Nella rassegna stampa di oggi:
1) PICCOLE POLEMICHE E GRANDI GESTI - CAMMINO DI RICONCILIAZIONE CHE NESSUNO FERMERÀ - LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 19 gennaio 2010
2) L’inferno di Haiti e il Paradiso - Antonio Socci - Da “Libero”, 16 gennaio 2010
3) Il Meeting di Rimini arriva a New York - Un festival culturale di due giorni a Times Square
4) Iraq: un altro cristiano ucciso a 24 ore dall'ultimo omicidio - La comunità cristiana sempre più vittima della violenza
5) Prova d'amore per salvare il matrimonio - Un film ed un libro per evitare separazioni e divorzi - di Antonio Gaspari
6) Il Papa conversa con il biblista e rabbino statunitense Jacob Neusner - Vecchi amici epistolari, il Pontefice lo cita nel suo libro su Gesù - di Jesús Colina
7) TERREMOTO HAITI/ Il racconto: la gioia più grande? Ritrovare un bambino - Redazione martedì 19 gennaio 2010 - Continua la testimonianza di Fiammetta Cappellini, cooperante Avsi ad Haiti. La difficoltà di gestire l’emergenza rimane grande, come quella di ritrovare le persone. Prevale una sensazione generale di impotenza. E i bambini sono sempre i più colpiti. «Le adozioni? Meglio tendere ad aiutarli qui». – ilsussidiario.net
8) TERREMOTO HAITI/ Zorzi (Avsi): il crollo più grave è quello della speranza, l’Italia può fare molto - Redazione giovedì 14 gennaio 2010 – ilsussidiario.net
9) Il segreto di Chesterton secondo Ubaldo Casotto - Come la meraviglia vanificò l'agguato del nulla L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010
10) La Chiesa in Pakistan si oppone alla sentenza del tribunale - Cristiano condannato all'ergastolo per blasfemia L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010
11) Emilia Romagna: «Aborto chimico in day hospital» - DA BOLOGNA S TEFANO A NDRINI – Avvenire, 20 gennaio 2010
PICCOLE POLEMICHE E GRANDI GESTI - CAMMINO DI RICONCILIAZIONE CHE NESSUNO FERMERÀ - LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 19 gennaio 2010
I l coraggio e l’umiltà non vanno spesso a braccetto ma domenica scorsa sono apparsi insieme allorché, per la seconda volta nella storia, un Pontefice ha fatto visita alla grande sinagoga di Roma. Un incontro carico di valenze simboliche, per la data che ricorda l’assalto al ghetto e per le soste ai luoghi di una dolorosa memoria che il Papa ha voluto significativamente compiere prima d’entrare nel Tempio Maggiore degli ebrei romani. Un incontro intenso, cordiale e affettuoso, punteggiato da frequenti applausi in un clima di palpabile commozione ma anche di grande schiettezza. «Un momento di grazia» l’ha definito Benedetto XVI che ha rilanciato il dialogo tra Chiesa ed ebraismo nonostante le differenze sostanziali, destinate a rimanere tali, e nonostante le polemiche riesplose recentemente su Pio XII il cui nome è risuonato in modo accusatorio nell’incontro alla sinagoga.
Il Papa non è sceso su questo terreno e ha di nuovo teso la mano al popolo dell’Alleanza con la tenera forza che è il tratto distintivo di questo pontificato dove la mitezza s’accompagna al rigore dottrinale. Il gesto compiuto da Papa Ratzinger s’inscrive nel solco tracciato ventiquattro anni fa dal suo predecessore che, primo Pontefice in duemila anni, mise piede in una sinagoga. Un evento nel segno della continuità che però non significa pura e semplice ripetizione. La visita di Giovanni Paolo II abbatté il muro dell’ostilità e dell’incomunicabilità che duravano da duemila anni. Ma dopo la caduta di antiche barriere occorre costruire nuovi ponti, ed è all’interno di questo lungo e laborioso lavoro di riconciliazione che assume grande importanza l’incontro di Benedetto XVI con la più antica comunità ebraica della diaspora occidentale. Il Papa tedesco ha ripetuto con toni accorati l’appello a «sanare per sempre le piaghe dell’anti-semitismo e dell’antigiudaismo ». Ha sciolto il ghiaccio del sospetto e della diffidenza alzandosi in piedi, prima di tutti gli altri, per rendere omaggio ai sopravvissuti della Shoah. Ha confermato ancora una volta di nutrire sentimenti sinceri di stima ed amicizia per il popolo ebreo. E definendo «irrevocabile » la linea del dialogo tracciata dal Concilio ha rassicurato i suoi interlocutori, a cominciare dal rabbino capo Di Segni che aveva sollevato l’interrogativo nel suo discorso di saluto.
Contro il rischio di rimanere prigionieri del passato Benedetto XVI, più che a guardare in avanti, invita ad alzare lo sguardo verso l’alto, «riconoscendo l’unico Signore». Il Papa-teologo ha richiamato cattolici ed ebrei a ritrovare nella Bibbia il fondamento più solido e perenne, ricordando, come aveva già fatto nel suo viaggio in Terra Santa, che il legame di solidarietà fra Chiesa e popolo ebraico non è un fattore estrinseco ma si colloca «a livello della loro stessa identità spirituale ». E ha indicato nel Decalogo il faro per tutta l’umanità. È in questa prospettiva che il Papa ha delineato con accenti innovativi una sorta d’agenda di lavoro, un impegno comune per quanto riguarda la tutela della vita, la difesa della famiglia e la protezione dell’ambiente.
Benedetto XVI è il Papa che ha visitato più sinagoghe, tre in cinque anni. Vorrà pur dire qualcosa. Quel che con Papa Wojtyla fu un gesto straordinario ed eccezionale, con Papa Ratzinger è diventato un atto pressoché tradizionale. È il segno tangibile di una riconciliazione che nessuno riuscirà a fermare.
L’inferno di Haiti e il Paradiso - Antonio Socci - Da “Libero”, 16 gennaio 2010
Basta un piccolo starnuto del pianeta, in un minuscolo francobollo di terra come Haiti, e sono spazzati via migliaia di esseri umani. Anche un microscopico virus è in grado di uccidere milioni di persone. Sono tutte manifestazioni di una stessa fragilità, di uno stesso destino. Tutti documenti della nostra misera condizione mortale.
C’è una sola “malattia”, trasmessa per via sessuale, che porta inevitabilmente alla morte l’umanità intera e non ha cure possibili. Non è l’Aids. Ne siamo affetti tutti, ad Haiti come qui. Si chiama: vita.
E’ una “malattia” anche stupenda (per questo la scrivo fra virgolette), è una “malattia” che amiamo, a cui stiamo attaccati con le unghie e con i denti. Ma solitamente non riflettiamo sulla sua natura effimera e quindi l’amiamo in modo sbagliato, dimenticando che dobbiamo scendere alla stazione e siamo destinati a un’altra dimora.
Quando arrivano grandi tragedie, personali o collettive, apriamo gli occhi sull’estrema fragilità della nostra esistenza e – svegliandoci – ci sentiamo quasi ingannati. Come se non sapessimo che siamo di passaggio.
Sì, siamo tutti malati terminali. Ma noi dimentichiamo di essere sulla soglia della morte dal primo istante di vita. Lo rimuoviamo.
Anzi, quasi tutto quello che facciamo ogni giorno ha questa segreta ragione: farci dimenticare il nostro destino, esorcizzare la morte, preannunciata dalla decadenza fisica, dalle malattie, dalla sofferenza, dal dolore altrui. Distrarci, come diceva Pascal: il “divertissement”.
Ormai la nostra mente è organizzata come un vero e proprio palinsesto televisivo: c’è la mezz’ora dedicata alla tragedia di Haiti dove magari si chiama a parlarne non i missionari, non organizzazioni come l’Avsi che da anni lavorano in quelle povere terre, ma Alba Parietti e Cristiano Malgioglio. Poi, subito dopo, il telecomando passa ai quiz, alle ballerine sgallettanti, alle chiacchiere (politica o sport) eccetera.
Tutti modi – si dice – “per ingannare il tempo”. In realtà per ingannare noi stessi, per dimenticare il destino . Perché il nostro insopprimibile desiderio è di vivere sempre, è di essere felici, e ci è insopportabile l’idea della morte e dell’infelicità.
Così, anche quando parliamo seriamente di tragedie come quelle di Haiti, con la faccia compunta, tocchiamo tutti i tasti fuorché quello.
Parliamo dell’emergenza (e va bene), degli aiuti da mandare (e va benissimo), della miseria di quei luoghi (verissima), poi varie storie e considerazioni, finché uno guarda l’orologio perché deve andare al tennis, un altro sbircia il telefonino e un altro ancora sussurra al vicino “ma quand’è che se magna?”.
Ricomincia il tran tran. E gli affanni. E l’ebbrezza di essere padroni della nostra vita. E le illusioni. Eppure il più grande “filosofo” di tutti i tempi chiamò “stolto” colui che riempiva il suo granaio illudendosi di poterne godere all’infinito: “stanotte stessa ti sarà chiesta la tua anima…”.
Perché un giorno tutti dovremo rispondere dei nostri atti e di come abbiamo speso il nostro tempo. In quanto la vita è un compito. Anche se ormai gli stessi preti parlano raramente dell’Inferno e del Paradiso a cui siamo destinati.
Pensiamo che inferno e paradiso siano da fuggire o cercare qui sulla terra. “Haiti, migliaia in fuga dall’inferno”, titolava ieri la prima pagina della “Stampa”. Altri giornali raccontavano i “paradisi tropicali” dei turisti a pochi passi dall’orrore haitiano.
Solo la Chiesa ci dice che c’è un Inferno ben peggiore di Haiti (ed eterno) da cui fuggire. E un Paradiso da raggiungere, di inimmaginabile bellezza e gioia, in cui tutte le lacrime saranno asciugate.
Il solo conforto oggi di fronte all’enormità del dolore di tutta quella povera gente e di fronte a tanti morti, è proprio questo: sperarli (e pregare per questo) fra le braccia del Padre, finalmente nella felicità certa, per sempre.
Ma noi, davanti alla nostra stessa morte (che è certa, inevitabile), che speranza abbiamo? Proviamo a rifletterci. Per me la sola speranza autentica è in Colui che ha avuto pietà della sorte umana, Colui che ha il potere vero e che ripagherà ogni sofferenza con un felicità senza fine e senza limiti.
Per questo la Chiesa c’è sempre, dentro ogni prova dell’umanità, dentro ogni “inferno” terreno com’è Haiti (provate a leggere le testimonianze accorate da là dei missionari). C’è per portare agli uomini la compassione di Dio, la sua carezza, il suo aiuto e soprattutto per aprire le porte del suo Regno.
“Ti sei chinato sulle nostre ferite e ci hai guarito” dice un prefazio della liturgia ambrosiana “donandoci una medicina più forte delle nostre piaghe, una misericordia più grande della nostra colpa. Così anche il peccato, in virtù del Tuo invincibile amore, è servito a elevarci alla vita divina”.
E la cosa grande che ci porta Gesù, il Salvatore degli uomini, non è solo questa, ma la resurrezione, la vittoria sulla morte, cosicché nulla di ciò che abbiamo amato andrà perduto.
Diceva don Giussani: “Cristo risorto è la vittoria di Dio sul mondo. La sua risurrezione dalla morte è il grido che Egli vuole far risentire nell’animo di ognuno di noi: la positività dell’essere delle cose, quella ragionevolezza ultima per cui ciò che nasce non nasce per essere distrutto. ‘Tutto questo è assicurato, te lo assicuro, Io sono risorto per renderti sicuro che tutto quello che è in te, e con te è nato, non perirà’ ”.
Come si fa allora a non gioire, anche nelle lacrime? Come si fa a non affidarsi – anche nella tragedia – all’unico che salva?
Voglio dirlo con le parole di san Gregorio Nazianzeno: “Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei una creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 16 gennaio 2010
Il Meeting di Rimini arriva a New York - Un festival culturale di due giorni a Times Square
ROMA, martedì, 19 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Si è svolto a New York nell'ambito del "New York Encounter", un festival culturale aperto al pubblico e organizzato daComunione e Liberazione e dal Centro Culturale Crossroads.
Al centro del "New York Encounter" incontri su tematiche al centro del dibattito pubblico, ma anche rappresentazioni artistiche, mostre (con visite guidate), nonché stand ricchi di proposte sociali, culturali e professionali.
La manifestazione si è svolta presso il New York Marriot Marquis, a Times Square, il 16 e 17 gennaio scorsi.
In questo contesto, sabato 16 gennaio, è stato presentato il Meeting per l'amicizia tra i popoli, in un incontro dal titolo: "Meeting di Rimini. Un esempio straordinario di fede vissuta nella pubblica piazza", a cui hanno partecipato John Sexton, presidente della New York University, Brad Gregory, professore associato di storia all'università di Notre Dame, Emilia Guarnieri, presidente del Meeting, Daniel Sulmasy, professore di medicina ed etica presso l'università di Chicago, e Joseph Weiler, professore presso l'università di New York.
Domenica 17 gennaio si è svolto l'incontro sul tema "La carità: si può vivere così?", una discussione sulla natura e il fine della carità cristiana alla luce dell'opera di monsignor Luigi Giussani, "Si può vivere così? Volume III - Carità".
Il testo è stato pubblicato dall'università McGill - Queens. Al tavolo dei relatori si sono succeduti don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, Lorenzo Albacete, autore ed editorialista, e Stanley Hauerwas, teologo presso la Divinity School alla Duke University.
Sempre domenica 17 gennaio è stata eseguita "La passione di Giovanna D'Arco", una presentazione eccezionale del film muto di Dreyer, accompagnata dalla Metro Chamber Orchestra, diretta da Phil Nuzzo e accompagnata dal coro di Comunione e Liberazione diretto da Christhopher Vath, il quale ha messo in scena "Voices of Light" di R. Einhorn.
Lunedì 18 gennaio si è svolto l'incontro "Le parole e l'io. Come la letteratura ci aiuta a giudicare il mondo e la nostra esperienza" con Paul Elie, autore e editorialista presso Farrar, Straus & Giroux;
John Waters, giornalista presso l'Irish Times, autore e drammaturgo; Greg Wolfe, editore e redattore del giornale Image.
Nell'ambito delle attività di presentazione del Meeting di Rimini, martedì 15 dicembre, presso il Centro Internazionale di Comunione e Liberazione a Roma è stato presentato il libro "La conoscenza è sempre un avvenimento" edito da Mondadori Università, realizzato dalla Fondazione per la Sussidiarietà e curato da Alberto Savorana, con l'introduzione di Giorgio Vittadini e la prefazione di Emilia Guarnieri.
Nel volume oltre al messaggio di Benedetto XVI, sono riportati gli interventi di Carmine di Martino, Julián Carrón, Tat'jana Kasatkina, Vladimir Shmalyj, Fabrice Hadjadj, Rémi Brague, Robert George, Mary Ann Glendon, Antonio Maria Rouco Varela,Tony Blair, Amparito Espinoza, Joseph H. H. Weiler, Brad Gregory, Carl A. Anderson,Yves Coppens, John Mather, Charles Townes e Marco Bersanelli, Mario Draghi, Renato Schifani, Oscar Giannino e Giancarlo Cesana.
L'occasione è stata propizia per fornire un'anteprima della XXXI edizione del Meeting per l'amicizia fra i popoli.
Introducendo l'evento, Roberto Fontolan ha sottolineato come il Meeting sia una storia che prosegue tutto l'anno, inserita in una grande cornice di rapporti.
L'ambasciatore Antonio Zanardi Landiche, che ha incontrato il Meeting nel 2008 proprio in occasione della presentazione del libro di quell'anno, ha confidato di essere rimasto sbalordito dalla vivacità che è possibile incontrare a Rimini, stupito per la ricchezza e "la continua proposizione di idee nuove e interessanti, tanto da fungere come spunto per futuri incontri e da considerarsi punti di forza nella rappresentazione della cultura italiana all'estero".
A illustrare i contenuti del libro è stato Giorgio Vittadini, evidenziando in particolare come la ricchezza dell'esperienza e dei contenuti del Meeting trascenda il libro e come quello che avviene al Meeting sia più di quello che dicono le parole.
Ma proprio per poter conservare la ricchezza di quello che accade in quella settimana si è pensato di raccogliere i principali interventi all'interno di un libro che documenta, come "Persone con le idee e professioni più differenti - ha affermato cittadini - si trovano dentro ad un avvenimento".
"Ci siamo accorti - ha continuato - che questo incontro, apparentemente casuale, genera qualcosa di strano, una risposta al tema, un giudizio che sembra scritto in modo organico dall'inizio alla fine. Una ricchezza di contenuti innovativi che testimoniano una nuova cultura, una nuova modernità".
"Infatti - ha affermato Cittadini -, siamo all'inizio di una nuova era, abbiamo il coraggio di pensare ad un'altra idea di uomo (...), ad un'immagine di uomo che ha uno sguardo stupito, curioso, interessato di fronte alla realtà. Si riprende coscienza che questo uomo desideroso di verità, giustizia e bellezza scopre che la realtà gli risponde, che c'è un soggetto che desidera".
Emilia Guarnieri ha chiuso l'incontro tracciando i primi passi del cammino che conduce alla prossima edizione che si svolgerà a Rimini dal 22 al 28 agosto 2010 con il titolo: ‘Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore".
"Innanzitutto - ha sottolineato la Guarnieri - sono le amicizie a fungere da motore fondamentale per il Meeting e poi ci sono le suggestioni che il titolo riverbera".
"Non c'è niente di più semplice - ha osservato - che riconoscere la natura dell'uomo e muoversi a partire da questa" e "qualunque percorso nell'uomo è determinato, grazie a Dio, da questa tensione per le cose grandi ed è interessante individuare le prospettive che nascono da queste suggestioni".
"L'attesa dell'uomo è fatta per incontrare qualcuno - ha concluso la presidente del Meeting -, l'uomo è fatto per quello che desidera, per le stelle. Le stelle vengono incontro all'uomo, Dio viene incontro all'uomo".
Iraq: un altro cristiano ucciso a 24 ore dall'ultimo omicidio - La comunità cristiana sempre più vittima della violenza
ROMA, martedì, 19 gennaio 2010 (ZENIT.org).- A meno di 24 ore dall'omicidio di un 52enne siro-cattolico di Mosul (cfr. ZENIT, 18 gennaio 2010), la comunità cristiana irachena piange un'altra vittima.
Questo lunedì è stato infatti ucciso a colpi di pistola da un gruppo non identificato Amjad Hamid Abdullahad, un siro-cattolico di 45 anni.
La notizia è stata diffusa dall'agenzia AsiaNews, che sottolinea come alcuni testimoni abbiano riferito che “l’omicidio è avvenuto davanti alle forze di sicurezza, che hanno osservato tutte le fasi dell’attacco, ma non sono intervenute”.
Fonti dell'agenzia a Mosul hanno spiegato che “il Governo attribuisce gli attacchi ai fondamentalisti di al Qaeda”, ma in realtà la comunità cristiana è vittima “della lotta fra i gruppi di potere” arabi e curdi.
Abdullahad era proprietario di un piccolo negozio di alimentari nel quartiere di Alsiddiq, nella zona nord di Mosul. E' stato ucciso davanti alla sua casa, nel quartiere di Balladiyat, poco distante dal negozio.
Un cattolico di Mosul ha dichiarato che “la tattica è assassinare i cristiani, perché i media non ne parlano”.
I cristiani, denunciano le fonti di AsiaNews, “vivono nel panico” e la gente ha iniziato “la fuga dalla città”. Dietro a questi attacchi, sottolineano, non ci sono “criminali normali”, ma “precisi piani politici” non contrastati dal Governo.
Prova d'amore per salvare il matrimonio - Un film ed un libro per evitare separazioni e divorzi - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 19 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il fenomeno della dissoluzione matrimoniale si va sempre più diffondendo. In Italia ogni anno si contano, tra separazioni e divorzi, oltre 130 mila nuovi casi (356 ogni giorno).
Secondo i dati Istat del 2007, ci sono state 81.359 separazioni (+1,2% rispetto al 2006) e 50.669 divorzi (+2,3%). I figli coinvolti sono 100.252 nelle separazioni e 49.087 nei divorzi.
Insieme alle sofferenze, a disagi, alle spese, quello che fa più impressione è il disfacimento del tessuto sociale.
Per far fronte a questa emorragia, la Chiesa Cattolica ha da anni attivato una pastorale per i divorziati e sta lavorando sodo nella preparazione al matrimonio.
Intervistato da ZENIT don Marcello di Fulvio, responsabile dell'ufficio comunicazioni sociali della Diocesi di Palestrina, ha spiegato che nel lavoro di educazione e formazione è stato molto utile la proiezione del film "Fireproof. Non abbandonare mai il tuo partner" e la lettura del libro "La sfida dell'amore" (Editrice Uomini Nuovi).
Il film, uscito nelle sale in Italia lo scorso luglio, e ora disponibile anche in formato Home Video, racconta la storia di Caleb Holt, un vigile del fuoco, il quale vive tenendo sempre in mente una massima del padre: "Mai lasciare indietro il tuo compagno".
Mentre si prodiga per salvare vite umane, Caleb non è abbastanza sensibile e gentile per salvare il suo matrimonio, che dopo sette anni rischia di naufragare.
In maniera assolutamente veritiera il film mostra i litigi tra Caleb e sua moglie Catherine. I due sembrano non comprendersi più, ed anche quando Caleb su consiglio del padre si comporta più gentilmente, Catherine, tentata da un medico, non riesce a capirlo.
A questo punto la "Prova del fuoco" diventa una sfida ad amare di più.
Consigliato e sfidato dal padre, Caleb non accetta l'idea della separazione e del successivo divorzio, si mette in gioco e comincia a seguire un programma di 40 giorni, come dettato dal libro "La sfida dell'amore".
Una sorta di educazione all'amore gratuito e incondizionato, con la pratica di esercizi quotidiani per contrastare il proprio egoismo e sviluppare una più vasta capacità di amare.
Nonostante gli sforzi di Caleb, a causa di equivoci e tentazioni, Catherine respinge continuamente le attenzioni di suo marito e arriva a chiedergli il divorzio.
Ma proprio nel momento più duro Caleb trova la fede, si rinnova, gode del sostegno dei suoi genitori che lo spingono a non mollare e a migliorarsi, fino ad arrivare al lieto fine, con i due che scoprono di amarsi più di quando si erano sposati.
Quando è uscito negli Stati Uniti, Fireproof ha fatto segnare un incredibile esordio, con oltre due milioni di dollari incassati al suo primo giorno di programmazione, avendo a disposizione meno di 900 sale.
Il film è scritto e diretto da Alex Kendrick, un pastore battista, regista di Affrontando i Giganti", un altro film che nel 2006, pur essendo costato appena 100,000 dollari, riuscì ad incassare negli Usa ben 10 milioni di dollari.
Don Marcello di Fulvio ha detto a ZENIT di essere rimasto colpito da come il film e il libro guidino "verso un percorso di fede matrimoniale, sottolinendo l'importanza della indissolubilità del matrimonio".
Secondo il responsabile della comunicazione della Diocesi di Palestrina, il film oltre ad essere fatto cinematograficamente molto bene è adatto anche ai giovani che si accingono a sposarsi.
"Offre molti spunti di riflessione catechistici senza mai annoiare o cadere in una forma di bigottismo che lo renderebbero poco credibile", ha commentato il sacerdote.
"In un panorama cinematografico italiano che si vanta di distribuire volgari cinepanettoni - ha concluso don Marcello - questo è un film che parla della famiglia con ben altri concetti, per questo credo che sia da diffondere e da valorizzare".
Il Papa conversa con il biblista e rabbino statunitense Jacob Neusner - Vecchi amici epistolari, il Pontefice lo cita nel suo libro su Gesù - di Jesús Colina
ROMA, martedì, 19 gennaio 2010 (ZENIT.org).- I loro ultimi libri sono diventati l'argomento della conversazione che Benedetto XVI ha avuto in Vaticano con il rabbino statunitense Jacob Neusner, considerato uno dei grandi biblisti del panorama internazionale.
“Abbiamo parlato dei nostri libri e lui mi ha confidato di aver finito di scrivere il secondo volume su Gesù”, ha spiegato il rabbino, ritenuto uno degli scrittori più prolifici della storia (ha scritto 950 libri, anche se – come sottolinea – certi ripubblicano alcuni dei suoi scritti).
Joseph Ratzinger e Neusner (la rivista Time lo ha definito il 24 maggio 2007 The Pope's favorite rabbi) sono uniti da molti anni da un'amicizia epistolare, ma si sono conosciuti personalmente in occasione della visita papale dell'aprile 2008 alla Sinagoga di New York.
Nell'udienza, che ha avuto luogo questo lunedì, il rabbino era accompagnato dalla moglie Suzanne. La conversazione tra il Vescovo di Roma e uno dei maggiori conoscitori e studiosi viventi dell'ebraismo è durata circa venti minuti.
“Il tempo sufficiente”, ha spiegato Neusner a “L'Osservatore Romano”, “per un bell'incontro tra due professori. Ho sempre stimato lo studioso Joseph Ratzinger per la sua onestà e lucidità, ed ero molto interessato a incontrare e conoscere l'uomo”.
L'anziano rabbino di Hartford (Connecticut), nato il 28 luglio 1932, è venuto a Roma per unirsi alla visita del Papa alla sinagoga e per partecipare a un dibattito pubblico, lunedì sera, con l'Arcivescovo e teologo cattolico Bruno Forte sul “Discorso della montagna” nella Sala Petrassi dell'Auditorium.
Parlando del suo incontro con il Papa, il rabbino ha confessato al quotidiano vaticano che “la cosa che più mi ha colpito sono stati i suoi occhi penetranti. Egli ti guarda attraverso. E poi i suoi modi da gentleman, pieno di gentilezza e umiltà”.
Il rabbino definisce la visita papale alla sinagoga “un evento grandioso, con una partecipazione enorme, tesa e commossa da parte di tutti, che mi fa ben sperare per il futuro”.
“Il problema dell'oggi - e il Papa lo ha ben compreso - è che si vive nell'oblio, si dimenticano la storia e le tradizioni religiose da cui si proviene. Per questo è importante lo studio della storia”, ha aggiunto Neusner.
“Penso a una questione controversa come quella della figura storica di Pio XII. Secondo me è ancora troppo presto per giudicare e invece sento spesso giudizi trancianti, in un senso o in un altro. Ho come la sensazione che ci sia qualcuno che si agita distruttivamente, che non è interessato al cattolicesimo, né al giudaismo, né, tantomeno, al dialogo tra queste due grandi tradizioni”.
“E' triste, perché poi, nella realtà concreta - lo posso vedere nella mia vita quotidiana negli Stati Uniti -, i rapporti tra ebrei e cristiani sono ottimi”, ha concluso il rabbino. “Se si ignora il passato ci si condanna a riviverlo; lo studio da questo punto di vista è essenziale. Insieme al senso di responsabilità: ogni generazione ha la responsabilità per il futuro e ce l'ha oggi, qui e ora”.
Nel suo primo volume di “Gesù di Nazaret”, il Papa riconosce il “grande aiuto” che ha ricevuto dalla lettura del libro di Neusner “Un rabbino parla con Gesù”, pubblicato negli Stati Uniti nel 1993.
Nel quarto capitolo del suo libro, il Papa lo presenta come rabbino che “insegna all'università insieme con teologi cristiani e nutre un profondo rispetto nei confronti della fede dei suoi colleghi cristiani, ma resta saldamente convinto della validità dell'interpretazione ebraica delle Sacre Scritture”.
Secondo il Pontefice, “il profondo rispetto verso la fede cristiana e la sua fedeltà al giudaismo lo hanno indotto a cercare il dialogo con Gesù”.
Nell'incontro tra vecchi amici a distanza, il rabbino ha offerto al Papa due regali: una copia dell'edizione tedesca del suo libro del 1993, che Ratzinger all'epoca lesse nell'edizione originale americana, e una dell'edizione italiana del saggio sul Talmud (delle Edizioni San Paolo, che lo hanno pubblicato col titolo “Il Talmud : Cos’è e cosa dice”).
La pagina web di Jacob Neusner può essere visitata su http://www.jacobneusner.com
TERREMOTO HAITI/ Il racconto: la gioia più grande? Ritrovare un bambino - Redazione martedì 19 gennaio 2010 - Continua la testimonianza di Fiammetta Cappellini, cooperante Avsi ad Haiti. La difficoltà di gestire l’emergenza rimane grande, come quella di ritrovare le persone. Prevale una sensazione generale di impotenza. E i bambini sono sempre i più colpiti. «Le adozioni? Meglio tendere ad aiutarli qui». – ilsussidiario.net
18 gennaio 2010, Port au Prince, Haiti
Scrivo di sera, intanto che posso usare internet. Ormai ho l’ossessione della linea, quando il segnetto verde di Skype diventa grigio si ripiomba nell’isolamento.
Stasera dormiremo in casa. A Les Cayes, al sud del paese, nella zona rurale, già ieri hanno dormito in casa. I nostri due colleghi di Avsi ospitano altre cinque persone. Anche là, dove non è successo nulla di grave, si stanno allestendo campi sfollati, sono confluiti feriti negli ospedali, e la Minustah (United Nations stabilization mission in Haiti, presente dal 2004, ndr) si sta attrezzando per stoccare merce che forse arriverà via mare. Si sta decentrando la crisi.
Oggi a Cité Soleil, una città nella città di Port au Prince, abbiamo raccolto i primi dati sui bambini di cui ci siamo occupati fino al terremoto di martedì scorso.
Ne seguiamo (o seguivamo?) diverse centinaia, personalmente, uno a uno, da vari anni. Li aiutavamo, con il sostegno a distanza, ad andare a scuola, avere le cose più necessarie (materasso per dormire, scarpe, divisa per la scuola, cibo), fare esperienze di ordine e di bellezza. Ci ha sempre sostenuto in questo la convinzione che una vita povera dev’essere anche degna. Un bambino senza scarpe non può andare a scuola. Si vergogna, è considerato indegno.
Siamo andati a cercarli e a vedere le loro famiglie. Su un centinaio, oltre 60 hanno perso la casa o ce l’hanno gravemente danneggiata. Ma quando riesci a trovarli, che gioia grande! Quando non conosci la sorte di qualcuno, com’è bello ritrovarsi, o sentirsi dire di un bambino che sì, c’è, ma è andato dalla zia, che ha la casa ancora in piedi.
Ho bussato a molte porte per avere il necessario per i nostri campi. Qualcosa abbiamo avuto, acqua, salviette, generi di questo tipo, ma cibo no. Il cibo va accompagnato dalla Minustah. La sicurezza lo impone. Però le situazioni di violenza, che pur ci sono, mi paiono non essere così generalizzate. Certo, pare tutto appeso a un filo, un filo che per ora tiene.
L’atmosfera di Port au Prince è surreale. Da una parte le giornate sono scandite dalla presenza delle personalità mondiali più potenti, che determinano traffico, blocco delle attività, affollarsi dei media, delle forze di sicurezza. Dall’altra ti guardi intorno e pensi all’impotenza totale dell’uomo. Anche il Segretario generale dell’Onu era cosi impotente di fronte alle macerie.
Ho sentito che in Italia è cresciuto il dibattito sull’adozione temporanea di questi bambini. Ma qui già prima c’erano moltissimi abbandoni. Ora bisogna pensarci bene, se dopo il trauma del terremoto, magari con la perdita di uno o di entrambi i genitori, vale la pena trapiantarli. Bisogna pensare che ogni caso è diverso, che i bambini non sono funghi, hanno relazioni, rapporti, e reciderli può essere fatale. Meglio tendere ad aiutarli qui.
A proposito di aiuto, mi è sembrata interessante la proposta del segretario generale di Avsi di destinare da parte dell’Italia metà del montepremi del gioco del lotto ad Haiti. Non risolve ma educa. E ne abbiamo tutti bisogno.
Fiammetta
TERREMOTO HAITI/ Zorzi (Avsi): il crollo più grave è quello della speranza, l’Italia può fare molto - Redazione giovedì 14 gennaio 2010 – ilsussidiario.net
Un terremoto di proporzioni tremende ha sconvolto Haiti, il Paese più povero del continente americano. Il sisma, di magnitudo 7, si è verificato alle 22,53, ora italiana, seguito da un’altra decina di scosse. L’epicentro è stato individuato a una ventina di chilometri dalla capitale Port-au-Prince, a circa 8 km di profondità. I danni sono incalcolabili. Non si contano i morti e i dispersi. Numerosi palazzi si sono sbriciolati, tra cui quello presidenziale. Le linee elettriche e quelle telefoniche sono fuori uso e un solo ospedale, nella capitale, funziona. Questo ha già esaurito la sua capacità di accoglienza, e la Croce rossa internazionale è al lavoro per evitare un’emergenza sanitaria. Carlo Zorzi, che dal 2003 al 2008 ha vissuto ad Haiti come cooperante di Avsi - attualmente ricopre il medesimo incarico in Costa d'Avorio - racconta a ilsussidiario.net le sue impressioni. E le tribolazioni di un Paese che conosce molto bene.
Cosa ha provato sentendo la notizia?
Una grande tristezza, un grande dolore e il pensiero di un Paese che continua a essere martoriato, che non riesce più a chiudere il ciclo di povertà e sofferenza. E che da trent'anni vive nell'emergenza costante. Ogni piccolo tentativo di portarlo allo sviluppo è sempre stato soffocato da condizioni esterne che, ogni volta, lo hanno precipitato in nuove situazioni di emergenza. Penso alla popolazione, svuotata del sentimento e dell'interesse ad agire e prendere in mano le sorti del proprio Paese. E ai tanti amici e colleghi, alle migliaia di bambini con i quali lavoravo e ai compagni di scuola di mio figlio. Anche lui, con lacrime agli occhi, guardava la tv, pensando ai suoi amici. Siamo stati 5 anni là, è un lungo periodo. Attendo di vedere dove lavoravo. Le prime informazioni mi dicono che tutto è crollato.
Può descriverci il Paese?
E' il Paese più povero del continente americano, uno dei più poveri al mondo. Politiche e strategie fallimentari, e pressioni di vario genere, han fatto sì che non imboccasse la strada dello sviluppo. Da lì transita molta droga verso gli Usa o il Canada. Santo Domingo, che occupa due terzi dell’isola sulla quale risiede Haiti, ha i suoi problemi, certo. Ma ha imboccato un’altra strada, fondata sul turismo, con 4 milioni di visitatori all’anno. Eppure, il mare e il cielo sono gli stessi. Ma ad Haiti si vive con un’ora di elettricità al giorno, i camion portano alle case l’acqua potabile, l'80 per cento della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, e il 60 per cento con meno di uno.
Un terremoto è sempre una tragedia. Ancor di più se al dramma si somma il fatto che Haiti è il Paese più povero del continente americano. Questo elemento che conseguenze avrà?
Mio figlio, che ha dieci anni, guardando le immagini della catastrofe, mi ha detto: “papà, ma qui ci vorranno di nuovo altri 30 anni per ricostruire qualcosa”. Credo che riassuma bene. Ci saranno ripercussioni incredibili. Milioni di haitiani son già emigrati all'estero. Ora la diaspora si amplificherà.
Quali sono secondo lei i punti più critici da affrontare ora?
Anzitutto quelli dell'urgenza: bisogna trovare i morti, i dispersi, pulire le strade, far sì che riprenda la vita normale. Ma è necessario considerare tutto ciò nell'ottica dello sviluppo, non solo dell’emergenza. Ad Haiti regna l’anarchia. Lo stato è inesistente. Sarà necessario mettere ordine, creare leggi e creare le condizioni perché vengano fatte applicare. Significa far sì che venga ricostituita la presenza dello stato, e che questo possa godere di autorevolezza.
Sarà possibile tamponare l'emergenza sanitaria?
Sono pessimista. Penso a quello che il Paese offre in questo momento. I morti per il terremoto, e quelli che ci saranno per le conseguenze. Le risposte del Paese in quanto tale sono pressoché inesistenti.
Cosa farà l’America per aiutare la popolazione?
Mi pare che l'amministrazione Obama sia sincera nel manifestare dolore e la volontà di intervenire. Sono vicini, ben equipaggiati. Credo che arriveranno nel giro di poche ore. Spero che non si fermino solo 15 giorni. Il Paese ha bisogno di essere accompagnato. Ha bisogno di ristabilire i servizi di base. L’America può fare molto sfruttando il grave momento per aiutare lo stato a gestirsi. Spero che la tensione attuale, dovuta all’emozione del momento, non si abbassi. Perché da solo il paese non ce la farà mai.
Che contributo potrà dare l’Italia?
Enorme. L’Italia dovrebbe, anzitutto, allinearsi con gli altri Paesi, come la Francia o l'America Latina, nel dare aiuto immediato. Ma, al di là dell’immediato, gli italiani potrebbero dare un grande contributo mettendo a frutto la loro sensibilità. Non c’è solo un problema di costruzione di case, ma un problema di “ricostruzione” dell’umano, là dove è la persona ad essere distrutta. Gli haitiani sono disperati. Ma lo sono da anni. Questa è l’ennesima sciagura che si abbatte su di loro. Si sentono gente maledetta su una terra maledetta. Hanno perso la voglia di reagire. Spero che da questa catastrofe possa nascere una scintilla per costruire qualcosa di nuovo. Qualcosa che generi un contesto in cui la gente riacquisti la voglia e l'energia per reagire.
Il segreto di Chesterton secondo Ubaldo Casotto - Come la meraviglia vanificò l'agguato del nulla L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010
Qual è il segreto di una persona? Per scoprirlo bisogna innanzitutto credere che esista un segreto nascosto in ogni persona. Superato questo scoglio - e non è così semplice - la cosa migliore è incontrare questa persona, anzi lasciarsi incontrare da essa, il che equivale, sempre, a lasciarsi sorprendere. Può sembrare paradossale, ma se non si è pronti a lasciarsi sorprendere accade che la vita scorra senza colore né sapore, senza quel tocco di magia che permette agli uomini di gustare appieno l'esistenza, pregustando cioè quella gioia che sta "al di là" ma è anche già segretamente riposta nel mistero dell'esistenza quotidiana.
Ha quindi ragione Chesterton quando afferma che "incontrare un uomo è un'esperienza unica, anche se lo si incontra solo per un'ora o due". Per quasi due ore - che sono volate - Ubaldo Casotto domenica scorsa al teatro Manzoni di Roma ha permesso al pubblico di fare quell'esperienza unica, cioè di incontrare nel senso più pieno del termine un uomo, lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), uno dei giganti della letteratura e del pensiero del xx secolo, spesso trascurato dalla cosiddetta critica ufficiale italiana.
Il giornalista Casotto, attualmente vicedirettore de "Il Riformista", è un "amico" di vecchia data di Chesterton avendo dedicato, tra l'altro, la sua tesi di laurea al romanziere londinese. Il pubblico ha così potuto apprezzare il modo sicuro e il tono familiare con cui il relatore si è mosso all'interno dell'opera di Chesterton per illustrarne i punti cardine, i nodi salienti, le spigolature più significative.
Alcune parole-chiave consentono di offrire l'accesso al segreto dell'inventore di padre Brown: realismo, tradizione, paradosso, ragione, libertà, visione, meraviglia, mistero, avventura.
Ascoltando le tante citazioni dalle opere principali di Chesterton ci si rende conto che pur non avendo avuto figli naturali, lo scrittore inglese ha avuto però diversi figli spirituali; solo per fare qualche nome: Clive S. Lewis, John R.R. Tolkien, Michael Ende.
In un discorso pubblico del 1986 proprio Ende, lo scrittore tedesco autore del best-seller fantasy La storia infinita, ha affermato che l'essenza della bellezza risiede nel mistero e nella meraviglia. Niente di più vicino alla sensibilità di Chesterton per il quale la vera avventura nella vita non è sposarsi, ma nascere. Nel momento in cui si nasce, trovandosi accolto in una famiglia, l'uomo entra in un'avventura, in qualcosa che egli non può mai controllare del tutto - per questo la vita non è mai noiosa, neanche quando appare ripetitiva e monotona - s'incammina in un sentiero pieno di indizi e di segni che indicano tutti una stessa direzione, la cui unica spiegazione è l'esistenza di un punto, che non vediamo, verso cui tutte quelle frecce convergono.
La realtà dunque implica l'esistenza del mistero perché la indica continuamente. È qui il problema dell'uomo contemporaneo: non è che non sa risolvere l'enigma del mondo, è che non vede l'enigma. Il punto sta allora nella visione: se non si è pronti a lasciarsi sorprendere dal reale, l'alternativa, dice Casotto, è il nulla, il nichilismo, l'indifferenza al tutto nella quale sprofondano le nostre giornate, la nausea e la noia che il mondo e gli altri ci trasmettono - e che noi trasmettiamo - quando manca quello sguardo pieno di stupore e gratitudine. Di fronte al mondo noi dobbiamo essere riconoscenti di ogni cosa perché ogni cosa è stata strappata al nulla.
La nostra scoperta del mondo è un elenco da aggiornare quotidianamente, come quella pagina del Robinson Crusoe: "Un uomo sopra un piccolo scoglio con poca roba strappata al mare: la parte più bella del libro è la lista degli oggetti salvati dal naufragio. La più grande poesia è un inventario (...) tutte le cose sono sfuggite per un capello alla perdizione: tutto è stato salvato da un naufragio". Ed è forte l'eco biblica in questa riflessione di Chesterton che cammina nel mondo come dentro una foresta di simboli, un universo di segni; e, come il bambino, si getta golosamente alla scoperta del reale: "La vita è un'avventura ma solo l'avventuriero lo scopre".
Eppure Chesterton non nasce cattolico, ma arriva alla fede solo nel 1922, dopo un viaggio lungo e non facile. Sottolinea Casotto che Chesterton abbracciò e capì il cattolicesimo perché fece un uso sempre spregiudicato, cioè largo, della ragione, poiché, per lui, il farsi cattolico "dilata la mente". Si comprende allora facilmente il gusto del giovane Joseph Ratzinger nel leggere Chesterton - come all'epoca facevano tra gli altri anche Montini, Luciani, Wojtyla - e dove nasce l'insistenza dell'attuale Pontefice di sottolineare l'esigenza di "allargare la ragione".
Chesterton ha avuto molti "figli" ma anche diversi "padri", a conferma che non si può dare senso e gusto alla vita se non nel solco di una tradizione. Casotto si è soffermato forse sui due principali: Francesco d'Assisi e Tommaso d'Aquino anche per il fatto che a entrambi i santi cattolici lo scrittore ha dedicato due splendidi racconti biografici. Francesco e Tommaso, come a dire: la follia per Cristo e la ragione; lo stupore e il senso profondo della libertà; la spiritualità creaturale e la dimensione sanamente materiale della fede. Chesterton - questo il suo segreto - è riuscito a coniugare tutte queste diverse dimensioni nella sua vita e nella sua vasta opera letteraria. (andrea monda)
(©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010)
La Chiesa in Pakistan si oppone alla sentenza del tribunale - Cristiano condannato all'ergastolo per blasfemia L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010
Faisalabad, 19. Il tribunale di Faisalabad ha condannato all'ergastolo Imran Masih, giovane cristiano, per aver oltraggiato e dissacrato il corano. Il giudice aggiunto, Raja Ghazanfar Ali Khan, ha emesso la sentenza in base all'articolo 295-b del codice penale pakistano - meglio noto come legge sulla blasfemia - perché il ventiseienne avrebbe bruciato "di proposito" versetti del corano e un libro in arabo, per "fomentare l'odio interreligioso e offendere i sentimenti dei musulmani".
Il segretario esecutivo della Commissione nazionale di Giustizia e pace (Ncjp), Peter Jacobs, promette battaglia "per salvargli la vita".
Imran Masih, commerciante di professione, è stato arrestato dalla polizia il 1 luglio scorso con l'accusa di aver appunto bruciato pagine del corano. Per questo era stato anche sottoposto a sevizie da parte di un gruppo di musulmani.
L'11 gennaio il giudice lo ha condannato al carcere a vita, che sconterà nella prigione federale di Faisalabad dove è al momento rinchiuso. Il tribunale ha inoltre comminato una pena aggiuntiva a dieci anni di carcere duro e il pagamento di centomila rupie (poco più di ottocento euro), in base all'articolo 295-a del codice penale.
Peter Jacob, pur non criticando in modo aperto la sentenza, parla di decisione "non buona e di mancanza di libertà" del sistema giudiziario. Il segretario esecutivo di Ncjp annuncia ricorso all'Alta corte e promette che "faremo del nostro meglio per salvargli la vita, perché tutti questi casi di blasfemia sono montati ad arte".
La commissione cattolica chiede anche "serie riforme costituzionali e legali" per sradicare l'estremismo e l'abuso della religione nella vita politica del Pakistan. La religione - si legge in un documento della Commissione giustizia e pace - è il maggior pretesto nelle mani dei partiti politico-religiosi, che hanno ricoperto il ruolo di primo piano nel trascinare la nazione sull'orlo del baratro".
L'arcivescovo di Lahore e presidente della Commissione nazionale di giustizia e pace, monsignor Lawrence John Saldanha, e Peter Jacob, sottolineano che "il Pakistan dovrebbe prendere esempio dal vicino Bangladesh", dove i giudici hanno messo al bando i partiti estremisti. "Gli affari di Stato e la politica - aggiungono - vanno trattati in modo indipendente, non coperti dal manto della religione perché finiscono con l'isolare le minoranze e negare i loro diritti".
La legge sulla blasfemia è stata introdotta nel 1986 dal dittatore pakistano, Zia-ul-Haq, ed è diventata uno strumento di discriminazione e violenze. La norma è prevista alla sezione 295, comma B e C, del codice penale pakistano e punisce con l'ergastolo chi offende il corano e con la condanna a morte chi insulta il profeta Maometto.
Secondo i dati forniti dalla Ncjp, dal 1986 all'ottobre del 2009 sono quasi mille le persone finite sotto accusa per la legge sulla blasfemia: il cinquanta per cento musulmani, il trentacinque per cento ahmadi, il tredici cristiani, l'1 per cento indù e l'1 per cento di religione non specificata. Trentatré persone sono state vittime di omicidi dopo l'accusa: quindici musulmani, quindici cristiani, due ahmadi e uno indù. Queste leggi - sottolinea Ncjp - vengono usate in modo indiscriminato contro i cittadini. Il numero delle vittime tra i musulmani è elevato non perché la legge è usata in modo equo tra le diverse componenti della società, ma perché diversi gruppi islamici usano la norma per attaccarsi l'un l'altro. La legge sulla blasfemia, inoltre, costituisce un pretesto per attacchi, vendette personali o omicidi extra-giudiziali.
Nei mesi scorsi, i leader religiosi musulmani avevano riconosciuto che le controverse leggi sulla blasfemia in vigore nel Paese sono state spesso strumentalizzate e hanno chiesto di porre fine a questo abuso.
La legge - concludono i responsabili di Ncjp - è molto discriminatoria poiché si prefigge l'affermazione di una specificità religiosa, nel suo stesso testo e nello scopo che persegue. È giunto il momento di porre fine al terrore e all'ingiustizia perpetrato nel nome della religione: "La comunità internazionale - affermano - ha un compito nel persuadere il Governo a prendere le necessarie iniziative per fermare le discriminazioni e le violenze contro le minoranze religiose".
(©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010)
Emilia Romagna: «Aborto chimico in day hospital» - DA BOLOGNA S TEFANO A NDRINI – Avvenire, 20 gennaio 2010
L e donne che in Emilia Romagna hanno abortito con la pillola Ru486 sono state, da dicembre 2005 a marzo 2009, 1.684 (circa 42 al mese). Tutte le interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) sono state praticate in regime di day-hospital. Il dato è stato fornito dall’assessorato regionale alla Sanità in risposta a una interrogazione del consigliere Gianni Varani (Pdl).
Le Ivg totali effettuate in Emilia Romagna sono state 11.274 nel 2007, 11.124 nel 2008 (-1,3% rispetto al 2007) e, nel primo trimestre 2009, 2.986. Nel 2007 quelle praticate con metodica medica sono state 563 (5,7% delle Ivg totali), mentre nel 2008 sono state 526 (4,7% delle Ivg totali). Nel 1° trimestre 2009 gli aborti con pillola abortiva sono stati 161, pari al 5,4% del totale. Quanto ai fallimenti dell’Ivg farmacologica, gli interventi di revisione della cavità uterina a seguito di mancato o incompleto aborto sono stati 97, pari al 5,8% delle procedure con pillola abortiva; in particolare nel 2008 si sono registrate 28 revisioni su 526 Ivg mediche pari al 5,3% dei casi. Per l’assunzione della pillola, ha anche reso noto l’assessorato, si prevede un percorso assistenziale di 14 giorni, con l’assunzione il primo giorno in day hospital (e quindi con le immediate dimissioni), un periodo di osservazione di 3 ore il 3° giorno, prolungando eventualmente il ricovero in caso di necessità o se richiesto dalla donna; infine, quando necessario o richiesto, un controllo a casa tra il 3° e il 14° giorno.
Su cosa avvenga del feto espulso la risposta ufficiale è la seguente: «Poiché l’espulsione si presenta come una mestruazione abbondante non è possibile determinare in maniera esatta l’avvenuta espulsione del tessuto embrionale, pertanto il controllo clinico ed ecografico al 14° giorno è necessario per verificare l’avvenuto aborto». Per il consigliere Varani il fatto che le Ivg siano avvenute in regime di day hospital, è «palesemente in contrasto con la legge 194 e con le disposizioni nazionali associate di recente alla liberalizzazione della pillola abortiva decisa dall’Aifa», l’Agenzia del farmaco che aveva disposto il ricovero nel rispetto della legge demandando però alle Regioni l’applicazione della direttiva. Quanto riferito dall’assessorato conferma, secondo Varani, gli aspetti più discutibili della pillola abortiva, compresa la delicata questione del ricovero ospedaliero non effettivamente assicurato e l’espulsione 'anonima' del feto. I dati forniti ieri dalla Regione sembrano confermare il giudizio critico espresso più volte da Paolo Cavana, docente alla Lumsa, sulle linee guida regionali per l’applicazione della legge 194 nel caso dell’aborto chimico-medico. Sorprende – afferma il giurista – che dall’Emilia Romagna non venga dato alcun rilievo ai princìpi ispiratori della legge 194, tra cui la tutela della vita umana dal suo inizio e l’esplicito divieto di considerare l’aborto come «mezzo per il controllo delle nascite», né al compito da essa espressamente assegnato alle Regioni e agli enti locali di assumere le «iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite».
Dedurre la piena applicazione della 194 sulla base del mero riscontro della corretta applicazione delle sue procedure significa «darne una lettura riduttiva e fuorviante, rispetto non solo al chiaro dettato normativo ma anche alla giurisprudenza costituzionale, che ha sempre ribadito come le sue disposizioni attuano un bilanciamento tra la tutela della salute della donna e il diritto alla vita del feto, il cui sacrificio non può quindi essere rimesso alla volontà discrezionale della madre». Le statistiche della Regione non riescono a spegnere la preoccupazione delle donne. Teresa Mazzoni, esperta di questioni educative, dice che «permettere che una madre risolva da sé il 'problema' del figlio indesiderato è una scelta del tipo 'me-ne-lavo-lemani', che non ha nulla a che vedere con la tutela della salute della donna. Né di quella fisica, né tanto meno di quella psicologica».
La Regione smentisce l’Aifa e viola la 194: la Ru486 viene somministrata senza ricovero
1) PICCOLE POLEMICHE E GRANDI GESTI - CAMMINO DI RICONCILIAZIONE CHE NESSUNO FERMERÀ - LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 19 gennaio 2010
2) L’inferno di Haiti e il Paradiso - Antonio Socci - Da “Libero”, 16 gennaio 2010
3) Il Meeting di Rimini arriva a New York - Un festival culturale di due giorni a Times Square
4) Iraq: un altro cristiano ucciso a 24 ore dall'ultimo omicidio - La comunità cristiana sempre più vittima della violenza
5) Prova d'amore per salvare il matrimonio - Un film ed un libro per evitare separazioni e divorzi - di Antonio Gaspari
6) Il Papa conversa con il biblista e rabbino statunitense Jacob Neusner - Vecchi amici epistolari, il Pontefice lo cita nel suo libro su Gesù - di Jesús Colina
7) TERREMOTO HAITI/ Il racconto: la gioia più grande? Ritrovare un bambino - Redazione martedì 19 gennaio 2010 - Continua la testimonianza di Fiammetta Cappellini, cooperante Avsi ad Haiti. La difficoltà di gestire l’emergenza rimane grande, come quella di ritrovare le persone. Prevale una sensazione generale di impotenza. E i bambini sono sempre i più colpiti. «Le adozioni? Meglio tendere ad aiutarli qui». – ilsussidiario.net
8) TERREMOTO HAITI/ Zorzi (Avsi): il crollo più grave è quello della speranza, l’Italia può fare molto - Redazione giovedì 14 gennaio 2010 – ilsussidiario.net
9) Il segreto di Chesterton secondo Ubaldo Casotto - Come la meraviglia vanificò l'agguato del nulla L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010
10) La Chiesa in Pakistan si oppone alla sentenza del tribunale - Cristiano condannato all'ergastolo per blasfemia L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010
11) Emilia Romagna: «Aborto chimico in day hospital» - DA BOLOGNA S TEFANO A NDRINI – Avvenire, 20 gennaio 2010
PICCOLE POLEMICHE E GRANDI GESTI - CAMMINO DI RICONCILIAZIONE CHE NESSUNO FERMERÀ - LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 19 gennaio 2010
I l coraggio e l’umiltà non vanno spesso a braccetto ma domenica scorsa sono apparsi insieme allorché, per la seconda volta nella storia, un Pontefice ha fatto visita alla grande sinagoga di Roma. Un incontro carico di valenze simboliche, per la data che ricorda l’assalto al ghetto e per le soste ai luoghi di una dolorosa memoria che il Papa ha voluto significativamente compiere prima d’entrare nel Tempio Maggiore degli ebrei romani. Un incontro intenso, cordiale e affettuoso, punteggiato da frequenti applausi in un clima di palpabile commozione ma anche di grande schiettezza. «Un momento di grazia» l’ha definito Benedetto XVI che ha rilanciato il dialogo tra Chiesa ed ebraismo nonostante le differenze sostanziali, destinate a rimanere tali, e nonostante le polemiche riesplose recentemente su Pio XII il cui nome è risuonato in modo accusatorio nell’incontro alla sinagoga.
Il Papa non è sceso su questo terreno e ha di nuovo teso la mano al popolo dell’Alleanza con la tenera forza che è il tratto distintivo di questo pontificato dove la mitezza s’accompagna al rigore dottrinale. Il gesto compiuto da Papa Ratzinger s’inscrive nel solco tracciato ventiquattro anni fa dal suo predecessore che, primo Pontefice in duemila anni, mise piede in una sinagoga. Un evento nel segno della continuità che però non significa pura e semplice ripetizione. La visita di Giovanni Paolo II abbatté il muro dell’ostilità e dell’incomunicabilità che duravano da duemila anni. Ma dopo la caduta di antiche barriere occorre costruire nuovi ponti, ed è all’interno di questo lungo e laborioso lavoro di riconciliazione che assume grande importanza l’incontro di Benedetto XVI con la più antica comunità ebraica della diaspora occidentale. Il Papa tedesco ha ripetuto con toni accorati l’appello a «sanare per sempre le piaghe dell’anti-semitismo e dell’antigiudaismo ». Ha sciolto il ghiaccio del sospetto e della diffidenza alzandosi in piedi, prima di tutti gli altri, per rendere omaggio ai sopravvissuti della Shoah. Ha confermato ancora una volta di nutrire sentimenti sinceri di stima ed amicizia per il popolo ebreo. E definendo «irrevocabile » la linea del dialogo tracciata dal Concilio ha rassicurato i suoi interlocutori, a cominciare dal rabbino capo Di Segni che aveva sollevato l’interrogativo nel suo discorso di saluto.
Contro il rischio di rimanere prigionieri del passato Benedetto XVI, più che a guardare in avanti, invita ad alzare lo sguardo verso l’alto, «riconoscendo l’unico Signore». Il Papa-teologo ha richiamato cattolici ed ebrei a ritrovare nella Bibbia il fondamento più solido e perenne, ricordando, come aveva già fatto nel suo viaggio in Terra Santa, che il legame di solidarietà fra Chiesa e popolo ebraico non è un fattore estrinseco ma si colloca «a livello della loro stessa identità spirituale ». E ha indicato nel Decalogo il faro per tutta l’umanità. È in questa prospettiva che il Papa ha delineato con accenti innovativi una sorta d’agenda di lavoro, un impegno comune per quanto riguarda la tutela della vita, la difesa della famiglia e la protezione dell’ambiente.
Benedetto XVI è il Papa che ha visitato più sinagoghe, tre in cinque anni. Vorrà pur dire qualcosa. Quel che con Papa Wojtyla fu un gesto straordinario ed eccezionale, con Papa Ratzinger è diventato un atto pressoché tradizionale. È il segno tangibile di una riconciliazione che nessuno riuscirà a fermare.
L’inferno di Haiti e il Paradiso - Antonio Socci - Da “Libero”, 16 gennaio 2010
Basta un piccolo starnuto del pianeta, in un minuscolo francobollo di terra come Haiti, e sono spazzati via migliaia di esseri umani. Anche un microscopico virus è in grado di uccidere milioni di persone. Sono tutte manifestazioni di una stessa fragilità, di uno stesso destino. Tutti documenti della nostra misera condizione mortale.
C’è una sola “malattia”, trasmessa per via sessuale, che porta inevitabilmente alla morte l’umanità intera e non ha cure possibili. Non è l’Aids. Ne siamo affetti tutti, ad Haiti come qui. Si chiama: vita.
E’ una “malattia” anche stupenda (per questo la scrivo fra virgolette), è una “malattia” che amiamo, a cui stiamo attaccati con le unghie e con i denti. Ma solitamente non riflettiamo sulla sua natura effimera e quindi l’amiamo in modo sbagliato, dimenticando che dobbiamo scendere alla stazione e siamo destinati a un’altra dimora.
Quando arrivano grandi tragedie, personali o collettive, apriamo gli occhi sull’estrema fragilità della nostra esistenza e – svegliandoci – ci sentiamo quasi ingannati. Come se non sapessimo che siamo di passaggio.
Sì, siamo tutti malati terminali. Ma noi dimentichiamo di essere sulla soglia della morte dal primo istante di vita. Lo rimuoviamo.
Anzi, quasi tutto quello che facciamo ogni giorno ha questa segreta ragione: farci dimenticare il nostro destino, esorcizzare la morte, preannunciata dalla decadenza fisica, dalle malattie, dalla sofferenza, dal dolore altrui. Distrarci, come diceva Pascal: il “divertissement”.
Ormai la nostra mente è organizzata come un vero e proprio palinsesto televisivo: c’è la mezz’ora dedicata alla tragedia di Haiti dove magari si chiama a parlarne non i missionari, non organizzazioni come l’Avsi che da anni lavorano in quelle povere terre, ma Alba Parietti e Cristiano Malgioglio. Poi, subito dopo, il telecomando passa ai quiz, alle ballerine sgallettanti, alle chiacchiere (politica o sport) eccetera.
Tutti modi – si dice – “per ingannare il tempo”. In realtà per ingannare noi stessi, per dimenticare il destino . Perché il nostro insopprimibile desiderio è di vivere sempre, è di essere felici, e ci è insopportabile l’idea della morte e dell’infelicità.
Così, anche quando parliamo seriamente di tragedie come quelle di Haiti, con la faccia compunta, tocchiamo tutti i tasti fuorché quello.
Parliamo dell’emergenza (e va bene), degli aiuti da mandare (e va benissimo), della miseria di quei luoghi (verissima), poi varie storie e considerazioni, finché uno guarda l’orologio perché deve andare al tennis, un altro sbircia il telefonino e un altro ancora sussurra al vicino “ma quand’è che se magna?”.
Ricomincia il tran tran. E gli affanni. E l’ebbrezza di essere padroni della nostra vita. E le illusioni. Eppure il più grande “filosofo” di tutti i tempi chiamò “stolto” colui che riempiva il suo granaio illudendosi di poterne godere all’infinito: “stanotte stessa ti sarà chiesta la tua anima…”.
Perché un giorno tutti dovremo rispondere dei nostri atti e di come abbiamo speso il nostro tempo. In quanto la vita è un compito. Anche se ormai gli stessi preti parlano raramente dell’Inferno e del Paradiso a cui siamo destinati.
Pensiamo che inferno e paradiso siano da fuggire o cercare qui sulla terra. “Haiti, migliaia in fuga dall’inferno”, titolava ieri la prima pagina della “Stampa”. Altri giornali raccontavano i “paradisi tropicali” dei turisti a pochi passi dall’orrore haitiano.
Solo la Chiesa ci dice che c’è un Inferno ben peggiore di Haiti (ed eterno) da cui fuggire. E un Paradiso da raggiungere, di inimmaginabile bellezza e gioia, in cui tutte le lacrime saranno asciugate.
Il solo conforto oggi di fronte all’enormità del dolore di tutta quella povera gente e di fronte a tanti morti, è proprio questo: sperarli (e pregare per questo) fra le braccia del Padre, finalmente nella felicità certa, per sempre.
Ma noi, davanti alla nostra stessa morte (che è certa, inevitabile), che speranza abbiamo? Proviamo a rifletterci. Per me la sola speranza autentica è in Colui che ha avuto pietà della sorte umana, Colui che ha il potere vero e che ripagherà ogni sofferenza con un felicità senza fine e senza limiti.
Per questo la Chiesa c’è sempre, dentro ogni prova dell’umanità, dentro ogni “inferno” terreno com’è Haiti (provate a leggere le testimonianze accorate da là dei missionari). C’è per portare agli uomini la compassione di Dio, la sua carezza, il suo aiuto e soprattutto per aprire le porte del suo Regno.
“Ti sei chinato sulle nostre ferite e ci hai guarito” dice un prefazio della liturgia ambrosiana “donandoci una medicina più forte delle nostre piaghe, una misericordia più grande della nostra colpa. Così anche il peccato, in virtù del Tuo invincibile amore, è servito a elevarci alla vita divina”.
E la cosa grande che ci porta Gesù, il Salvatore degli uomini, non è solo questa, ma la resurrezione, la vittoria sulla morte, cosicché nulla di ciò che abbiamo amato andrà perduto.
Diceva don Giussani: “Cristo risorto è la vittoria di Dio sul mondo. La sua risurrezione dalla morte è il grido che Egli vuole far risentire nell’animo di ognuno di noi: la positività dell’essere delle cose, quella ragionevolezza ultima per cui ciò che nasce non nasce per essere distrutto. ‘Tutto questo è assicurato, te lo assicuro, Io sono risorto per renderti sicuro che tutto quello che è in te, e con te è nato, non perirà’ ”.
Come si fa allora a non gioire, anche nelle lacrime? Come si fa a non affidarsi – anche nella tragedia – all’unico che salva?
Voglio dirlo con le parole di san Gregorio Nazianzeno: “Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei una creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 16 gennaio 2010
Il Meeting di Rimini arriva a New York - Un festival culturale di due giorni a Times Square
ROMA, martedì, 19 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Si è svolto a New York nell'ambito del "New York Encounter", un festival culturale aperto al pubblico e organizzato daComunione e Liberazione e dal Centro Culturale Crossroads.
Al centro del "New York Encounter" incontri su tematiche al centro del dibattito pubblico, ma anche rappresentazioni artistiche, mostre (con visite guidate), nonché stand ricchi di proposte sociali, culturali e professionali.
La manifestazione si è svolta presso il New York Marriot Marquis, a Times Square, il 16 e 17 gennaio scorsi.
In questo contesto, sabato 16 gennaio, è stato presentato il Meeting per l'amicizia tra i popoli, in un incontro dal titolo: "Meeting di Rimini. Un esempio straordinario di fede vissuta nella pubblica piazza", a cui hanno partecipato John Sexton, presidente della New York University, Brad Gregory, professore associato di storia all'università di Notre Dame, Emilia Guarnieri, presidente del Meeting, Daniel Sulmasy, professore di medicina ed etica presso l'università di Chicago, e Joseph Weiler, professore presso l'università di New York.
Domenica 17 gennaio si è svolto l'incontro sul tema "La carità: si può vivere così?", una discussione sulla natura e il fine della carità cristiana alla luce dell'opera di monsignor Luigi Giussani, "Si può vivere così? Volume III - Carità".
Il testo è stato pubblicato dall'università McGill - Queens. Al tavolo dei relatori si sono succeduti don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, Lorenzo Albacete, autore ed editorialista, e Stanley Hauerwas, teologo presso la Divinity School alla Duke University.
Sempre domenica 17 gennaio è stata eseguita "La passione di Giovanna D'Arco", una presentazione eccezionale del film muto di Dreyer, accompagnata dalla Metro Chamber Orchestra, diretta da Phil Nuzzo e accompagnata dal coro di Comunione e Liberazione diretto da Christhopher Vath, il quale ha messo in scena "Voices of Light" di R. Einhorn.
Lunedì 18 gennaio si è svolto l'incontro "Le parole e l'io. Come la letteratura ci aiuta a giudicare il mondo e la nostra esperienza" con Paul Elie, autore e editorialista presso Farrar, Straus & Giroux;
John Waters, giornalista presso l'Irish Times, autore e drammaturgo; Greg Wolfe, editore e redattore del giornale Image.
Nell'ambito delle attività di presentazione del Meeting di Rimini, martedì 15 dicembre, presso il Centro Internazionale di Comunione e Liberazione a Roma è stato presentato il libro "La conoscenza è sempre un avvenimento" edito da Mondadori Università, realizzato dalla Fondazione per la Sussidiarietà e curato da Alberto Savorana, con l'introduzione di Giorgio Vittadini e la prefazione di Emilia Guarnieri.
Nel volume oltre al messaggio di Benedetto XVI, sono riportati gli interventi di Carmine di Martino, Julián Carrón, Tat'jana Kasatkina, Vladimir Shmalyj, Fabrice Hadjadj, Rémi Brague, Robert George, Mary Ann Glendon, Antonio Maria Rouco Varela,Tony Blair, Amparito Espinoza, Joseph H. H. Weiler, Brad Gregory, Carl A. Anderson,Yves Coppens, John Mather, Charles Townes e Marco Bersanelli, Mario Draghi, Renato Schifani, Oscar Giannino e Giancarlo Cesana.
L'occasione è stata propizia per fornire un'anteprima della XXXI edizione del Meeting per l'amicizia fra i popoli.
Introducendo l'evento, Roberto Fontolan ha sottolineato come il Meeting sia una storia che prosegue tutto l'anno, inserita in una grande cornice di rapporti.
L'ambasciatore Antonio Zanardi Landiche, che ha incontrato il Meeting nel 2008 proprio in occasione della presentazione del libro di quell'anno, ha confidato di essere rimasto sbalordito dalla vivacità che è possibile incontrare a Rimini, stupito per la ricchezza e "la continua proposizione di idee nuove e interessanti, tanto da fungere come spunto per futuri incontri e da considerarsi punti di forza nella rappresentazione della cultura italiana all'estero".
A illustrare i contenuti del libro è stato Giorgio Vittadini, evidenziando in particolare come la ricchezza dell'esperienza e dei contenuti del Meeting trascenda il libro e come quello che avviene al Meeting sia più di quello che dicono le parole.
Ma proprio per poter conservare la ricchezza di quello che accade in quella settimana si è pensato di raccogliere i principali interventi all'interno di un libro che documenta, come "Persone con le idee e professioni più differenti - ha affermato cittadini - si trovano dentro ad un avvenimento".
"Ci siamo accorti - ha continuato - che questo incontro, apparentemente casuale, genera qualcosa di strano, una risposta al tema, un giudizio che sembra scritto in modo organico dall'inizio alla fine. Una ricchezza di contenuti innovativi che testimoniano una nuova cultura, una nuova modernità".
"Infatti - ha affermato Cittadini -, siamo all'inizio di una nuova era, abbiamo il coraggio di pensare ad un'altra idea di uomo (...), ad un'immagine di uomo che ha uno sguardo stupito, curioso, interessato di fronte alla realtà. Si riprende coscienza che questo uomo desideroso di verità, giustizia e bellezza scopre che la realtà gli risponde, che c'è un soggetto che desidera".
Emilia Guarnieri ha chiuso l'incontro tracciando i primi passi del cammino che conduce alla prossima edizione che si svolgerà a Rimini dal 22 al 28 agosto 2010 con il titolo: ‘Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore".
"Innanzitutto - ha sottolineato la Guarnieri - sono le amicizie a fungere da motore fondamentale per il Meeting e poi ci sono le suggestioni che il titolo riverbera".
"Non c'è niente di più semplice - ha osservato - che riconoscere la natura dell'uomo e muoversi a partire da questa" e "qualunque percorso nell'uomo è determinato, grazie a Dio, da questa tensione per le cose grandi ed è interessante individuare le prospettive che nascono da queste suggestioni".
"L'attesa dell'uomo è fatta per incontrare qualcuno - ha concluso la presidente del Meeting -, l'uomo è fatto per quello che desidera, per le stelle. Le stelle vengono incontro all'uomo, Dio viene incontro all'uomo".
Iraq: un altro cristiano ucciso a 24 ore dall'ultimo omicidio - La comunità cristiana sempre più vittima della violenza
ROMA, martedì, 19 gennaio 2010 (ZENIT.org).- A meno di 24 ore dall'omicidio di un 52enne siro-cattolico di Mosul (cfr. ZENIT, 18 gennaio 2010), la comunità cristiana irachena piange un'altra vittima.
Questo lunedì è stato infatti ucciso a colpi di pistola da un gruppo non identificato Amjad Hamid Abdullahad, un siro-cattolico di 45 anni.
La notizia è stata diffusa dall'agenzia AsiaNews, che sottolinea come alcuni testimoni abbiano riferito che “l’omicidio è avvenuto davanti alle forze di sicurezza, che hanno osservato tutte le fasi dell’attacco, ma non sono intervenute”.
Fonti dell'agenzia a Mosul hanno spiegato che “il Governo attribuisce gli attacchi ai fondamentalisti di al Qaeda”, ma in realtà la comunità cristiana è vittima “della lotta fra i gruppi di potere” arabi e curdi.
Abdullahad era proprietario di un piccolo negozio di alimentari nel quartiere di Alsiddiq, nella zona nord di Mosul. E' stato ucciso davanti alla sua casa, nel quartiere di Balladiyat, poco distante dal negozio.
Un cattolico di Mosul ha dichiarato che “la tattica è assassinare i cristiani, perché i media non ne parlano”.
I cristiani, denunciano le fonti di AsiaNews, “vivono nel panico” e la gente ha iniziato “la fuga dalla città”. Dietro a questi attacchi, sottolineano, non ci sono “criminali normali”, ma “precisi piani politici” non contrastati dal Governo.
Prova d'amore per salvare il matrimonio - Un film ed un libro per evitare separazioni e divorzi - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 19 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il fenomeno della dissoluzione matrimoniale si va sempre più diffondendo. In Italia ogni anno si contano, tra separazioni e divorzi, oltre 130 mila nuovi casi (356 ogni giorno).
Secondo i dati Istat del 2007, ci sono state 81.359 separazioni (+1,2% rispetto al 2006) e 50.669 divorzi (+2,3%). I figli coinvolti sono 100.252 nelle separazioni e 49.087 nei divorzi.
Insieme alle sofferenze, a disagi, alle spese, quello che fa più impressione è il disfacimento del tessuto sociale.
Per far fronte a questa emorragia, la Chiesa Cattolica ha da anni attivato una pastorale per i divorziati e sta lavorando sodo nella preparazione al matrimonio.
Intervistato da ZENIT don Marcello di Fulvio, responsabile dell'ufficio comunicazioni sociali della Diocesi di Palestrina, ha spiegato che nel lavoro di educazione e formazione è stato molto utile la proiezione del film "Fireproof. Non abbandonare mai il tuo partner" e la lettura del libro "La sfida dell'amore" (Editrice Uomini Nuovi).
Il film, uscito nelle sale in Italia lo scorso luglio, e ora disponibile anche in formato Home Video, racconta la storia di Caleb Holt, un vigile del fuoco, il quale vive tenendo sempre in mente una massima del padre: "Mai lasciare indietro il tuo compagno".
Mentre si prodiga per salvare vite umane, Caleb non è abbastanza sensibile e gentile per salvare il suo matrimonio, che dopo sette anni rischia di naufragare.
In maniera assolutamente veritiera il film mostra i litigi tra Caleb e sua moglie Catherine. I due sembrano non comprendersi più, ed anche quando Caleb su consiglio del padre si comporta più gentilmente, Catherine, tentata da un medico, non riesce a capirlo.
A questo punto la "Prova del fuoco" diventa una sfida ad amare di più.
Consigliato e sfidato dal padre, Caleb non accetta l'idea della separazione e del successivo divorzio, si mette in gioco e comincia a seguire un programma di 40 giorni, come dettato dal libro "La sfida dell'amore".
Una sorta di educazione all'amore gratuito e incondizionato, con la pratica di esercizi quotidiani per contrastare il proprio egoismo e sviluppare una più vasta capacità di amare.
Nonostante gli sforzi di Caleb, a causa di equivoci e tentazioni, Catherine respinge continuamente le attenzioni di suo marito e arriva a chiedergli il divorzio.
Ma proprio nel momento più duro Caleb trova la fede, si rinnova, gode del sostegno dei suoi genitori che lo spingono a non mollare e a migliorarsi, fino ad arrivare al lieto fine, con i due che scoprono di amarsi più di quando si erano sposati.
Quando è uscito negli Stati Uniti, Fireproof ha fatto segnare un incredibile esordio, con oltre due milioni di dollari incassati al suo primo giorno di programmazione, avendo a disposizione meno di 900 sale.
Il film è scritto e diretto da Alex Kendrick, un pastore battista, regista di Affrontando i Giganti", un altro film che nel 2006, pur essendo costato appena 100,000 dollari, riuscì ad incassare negli Usa ben 10 milioni di dollari.
Don Marcello di Fulvio ha detto a ZENIT di essere rimasto colpito da come il film e il libro guidino "verso un percorso di fede matrimoniale, sottolinendo l'importanza della indissolubilità del matrimonio".
Secondo il responsabile della comunicazione della Diocesi di Palestrina, il film oltre ad essere fatto cinematograficamente molto bene è adatto anche ai giovani che si accingono a sposarsi.
"Offre molti spunti di riflessione catechistici senza mai annoiare o cadere in una forma di bigottismo che lo renderebbero poco credibile", ha commentato il sacerdote.
"In un panorama cinematografico italiano che si vanta di distribuire volgari cinepanettoni - ha concluso don Marcello - questo è un film che parla della famiglia con ben altri concetti, per questo credo che sia da diffondere e da valorizzare".
Il Papa conversa con il biblista e rabbino statunitense Jacob Neusner - Vecchi amici epistolari, il Pontefice lo cita nel suo libro su Gesù - di Jesús Colina
ROMA, martedì, 19 gennaio 2010 (ZENIT.org).- I loro ultimi libri sono diventati l'argomento della conversazione che Benedetto XVI ha avuto in Vaticano con il rabbino statunitense Jacob Neusner, considerato uno dei grandi biblisti del panorama internazionale.
“Abbiamo parlato dei nostri libri e lui mi ha confidato di aver finito di scrivere il secondo volume su Gesù”, ha spiegato il rabbino, ritenuto uno degli scrittori più prolifici della storia (ha scritto 950 libri, anche se – come sottolinea – certi ripubblicano alcuni dei suoi scritti).
Joseph Ratzinger e Neusner (la rivista Time lo ha definito il 24 maggio 2007 The Pope's favorite rabbi) sono uniti da molti anni da un'amicizia epistolare, ma si sono conosciuti personalmente in occasione della visita papale dell'aprile 2008 alla Sinagoga di New York.
Nell'udienza, che ha avuto luogo questo lunedì, il rabbino era accompagnato dalla moglie Suzanne. La conversazione tra il Vescovo di Roma e uno dei maggiori conoscitori e studiosi viventi dell'ebraismo è durata circa venti minuti.
“Il tempo sufficiente”, ha spiegato Neusner a “L'Osservatore Romano”, “per un bell'incontro tra due professori. Ho sempre stimato lo studioso Joseph Ratzinger per la sua onestà e lucidità, ed ero molto interessato a incontrare e conoscere l'uomo”.
L'anziano rabbino di Hartford (Connecticut), nato il 28 luglio 1932, è venuto a Roma per unirsi alla visita del Papa alla sinagoga e per partecipare a un dibattito pubblico, lunedì sera, con l'Arcivescovo e teologo cattolico Bruno Forte sul “Discorso della montagna” nella Sala Petrassi dell'Auditorium.
Parlando del suo incontro con il Papa, il rabbino ha confessato al quotidiano vaticano che “la cosa che più mi ha colpito sono stati i suoi occhi penetranti. Egli ti guarda attraverso. E poi i suoi modi da gentleman, pieno di gentilezza e umiltà”.
Il rabbino definisce la visita papale alla sinagoga “un evento grandioso, con una partecipazione enorme, tesa e commossa da parte di tutti, che mi fa ben sperare per il futuro”.
“Il problema dell'oggi - e il Papa lo ha ben compreso - è che si vive nell'oblio, si dimenticano la storia e le tradizioni religiose da cui si proviene. Per questo è importante lo studio della storia”, ha aggiunto Neusner.
“Penso a una questione controversa come quella della figura storica di Pio XII. Secondo me è ancora troppo presto per giudicare e invece sento spesso giudizi trancianti, in un senso o in un altro. Ho come la sensazione che ci sia qualcuno che si agita distruttivamente, che non è interessato al cattolicesimo, né al giudaismo, né, tantomeno, al dialogo tra queste due grandi tradizioni”.
“E' triste, perché poi, nella realtà concreta - lo posso vedere nella mia vita quotidiana negli Stati Uniti -, i rapporti tra ebrei e cristiani sono ottimi”, ha concluso il rabbino. “Se si ignora il passato ci si condanna a riviverlo; lo studio da questo punto di vista è essenziale. Insieme al senso di responsabilità: ogni generazione ha la responsabilità per il futuro e ce l'ha oggi, qui e ora”.
Nel suo primo volume di “Gesù di Nazaret”, il Papa riconosce il “grande aiuto” che ha ricevuto dalla lettura del libro di Neusner “Un rabbino parla con Gesù”, pubblicato negli Stati Uniti nel 1993.
Nel quarto capitolo del suo libro, il Papa lo presenta come rabbino che “insegna all'università insieme con teologi cristiani e nutre un profondo rispetto nei confronti della fede dei suoi colleghi cristiani, ma resta saldamente convinto della validità dell'interpretazione ebraica delle Sacre Scritture”.
Secondo il Pontefice, “il profondo rispetto verso la fede cristiana e la sua fedeltà al giudaismo lo hanno indotto a cercare il dialogo con Gesù”.
Nell'incontro tra vecchi amici a distanza, il rabbino ha offerto al Papa due regali: una copia dell'edizione tedesca del suo libro del 1993, che Ratzinger all'epoca lesse nell'edizione originale americana, e una dell'edizione italiana del saggio sul Talmud (delle Edizioni San Paolo, che lo hanno pubblicato col titolo “Il Talmud : Cos’è e cosa dice”).
La pagina web di Jacob Neusner può essere visitata su http://www.jacobneusner.com
TERREMOTO HAITI/ Il racconto: la gioia più grande? Ritrovare un bambino - Redazione martedì 19 gennaio 2010 - Continua la testimonianza di Fiammetta Cappellini, cooperante Avsi ad Haiti. La difficoltà di gestire l’emergenza rimane grande, come quella di ritrovare le persone. Prevale una sensazione generale di impotenza. E i bambini sono sempre i più colpiti. «Le adozioni? Meglio tendere ad aiutarli qui». – ilsussidiario.net
18 gennaio 2010, Port au Prince, Haiti
Scrivo di sera, intanto che posso usare internet. Ormai ho l’ossessione della linea, quando il segnetto verde di Skype diventa grigio si ripiomba nell’isolamento.
Stasera dormiremo in casa. A Les Cayes, al sud del paese, nella zona rurale, già ieri hanno dormito in casa. I nostri due colleghi di Avsi ospitano altre cinque persone. Anche là, dove non è successo nulla di grave, si stanno allestendo campi sfollati, sono confluiti feriti negli ospedali, e la Minustah (United Nations stabilization mission in Haiti, presente dal 2004, ndr) si sta attrezzando per stoccare merce che forse arriverà via mare. Si sta decentrando la crisi.
Oggi a Cité Soleil, una città nella città di Port au Prince, abbiamo raccolto i primi dati sui bambini di cui ci siamo occupati fino al terremoto di martedì scorso.
Ne seguiamo (o seguivamo?) diverse centinaia, personalmente, uno a uno, da vari anni. Li aiutavamo, con il sostegno a distanza, ad andare a scuola, avere le cose più necessarie (materasso per dormire, scarpe, divisa per la scuola, cibo), fare esperienze di ordine e di bellezza. Ci ha sempre sostenuto in questo la convinzione che una vita povera dev’essere anche degna. Un bambino senza scarpe non può andare a scuola. Si vergogna, è considerato indegno.
Siamo andati a cercarli e a vedere le loro famiglie. Su un centinaio, oltre 60 hanno perso la casa o ce l’hanno gravemente danneggiata. Ma quando riesci a trovarli, che gioia grande! Quando non conosci la sorte di qualcuno, com’è bello ritrovarsi, o sentirsi dire di un bambino che sì, c’è, ma è andato dalla zia, che ha la casa ancora in piedi.
Ho bussato a molte porte per avere il necessario per i nostri campi. Qualcosa abbiamo avuto, acqua, salviette, generi di questo tipo, ma cibo no. Il cibo va accompagnato dalla Minustah. La sicurezza lo impone. Però le situazioni di violenza, che pur ci sono, mi paiono non essere così generalizzate. Certo, pare tutto appeso a un filo, un filo che per ora tiene.
L’atmosfera di Port au Prince è surreale. Da una parte le giornate sono scandite dalla presenza delle personalità mondiali più potenti, che determinano traffico, blocco delle attività, affollarsi dei media, delle forze di sicurezza. Dall’altra ti guardi intorno e pensi all’impotenza totale dell’uomo. Anche il Segretario generale dell’Onu era cosi impotente di fronte alle macerie.
Ho sentito che in Italia è cresciuto il dibattito sull’adozione temporanea di questi bambini. Ma qui già prima c’erano moltissimi abbandoni. Ora bisogna pensarci bene, se dopo il trauma del terremoto, magari con la perdita di uno o di entrambi i genitori, vale la pena trapiantarli. Bisogna pensare che ogni caso è diverso, che i bambini non sono funghi, hanno relazioni, rapporti, e reciderli può essere fatale. Meglio tendere ad aiutarli qui.
A proposito di aiuto, mi è sembrata interessante la proposta del segretario generale di Avsi di destinare da parte dell’Italia metà del montepremi del gioco del lotto ad Haiti. Non risolve ma educa. E ne abbiamo tutti bisogno.
Fiammetta
TERREMOTO HAITI/ Zorzi (Avsi): il crollo più grave è quello della speranza, l’Italia può fare molto - Redazione giovedì 14 gennaio 2010 – ilsussidiario.net
Un terremoto di proporzioni tremende ha sconvolto Haiti, il Paese più povero del continente americano. Il sisma, di magnitudo 7, si è verificato alle 22,53, ora italiana, seguito da un’altra decina di scosse. L’epicentro è stato individuato a una ventina di chilometri dalla capitale Port-au-Prince, a circa 8 km di profondità. I danni sono incalcolabili. Non si contano i morti e i dispersi. Numerosi palazzi si sono sbriciolati, tra cui quello presidenziale. Le linee elettriche e quelle telefoniche sono fuori uso e un solo ospedale, nella capitale, funziona. Questo ha già esaurito la sua capacità di accoglienza, e la Croce rossa internazionale è al lavoro per evitare un’emergenza sanitaria. Carlo Zorzi, che dal 2003 al 2008 ha vissuto ad Haiti come cooperante di Avsi - attualmente ricopre il medesimo incarico in Costa d'Avorio - racconta a ilsussidiario.net le sue impressioni. E le tribolazioni di un Paese che conosce molto bene.
Cosa ha provato sentendo la notizia?
Una grande tristezza, un grande dolore e il pensiero di un Paese che continua a essere martoriato, che non riesce più a chiudere il ciclo di povertà e sofferenza. E che da trent'anni vive nell'emergenza costante. Ogni piccolo tentativo di portarlo allo sviluppo è sempre stato soffocato da condizioni esterne che, ogni volta, lo hanno precipitato in nuove situazioni di emergenza. Penso alla popolazione, svuotata del sentimento e dell'interesse ad agire e prendere in mano le sorti del proprio Paese. E ai tanti amici e colleghi, alle migliaia di bambini con i quali lavoravo e ai compagni di scuola di mio figlio. Anche lui, con lacrime agli occhi, guardava la tv, pensando ai suoi amici. Siamo stati 5 anni là, è un lungo periodo. Attendo di vedere dove lavoravo. Le prime informazioni mi dicono che tutto è crollato.
Può descriverci il Paese?
E' il Paese più povero del continente americano, uno dei più poveri al mondo. Politiche e strategie fallimentari, e pressioni di vario genere, han fatto sì che non imboccasse la strada dello sviluppo. Da lì transita molta droga verso gli Usa o il Canada. Santo Domingo, che occupa due terzi dell’isola sulla quale risiede Haiti, ha i suoi problemi, certo. Ma ha imboccato un’altra strada, fondata sul turismo, con 4 milioni di visitatori all’anno. Eppure, il mare e il cielo sono gli stessi. Ma ad Haiti si vive con un’ora di elettricità al giorno, i camion portano alle case l’acqua potabile, l'80 per cento della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, e il 60 per cento con meno di uno.
Un terremoto è sempre una tragedia. Ancor di più se al dramma si somma il fatto che Haiti è il Paese più povero del continente americano. Questo elemento che conseguenze avrà?
Mio figlio, che ha dieci anni, guardando le immagini della catastrofe, mi ha detto: “papà, ma qui ci vorranno di nuovo altri 30 anni per ricostruire qualcosa”. Credo che riassuma bene. Ci saranno ripercussioni incredibili. Milioni di haitiani son già emigrati all'estero. Ora la diaspora si amplificherà.
Quali sono secondo lei i punti più critici da affrontare ora?
Anzitutto quelli dell'urgenza: bisogna trovare i morti, i dispersi, pulire le strade, far sì che riprenda la vita normale. Ma è necessario considerare tutto ciò nell'ottica dello sviluppo, non solo dell’emergenza. Ad Haiti regna l’anarchia. Lo stato è inesistente. Sarà necessario mettere ordine, creare leggi e creare le condizioni perché vengano fatte applicare. Significa far sì che venga ricostituita la presenza dello stato, e che questo possa godere di autorevolezza.
Sarà possibile tamponare l'emergenza sanitaria?
Sono pessimista. Penso a quello che il Paese offre in questo momento. I morti per il terremoto, e quelli che ci saranno per le conseguenze. Le risposte del Paese in quanto tale sono pressoché inesistenti.
Cosa farà l’America per aiutare la popolazione?
Mi pare che l'amministrazione Obama sia sincera nel manifestare dolore e la volontà di intervenire. Sono vicini, ben equipaggiati. Credo che arriveranno nel giro di poche ore. Spero che non si fermino solo 15 giorni. Il Paese ha bisogno di essere accompagnato. Ha bisogno di ristabilire i servizi di base. L’America può fare molto sfruttando il grave momento per aiutare lo stato a gestirsi. Spero che la tensione attuale, dovuta all’emozione del momento, non si abbassi. Perché da solo il paese non ce la farà mai.
Che contributo potrà dare l’Italia?
Enorme. L’Italia dovrebbe, anzitutto, allinearsi con gli altri Paesi, come la Francia o l'America Latina, nel dare aiuto immediato. Ma, al di là dell’immediato, gli italiani potrebbero dare un grande contributo mettendo a frutto la loro sensibilità. Non c’è solo un problema di costruzione di case, ma un problema di “ricostruzione” dell’umano, là dove è la persona ad essere distrutta. Gli haitiani sono disperati. Ma lo sono da anni. Questa è l’ennesima sciagura che si abbatte su di loro. Si sentono gente maledetta su una terra maledetta. Hanno perso la voglia di reagire. Spero che da questa catastrofe possa nascere una scintilla per costruire qualcosa di nuovo. Qualcosa che generi un contesto in cui la gente riacquisti la voglia e l'energia per reagire.
Il segreto di Chesterton secondo Ubaldo Casotto - Come la meraviglia vanificò l'agguato del nulla L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010
Qual è il segreto di una persona? Per scoprirlo bisogna innanzitutto credere che esista un segreto nascosto in ogni persona. Superato questo scoglio - e non è così semplice - la cosa migliore è incontrare questa persona, anzi lasciarsi incontrare da essa, il che equivale, sempre, a lasciarsi sorprendere. Può sembrare paradossale, ma se non si è pronti a lasciarsi sorprendere accade che la vita scorra senza colore né sapore, senza quel tocco di magia che permette agli uomini di gustare appieno l'esistenza, pregustando cioè quella gioia che sta "al di là" ma è anche già segretamente riposta nel mistero dell'esistenza quotidiana.
Ha quindi ragione Chesterton quando afferma che "incontrare un uomo è un'esperienza unica, anche se lo si incontra solo per un'ora o due". Per quasi due ore - che sono volate - Ubaldo Casotto domenica scorsa al teatro Manzoni di Roma ha permesso al pubblico di fare quell'esperienza unica, cioè di incontrare nel senso più pieno del termine un uomo, lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), uno dei giganti della letteratura e del pensiero del xx secolo, spesso trascurato dalla cosiddetta critica ufficiale italiana.
Il giornalista Casotto, attualmente vicedirettore de "Il Riformista", è un "amico" di vecchia data di Chesterton avendo dedicato, tra l'altro, la sua tesi di laurea al romanziere londinese. Il pubblico ha così potuto apprezzare il modo sicuro e il tono familiare con cui il relatore si è mosso all'interno dell'opera di Chesterton per illustrarne i punti cardine, i nodi salienti, le spigolature più significative.
Alcune parole-chiave consentono di offrire l'accesso al segreto dell'inventore di padre Brown: realismo, tradizione, paradosso, ragione, libertà, visione, meraviglia, mistero, avventura.
Ascoltando le tante citazioni dalle opere principali di Chesterton ci si rende conto che pur non avendo avuto figli naturali, lo scrittore inglese ha avuto però diversi figli spirituali; solo per fare qualche nome: Clive S. Lewis, John R.R. Tolkien, Michael Ende.
In un discorso pubblico del 1986 proprio Ende, lo scrittore tedesco autore del best-seller fantasy La storia infinita, ha affermato che l'essenza della bellezza risiede nel mistero e nella meraviglia. Niente di più vicino alla sensibilità di Chesterton per il quale la vera avventura nella vita non è sposarsi, ma nascere. Nel momento in cui si nasce, trovandosi accolto in una famiglia, l'uomo entra in un'avventura, in qualcosa che egli non può mai controllare del tutto - per questo la vita non è mai noiosa, neanche quando appare ripetitiva e monotona - s'incammina in un sentiero pieno di indizi e di segni che indicano tutti una stessa direzione, la cui unica spiegazione è l'esistenza di un punto, che non vediamo, verso cui tutte quelle frecce convergono.
La realtà dunque implica l'esistenza del mistero perché la indica continuamente. È qui il problema dell'uomo contemporaneo: non è che non sa risolvere l'enigma del mondo, è che non vede l'enigma. Il punto sta allora nella visione: se non si è pronti a lasciarsi sorprendere dal reale, l'alternativa, dice Casotto, è il nulla, il nichilismo, l'indifferenza al tutto nella quale sprofondano le nostre giornate, la nausea e la noia che il mondo e gli altri ci trasmettono - e che noi trasmettiamo - quando manca quello sguardo pieno di stupore e gratitudine. Di fronte al mondo noi dobbiamo essere riconoscenti di ogni cosa perché ogni cosa è stata strappata al nulla.
La nostra scoperta del mondo è un elenco da aggiornare quotidianamente, come quella pagina del Robinson Crusoe: "Un uomo sopra un piccolo scoglio con poca roba strappata al mare: la parte più bella del libro è la lista degli oggetti salvati dal naufragio. La più grande poesia è un inventario (...) tutte le cose sono sfuggite per un capello alla perdizione: tutto è stato salvato da un naufragio". Ed è forte l'eco biblica in questa riflessione di Chesterton che cammina nel mondo come dentro una foresta di simboli, un universo di segni; e, come il bambino, si getta golosamente alla scoperta del reale: "La vita è un'avventura ma solo l'avventuriero lo scopre".
Eppure Chesterton non nasce cattolico, ma arriva alla fede solo nel 1922, dopo un viaggio lungo e non facile. Sottolinea Casotto che Chesterton abbracciò e capì il cattolicesimo perché fece un uso sempre spregiudicato, cioè largo, della ragione, poiché, per lui, il farsi cattolico "dilata la mente". Si comprende allora facilmente il gusto del giovane Joseph Ratzinger nel leggere Chesterton - come all'epoca facevano tra gli altri anche Montini, Luciani, Wojtyla - e dove nasce l'insistenza dell'attuale Pontefice di sottolineare l'esigenza di "allargare la ragione".
Chesterton ha avuto molti "figli" ma anche diversi "padri", a conferma che non si può dare senso e gusto alla vita se non nel solco di una tradizione. Casotto si è soffermato forse sui due principali: Francesco d'Assisi e Tommaso d'Aquino anche per il fatto che a entrambi i santi cattolici lo scrittore ha dedicato due splendidi racconti biografici. Francesco e Tommaso, come a dire: la follia per Cristo e la ragione; lo stupore e il senso profondo della libertà; la spiritualità creaturale e la dimensione sanamente materiale della fede. Chesterton - questo il suo segreto - è riuscito a coniugare tutte queste diverse dimensioni nella sua vita e nella sua vasta opera letteraria. (andrea monda)
(©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010)
La Chiesa in Pakistan si oppone alla sentenza del tribunale - Cristiano condannato all'ergastolo per blasfemia L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010
Faisalabad, 19. Il tribunale di Faisalabad ha condannato all'ergastolo Imran Masih, giovane cristiano, per aver oltraggiato e dissacrato il corano. Il giudice aggiunto, Raja Ghazanfar Ali Khan, ha emesso la sentenza in base all'articolo 295-b del codice penale pakistano - meglio noto come legge sulla blasfemia - perché il ventiseienne avrebbe bruciato "di proposito" versetti del corano e un libro in arabo, per "fomentare l'odio interreligioso e offendere i sentimenti dei musulmani".
Il segretario esecutivo della Commissione nazionale di Giustizia e pace (Ncjp), Peter Jacobs, promette battaglia "per salvargli la vita".
Imran Masih, commerciante di professione, è stato arrestato dalla polizia il 1 luglio scorso con l'accusa di aver appunto bruciato pagine del corano. Per questo era stato anche sottoposto a sevizie da parte di un gruppo di musulmani.
L'11 gennaio il giudice lo ha condannato al carcere a vita, che sconterà nella prigione federale di Faisalabad dove è al momento rinchiuso. Il tribunale ha inoltre comminato una pena aggiuntiva a dieci anni di carcere duro e il pagamento di centomila rupie (poco più di ottocento euro), in base all'articolo 295-a del codice penale.
Peter Jacob, pur non criticando in modo aperto la sentenza, parla di decisione "non buona e di mancanza di libertà" del sistema giudiziario. Il segretario esecutivo di Ncjp annuncia ricorso all'Alta corte e promette che "faremo del nostro meglio per salvargli la vita, perché tutti questi casi di blasfemia sono montati ad arte".
La commissione cattolica chiede anche "serie riforme costituzionali e legali" per sradicare l'estremismo e l'abuso della religione nella vita politica del Pakistan. La religione - si legge in un documento della Commissione giustizia e pace - è il maggior pretesto nelle mani dei partiti politico-religiosi, che hanno ricoperto il ruolo di primo piano nel trascinare la nazione sull'orlo del baratro".
L'arcivescovo di Lahore e presidente della Commissione nazionale di giustizia e pace, monsignor Lawrence John Saldanha, e Peter Jacob, sottolineano che "il Pakistan dovrebbe prendere esempio dal vicino Bangladesh", dove i giudici hanno messo al bando i partiti estremisti. "Gli affari di Stato e la politica - aggiungono - vanno trattati in modo indipendente, non coperti dal manto della religione perché finiscono con l'isolare le minoranze e negare i loro diritti".
La legge sulla blasfemia è stata introdotta nel 1986 dal dittatore pakistano, Zia-ul-Haq, ed è diventata uno strumento di discriminazione e violenze. La norma è prevista alla sezione 295, comma B e C, del codice penale pakistano e punisce con l'ergastolo chi offende il corano e con la condanna a morte chi insulta il profeta Maometto.
Secondo i dati forniti dalla Ncjp, dal 1986 all'ottobre del 2009 sono quasi mille le persone finite sotto accusa per la legge sulla blasfemia: il cinquanta per cento musulmani, il trentacinque per cento ahmadi, il tredici cristiani, l'1 per cento indù e l'1 per cento di religione non specificata. Trentatré persone sono state vittime di omicidi dopo l'accusa: quindici musulmani, quindici cristiani, due ahmadi e uno indù. Queste leggi - sottolinea Ncjp - vengono usate in modo indiscriminato contro i cittadini. Il numero delle vittime tra i musulmani è elevato non perché la legge è usata in modo equo tra le diverse componenti della società, ma perché diversi gruppi islamici usano la norma per attaccarsi l'un l'altro. La legge sulla blasfemia, inoltre, costituisce un pretesto per attacchi, vendette personali o omicidi extra-giudiziali.
Nei mesi scorsi, i leader religiosi musulmani avevano riconosciuto che le controverse leggi sulla blasfemia in vigore nel Paese sono state spesso strumentalizzate e hanno chiesto di porre fine a questo abuso.
La legge - concludono i responsabili di Ncjp - è molto discriminatoria poiché si prefigge l'affermazione di una specificità religiosa, nel suo stesso testo e nello scopo che persegue. È giunto il momento di porre fine al terrore e all'ingiustizia perpetrato nel nome della religione: "La comunità internazionale - affermano - ha un compito nel persuadere il Governo a prendere le necessarie iniziative per fermare le discriminazioni e le violenze contro le minoranze religiose".
(©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010)
Emilia Romagna: «Aborto chimico in day hospital» - DA BOLOGNA S TEFANO A NDRINI – Avvenire, 20 gennaio 2010
L e donne che in Emilia Romagna hanno abortito con la pillola Ru486 sono state, da dicembre 2005 a marzo 2009, 1.684 (circa 42 al mese). Tutte le interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) sono state praticate in regime di day-hospital. Il dato è stato fornito dall’assessorato regionale alla Sanità in risposta a una interrogazione del consigliere Gianni Varani (Pdl).
Le Ivg totali effettuate in Emilia Romagna sono state 11.274 nel 2007, 11.124 nel 2008 (-1,3% rispetto al 2007) e, nel primo trimestre 2009, 2.986. Nel 2007 quelle praticate con metodica medica sono state 563 (5,7% delle Ivg totali), mentre nel 2008 sono state 526 (4,7% delle Ivg totali). Nel 1° trimestre 2009 gli aborti con pillola abortiva sono stati 161, pari al 5,4% del totale. Quanto ai fallimenti dell’Ivg farmacologica, gli interventi di revisione della cavità uterina a seguito di mancato o incompleto aborto sono stati 97, pari al 5,8% delle procedure con pillola abortiva; in particolare nel 2008 si sono registrate 28 revisioni su 526 Ivg mediche pari al 5,3% dei casi. Per l’assunzione della pillola, ha anche reso noto l’assessorato, si prevede un percorso assistenziale di 14 giorni, con l’assunzione il primo giorno in day hospital (e quindi con le immediate dimissioni), un periodo di osservazione di 3 ore il 3° giorno, prolungando eventualmente il ricovero in caso di necessità o se richiesto dalla donna; infine, quando necessario o richiesto, un controllo a casa tra il 3° e il 14° giorno.
Su cosa avvenga del feto espulso la risposta ufficiale è la seguente: «Poiché l’espulsione si presenta come una mestruazione abbondante non è possibile determinare in maniera esatta l’avvenuta espulsione del tessuto embrionale, pertanto il controllo clinico ed ecografico al 14° giorno è necessario per verificare l’avvenuto aborto». Per il consigliere Varani il fatto che le Ivg siano avvenute in regime di day hospital, è «palesemente in contrasto con la legge 194 e con le disposizioni nazionali associate di recente alla liberalizzazione della pillola abortiva decisa dall’Aifa», l’Agenzia del farmaco che aveva disposto il ricovero nel rispetto della legge demandando però alle Regioni l’applicazione della direttiva. Quanto riferito dall’assessorato conferma, secondo Varani, gli aspetti più discutibili della pillola abortiva, compresa la delicata questione del ricovero ospedaliero non effettivamente assicurato e l’espulsione 'anonima' del feto. I dati forniti ieri dalla Regione sembrano confermare il giudizio critico espresso più volte da Paolo Cavana, docente alla Lumsa, sulle linee guida regionali per l’applicazione della legge 194 nel caso dell’aborto chimico-medico. Sorprende – afferma il giurista – che dall’Emilia Romagna non venga dato alcun rilievo ai princìpi ispiratori della legge 194, tra cui la tutela della vita umana dal suo inizio e l’esplicito divieto di considerare l’aborto come «mezzo per il controllo delle nascite», né al compito da essa espressamente assegnato alle Regioni e agli enti locali di assumere le «iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite».
Dedurre la piena applicazione della 194 sulla base del mero riscontro della corretta applicazione delle sue procedure significa «darne una lettura riduttiva e fuorviante, rispetto non solo al chiaro dettato normativo ma anche alla giurisprudenza costituzionale, che ha sempre ribadito come le sue disposizioni attuano un bilanciamento tra la tutela della salute della donna e il diritto alla vita del feto, il cui sacrificio non può quindi essere rimesso alla volontà discrezionale della madre». Le statistiche della Regione non riescono a spegnere la preoccupazione delle donne. Teresa Mazzoni, esperta di questioni educative, dice che «permettere che una madre risolva da sé il 'problema' del figlio indesiderato è una scelta del tipo 'me-ne-lavo-lemani', che non ha nulla a che vedere con la tutela della salute della donna. Né di quella fisica, né tanto meno di quella psicologica».
La Regione smentisce l’Aifa e viola la 194: la Ru486 viene somministrata senza ricovero