scuola di democrazia. La tv fa da maestra - Mentre in Vaticano si discute se la democrazia sia o no compatibile con l'islam, sui canali televisivi arabi trionfano i reality show e le soap opera. Una grande inchiesta ne analizza i messaggi. E le ambiguità - di Sandro Magister

ROMA, 27 luglio 2009 – Proprio mentre la Gran Bretagna dà via libera sul proprio territorio, in nome del multiculturalismo, a un'ottantina di tribunali islamici alternativi che come regola adottano non la Common Law britannica ma la sharia – con tutto ciò che essa comporta in materia di poligamia, di ripudio, di sottomissione della donna e di illibertà religiosa – in Vaticano si discute se la democrazia sia o no compatibile con l'islam.

La notizia che viene dalla Gran Bretagna darebbe ragione ai pessimisti. Ma in Vaticano prevale una visione positiva circa la possibilità che gli Stati musulmani evolvano in democrazie liberali compiute, con il riconoscimento delle libertà fondamentali e della parità dei diritti tra uomo e donna.

È ciò che si desume dall'articolo che apre l'ultimo numero de "La Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma che è stampata con il previo controllo della segreteria di Stato vaticana.

L'articolo ha per autore il gesuita Giovanni Sale, storico, e per titolo: "Islam e democrazia".

Dopo aver premesso che oggi gli Stati islamici nei quali si intravedano elementi di democrazia sono soltanto due, il Libano e la Turchia, padre Sale passa ordinatamente in rassegna le tesi che in Occidente si contendono il campo:

"Su questa delicata materia gli analisti occidentali si dividono in tre categorie: i cosiddetti ottimisti, i quali al loro interno si differenziano in 'gradualisti' e 'realisti' (ovvero assertori delle esigenze della Realpolitik sul piano internazionale), i pessimisti e gli scettico-possibilisti".

A giudizio di padre Sale, gli ottimisti gradualisti hanno il loro esponente di punta in Bernard Lewis, storico a Princeton.

Gli ottimisti realisti sono i neoconservatori venuti alla ribalta con la presidenza Bush, decisi a impiantare la democrazia nei paesi musulmani ma pronti anche ad allearsi con regimi dispotici amici.

I pessimisti hanno il loro vate in Samuel Hungtington, secondo il quale tra il mondo musulmano e la democrazia c'è un'antinomia irriducibile, che produce scontro di civiltà.

Gli scettico-possibilisti, infine, sostengono che la democrazia non deve essere impiantata nei paesi arabi dall'esterno ma solo può nascere e crescere dentro di essi. A questa evoluzione si oppongono però molti ostacoli, uno dei quali è proprio il fattore religioso.

Nel tirare le conclusioni, l'articolo de "La Civiltà Cattolica" respinge sia la tesi dello scontro di civiltà, sia quella neoconservatrice dell'esportazione della democrazia anche con le armi.

Mostra invece di condividere sia la tesi ottimista gradualista di Bernard Lewis, sia l'avvertenza degli scettico-possibilisti sugli ostacoli che esigono di essere superati, in primo luogo quello religioso:

"Islam e democrazia possono diventare compatibili a condizione che l'elemento religioso, con tutta la sua ricchezza di contenuti e di esperienze, funga da semplice punto di riferimento etico e morale all'azione dell'interprete della scienza sociale, senza pretendere di dettare le norme allo Stato e alla politica".

Nell'articolo, padre Sale dà rilievo all'analisi che Daniel Pipes, consulente della Casa Bianca negli anni di Bush, fa del mondo islamico. In esso Pipes vede presenti, accanto a un esteso bacino di fondamentalisti radicali, una fascia ancora più larga di musulmani avversi all'America e all'Occidente più per effetto dell'ambiente sociale in cui vivono che per convinzione radicata, e un'ulteriore fascia di musulmani "moderati" non ostili ai valori occidentali. Pipes – che pure è considerato un "falco" – sottolinea l'importanza di "un impegno culturale e civile che incoraggi gli islamici moderati a lavorare per un profondo mutamento democratico e civile delle società islamiche".

***

Ma mentre in Occidente e ai vertici della Chiesa cattolica si discetta sulla possibile evoluzione democratica dell'islam, che cosa accade dentro il mondo musulmano? Quale immagine hanno gli islamici dell'Occidente? Come lo guardano?

Una risposta di grande interesse a questa domanda è data da una ricerca condotta recentemente sui programmi trasmessi dalle reti tv dei paesi arabi.

La ricerca, molto approfondita, è stata coordinata da Donatella Della Ratta con la collaborazione di Roberta Nunnari e Naman Tarcha. I risultati sono in un volume pubblicato in Italia da Gangemi Editore, col titolo: "Media arabi e cultura nel Mediterraneo".

Le sorprese sono parecchie e un'indagine del 2002 della Gallup le aveva già fatte presagire. In quell'inchiesta gli spettatori di Al Jazeera – nonostante l'orientamento antiamericano di questa celebre emittente – si rivelavano i più favorevoli agli stili di vita occidentali, mentre i più avversi risultavano essere gli spettatori delle tv di intrattenimento, cioè proprio quelle con programmi e reality show di stampo occidentale.

Dei circa cinquecento canali televisivi arabi ora indagati da Donatella Della Ratta e collaboratori, i più liberi da controlli statali sono quelli libanesi, captati in molti altri paesi. In essi c'è di tutto: dai programmi ferocemente avversi a Stati Uniti e Israele di Al Manar, l'emittente di Hezbollah, ai reality show di LBC, la prima rete araba a mandare in onda programmi tipo "Star Academy", "Survivor" e "La Fattoria".

Il prototipo mondiale dei reality show, il "Grande Fratello", messo in onda qualche anno fa su un canale del Bahrein, è stato cancellato dopo la prima puntata, travolto dalle proteste. Ma gli altri reality hanno incontrato un crescente successo. Con inaspettati riflessi politici.

Quando ad esempio il semifinalista libanese di "Star Academy" fu eliminato a vantaggio dell'avversario siriano, Beirut fu invasa da manifestazioni di protesta contro la Siria.

E quando la finale di "Superstar" vide l'uno contro l'altro i concorrenti della Siria e della Giordania, le compagnie telefoniche statali di questi due paesi gareggiarono nell'elargire sconti e bonus ai rispettivi abbonati, perché telefonassero a sostegno del proprio "eroe nazionale".

Secondo alcuni analisti arabi, il voto via cellulare nei reality show "rappresenta la prima forma reale di democrazia partecipativa nel mondo arabo, una prova di libere elezioni".

Ma c'è dell'altro. Il reality "Star Academy" ha generato un duplicato satirico dal titolo "Irhab Academy", accademia del terrorismo. Qui a sfidarsi sono attori che rappresentano in forma grottesca diversi profili di terrorista, ciascuno con la sua diabolica specialità. L'autore è Abdallah Bijiad Al Otibi, un ex estremista dedicatosi alla battaglia televisiva contro il terrorismo.

Altri programmi televisivi di grande successo nei paesi arabi sono i musalsalat, le fiction seriali. La discussione sui problemi più scottanti, che è totalmente bandita dai telegiornali ufficiali, trova spazio nelle trame delle fiction: dalla poligamia al divorzio, dalla violenza sulle donne all'omosessualità, dal terrorismo al rapporto con l'Occidente.

La Siria primeggia nella loro produzione. Uno degli autori più importanti è Najdat Ismael Anzour, figlio del primo regista di cinema muto siriano. Una sua fiction seriale trasmessa durante il mese di Ramadan del 2007 – il mese con il maggior numero di spettatori – ha toccato la questione delle vignette satiriche su Maometto. A un certo punto uno dei protagonisti dice a un suo interlocutore, fortemente scandalizzato dalle vignette:

"Ti prego, dimmi cosa offende di più la nostra religione: uno straniero che disegna caricature banali come queste? O un musulmano che si fa saltare con una cintura esplosiva in mezzo a gente innocente?".

Naturalmente non va trascurato che vi sono fiction ferocemente ostili all'Occidente e a Israele.

Così come non va dimenticato che anche gli spot pubblicitari fanno la loro parte per immettere modelli occidentali. Ha fatto colpo quello della Coca Cola, molto sexy, molto ammiccante, con protagonista Nancy Ajram, la pop star araba più pagata e più discussa del momento.

A giudizio di alcuni analisti, tutto ciò evidenzia che un processo di secolarizzazione sta investendo il mondo musulmano. Cadono i tabù, circolano le idee, si differenziano gli stili di vita, si emulano i modelli occidentali.

Tuttavia a ciò non corrisponde un reale rinnovamento della società civile, un suo sviluppo in direzione pluralista, una sua democratizzazione.

Una "via islamica alla democrazia" è possibile: così conclude l'articolo de "La Civiltà Cattolica". Ma "una via tutta da studiare e da realizzare".

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Il libro:

"Media arabi e cultura nel Mediterrraneo", a cura di Ornella Milella e Domenico Nunnari, Gangemi Editore, Roma, 2009.

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La rivista dei gesuiti di Roma stampata con il previo controllo delle autorità vaticane su cui è uscito – nel numero in data 4 luglio 2009 – l'articolo di padre Giovanni Sale, "Islam e democrazia"


Leggere l’ultimo libro di Baget Bozzo e scoprire i segreti dell’utopia dossettiana - di Roberto de Mattei - Le trasformazioni di un “professorino” costituente e partigiano. Il rapporto con Prodi, la sconfitta del modello Berlinguer e la vera influenza avuta da Dossetti nel centrosinistra. - [Da «Il Foglio», del 22 luglio 2009]

Il rapporto tra cattolici e comunisti resta la principale chiave interpretativa della storia italiana del Secondo dopoguerra. Questo rapporto fu teorizzato e vissuto da due forti personalità intellettuali, pur tra loro divergenti: Giuseppe Dossetti (1913-1996) e Franco Rodano (1920-1983). Per entrambi il comunismo non fu il nemico, ma l’occasione storica per realizzare il programma sociale cristiano, che essi contrapponevano al sistema capitalistico dell’occidente.

Il compito dei cattolici, secondo Rodano, doveva essere quello di dare dimensione religiosa e metafisica, all’azione politica di Palmiro Togliatti. Dossetti pensava invece che si dovesse agire all’interno della Dc di De Gasperi, “rifondandola” per conquistare lo stato. Il gruppo “catto-comunista”, che faceva capo a Rodano riteneva che marxismo e cattolicesimo dovessero realizzare, nella comune prassi, una nuova idea di Rivoluzione.

Per la sinistra dossettiana, invece, l’idea di “Rivoluzione” era incorporata nella costituzione antifascista, che andava attuata in tutte le sue potenzialità.

All’inizio degli anni Settanta del Novecento, Rodano fu il mentore di Enrico Berlinguer, in cui vide il realizzatore della politica di Togliatti. L’epoca del compromesso storico, tra il 1974 e il 1978, fu quella del maggior successo comunista in Italia e, simultaneamente, della peggior crisi del mondo cattolico, che vide il passaggio del divorzio e dell’aborto, sotto governi a guida democristiana.

La morte, nel 1978, di Aldo Moro e di Paolo VI, segnò però il definitivo naufragio del progetto rodanian-berlingueriano. In quegli anni, don Giuseppe Dossetti, dopo aver abbandonato la politica attiva ed essere stato ordinato sacerdote, viveva in ritiro monastico. Il suo programma, dopo aver trovato un primo interprete in Fanfani e nei teorici della “terza via”, avrebbe conosciuto l’ora di apparente trionfo solo vent’anni dopo, con l’entrata in scena di Romano Prodi, sua creatura politica.

Franco Rodano trovò il suo più rigoroso critico in Augusto Del Noce (Il cattolico comunista, Rusconi, Milano 1981); Giuseppe Dossetti lo ha trovato in Gianni Baget Bozzo, di cui è appena uscito postumo, in collaborazione con Pier Paolo Saleri, “Giuseppe Dossetti. La Costituzione come ideologia politica” (Ares, Milano 2009). Il Foglio ha già dedicato a Dossetti ampi articoli di Maurizio Crippa e dello stesso Baget Bozzo. Chi è interessato a meglio comprendere l’influenza esercitata da Dossetti nella società italiana, troverà ora in questo volume nuovi elementi su cui riflettere.

Il pensiero di Dossetti si era in parte alimentato alle posizioni filo-fasciste dell’Università Cattolica di padre Agostino Gemelli. Si trattava, osserva Baget Bozzo, di una interruzione interruzione significativa del pensiero cattolico sul diritto naturale (p. 51). Per il giusnaturalismo cattolico, infatti, la legge naturale non può essere assorbita dal diritto positivo dello stato. Il fascismo però produsse nel mondo cattolico l’idea che fosse lo stato il garante naturale della chiesa nella società e l’unica fonte del diritto. Saleri osserva che Dossetti, proprio attraverso la sua esperienza nella Resistenza, capì che nel fascismo c’era un elemento che andava salvato, seppure in forma democratica e antifascista: lo stato che dà forma alla società in chiave anticapitalista (p. 84). Questo stato poteva essere realizzato solo attraverso una stretta alleanza tra i cattolici e le sinistre, in particolare il Pci, in quanto partito capace di dare un senso forte alle istituzioni. “Così il dossettismo appare soprattutto come una connessione nel mondo cattolico, tra la concezione fascista e quella comunista dello stato, nella forma che essa prese in Italia, un paese che doveva rimanere occidentale e in cui il comunismo non poteva prendere il potere in forma rivoluzionaria” (p. 52).

Il ruolo politico di Dossetti è legato a due momenti precisi: il 1948, che vide il giovane “professorino” trasformarsi nel sagace “costituente” che trattò con Togliatti l’articolo 7 della costituzione, e gli anni Novanta, quando l’antico costituente si trasformò in un nuovo “partigiano” della costituzione repubblicana.

In quel momento, dopo il crollo del muro di Berlino, vi era una sola possibilità per i comunisti di cambiare la situazione politica: servirsi della magistratura, che poteva non essere soltanto un potere delle istituzioni, ma anche “un potere sulle istituzioni”.

Per Dossetti l’azione della magistratura corrispondeva alla sua tesi fondamentale, quella per cui la Resistenza era incorporata nella costituzione e le forniva un valore metafisico: l’antifascismo (p. 41). La politica della costituzione antifascista divenne la chiave della legittimità politica dopo la fine dell’egemonia democristiana. I partiti antifascisti, cattolici e comunisti, erano l’essenza della Repubblica costituzionale e la democrazia italiana, secondo Dossetti, si era allontanata, con l’anticomunismo, dall’antifascismo costituzionale. I magistrati erano l’unico potere che non traeva legittimità dal voto popolare, ma dalla costituzione, senza passare attraverso i partiti. Dossetti divenne dunque il garante dell’integrità della costituzione.

Il “gran vecchio” scese dalla Montagna e ritornò sulla scena, promuovendo in tutta Italia i comitati per la difesa della costituzione, per combattere la “democrazia populista” di Silvio Berlusconi, simbolo a un tempo della società borghese e della sovranità popolare che minacciava la costituzione.

La coalizione di sinistra guidata da Romano Prodi, designato a questo ruolo dallo stesso Dossetti, riuscì a vincere le elezioni politiche contro Berlusconi, prima nel 1996 e poi nel 2006. Il ruolo di Dossetti, nelle elezioni del 1996, fu quello di un “contropotere spirituale” rispetto al Vaticano: un monaco che si sostituiva alla chiesa di Roma, assumendo su di sé il ruolo di guida spirituale dei cattolici.

Il cardinale di Milano Carlo Maria Martini fu il suo maggiore alleato. La chiesa fu costretta ad accettare l’uomo di Dossetti, legittimato da Martini, come mediatore tra la chiesa e lo stato (p. 59). Il monaco Dossetti compì in nome del suo potere spirituale ciò che il politico Dossetti aveva tessuto in forma materiale. “Dossetti e Prodi – sottolinea Baget Bozzo – appartengono alla storia religiosa d’Italia, non soltanto a quella politica” (p. 64). “Senza il tocco monastico, il dossettismo pieno e vero, cioè il prodismo, non sarebbe nato” (p. 65). Il gruppo di Dossetti aveva visto nella costituente e nella costituzione un evento rivoluzionario che dava un nuovo fondamento e un nuovo inizio alla società italiana.

Il secondo evento fu il Concilio Vaticano II. Dossetti era convinto che la collusione con il potere della chiesa post tridentina aveva portato alla separazione tra Dio e il popolo. Per riconciliarli, non era sufficiente l’azione politica, ma occorreva una riforma teologica della chiesa. Il libro di Baget Bozzo e Saleri accenna, ma lascia a margine quest’aspetto, che andrebbe integrato con la lettura dell’ampio saggio di Giuseppe Alberigo, Giuseppe Dossetti al Concilio Vaticano II, contenuto nella raccolta di saggi dello storico dossettiano, Transizione epocale. Studi sul Concilio Vaticano II (Il Mulino, Bologna 2009, pp. 393-504). Dossetti partecipò al Concilio come “esperto” del cardinale Giacomo Lercaro, attorno a cui costituì l’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna di cui lo stesso Alberigo, e oggi Alberto Melloni, sono eredi. Durante il Concilio, Dossetti e il gruppo di Bologna cercarono di spingere la chiesa sulla via del “conciliarismo”, spogliandola del suo Primato Romano. Il tentativo di trasformare in senso “collegiale” il governo della chiesa fallì, ma la scuola di Bologna divenne il centro di diffusione dello ‘spirito del concilio’ cioè di una chiesa, come ricordò Baget Bozzo sul Foglio, del 23 febbraio 2007, liberata dalla monarchia papale e fondata dal governo dei vescovi.

Quando, il 15 dicembre 1996, il monacopartigiano muore, a 83 anni, nella Comunità da lui fondata di Oliveto, accorrono a pregare sulla sua bara il capo dello stato Oscar Luigi Scalfaro e il presidente del Consiglio Romano Prodi. Quest’ultimo, come annota il “Corriere della Sera” del 16 dicembre, afferma di aver perduto in Dossetti “la sua guida
spirituale”. Anche il cardinale Martini lo piange definendolo una “figura profetica per il nostro tempo”, e dichiarando di aver avuto in lui “un grande amico e ispiratore”.

Tredici anni della nostra storia sono da allora passati. L’ascesa al Pontificato di Benedetto XVI nel 2005 e la disfatta politica di Romano Prodi nel 2008 sono state svolte epocali che hanno visto l’inesorabile tramonto di un Dossetti profeta politico-religioso, capace di “leggere la storia” e discernere “i segni dei tempi”. Il pensiero di don Giuseppe Dossetti, come quello di Franco Rodano, è oggi archiviato nella storia delle utopie. (Roberto de Mattei)


La storia di Natalina e di quell’abbraccio che unisce Sicilia e Brianza - Redazione lunedì 27 luglio 2009 – ilsussidiario.net
«Voi per me siete stati aria pura per poter respirare che senza mi sentivo soffocare», Miriam legge e rilegge la lettera che contiene queste parole un po’ sgrammaticate, scritte da Natalina, una signora che aveva conosciuto due anni prima grazie al Banco di Solidarietà. Forse nemmeno lei si era resa conto di quanto poteva essere importante per Natalina quel rapporto. “Come aria pura”. Cosa era successo?


Miriam e Natalina si erano incontrate nel 2005. L’anno prima Natalina, che allora aveva 26 anni, era salita in Brianza dalla Sicilia con il marito, due figli e quasi nient’altro. Con gravi problemi economici, senza lavoro, Natalina e il marito trovano un povero alloggio di due locali: una camera e una cucina praticamente spogli. Ma quello che pesa più di tutto è la solitudine. Una solitudine terribile e angosciante. Scrive Natalina, nella sua sintetica e disarmante semplicità: «Ero triste e non avevo voglia di star lì».



Un giorno, finalmente, un imprevisto: durante una visita medica ai bambini, conosce un’assistente sociale che segnala il suo caso al Banco di Solidarietà Madre Teresa, che opera in Brianza (e che oggi segue 130 famiglie bisognose). Passano due settimane e Miriam si presenta, assieme a Manuela e Mirko, a bussare alla porta di Natalina. Hanno tra le mani un pacco di generi alimentari: «Se non si offende... Ci hanno raccontato la vostra situazione. Magari possiamo aiutarvi un poco…».



Grazie a quel pacco di generi alimentari, consegnato per anni ogni due settimane, nasce tra loro un rapporto di amicizia. Natalina e il marito si attaccano a loro con tutto il cuore. Lo scrive lei stessa: «Fra di noi si è creata una forte amicizia, loro per me erano un sostegno morale». Infatti le difficoltà continuano. Manca il lavoro, mancano i soldi, a Natalina manca tantissimo anche la madre lontana…



Miriam, Mirko e Manuela li aiutano a trovare dei mobili per arredare la casa e cercano di dare una mano anche su altri fronti; portano spesso dei vestiti per i bambini. Ancora oggi Natalina racconta che ogni volta che fa indossare uno di quei vestiti a uno dei suoi figli, le vengono subito alla mente i volti amici.



Poi nel 2006 arriva una notizia tremenda: a Natalina viene diagnosticato un tumore maligno, un massa tumorale che dal naso si allunga verso l’orecchio. Sono giorni terribili durante i quali la compagnia umana di Miriam, Manuela e Mirko si fa ancora più urgente e preziosa. L’intervento al naso è complesso e delicato. Scrive Natalina: «È stato insieme a loro che mi sostenevano e mi aiutavano in tutto e per tutto, che ho superato anche questo problema».



Al momento del suo ricovero, Miriam le aveva dato una corona, e un libretto scritto da Don Luigi Giussani sul rosario: «Prega che ti aiuterà», e lei aveva preso molto seriamente questa raccomandazione. Alla fine l’intervento sembra riuscito per il meglio. Anche se le cure devono continuare. In ospedale Natalina ha un solo grande cruccio: quello di non poter stare in contatto con il marito, i figli, la madre, i nuovi amici. Loro organizzano una colletta tra gli amici e le regalano un cellulare e una scheda con del traffico prepagato, così Natalina può tenere saldi i nodi di questi legami.



Intanto però il marito perde il lavoro. Così, una volta uscita dall’ospedale Natalina con la sua famiglia deve fare ritorno in Sicilia, dove almeno è più facile vivere di autosussistenza. Miriam la mette in contatto con una Banco di Solidarietà della zona, così può continuare a ricevere generi alimentari e compagnia umana gratuita.



Ma quando sale a Milano per le visite periodiche dopo l’intervento, cerca subito gli amici brianzoli. E quando torna al sud parla continuamente ai suoi figli di quegli amici così lontani, ma così vicini. In Calabria Natalina resta incinta. Ma quando scopre che si tratta di due gemelli subentra la disperazione: «Come fare a mantenerli? Non possiamo. Non possiamo proprio».



Il marito sembra deciso: l’aborto è l’unica soluzione. Ma lei tentenna. Ne parla con Miriam, che le dice: «Non fare cose di cui poi ti pentirai. Prima incontriamoci. Parliamone». Miriam non è convinta, ma proprio durante uno sei suoi viaggi al nord, visitata da un’amica di Miriam, scopre che la diagnosi era stata errata: aspetta un bambino e non due gemelli. Natalina dice subito: «Questo è un segno. Non posso più avere dubbi. Lo devo tenere».



Ora Natalina ha tre figli. Sta ancora in Sicilia. E al nord ha degli amici, di cui aveva scritto in quella sua lettera: «Non finirò mai di ringraziarli, e di ringraziare anche tutti quelli che fanno parte del banco. Spero anche se sono lontana che voi non vi dimenticate di me, perché io sinceramente non potrei mai di voi dimenticarmi… Voi per me siete stati aria pura per poter respirare che senza mi sentivo soffocare».



Ma la gratitudine di Natalina, è la stessa di Miriam. Che racconta: «Solo la certezza di essere amata da Cristo, mi ha reso capace di amare Natalina in questo modo. Per questo oggi sono piena di gratitudine per il rapporto che è nato con lei». Anche per Miriam: «Aria pura…».
(Davide Bartesaghi)


STUDIO INGLESE SUL FLOP DELLE CAMPAGNE PRO- CONTRACCETTIVI - Educare all’amore non al «porre rimedio» - GIACOMO S AMEK L ODOVICI – Avvenire, 28 luglio 2009
L’ agenzia Aceprensa ha riferito i dati di uno studio, pubblicato dalla rivista scientifica British Medical Journal, circa l’impatto delle politiche inglesi per la riduzione del numero delle gravidanze e degli aborti tra le adolescenti. Questi dati mostrano l’inefficacia della strategia adottata, incentrata sull’incentivazione dell’uso dei contraccettivi. L’effetto ottenuto, infatti, è stato opposto a quello sperato: tra le ragazze di 13­15 anni monitorate per 18 mesi dalla ricerca, quelle che hanno seguito tale programma 'educativo' ha intrattenuto relazioni sessuali precoci nel 58% dei casi, e il 16% di esse ha cominciato una gravidanza; quelle che non lo hanno seguito hanno invece avuto relazioni precoci nel 33% dei casi, e il 6% di esse ha cominciato una gravidanza.
Ovviamente ci saranno diverse cause di questo fallimento. Per esempio, non di rado, queste politiche associano ai contraccettivi un’idea erronea di 'sesso sicuro', quando invece la sua efficacia anticoncezionale non è totale e la difesa nei confronti dell’Aids è tutt’altro che assoluta. Avvenire, del resto, ha già riferito nei mesi scorsi di altri studi scientifici che mostrano come le politiche anti-Aids focalizzate sui preservativi non ne arrestino la diffusione che, anzi, a volte, aumenta: se si trasmette l’idea secondo cui essi danno una protezione assoluta, il risultato (lo ha scritto anche Lancet, un’autorevole rivista scientifica) è l’incentivazione dei rapporti sessuali precoci e disimpegnati, talvolta promiscui, seriali e consumistici.
Ma soprattutto – ecco il punto che ci preme sottolineare – in queste politiche emerge una concezione rinunciataria dell’educazione all’amore e all’affettività, che quasi (e talvolta totalmente) la riduce a mera istruzione sui mezzi per evitare gravidanze e infezioni. Così, molto raramente si insegna che l’amore è progetto, donazione, responsabilità, fedeltà e – in certi casi – rinuncia.
Non solo per il bene altrui, ma anche per il proprio. In questi programmi l’amore è descritto quasi come mera attrazione e/o impulso sessuale irresistibili – e la diffusione di questa idea è un’altra causa della precocità e del degradarsi dei rapporti sessuali stessi –, di cui si possono solo 'contrastare' le conseguenze.
Manca quasi sempre una visione integrale dell’educazione, quella per cui essa deve accompagnare l’interlocutore verso la sua fioritura.
La vera educazione è infatti maieutica, fa appello alla volontà altrui per aiutarla a fortificarsi e per educarla alla libertà, addita l’ideale di una signoria su stessi, sui propri desideri e impulsi, anche (ma non solo) sessuali, non per reprimerli, bensì per assecondarli in modo conforme al bene integrale della persona. Manca, in definitiva, l’idea classica di virtù, parola che oggi suona negativa, perché la si associa a un’autorepressione, quando invece la vera virtù assume le energie delle emozioni, degli affetti e delle passioni, realizza una sintesi con la ragione e con la volontà, porta tutti gli aspetti dell’essere umano a convivere armoniosamente tra di loro. Così, grazie a tale unità delle sue dimensioni, che cooperano verso il suo bene complessivo, l’uomo virtuoso è interiormente forte.
Non è vero che una tale educazione è inefficace. Infatti, programmi educativi di questo tipo sono stati adottati con successo in vari Paesi.
Per esempio negli Stati Uniti: nei luoghi dove sono stati applicati, il numero delle gravidanze precoci è calato del 38 % e quello degli aborti è sceso del 50%. O in Uganda, dove il tasso di infezione dell’Aids è sceso dal 21% al 6%.


«Urgente un fisco a misura di famiglia» - DA F IUGGI (F ROSINONE ) A UGUSTO C INELLI – Avvenire, 28 luglio 2009
« È arrivato il momento di costruire un’alleanza forte tra famiglia, lavoro e impresa per costruire insieme una società che sia realmente, e non solo a parole, a misura di famiglia » . È il professor Francesco Belletti, neo- presidente del Forum delle Associazioni Familiari, a racchiudere efficacemente in poche parole l’esito del dibattito sul tema « Un fisco per le famiglie » , tenutosi ieri nell’ambito del Fiuggi Family Festival. Belletti si rivolge in particolare ai rappresentanti dei sindacati nazionali che sono tra i protagonisti della tavola rotonda, moderata dal giornalista Tarcisio Tarquini, nella suggestiva cornice della Fonte Bonifacio VIII, che ospita la kermesse per la famiglia tra cinema, dibattiti e distensione. Il presidente del Forum raccoglie con soddisfazione la convergenza di intenti con le sigle sindacali ( assente giustificata la Cisl) registrata nel dibattito, auspicando che « anche i sindacati si spendano per uno Stato a misura di famiglia insieme con quell’associazionismo familiare che non vuole elemosinare assistenza con il cappello in mano » , ma chiede alla politica « di fare giustizia » , sostenendo chi, mettendo al mondo dei figli, offre alla società un contributo insostituibile. A tal fine, l’incontro del Fiuggi Festival ha ribadito la necessità di una decisa inversione di rotta del sistema fiscale, palesemente ingiusto con i nuclei familiari con figli, come rivendicato dalla recente raccolta di firme del Forum Famiglie. Un punto che ha trovato tutti d’accordo, anche in riferimento alle politiche fiscali di segno opposto messe in campo da altri Paesi europei. Così Alessandro Soprana, dell’Associazione Famiglie Numerose ( che nell’ambito della kermesse fiuggina sta tenendo la propria assemblea nazionale) denunciando l’insufficienza di provvedimenti legislativi avulsi da un più ampio progetto pro- famiglia, si è augurato che un giorno in Italia i beni e i servizi per i figli non siano più tassati. E se Riccardo Zelinotti, del Dipartimento politiche economiche della Cgil, ha puntato l’indice sulla carente cultura della legalità fiscale nel Paese e su un fisco che pesa sulle tasche di dipendenti e pensionati, Cristina Ricci, della segreteria confederale dell’Ugl, si è detta convinta della bontà dello strumento del quoziente familiare, da introdurre « almeno per gradi » . Sul valore sociale della maternità, tanto decisivo per la società quanto snobbato dai governi di ogni colore, ha insistito Nirvana Nisi, della segreteria della Uil, secondo la quale uno Stato che non voglia suicidarsi deve garantire l’efficienza di tutti quei servizi di cui ha bisogno la famiglia. Oggi al Family Festival, che ha registrato nelle prime tre giornate punte di duemila presenze, si parlerà del servizio dei consultori alla famiglia, con l’europarlamentare Carlo Casini e il senatore Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, delegato alle Politiche familiari. Il vice presidente della Camera Rocco Buttiglione, in visita alla manifestazione, ha detto che « questo è il tipo di famiglia più rilevante nel nostro Paese ed è bene che quei politici che pensano solo alle coppie di fatto se ne rendano conto » .
Al Festival di Fiuggi il presidente del Forum Francesco Belletti: «Anche i sindacati si spendano». E chiede alla politica di fare giustizia sostenendo chi, facendo figli, offre un contributo insostituibile alla società


Hanoi, 500mila cattolici in piazza - HANOI. - Avvenire 28, luglio 2009
Mezzo milione di cattolici vietnamiti sono scesi per le strade delle loro città per protestare contro le violenze compiute dalla polizia ai danni di centinaia di fedeli il 20 luglio, presso le rovine della chiesa di Tam Toa. Ne ha dato notizia l’agenzia “AsiaNews”. La diocesi di Vinh, 300 chilometri a sud di Hanoi,Vietnam, e altre limitrofe hanno organizzato 19 cortei, in altrettanti decanati, per chiedere l’immediato rilascio dei fedeli picchiati e arrestati delle forze dell’ordine a Tam Toa. . Circa 170 sacerdoti e 420 religiose hanno guidato le manifestazioni di protesta pacifica che si sono svolte in diverse località delle province di Nghe An, Ha Tinh e Quang Binh. Gli organizzatori affermano che in alcuni luoghi ci sono stati scontri tra polizia e gruppi di manifestanti ai quali le forze dell’ordine avevano intimato di non scendere per le strade in corteo. Nonostante le minacce, i fedeli hanno comunque sfilato, dando vita ad una manifestazione che alcuni definiscono la più grande mai avvenuta nel Paese per motivi religiosi. La vicenda di Tam Toa ed i cortei di domenica rinfocolano le tensioni tra il governo e la comunità cristiana vietnamita attorno alla disputa sulle proprietà della Chiesa confiscate da Hanoi. Il vescovo della diocesi di Vinh, sul cui terreno si trovano i resti della chiesa al centro della vicenda, ha accusato le autorità di Quang Binh, di nascondere la verità e di violare la legge. In una lettera inviata al governo locale, la Chiesa di Vinh chiede il rilascio dei cattolici arrestati a Tam Toa, le cure mediche dei feriti picchiati dalla polizia e la restituzione della croce e degli arredi liturgici.


Pechino, Erode invisibile - INTERVISTA. Il dissidente cinese Wu, ospite al prossimo Meeting di Rimini: «Troppo silenzio sulla criminale politica del figlio unico» - DI L ORENZO F AZZINI – Avvenire, 28 luglio 2009
Q uattrocento milioni di per­sone in meno. A tanto as­sommano i 'risultati' della politica demografica in Cina, in corso da un trentennio. Lo denun­cia un noto dissidente cinese, Harry Wu, direttore della Laogai Founda­tion ed esiliato a Washington. Wu, conosciuto per il suo Controrivolu­zionario
(San Paolo) dove ha rievo­cato gli anni nei lager maoisti, sarà ospite del Meeting di Rimini interve­nendo – domenica 23 agosto – all’in­contro 'Tien An Men: la Cina vent’anni dopo'. Ha dato appena pubblicato Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina (Gue­rini, pagine 185, euro 21,50), docu­mento suffragato da testimonianze di prima mano e da confessioni di ex funzionari di Pechino addetti all’illi­berale politica demografica del gi­gante asiatico.
Signor Wu, qual scoperta l’ha colpi­ta di più studiando la prassi del fi­glio unico in Cina?
«La libertà di generare un figlio è u­no dei diritti umani fondamentali.
Infrangerlo, come il governo cinese sta facendo da trent’anni con meto­di coercitivi e brutali come l’aborto e le sterilizzazioni compiute con la violenza, è una delle violazioni più gravi dei dritti umani mai compiute da Pechino. Il rafforzamento della politica del figlio unico rappresenta non solo un notevole affronto alla dignità delle donne ma contribui­sce anche a diversi problemi sociali e demografici, compresa la rapidità nell’invecchiamento della popola­zione e uno squilibrio tra i sessi, nonché un crescente traffico di donne e bambini. Ciò che mi ha maggiormente colpito è la vastità con cui è portata avanti tale prassi.
In base alle cifre dello stesso gover­no, la politica del figlio unico ha la responsabilità di aver ridotto di cir­ca quattrocento milioni la popola­zione cinese».
Nel suo libro si leggono racconti drammatici di infanticidi compiuti dalle autorità pubbliche cinesi nei confronti dei bambini «che non do­vevano nascere». La società civile del suo Paese non è interessata a queste cruenti violazioni del diritto alla vita?
«La politica del figlio unico rimane estremamente impopolare nelle zo­ne rurali della Cina dove risiede la maggioranza della popolazione: qui è abbastanza forte il desiderio di a­vere una famiglia numerose in modo da poter lavorare i campi e da avere persone che si prenderanno cura dei genitori da anziani. Certamente i funzionari pubblici che si impegna­no in aborti o sterilizzazioni forzate possono instillare un grande senti­mento di risentimento nella comu­nità, ma le vittime hanno pochi aiuti disponibili. La stampa non ha il per­messo di riferire questi abusi, così molti cittadini non conoscono tutti i dettagli di come venga attuata la po­litica demografica del governo. Alcu­ni individui coraggiosi stanno cer­cando di mettere fine a queste vio­lenze. Il più noto è Chen Guang­chen, un avvocato cieco che ha for­nito assistenza legale alle vittime di una massiccia campagna di steriliz­zazione forzata nella contea di Linyi nel 2005. Ma, sfortunatamente, Chen è stato condannato a quattro anni di prigione per colpa dei suoi sforzi: ancor oggi è in prigione».
La 'libertà di maternità' in Cina viene considerata un tema impor­tante dalle Ong umanitarie?
«In verità questo problema non rice­ve una grande attenzione da parte delle organizzazioni occidentali, o almeno non come avviene per altri diritti umani. Ma le violenze legate alla politica del figlio unico sono sta­te ben documentate e il nodo è stato sollevato in diverse udienze al Con­gresso americano dedicate ai diritti umani in Cina. Gli addetti alla pro­paganda del governo di Pechino hanno cercato di 'coprire' il proble­ma suggerendo l’idea che gli aborti o le sterilizzazioni vengono fatte solo in maniera volontaria, cosa assoluta­mente falsa. Ma questo lavoro ha a­vuto alcune conseguenze e potrebbe essere in parte responsabile del per­ché su tale questione tema non ci sono molto proteste. Posso dire che sono rimasto sorpreso dal fatto che il sistema di controllo demografico coercitivo in atto in Cina non abbia 'scaldato' la gente negli Stati Uniti.
Questo è strano: gli aborti forzati rappresentano un problema che su­pera i fronti ' pro life' e ' pro choice '.
Spero che più gente si interesserà a questo problema: esso riguarda la nostra comune umanità».
Il suo saggio riferisce la notizia che la popolazione cinese sta invec­chiando e che l’indice di fertilità (1,8 figlio per donna) è inferiore a quello di sostituzione demografica. Secon­do lei Pechino cambierà strategia?
«Il governo dovrà modificare la poli­tica del figlio unico almeno in alcuni punti. Altrimenti ci saranno impatti disastrosi sulla società e l’economia cinese, nonché sui grandi risultati e­conomici che rappresentano l’unica reale fonte di legittimità del partito comunista come soggetto di gover­no. Lo scorso anno erano girate voci che il governo fosse pronto a rivede­re la legge ma i funzionari del settore demografico hanno costretto il Parti­to a restare sulle vecchie posizioni.
Tanto che è stato ribadito che l’at­tuale politica resterà valida per altri dieci anni. Questo però dimostra che all’interno del potere comunista esiste un dibattito e forse esistono voci più liberali che chiedono un cambiamento».
«Per il regime sterilizzazioni e aborti sono sempre 'libere scelte' delle donne, ma non è vero: l’enorme malcontento non trova voce. E intanto si va verso la crisi demografica»


In difesa di Pio XII - Tra i sussurri e le grida la verità della storia - di Roberto Pertici - Università di Bergamo – L'Osservatore Romano, 28 Luglio 2009

Un problema percorre molti saggi compresi nel volume In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia (a cura di Giovanni Maria Vian, Venezia, Marsilio, 2009, pagine 168, euro 13): il mutamento di giudizio sulla figura di Pio XII, sul suo atteggiamento durante il secondo conflitto mondiale e di fronte allo sterminio degli ebrei europei, che si verificò intorno al 1960. Il punto di svolta è costituito dalla rappresentazione berlinese di Der Stellvertreter di Rolf Hochhuth, il 20 febbraio 1963: il dramma sarebbe stato in seguito messo in scena a Londra il 25 settembre, a New York il 26 febbraio 1964 e a Roma il 13 febbraio 1965 e poi pubblicato un po' in tutte le lingue. Fino ad allora - si ripete - i giudizi erano stati generalmente positivi, spesso molto positivi, anche da parte dei principali esponenti dell'ebraismo internazionale e dello Stato d'Israele.
È vero: chi, per fare solo un esempio, ripercorra i dibattiti dell'Assemblea costituente italiana, si imbatte di continuo in ampi riconoscimenti all'operato della Chiesa cattolica negli ultimi anni del fascismo, in quelli della guerra e poi dell'occupazione nazista: "Perché in Italia c'è la pace religiosa? - si chiedeva forse il massimo esponente del laicismo italiano di allora, l'azionista Piero Calamandrei nel suo discorso del 20 marzo 1947 contro l'articolo 7 - Perché a un certo momento, negli anni della maggiore oppressione ci siamo accorti che l'unico giornale nel quale si poteva ancora trovare qualche accenno di libertà, della nostra libertà, della libertà comune a tutti gli uomini liberi, era "L'Osservatore Romano"; perché abbiamo sperimentato che chi comprava "L'Osservatore Romano" era esposto ad essere bastonato; perché una voce libera si trovava negli "Acta diurna" dell'amico Gonella; perché, quando sono cominciate le persecuzioni razziali, la Chiesa si è schierata contro gli oppressori (Approvazioni) in difesa degli oppressi; perché quando i tedeschi ricercavano i nostri figliuoli per torturarli e fucilarli, essi, qualunque fosse il loro partito, hanno trovato rifugio - ve lo attesta un babbo - nelle canoniche e nei conventi".
Tuttavia già in quegli anni si erano introdotte note dissonanti: molto attiva in tal senso fu la propaganda sovietica, che aveva iniziato a produrre decine di opuscoli contro la politica vaticana degli anni Venti e Trenta e durante il conflitto appena trascorso, presentandola tutta in blocco come connivente con i fascismi e poi in qualche modo complice della progettata egemonia nazista. Sembra che la maggior parte delle tesi poi drammatizzate ne Il vicario fossero rinvenute da Hochhuth nel volume dello storico sovietico Mikhail Marcovich Scheinmann, Der Vatikan im zweiten Weltkrieg, pubblicato in russo dall'Istituto storico dell'Accademia sovietica delle scienze e tradotto poi in tedesco (1954) e anche inglese (1955).
Scheinmann non era ignoto al pubblico italiano: la sua opera precedente, Il Vaticano tra due guerre, era stata pubblicata dalle Edizioni di cultura sociale - una delle case editrici del Pci - nel 1951, con una prefazione dello storico Giorgio Candeloro, che allora era militante comunista.
A cosa era dovuta questa massiccia campagna antivaticana? I dirigenti dell'Urss avvertivano nell'anticomunismo di Pio XII uno dei principali ostacoli alla loro politica, al tempo stesso minacciosa e suadente, verso l'Europa occidentale; ma sicuramente c'era anche dell'altro. Nel suo saggio, Paolo Mieli parla di "cattiva coscienza", cioè del tentativo da parte della dirigenza sovietica di occultare le proprie gravi responsabilità di fronte alla politica di sterminio portata avanti dai nazisti, in primo luogo nell'Europa orientale. È ormai stato documentato che in tutti i discorsi pubblici da lui pronunziati durante la guerra, Stalin citò gli ebrei una sola volta, ignorando in modo sistematico le violenze dei nazisti nei loro confronti. Nei quasi due anni che vanno dall'invasione tedesca della Polonia all'inizio dell'operazione Barbarossa nel giugno del 1941, la stampa sovietica - in questo periodo l'Urss era praticamente alleata con Hitler - evitò qualsiasi resoconto su ciò che stava accadendo agli ebrei nella Polonia occupata dai nazisti. In questo modo gli ebrei sovietici restarono nella più completa ignoranza sul destino che sarebbe toccato loro in sorte e la natura specifica della violenza razziale - anche nel momento in cui dilagava sul territorio sovietico - fu minimizzata. Di recente un acuto storico inglese come Michael Burleigh ha sottolineato la trascuratezza della storiografia nei confronti delle risposte sovietiche alla Shoah, se paragonata alla vastità della letteratura dedicata alle nazioni neutrali e alle democrazie occidentali - e, possiamo aggiungere, alla Santa Sede.
Ancora Mieli aggiunge che la "leggenda nera" di Pio XII non è nata nell'ambiente ebraico, ma in quello anglosassone e protestante: anch'esso aveva tardato a prendere coscienza di quanto stava accadendo in Europa. Il cosiddetto telegramma Riegner dell'8 agosto 1942, che forniva le prime informazioni - sia pure in modo ancora ipotetico - sulla "soluzione finale" fu accolto con grande scetticismo dall'establishment americano, che solo nel dicembre successivo si decise a una prima dichiarazione nel merito. Ma mi è capitato di leggere di recente l'autobiografia di uno dei più diretti collaboratori di John Fitzgerald Kennedy negli anni della sua presidenza, lo storico Arthur M. Schlesinger jr., che conferma tali incomprensioni: l'Office of Strategic Service, presso cui lavorava dopo il 1943 in qualità di analista politico, si pose il problema di cosa fosse la "soluzione finale", senza arrivare a vere conclusioni e limitandosi ad una considerazione in termini di semplice "persecuzione" e non di "sterminio": "Forse - ricorda Schlesinger - eravamo talmente assorbiti dalla sordida minaccia della guerra, che non ci focalizzammo su questo inesprimibile abominio. È anche possibile che l'idea di uno sterminio di massa fosse così al di là della normale capacità di comprensione degli americani di impedirci istintivamente di credere alla sua esistenza".
Se ormai è abbastanza noto il ruolo che ha svolto del denunziare i cosiddetti "silenzi" di Pio XII una serie di cattolici "inquieti" nei primi anni del dopoguerra - esiste in merito un saggio di Giovanni Maria Vian che documenta le posizioni di Mounier e di Mauriac in Francia, in Italia di Carlo Bo - va ricordato che tali temi emersero largamente anche nelle grandi polemiche anticlericali che si svilupparono in Italia negli ultimi anni del pontificato pacelliano: le ritroviamo, per esempio, nel noto volume di Ernesto Rossi, Il manganello e l'aspersorio del 1957.
Ma perché questi "sussurri" diventarono "grida" dopo il 1963? Il dramma di Hochhuth è di lettura impervia e, se rappresentato integralmente, di una durata sterminata - in Italia, Gianmaria Volonté dovette operare numerosi tagli per renderlo digeribile. In un dibattito parlamentare del marzo del 1965, un laico come il liberale Giovanni Malagodi ebbe a definirlo "un dramma teatrale grossolano nella sua natura". Come mai allora il suo impatto fu così devastante? Perché nel frattempo si era verificato un decisivo mutamento di sfondo culturale, che avrebbe condizionato tutto il dibattito successivo. Non c'è dubbio che il processo Eichmann, svoltosi negli anni immediatamente precedenti, aveva riproposto di fronte a tutta l'opinione pubblica internazionale - specialmente alle generazioni che non avevano conosciuto la guerra - la tragedia dello sterminio e quindi dato una nuova centralità alla Shoah. Ma soprattutto si stava allora affermando nei Paesi dell'Europa occidentale e negli Usa una cultura che possiamo definire - con mille virgolette - "progressista", che tracciava una determinata linea di progresso nella storia, individuando nel contempo le forze che premevano in quella direzione e quelle che vi facevano resistenza.
Questa nuova cultura si basava essenzialmente su un giudizio intorno alla storia contemporanea, che possiamo così sintetizzare: tutto il vecchio mondo è confluito nei fascismi; la loro liquidazione definitiva comporta anche una resa dei conti con quei valori e con quelle strutture "tradizionali" che ad essi hanno dato appoggio o, comunque, ne hanno favorito l'ascesa. In questo contesto Il vicario di Hochhuth finiva per non riguardare soltanto Pio XII: esso metteva in discussione il ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nell'intera storia del Novecento, contribuendo potentemente a mutare l'opinione fino ad allora prevalente.
Negli stessi anni - ci sono in merito osservazioni importanti nei saggi di Andrea Riccardi e dello stesso Vian - un'operazione parallela a questa veniva svolta da alcuni ambienti che potremmo chiamare - anche qui le virgolette sono d'obbligo - di "progressismo cattolico": il problema dei "silenzi" di Pio XII rientrava nella più generale questione costituita - a giudizio di questi ambienti - dal favore che la Chiesa avrebbe accordato ai movimenti fascisti. Esso non poteva essere considerato - si sosteneva - come un fatto accidentale, senza ragioni lontane. Ne emergeva una visione critica della storia della Chiesa in età moderna, nella quale si cominciava a vedere essenzialmente un limite: l'istituzione ecclesiastica si sarebbe posta generalmente dalla parte della "reazione", per cui le sue illusioni rispetto al fascismo altro non sarebbero state che la conclusione di un lungo processo. Questo errore corrispondeva, nelle sue radici ultime, a un difetto teologico che risaliva alla riforma cattolica e al concilio di Trento: da qui la necessità di una complessiva rifondazione teologica ed ecclesiale e le speranze nel concilio Vaticano ii. Anche su queste basi nasce quell'"ermeneutica della discontinuità" nella valutazione del concilio, di cui tanto si è discusso in questi ultimi anni. Insomma la posta in gioco nei dibattiti su Pio XII è - come si vede - assai rilevante: s'intende perché da allora la bibliografia sulla sua figura sia diventata sterminata e difficilmente controllabile da qualunque studioso. Quale contributo fornisce, allora, questo volume?
Innanzitutto sarebbe fuor di luogo chiedergli nuova documentazione o prospettive di ricerca radicalmente innovative: si tratta - come ha dichiarato il suo curatore - di una raccolta di testi di alta divulgazione pubblicati precedentemente su "L'Osservatore Romano" e poi spesso riscritti o rielaborati dai diversi autori - a essi sono aggiunti alcuni importanti interventi di Benedetto XVI sulla figura di Papa Pacelli e sul suo ruolo nella storia del Novecento. Ciò non toglie che ne emergano tutta una serie di suggestioni degne di nota: nell'attività storiografica, il corretto ragionamento è altrettanto importante del momento della ricerca documentaria.
Il saggio di Andrea Riccardi offre un'ampia riflessione sulle varie fasi dell'attività e del magistero di Eugenio Pacelli prima e poi di Pio XII, accennando a un tema da lui sviluppato anche altrove - per esempio nell'introduzione al suo ultimo libro L'inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma - e che a me pare assai rilevante nel nostro discorso: quello della debolezza "politica" della Chiesa in un mondo di Stati, lacerato dai nazionalismi. Una Chiesa solo apparentemente forte, ma politicamente non è mai tale, poiché non controlla nessun territorio e deve fare i conti con poteri in loco, spesso di carattere autoritario o totalitario. Questa - per lo storico - è la sua realtà nel lungo periodo, oltre i miti in un senso o nell'altro.
Chi ragiona della politica di Pio XII dal 1939 al 1945 non può prescindere da questo sfondo: deve condurre un'analisi differenziata dei vari contesti europei, in relazione ai vari episcopati, alle personalità dei nunzi e alla natura dei governi di fronte ai quali ebbe a trovarsi l'azione della Santa Sede. Mentre per il Vaticano fu praticamente impossibile esercitare una qualche forma di influenza laddove i nazisti avevano un dominio diretto - quindi in Olanda, in Belgio, nella Francia occupata, in Polonia, in Ucraina, nella Russia conquistata, oltre che naturalmente in Germania - in alcuni degli Stati satelliti del Terzo Reich - specie se dichiaratamente confessionali - e in alcuni degli Stati alleati di Hitler, i suoi interventi un qualche risultato lo ottennero: talora riuscirono a posporre o a ritardare la deportazione di centinaia di migliaia di ebrei una parte dei quali nel frattempo poté essere salvata.
Nella Slovacchia governata dal discusso monsignor Jozef Tiso, fra l'ottobre 1942 e l'autunno 1944 la deportazione venne sospesa per le continue pressioni del nunzio Giuseppe Burzio e della segreteria di Stato vaticana: si tratta di un caso pressoché unico nella storia della Shoah. Discriminati ma non deportati furono anche gli ebrei ungheresi, almeno finché restò al governo il protestante Miklós Horthy (cioè sino al 23 marzo 1944) e anche qui è nota l'azione svolta, prima e dopo quella data, dal nunzio monsignor Angelo Rotta. Minore smalto ebbe probabilmente l'intervento della Santa Sede nella Francia di Vichy, ma resta il fatto che l'ebraismo francese - con quello italiano - è stato uno di quelli che percentualmente sono stati meno devastati dalla persecuzione nazista e che questo fu dovuto a un "contesto", in cui la presenza ecclesiastica ebbe un notevole peso.
È merito di una serie di contributi quello di ricercare un approccio "totale" alla figura di Pio XII, la cui attività e il cui pensiero non possono essere limitati agli anni del secondo conflitto mondiale, ma valutati in tutta la loro complessità, dai primi passi del giovane monsignore romano fino alla fine degli anni Cinquanta - una prospettiva aperta da Riccardi negli anni Ottanta e continuata, per esempio, da Philippe Chenaux nella sua biografia del 2003.
Così l'arcivescovo Rino Fisichella cerca di sintetizzare la risposta pacelliana alle sfide della "modernità", nella consapevolezza che essa non è un valore in sé, ma appunto una sfida a cui rispondere in modo articolato e consapevole di una tradizione, che non può essere dismessa. La "cultura" - compatta ed enciclopedica - di Pio XII è saggiata da diverse prospettive dall'arcivescovo Gianfranco Ravasi, che ricorda - fra i tanti spunti del suo saggio - il discorso del 6 dicembre 1953 all'Unione dei giuristi cattolici italiani, in cui offrì una teorizzazione della tolleranza religiosa, che prelude in qualche modo ai documenti conciliari.
Il cardinale Tarcisio Bertone ripercorre l'azione diplomatica di Pacelli nunzio, segretario di Stato e romano pontefice. Anche qui mi limito a un'osservazione: Bertone sottolinea l'importanza del viaggio negli Stati Uniti che il cardinale Pacelli compì nell'autunno del 1936 (Carissimo Cardinali suo Transatlantico Panamerico Eugenio Pacelli feliciter redenti: questa fu la dedica che Pio XI gli fece al suo ritorno). Nonostante la massa documentaria messa a disposizione dal volume di Ennio Di Nolfo del 1978, forse non si è ancora messa del tutto a fuoco l'importanza del precoce vincolo fra Pacelli e gli Usa - Chenaux parla di "alleanza morale" fra la Santa Sede e gli Stati Uniti nel decennio successivo. Non è un problema indifferente al nostro discorso: gli Usa di Roosevelt sono un altro mondo rispetto alla Germania di Hitler e - direi - all'Europa continentale per lo più in mano a Stati autoritari. Qualcosa cambia nelle coordinate di fondo del cardinale romano, nella sua complessiva visione dei problemi mondiali. Il segretario di Stato ricavò una forte impressione dalla realtà americana, dal suo "dinamismo" e dalle sue potenzialità: cominciò a prender coscienza di un modello di società diverso da quello tedesco, con cui aveva avuto, da sempre, profonda familiarità.
Dopo la guerra, Pio XII non divenne - lo si ripete anche in questo volume - il "cappellano dell'Occidente", ma indubbiamente fu una delle voce più notevoli del vario anticomunismo europeo. Anche a questo proposito credo che ci si debba liberare da un certo anti-anticomunismo, residuo culturale degli anni Sessanta e Settanta. L'anticomunismo - come d'altronde l'antifascismo - fu un movimento estremamente variegato nei temi, nei punti di riferimento culturale e nelle prospettive politiche: esso quindi deve essere disaggregato e valutato nelle sue varie componenti. Ma riprendendo il titolo di un noto libro di John Lewis Gaddis, We now know: dopo l'apertura degli archivi sovietici, è difficile imputare - per fare solo un esempio - ai vescovi tedeschi di avere fortemente sostenuto la politica atlantica ed europeista di Adenauer, resistendo alle sirene neutraliste e pacifiste di Stalin - e ciò in piena sintonia con le indicazioni del Papa.
Infine questo volume testimonia la possibilità di un fecondo incontro fra la cultura cattolica e quella ebraica anche su questi temi spinosi. Particolarmente toccanti sono le pagine di Saul Israel che vi vengono ripubblicate: si tratta di riflessioni e ricordi dell'"ebreo di Salonicco", come lo chiamava Arturo Carlo Jemolo, nate nel convento di Sant'Antonio in via Merulana nell'aprile del 1944, dove riuscì a salvarsi dalla persecuzione nazista. Ancora Israel aveva rievocato, in un saggio apparso su "Studium", nell'ottobre 1950, la figura di Giulio Salvadori e il suo rapporto aperto e simpatetico con la tradizione ebraica: il poeta dell'"umile Italia" fa parte di una linea di filosemitismo, che - sia pure minoritaria - è presente nel cattolicesimo italiano degli ultimi due secoli e che deve essere ricuperata e adeguatamente valutata.
Si è cominciato a farlo col recente volume di Valerio De Cesaris, Pro Judaeis, ma molte figure devono essere ancora recuperate: senza questo retroterra, è difficile capire fino in fondo lo "Spiritualmente siamo tutti semiti" del lombardo e manzoniano Achille Ratti.

(©L'Osservatore Romano - 27-28 luglio 2009)