lunedì 18 gennaio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Discorso di Benedetto XVI alla grande Sinagoga di Roma - ROMA, domenica,17 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell'intervento pronunciato da Papa Benedetto XVI questa domenica pomeriggio nella grande Sinagoga di Roma in occasione della sua visita alla Comunità ebraica romana.
2) Il relativismo colpisce ancora - di Renzo Puccetti*
3) Nella sinagoga di Roma il papa rilegge le "Dieci Parole" - Ha riproposto il decalogo di Mosé come "stella polare" per Israele, i cristiani e l’intera umanità. Ma le parole di Benedetto XVI agli ebrei cadono su un terreno molto accidentato. Anna Foa e Mordechay Lewy: anche l'ebraismo deve fare autocritica - di Sandro Magister
4) Il Papa in sinagoga. Una svolta nel dialogo fra cattolici ed ebrei – intervento su Facebook del 18 gennaio 2010 - di Massimo Introvigne
5) EUGENETICA/ Via libera al figlio perfetto: l’ultima sentenza choc del tribunale di Salerno - Gianfranco Amato lunedì 18 gennaio 2010 – ilsussidiario.net
6) 18/01/2010 - La Vietnam News Agency nega la repressione a Dong Chiem. E attacca AsiaNews - L’agenzia governativa scrive che sulla “rimozione” del crocefisso AsiaNews ha riferito “storie infamanti”. Altre fonti governative dicono che la croce è stata distrutta dai fedeli. Peccato che sia stata fatta saltare con l’esplosivo, che le bastonate della polizia abbiano fermato la protesta dei parrocchiani e che i vescovi invitino le autorità a non tenere comportamenti che suscitino “ulteriore malcontento, rabbia e sfiducia tra la popolazione”


Discorso di Benedetto XVI alla grande Sinagoga di Roma - ROMA, domenica,17 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell'intervento pronunciato da Papa Benedetto XVI questa domenica pomeriggio nella grande Sinagoga di Roma in occasione della sua visita alla Comunità ebraica romana.
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"Il Signore ha fatto grandi cose per loro"

Grandi cose ha fatto il Signore per noi:

eravamo pieni di gioia" (Sal 126)



"Ecco, com'è bello e com'è dolce

che i fratelli vivano insieme!" (Sal 133)

Signor Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma,

Signor Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane,

Signor Presidente della Comunità Ebraica di Roma

Signori Rabbini,

Distinte Autorità,

Cari amici e fratelli,

1. All'inizio dell'incontro nel Tempio Maggiore degli Ebrei di Roma, i Salmi che abbiamo ascoltato ci suggeriscono l'atteggiamento spirituale più autentico per vivere questo particolare e lieto momento di grazia: la lode al Signore, che ha fatto grandi cose per noi, ci ha qui raccolti con il suo Hèsed, l'amore misericordioso, e il ringraziamento per averci fatto il dono di ritrovarci assieme a rendere più saldi i legami che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della riconciliazione e della fraternità. Desidero esprimere innanzitutto viva gratitudine a Lei, Rabbino Capo, Dottor Riccardo Di Segni, per l'invito rivoltomi e per le significative parole che mi ha indirizzato. Ringrazio poi i Presidenti dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Avvocato Renzo Gattegna, e della Comunità Ebraica di Roma, Signor Riccardo Pacifici, per le espressioni cortesi che hanno voluto rivolgermi. Il mio pensiero va alle Autorità e a tutti i presenti e si estende, in modo particolare, alla Comunità ebraica romana e a quanti hanno collaborato per rendere possibile il momento di incontro e di amicizia, che stiamo vivendo.

Venendo tra voi per la prima volta da cristiano e da Papa, il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, quasi ventiquattro anni fa, intese offrire un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre comunità, per superare ogni incomprensione e pregiudizio. Questa mia visita si inserisce nel cammino tracciato, per confermarlo e rafforzarlo. Con sentimenti di viva cordialità mi trovo in mezzo a voi per manifestarvi la stima e l'affetto che il Vescovo e la Chiesa di Roma, come pure l'intera Chiesa Cattolica, nutrono verso questa Comunità e le Comunità ebraiche sparse nel mondo.

2. La dottrina del Concilio Vaticano II ha rappresentato per i Cattolici un punto fermo a cui riferirsi costantemente nell'atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova e significativa tappa. L'evento conciliare ha dato un decisivo impulso all'impegno di percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia, cammino che si è approfondito e sviluppato in questi quarant'anni con passi e gesti importanti e significativi, tra i quali desidero menzionare nuovamente la storica visita in questo luogo del mio Venerabile Predecessore, il 13 aprile 1986, i numerosi incontri che egli ha avuto con Esponenti ebrei, anche durante i Viaggi Apostolici internazionali, il pellegrinaggio giubilare in Terra Santa nell'anno 2000, i documenti della Santa Sede che, dopo la Dichiarazione Nostra Aetate, hanno offerto preziosi orientamenti per un positivo sviluppo nei rapporti tra Cattolici ed Ebrei. Anche io, in questi anni di Pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il mio affetto verso il popolo dell'Alleanza. Conservo ben vivo nel mio cuore tutti i momenti del pellegrinaggio che ho avuto la gioia di realizzare in Terra Santa, nel maggio dello scorso anno, come pure i tanti incontri con Comunità e Organizzazioni ebraiche, in particolare quelli nelle Sinagoghe a Colonia e a New York.

Inoltre, la Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell'antisemitismo e dell'antigiudaismo (cfr Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo, Noi Ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 marzo 1998). Possano queste piaghe essere sanate per sempre! Torna alla mente l'accorata preghiera al Muro del Tempio in Gerusalemme del Papa Giovanni Paolo II, il 26 marzo 2000, che risuona vera e sincera nel profondo del nostro cuore. Ha detto: "Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome sia portato ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo impegnarci a vivere una fraternità autentica con il popolo dell'Alleanza".

3. Il passare del tempo ci permette di riconoscere nel ventesimo secolo un'epoca davvero tragica per l'umanità: guerre sanguinose che hanno seminato distruzione, morte e dolore come mai era avvenuto prima; ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l'idolatria dell'uomo, della razza, dello stato e che hanno portato ancora una volta il fratello ad uccidere il fratello. Il dramma singolare e sconvolgente della Shoah rappresenta, in qualche modo, il vertice di un cammino di odio che nasce quando l'uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell'universo. Come dissi nella visita del 28 maggio 2006 al campo di concentramento di Auschwitz, ancora profondamente impressa nella mia memoria, "i potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità" e, in fondo, "con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno" (Discorso al campo di Auschwitz-Birkenau: Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 1[2006], p. 727).

In questo luogo, come non ricordare gli Ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio del popolo dell'Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato nell'Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo, molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall'insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede Apostolica svolse un'azione di soccorso, spesso nascosta e discreta.

La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l'accoglienza.

4. La nostra vicinanza e fraternità spirituali trovano nella Sacra Bibbia - in ebraico Sifre Qodesh o "Libri di Santità" - il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo. E' scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 839). "A differenza delle altre religioni non cristiane, la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nella Antica Alleanza. E' al popolo ebraico che appartengono ‘l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne' (Rm 9,4-5) perché ‘i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!' (Rm 11,29)" (Ibid.).

5. Numerose possono essere le implicazioni che derivano dalla comune eredità tratta dalla Legge e dai Profeti. Vorrei ricordarne alcune: innanzitutto, la solidarietà che lega la Chiesa e il popolo ebraico "a livello della loro stessa identità" spirituale e che offre ai Cristiani l'opportunità di promuovere "un rinnovato rispetto per l'interpretazione ebraica dell'Antico Testamento" (cfr Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001, pp. 12 e 55); la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l'intera umanità; l'impegno per preparare o realizzare il Regno dell'Altissimo nella "cura del creato" affidato da Dio all'uomo perché lo coltivi e lo custodisca responsabilmente (cfr Gen 2,15).

6. In particolare il Decalogo - le "Dieci Parole" o Dieci Comandamenti (cfr Es 20,1-17; Dt 5,1-21) - che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola dell'etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell'amore, un "grande codice" etico per tutta l'umanità. Le "Dieci Parole" gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l'ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un impegno operoso sulla via dei Comandamenti: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti" (Mt 19,17). In questa prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza. Vorrei ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo.

Le "Dieci Parole" chiedono di riconoscere l'unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d'oro. Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l'uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l'apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l'unico Dio è un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono offrire assieme.

Le "Dieci Parole" chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante volte, in ogni parte della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la libertà, i diritti dell'essere umano! Testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo, è offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo "shalom" auspicato dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele.

Le "Dieci Parole" chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il "sì" personale e reciproco, fedele e definitivo dell'uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l'autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita. Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di un mondo dal volto più umano.

7. Come insegna Mosè nello Shemà (cfr. Dt 6,5; Lv 19,34) - e Gesù riafferma nel Vangelo (cfr. Mc 12,19-31), tutti i comandamenti si riassumono nell'amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi. Nella tradizione ebraica c'è un mirabile detto dei Padri d'Israele: "Simone il Giusto era solito dire: Il mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia" (Aboth 1,2). Con l'esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell'Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza.

8. In questa direzione possiamo compiere passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della terra. I passi compiuti in questi quarant'anni dal Comitato Internazionale congiunto cattolico-ebraico e, in anni più recenti, dalla Commissione Mista della Santa Sede e del Gran Rabbinato d'Israele, sono un segno della comune volontà di continuare un dialogo aperto e sincero. Proprio domani la Commissione Mista terrà qui a Roma il suo IX incontro su "L'insegnamento cattolico ed ebraico sul creato e l'ambiente"; auguriamo loro un proficuo dialogo su un tema tanto importante e attuale.

9. Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l'uno all'altro. Spetta a noi, in risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell'amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell'umanità in questo mondo creato da Dio, l'Onnipotente e il Misericordioso.

10. Infine un pensiero particolare per questa nostra Città di Roma, dove, da circa due millenni, convivono, come disse il Papa Giovanni Paolo II, la Comunità cattolica con il suo Vescovo e la Comunità ebraica con il suo Rabbino Capo; questo vivere assieme possa essere animato da un crescente amore fraterno, che si esprima anche in una cooperazione sempre più stretta per offrire un valido contributo nella soluzione dei problemi e delle difficoltà da affrontare.

Invoco dal Signore il dono prezioso della pace in tutto il mondo, soprattutto in Terra Santa. Nel mio pellegrinaggio del maggio scorso, a Gerusalemme, presso il Muro del Tempio, ho chiesto a Colui che può tutto: "manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione" (Preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme, 12 maggio 2009).

Nuovamente elevo a Lui il ringraziamento e la lode per questo nostro incontro, chiedendo che Egli rafforzi la nostra fraternità e renda più salda la nostra intesa.



["Genti tutte, lodate il Signore,

popoli tutti, cantate la sua lode,

perché forte è il suo amore per noi

e la fedeltà del Signore dura per sempre".

Alleluia" (Sal 117)]



[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


Il relativismo colpisce ancora - di Renzo Puccetti*
ROMA, domenica, 17 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La cronaca di questo inizio 2010 offre abbondante materiale per una riflessione bioetica sul senso e la percezione della dignità umana. L'11 gennaio veniva comunicata la decisione del giudice per le indagini preliminari di archiviare il procedimento di accusa per omicidio volontario rivolto al medico che ha diretto l'intervento di disidratazione di Eluana Englaro; insieme al medico erano prosciolti dall'accusa di concorso in omicidio l'intera équipe che aveva partecipato all'esecuzione del protocollo. Secondo il giudice, «La prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale di Eluana Englaro non era legittima in quanto contrastante con la volontà espressa dai legali rappresentanti della paziente, nel ricorrere dei presupposti in cui tale volontà può essere espressa per conto dell'incapace».

Il 12 gennaio i media riportavano la denuncia del padre di una bambina affetta da sindrome di Down recapitata al quotidiano locale di Treviso. Un avventore, disturbato dal gioco della bambina, avrebbe detto a voce alta: "Quando si hanno dei figli mongoli è meglio restarsene a casa".

Il 14 gennaio dai giornali si apprendeva che un magistrato in servizio a Salerno aveva autorizzato una coppia fertile e portatrice di una grave patologia degenerativa muscolare a ricorrere alla fecondazione artificiale e alla selezione dei figli allo stato embrionale mediante la tecnica della diagnosi pre-impianto. Secondo il giudice autore del provvedimento, «Il diritto a procreare verrebbe leso da un'interpretazione delle norme che impedissero il ricorso alle tecniche di procreazione assistita da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili. Solo la PMA attraverso la diagnosi preimpianto, e quindi l'impianto solo degli embrioni sani, mediante una lettura 'costituzionalmente' orientata dell'artico 13 della legge citata, consentono di scongiurare tale simile rischio».

Si tratta di tre episodi che, seppure connotati da differenze e specificità evidenti, presentano un sottile filo che li unisce: la negazione della dignità dell'essere umano debole e debolissimo. Vediamo di chiarire il concetto.

Il caso di Eluana Englaro è ben noto. L'ultimo capitolo della saga giunge dal versante della giustizia penale ed afferma che la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale era illegittima. Non si vuole qui considerare la perplessità che sorge dalla percezione di subalternità del giudizio penale nei confronti del precedente giudizio civile, né dalla preoccupazione che, sulla base del decreto del GIP, si potrebbe paradossalmente immaginare una condotta "illegittima" di quei medici che per lunghi anni (ed anche dopo il decreto della corte di appello civile di Milano) hanno operato somministrando i trattamenti di sostegno vitale alla paziente. No, qui quello che interessa è considerare come alla base dell'azione di colui che ha promosso l'iter procedurale che si è concluso con la morte della ragazza vi fosse, oltre alla rivendicazione di un diritto all'auto-determinazione delegata, l'attribuzione di mancanza di dignità nella condizione di vita di Eluana Englaro e nel modo stesso di assisterla.[1] La stessa Corte di Cassazione nel dispositivo sul caso Englaro ha citato la parola "dignità" per undici volte, affermando sì la piena dignità della persona in stato vegetativo, ma al contempo sancendo il principio che la sottrazione della vita con attributi soggettivi di indegnità è un diritto esigibile. Il riferirsi in tali casi al diritto alla libertà di cura rivela la propria natura di mero espediente. Molti commentatori internazionali infatti, peraltro non riconducibili alla morale cattolica, sostengono che l'interruzione dell'idratazione e nutrizione assistita nei pazienti in stato vegetativo può essere esclusa dagli atti eutanasici solo ricorrendo a sofismi, [2];[3];[4] dal momento che l'unico fine che si intende raggiungere con una tale condotta è la morte della persona assistita.

Nel caso della bambina affetta da sindrome di Down, è successo che un signore si è sentito disturbato da quella bambina ammalata nel suo diritto a condurre in condizioni di benessere la sua giornata. Il concetto di salute accreditato presso le istituzioni sanitarie mondiali sin dal 1948 (è stato ricordato altre volte in questa rubrica) secondo cui la salute non è la semplice assenza di malattia, ma uno "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale", col suo grado di espansione indefinita, consente di identificare come una minaccia alla salute qualsiasi turbativa anche solo potenziale. La quasi totalità degli aborti nelle Nazioni occidentali viene autorizzata legalmente sulla base di un diritto alla tutela della salute da parte della donna. Quasi sempre si tratta di una minaccia alla salute psichica della madre, già di per sé più difficilmente obiettivabile, ma i cui contorni sono divenuti del tutto indefiniti quando si è proceduto a recepire in modo automatico, formale e passivo quanto attestato dalla donna stessa a cui in fin dei conti è stato demandata ogni decisione attraverso una sorta di autocertificazione. Qualche numero può aiutare a comprendere le dimensioni del fenomeno. In Inghilterra e Galles, nel periodo 2007-8 dei 1843 casi di sindrome di Down ne sono stati diagnosticati prima della nascita 1112. Di questi solo il 4,8% è stato fatto nascere, perché 92,8% è stato abortito in modo volontario.[5] In Italia dati qualitativamente equivalenti si possono ricavare dalla Toscana, una regione dove la diagnostica prenatale è molto diffusa. Nel 2007 sono nati 15 bambini affetti da sindrome di Down, mentre 26 (pari al 66%) sono stati abortiti. Il numero non è riportato, ma è verosimile che, come in Inghilterra, i bambini che sono nati siano in gran parte sfuggiti alla diagnosi prenatale. Queste procedure non solo vengono tollerate, ma, in nome del diritto alla salute, sono finanziate direttamente dallo stato e promosse sui media e nei consessi sovranazionali quali fondamentale diritto umano, il cui accesso deve essere garantito a tutti. Essendo persona semplice, qualcuno mi dovrebbe spiegare perché la madre può sopprimere il figlio per tutelare il proprio "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale", mentre l'avventore del locale, che non ha certamente maggiori obblighi, non potrebbe fare le proprie rimostranze se percepisce la propria "salute", così intesa, deteriorata. Si tratta di un discorso evidentemente e volutamente paradossale; ogni lettore avrà ben capito che chi scrive è completamente dalla parte della bambina e dei suoi genitori, ma l'esserlo presuppone il riconoscimento previo della dignità inalienabile ed incondizionata di quella bambina proprio in quanto essere umano, il riconoscimento della dignità e con esso al diritto alla vita di ogni essere umano, a prescindere da qualsiasi attributo. Come osserva il prof. Pessina, l'umanità è la comune stoffa di cui tutti siamo fatti. La condanna morale del comportamento del greve avventore del locale, l'indignazione per quella frase riprovevole reclamano quale pre-condizione il riconoscimento di un'oggettività morale negata dal relativismo etico. Come scrive il senatore Pera, a causa della sospensione del giudizio, se vuole essere coerente "il relativista o diventa muto o alza le mani".[6]

Si giunge così al caso della coppia portatrice di una forma molto grave di distrofia muscolare (con sopravvivenza nei casi di malattia non superiore ad un anno di vita), che si legge, dopo avere avuto un figlio concepito naturalmente, nato sano ed attualmente in perfetta salute e tre figli diagnosticati prima della nascita essere affetti dalla malattia e quindi abortiti, si è rivolta al giudice per essere autorizzata a sottoporsi ad una procedura di fecondazione artificiale prevedendo la selezione degli embrioni sani (ed ovviamente la eliminazione di quelli malati). Di nuovo non interessa qui esprimere lo sdegno per comportamenti che rendono manifesta la massima hobbesiana "non veritas, sed auctoritas facit legem", non si vuole sottolineare la gravità di decisioni assunte da chi, pur chiamato a rispettare e servire la legge, nel silenzio di tanti prezzolati difensori delle istituzioni e della legalità, interpreta la legge in senso contrario allo spirito ed alla lettera della legge senza neppure sentire il dovere di rimettere la questione agli organi competenti. No, di nuovo queste considerazioni su fatti pur gravissimi non è quanto voglio evidenziare in questo intervento. Piuttosto mi preme sottolineare come la cultura che discrimina il malato, in collaborazione con le possibilità offerte dalla tecnica, stia marciando trionfalmente verso l'eliminazione dell'indesiderato inerme. Pur nella umana solidarietà per la sofferenza indubbia dei genitori, si è in dovere di affermare la verità, affrancandola dalla cortina dell'intenzione, liberandola dal giogo delle circostanze (chi non desidererebbe per tutti i genitori figli in perfetta salute?) mostrando l'oggetto morale dell'azione, andando al cuore della questione rispondendo alla domanda: "Che cosa fai?". La risposta è in re ipsa, la selezione di esseri umani viventi sulla base della loro salute fisica e la loro eliminazione in caso di inadeguatezza ad uno standard fissato. Questa deriva ius-positivista è quanto il relativismo etico sta mettendo nel piatto dell'uomo del terzo millennio. Se "questo è vero e questo è falso, questo è bene e questo è male" sono cose che non si possono più dire, allora la violazione della massima aurea (non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te) e dell'imperativo morale kantiano (agisci in modo da trattare sempre l'umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo) non sosterranno più la civiltà occidentale, non potranno essere più invocati dal debole; che il lupo abbia il ventre sazio sarà allora la sua unica speranza.

Ci si attende da quanti percepiscono il baratro sempre più prossimo e sopportano il pesante onere della responsabilità qualcosa di più che non qualche accorata dichiarazione di denuncia.

[1] Cfr. Istanza del tutore, Tribunale di Lecco, 18.1.1999

[2] McLean SAM. Legal and ethical aspects of the vegetative state. J Cin Pathol 1999; 52: 490-3.

[3] Paul J. Withholding food and fluids is justifiable only for terminally ill. BMJ 1999;318:1415.

[4] Cameron-Perry JE. Withholding food and fluids is justifiable only for terminally ill. BMJ 1999;318:1415. http://www.bmj.com/cgi/eletters/318/7195/1415#3253

[5] Morris JK, Alberman E. Trends in Down's syndrome live births and antenatal diagnoses in England and Wales from 1989 to 2008: analysis of data from the National Down Syndrome Cytogenetic Register. BMJ. 2009; 339: b3794.

[6] M. Pera. Perché dobbiamo dirci cristiani. Ed. Mondatori, Milano, 2008. p. 114.

* Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato "Scienza & Vita" di Pisa-Livorno.


Nella sinagoga di Roma il papa rilegge le "Dieci Parole" - Ha riproposto il decalogo di Mosé come "stella polare" per Israele, i cristiani e l’intera umanità. Ma le parole di Benedetto XVI agli ebrei cadono su un terreno molto accidentato. Anna Foa e Mordechay Lewy: anche l'ebraismo deve fare autocritica - di Sandro Magister
ROMA, 17 gennaio 2010 – Le parole dette oggi da Benedetto XVI nella sinagoga di Roma – riportate integralmente più sotto – sono tanto più rilevanti in quanto sono risuonate entro un paesaggio non tutto amico, come è inesorabile che sia tra due fedi così unite in radice e insieme così radicalmente divise da quel Gesù di Nazaret che per i cristiani è il Figlio di Dio.

Ad accogliere papa Joseph Ratzinger in sinagoga c'era il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, c'era la comunità ebraica romana quasi al completo, la più consistente e fiorente d'Italia, erede di quella che abitava nella città "caput mundi" prima ancora che vi arrivassero gli apostoli Pietro e Paolo, ebrei convertiti a Gesù.

Non c'era però l'altro celebre rabbino d'Italia, Giuseppe Laras, della comunità ebraica di Milano. Non ha creduto in questo incontro e l'ha detto: "Sarà solo la Chiesa a trarne vantaggio". A suo giudizio, con Benedetto XVI il rapporto fraterno tra ebrei e cattolici non si è rafforzato ma "è diventato sempre più debole".

Gli ha risposto il rabbino Di Segni: "Sarà il tempo a decidere quale delle due [nostre] opposte visioni avrà avuto ragione".

In effetti, sono molte le questioni ancora "indecise", tra gli ebrei e la Chiesa di Roma.


IL GIORNO DEL "MOED DI PIOMBO"
Già la data scelta per la visita era a doppio taglio. Il 17 gennaio è per gli ebrei di Roma il giorno del "Moed di piombo": la memoria dell'incendio appiccato per odio al loro ghetto nel 1793, fortunatamente spento da un violento acquazzone disceso da un cielo dal colore "di piombo".

Il ghetto recintato è stato per secoli la modalità della presenza degli ebrei nella Roma papale. Al termine della visita in sinagoga, Benedetto XVI ha inaugurato nel Museo Ebraico una mostra su come nel Settecento gli ebrei romani erano obbligati a partecipare alla cerimonia di insediamento di ogni nuovo papa: con fiori, drappi e stendardi nell'area tra il Colosseo e l'Arco di Tito, quello che celebra la definitiva distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dell'impero di Roma.


IL RIFIUTO DEL RABBINO LARAS
Ma il 17 gennaio è anche, in Italia, la "Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei". Dal 2001 la comunità ebraica la promuove assieme ai vescovi italiani e dal 2005 entrambe le parti hanno concordato di dedicarla, volta per volta, a uno dei dieci comandamenti, sulla scia del discorso tenuto quell'anno da Benedetto XVI nella sinagoga di Colonia.

Lo scorso anno, però, gli ebrei ritirarono la loro adesione alla Giornata, per impulso soprattutto del rabbino Laras, dando la colpa allo stesso Benedetto XVI e in particolare alla sua decisione di introdurre nel rito romano antico del Venerdì Santo la preghiera affinché Dio "illumini" i cuori degli ebrei, "perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini". Preghiera giudicata da Laras inaccettabile in quanto finalizzata alla conversione degli ebrei alla fede cristiana.

Non tutti gli ebrei italiani erano d'accordo con questo gesto di rottura. Ma la polemica contro Benedetto XVI raggiunse toni ancora più aspri e si allargò a tutto il mondo a motivo della revoca della scomunica a quattro vescovi lefebvriani di orientamento antigiudaico, tra i quali ve n'era uno, l'inglese Richard Williamson, che negava sfrontatamente la Shoah.

Il papa spiegò l'intenzione del suo gesto in una lettera ai vescovi cattolici del 10 marzo 2009. E in un passaggio della lettera ringraziò "gli amici ebrei" che – più di tanti uomini di Chiesa – l'avevano "aiutato a togliere di mezzo il malinteso e a ristabilire amicizia e fiducia".

La tempesta si acquietò un poco. E così nel 2010, questo 17 gennaio, gli ebrei italiani sono tornati a promuovere assieme ai vescovi la Giornata del dialogo, dedicandola al comandamento: "Ricordati del giorno di sabato per santificarlo", il quarto nella numerazione ebraica.

A migliorare il clima ha contribuito il viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa, lo scorso maggio.

Ma anche dopo quel viaggio le questioni controverse sono rimaste aperte. Due in particolare, tra loro intrecciate: Pio XII e la Shoah.


I SILENZI DI PIO XII E DEGLI EBREI
L'accusa maggiore che larga parte dell'ebraismo mondiale – ma anche una frazione del cattolicesimo – imputa a Pio XII è di aver taciuto di fronte allo sterminio nazista.

Prima di entrare, oggi, nella sinagoga, Benedetto XVI ha sostato davanti alla lapide che ricorda la deportazione ad Auschwitz di un migliaio di ebrei di Roma, il 16 ottobre 1943. L'accusa contro Pio XII è di aver taciuto anche in quella occasione, come ha ribadito il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, nel discorso con cui ha accolto il papa in sinagoga:

"Il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah duole ancora come un atto mancato. Forse non avrebbe fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso un segnale, una parola di estremo conforto, di solidarietà umana, per quei nostri fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz".

A difesa di Pio XII, si sostiene che egli tacque per non provocare, con proteste pubbliche, ancora più vittime. Ed anzi egli fece moltissimo per salvare le vite di numerosi ebrei, che in effetti trovarono protezione in chiese, conventi, istituti cattolici. Protezione riconosciuta con parole commosse dallo stesso Pacifici, il cui padre trovò salvezza in un convento di suore di Firenze.

Proprio nei giorni che hanno preceduto la visita di Benedetto XVI in sinagoga, altri casi di ebrei salvati sono divenuti noti. Alcuni di questi trovarono rifugio durante la guerra nell'abbazia romana delle Tre Fontane, edificata sul luogo del martirio di san Paolo. I tedeschi vi si erano insediati, ma non si accorsero che tra i monaci, nascosti dal saio, c'erano degli ebrei, che alla fine furono salvi.

Sul piano storiografico, il profilo di Pio XII come "papa di Hitler" appare dunque sempre più infondato. Restano però forti e diffuse le critiche ai suoi silenzi pubblici sulla Shoah. E questo spiega le reazioni negative di molti ebrei al procedere della causa di beatificazione di Pio XII, un cui passo importante è stata la proclamazione della sue "virtù eroiche", lo scorso 19 dicembre.

Secondo il rabbino Laras, questa decisione di Benedetto XVI sarebbe stata motivo sufficiente perché gli ebrei di Roma cancellassero la sua visita alla sinagoga.

Ma la questione del silenzio sulla Shoah è più complessa di quanto appaia. Oltre al silenzio di Pio XII vi furono anche i silenzi di altri, che durarono a lungo dopo la seconda guerra mondiale. Le accuse a Pio XII si fecero rumorose e persistenti solo dopo la sua morte, a partire dagli anni Sessanta. Poiché, prima d'allora, anche il mondo ebraico tacque, non tanto su quel papa, ma sulla stessa Shoah:

"Il quindicennio dopo la seconda guerra mondiale, che in Europa fu il periodo del silenzio e della grande rimozione della Shoah, fu infatti anche per Israele un periodo di silenzio".

Questo ha scritto Anna Foa, ebrea, docente di storia all'Università di Roma "La Sapienza", in un articolo pubblicato su "L'Osservatore Romano" del 15 gennaio 2010, antivigilia della visita di Benedetto XVI in sinagoga.

Un articolo di notevole rilevanza, per dove è stato scritto e quando.


ANNA FOA E IL "PECCATO D'ORIGINE" DI ISRAELE
Nell'articolo, Anna Foa fa proprie le tesi di uno dei maggiori studiosi del sionismo, Georges Bensoussan. A giudizio di entrambi, lo Stato d'Israele non nacque come "redenzione" dallo sterminio degli ebrei compiuto da Hitler. Il vero generatore dello Stato fu il sionismo, già durante il mandato britannico, con l'insediamento su quella terra di ebrei motivati a costruire un uomo nuovo. L'idea della Shoah come fondamento dello Stato d'Israele ha preso forza solo molto più tardi, dopo il processo ad Eichmann e soprattutto dopo la guerra del Kippur, in decenni recenti. E a prepararla – scrive Anna Foa – fu proprio il quindicennio di silenzio postbellico: un silenzio "abitato da memorie represse, da nuove paure identificate con le antiche paure realizzatesi nella Shoah, da sensi di colpa e volontà di rivincita".

Letta così, la nascita dello Stato d'Israele non è più quel "peccato d'origine" che ancor oggi gli imputano tanti suoi amici e nemici. Tra questi ultimi vi sono anche molti cattolici, in prima fila gli arabi che vivono nella regione. Il più autorevole di loro, il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal, era anche lui oggi nella sinagoga di Roma, all'arrivo del papa.

Secondo tale "vulgata", lo Stato d'Israele fu creato dalle grandi potenze per porre rimedio al precedente sterminio in Europa di sei milioni di ebrei, e così si compensò un'ingiustizia compiendone un'altra a danno delle popolazioni arabe del luogo. Nel 1964, quando Paolo VI si recò in Terra Santa, ancora la Chiesa di Roma non aveva accettato l'esistenza del nuovo Stato. E quando tre decenni dopo, nel 1993, la Santa Sede finalmente riconobbe lo Stato d'Israele e stabilì con esso rapporti diplomatici, gli arabo-cristiani presero quell'atto come un tradimento.

Ma da parte di Giovanni Paolo II e ora di Benedetto XVI, il riconoscimento d'Israele non ha più alcuna riserva.

Mentre, dall'altro lato, la memoria della Shoah incessantemente piegata ad arma di accusa contro la Chiesa di Pio XII e dei suoi successori, impedisce all'ebraismo di fuoruscire dalla sua identità di vittima.

Proprio così termina Anna Foa il suo articolo su "L'osservatore Romano". Assumendo la Shoah, invece che il sionismo, come fondamento della propria identità politica e religiosa, Israele rischia "un ripiegamento sulla catastrofe invece che sulla speranza del futuro"; si chiude in "un'identità dolente che oscilla sempre tra Auschwitz e Gerusalemme".


MORDECHAY LEWY E L'INCAPACITÀ DI PERDONARE
Ancora su "L'Osservatore Romano", nei giorni precedenti la visita di Benedetto XVI in sinagoga, un altro ebreo autorevole è andato ancor più a fondo della stessa questione.

L'autore, Mordechay Lewy, è ambasciatore di Israele presso la Santa Sede e ha pubblicato il suo articolo, oltre che sul giornale vaticano del 13 gennaio, sul mensile degli ebrei italiani "Pagine ebraiche".

Lewy riconosce che "solo pochi rappresentanti dell'ebraismo sono realmente impegnati nell'attuale dialogo con i cattolici". Sono soprattutto gli ebrei riformati, mentre le correnti ortodosse sono più restie.

Il motivo – scrive – è che il dialogo tra ebrei e cristiani è asimmetrico. Mentre i cristiani hanno l'Antico Testamento assieme al Nuovo, gli ebrei tendono a definire la propria identità religiosa in termini di "autosufficienza teologica". Si sentono gli unici "prescelti" da Dio. Impegnati strenuamente a sopravvivere in mezzo a cristiani che per secoli hanno fatto di tutto per convertirli, "gentilmente o, nella maggioranza dei casi, coercitivamente".

Così, "una ferita grave e dolorosa, inflitta nel passato, si apre ogni qualvolta la vittima si trova di fronte ai simboli del carnefice".

Anche oggi per molti ebrei avviene questo, scrive Lewy:

"Desiderano evitare ogni situazione in cui si debba perdonare qualcuno, specialmente se viene identificato giustamente o erroneamente come rappresentante del carnefice. La vittima ebrea sembra incapace di concedere l'assoluzione per misfatti lontani o recenti perpetrati contro i suoi fratelli e sorelle".

L'autocritica non è da poco. Ma proprio nel discorso che ha rivolto a Benedetto XVI, accogliendolo in sinagoga, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha detto parole che fanno sperare, a proposito dell'essere "fratelli" tra ebrei e cristiani:

"Il racconto del Sefer Bereshit, la Genesi, dà su questo delle indicazioni preziose. Come spiega rav Sachs, c'è nel libro, dall'inizio alla fine, un filo conduttore che lega storie diverse. il rapporto tra fratelli comincia molto male, Caino uccide Abele. Un'altra coppia di fratelli, Isacco e Ismaele, vive separata, vittima di rivalità ereditate, ma si ritrova per un gesto di pietà alla sepoltura del padre comune Abramo. Una terza coppia di fratelli, Esaù e Giacobbe, parimenti conflittuale, si incontra per una breve conciliazione e un abbraccio, ma le strade dei due si separano. Finalmente la storia di Giuseppe e i suoi fratelli, iniziata drammaticamente con un tentato omicidio e una vendita in schiavitù, si risolve con una conciliazione finale quando i fratelli di Giuseppe riconoscono il loro errore e danno prova di volersi sacrificare per l'altro. Se il nostro è un rapporto tra fratelli c'è da chiedersi sinceramente a che punto siamo di questo percorso e quanto ci separa ancora dal recupero di un rapporto autentico di fratellanza e comprensione; e cosa dobbiamo fare per arrivarci".


Il Papa in sinagoga. Una svolta nel dialogo fra cattolici ed ebrei – intervento su Facebook del 18 gennaio 2010 - di Massimo Introvigne
La visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma, del 17 gennaio 2010, è stata vissuta dai media quasi esclusivamente come evento preparato e accompagnato da polemiche. Si è scrutato con attenzione ogni possibile riferimento alle polemiche a proposito della beatificazione di Papa Pio XII (1939-1958) o della revoca della scomunica ai vescovi della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991), uno dei quali – monsignor Richard Williamson – ha espresso simpatia per le posizioni negazioniste sull’Olocausto. Nei mesi passati Benedetto XVI è più volte intervenuto per ribadire sia che Pio XII, una figura santa e a lui particolarmente cara, agì con discrezione ma anche con sapienza ed efficacia per aiutare, nei limiti di quanto era umanamente possibile, gli ebrei minacciati di sterminio dal nazional-socialismo, sia che la revoca delle scomuniche si inquadra nel tentativo di riportare la Fraternità San Pio X alla piena comunione con la Chiesa Cattolica, una questione complessa ma che non ha nulla a che fare con il negazionismo, del resto condannato con parole chiare e forti dallo stesso Pontefice.

L’insistenza di ambienti ebraici – dopo tanti chiarimenti – sulle due tematiche relative a Pio XII e a monsignor Williamson ancora in occasione della visita del 17 gennaio appare, occorre dirlo francamente, come un’ingerenza in affari interni della Chiesa, forse anche sollecitata e istigata da ambienti cattolici ostili a Benedetto XVI e decisi a preservare quella interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II che il regnante Pontefice ha denunciato e condannato come «ermeneutica della discontinuità e della rottura». Da questo punto di vista, davvero di gusto discutibile appare la «difesa» del Concilio da parte del rabbino capo Riccardo Di Segni nel suo indirizzo di saluto al Papa: «Se quel che ha portato il Concilio Vaticano II venisse messo in discussione – ha detto il rabbino – non ci sarebbe più opportunità di dialogo». Ma soprattutto l’insistenza sull’evento rischia di far passare in secondo piano – come spesso accade – l’insegnamento di Benedetto XVI, che ha trattato in sinagoga due temi di grande importanza: un insegnamento che presenta anche qualche elemento di novità.

Il primo tema – che risponde in radice alle polemiche, ma vola più in alto rispetto a ogni giudizio contingente – riguarda le tragedie del XX secolo e le responsabilità per quegli errori e orrori. Il Papa indica con chiarezza da dove è venuto il male: da «ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l’idolatria dell'uomo, della razza, dello stato e che hanno portato ancora una volta il fratello ad uccidere il fratello. Il dramma singolare e sconvolgente della Shoah rappresenta, in qualche modo, il vertice di un cammino di odio che nasce quando l'uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell’universo». Richiamando la sua visita ad Auschwitz del 28 maggio 2006, Benedetto XVI riafferma che uccidendo tanti uomini i signori delle ideologie in realtà, e ultimamente, «intendevano uccidere Dio». Non c’è solo, qui, una risposta al giudizio storicamente falso secondo cui l’Olocausto sarebbe una conseguenza dell’antigiudaismo cattolico, mentre è con tutta evidenza il frutto avvelenato di un’ideologia razzista radicalmente anticattolica. C’è molto di più. Le ideologie moderne – il nazional-socialismo che idolatra la razza, ma anche il comunismo che idolatra lo Stato e l’illuminismo laicista che proclama i diritti dell’uomo contro i diritti di Dio – sono segmenti di un processo plurisecolare di allontanamento dalla verità cattolica in cui l’uomo cerca di occupare quel «centro dell’universo» che è invece riservato a Dio. I frutti di questo processo, di cui il nazional-socialismo fa parte senza esserne l’unica manifestazione, non possono che essere odiosi e criminali.

Il secondo tema – e sta qui l’elemento di novità – è la proposta agli ebrei di un cammino di dialogo che non è principalmente teologico ma che parte dalla ragione e dal diritto naturale. I Dieci Comandamenti che gli ebrei e i cristiani hanno in comune sono, certo, rivelati da Dio ma sono accessibili anche alla ragione naturale di ogni persona di retto sentire. Il Decalogo «costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell'amore, un “grande codice” etico per tutta l'umanità. Le “Dieci Parole” gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l’'ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana». La ragione, in particolare, è in grado di riconoscere la verità di aspetti fondamentali del Decalogo oggi particolarmente minacciati: «il rispetto, la protezione della vita» e «la santità della famiglia, in cui il “sì” personale e reciproco, fedele e definitivo dell'uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita». Anche «riconoscere l'unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d’oro» – il primo comandamento del Decalogo – è in realtà un traguardo cui la ragione umana è capace di pervenire, così che l’ateismo e il laicismo sono intrinsecamente irragionevoli, e sono anche alle radici degli orrori delle ideologie.

Non si può non notare il parallelo fra questa grande offerta al mondo ebraico di un dialogo incentrato sulla legge naturale, ricordata da Dio “pro memoria” nei Dieci Comandamenti a un’umanità che è in grado di comprenderla anche con la ragione – così che queste norme di natura s’impongono a tutti, credenti e non credenti, perché tutti sono dotati di ragione –, e l’analoga offerta più volte rivolta da Benedetto XVI ai musulmani. Il Pontefice non nega l’interesse di un dialogo teologico, che per i musulmani si è concentrato sul ruolo reciproco della Bibbia e del Corano o su come l’islam vede la figura di Gesù Cristo, per gli ebrei sul significato della nozione di alleanza fra Dio e il suo popolo e sul ruolo dell’Antica Alleanza con il popolo ebraico dopo la venuta di Gesù Cristo e la Nuova Alleanza con la Chiesa. Temi certamente interessanti per gli specialisti, e non solo. E tuttavia più volte Benedetto XVI ha mostrato i limiti di un dialogo teorico, buono quasi esclusivamente per gli accademici e per i congressi. In un mondo segnato da tante tragedie e violenze il dialogo più urgente e più concreto – quello che va al di là degli specialisti e coinvolge anche le persone comuni, quello che davvero può risolvere qui e ora i problemi e i conflitti – non può che partire dalla ragione. Se ogni religione argomenta esclusivamente dalla sua fede un confronto è certo possibile, ma raggiungere un consenso è del tutto aleatorio. Se tutti invece argomentano dalla ragione – che non è né cristiana né ebraica né musulmana, e che i credenti e i non credenti hanno in comune – trovare un consenso almeno su alcuni principi minimi della legge naturale, della legge di ragione, è possibile. Ed è il consenso su questi principi che può evitare le tragedie e le violenze che hanno segnato il XX secolo e continuano a segnare il XXI. Sta qui la vera svolta nel dialogo inter-religioso di Benedetto XVI, il Papa della ragione. Le polemiche contingenti non dovrebbero offuscare questo grande insegnamento.


EUGENETICA/ Via libera al figlio perfetto: l’ultima sentenza choc del tribunale di Salerno - Gianfranco Amato lunedì 18 gennaio 2010 – ilsussidiario.net
Ennesimo episodio di deriva eugenetica per via giudiziaria. Il Tribunale di Salerno ha autorizzato una coppia fertile a ricorrere alla diagnosi prenatale per verificare possibili patologie dell’embrione, contravvenendo così, in un colpo solo, a due norme della legge 40/2004. La prima che vieta la possibilità di fecondazione assistita a coppie fertili (art. 1), e la seconda che proibisce l’utilizzo dell’analisi preimpianto a fini selettivi (art. 13).

Del tutto irrilevante, per il magistrato salernitano, il fatto che la legge 40/2004, disapplicata col provvedimento in questione, sia stata approvata a larga maggioranza dal Parlamento della Repubblica, sia stata confermata da un referendum popolare e sia passata al vaglio della Corte costituzionale che, con la recente sentenza 151/2009, ha confermato la piena costituzionalità del divieto di ricorso alla diagnosi reimpianto a fini eugenetici.

La disinvolta violazione del dettato normativo da parte del Tribunale di Salerno è avvenuta attraverso le solite vaghe espressioni di “diritto vivente” e di “lettura costituzionalmente orientata” della legge. Modi eleganti per far prevalere la personale prospettiva ideologica di un magistrato quando questa si appalesi chiaramente contra legem.

Qui il discorso si farebbe lungo. Implicherebbe considerazioni sulla tripartizione dei poteri, sulla prevaricazione di parte della magistratura rispetto al potere legislativo, sulla tentazione del “government by judiciary”, sul mostro giuridico del “giudice-legislatore”. Bisognerebbe ricordare Montesquieu, Tocqueville, Constant.

Il punto sul quale, invece, intendo focalizzare l’attenzione è un altro. Riguarda un passo del provvedimento salernitano, e precisamente quello in cui si afferma che “il diritto a procreare, e lo stesso diritto alla salute dei soggetti coinvolti, verrebbero irrimediabilmente lesi da una interpretazione delle norme in esame che impedissero il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che però rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili”.

È proprio su quel “diritto a procreare” che ci si deve interrogare. Potremmo partire dal titolo del libro pubblicato nel 2004 da Mary Warnock: Fare bambini. Esiste un diritto ad avere figli? Da un punto di vista giuridico, checché ne pensi il Tribunale di Salerno, per quanto riguarda il nostro ordinamento la risposta è semplice. Sarebbe sufficiente citare il presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano, Mario Zevoli: «Essere genitori sembra sia considerato un diritto, ma non è affatto così». Prima che un problema giuridico, quindi (fortunatamente non siamo ancora nella Svezia eugenetica degli anni ’30), è un problema morale.


Soltanto una prospettiva di individualismo esasperato può tradurre un desiderio in diritto. E una simile prospettiva è capace di generare ingiustizia quando l’oggetto del desiderio implica violazione dei diritti di altri soggetti. Un figlio non può essere considerato come mera “proprietà” dei genitori, e questo vale fin dal concepimento. Né può essere considerato un “oggetto” necessario alla realizzazione di una coppia, da ottenere non con un atto d’amore ma attraverso l’esito positivo di un’operazione tecnica.

Il cosiddetto “diritto di procreazione”, in realtà, rischia di tradursi nella proiezione egoistica di un capriccio. Solo così, infatti, può giustificarsi, ad esempio, il ricorso alla fecondazione assistita per una coppia di donne omosessuali, o l’inseminazione artificiale di una donna con il seme congelato del marito defunto, o il figlio in provetta per le ultrasessantenni. Sembrerebbero, queste, aberrazioni teoriche ma, in realtà, lo scorso luglio qualcuno ha cominciato a riflettere quando si è appresa la notizia che in Gran Bretagna la signora Maria Bousada De Lara è morta di cancro all’età di 69 anni lasciando soli due gemelli di due anni, ottenuti attraverso il ricorso alla fecondazione assistita per realizzare il suo egoistico desiderio di maternità.

Ripensando a quell’episodio, mi sono venute in mente le parole del cardinale Caffarra quando ha avuto il coraggio di affermare, senza mezzi termini, che «nessuno possiede il diritto ad avere un figlio, a qualunque costo e in qualunque modo», perché «si ha diritto ad avere “qualcosa”, mai ad avere “qualcuno”». E, citando Bruno Fasani, lo stesso cardinale ha spiegato: «Un figlio non può essere una sorta di peluche che riempie i vuoti affettivi, che scavalca fittiziamente i limiti imposti dalla natura, che spezza solitudini senza prospettive di soluzione».

La riduzione della genitorialità a mero fattore biologico, a questione di Dna, significa immiserire il rapporto filiale, riportandolo alla concezione ottocentesca dello jus sanguinis. Una sorta di riduzionismo genetico come nuova versione del riduzionismo biologico di Cesare Lombroso. Davvero un bel passo avanti per i progressisti della società moderna ed evoluta.

L’uomo, in realtà, è più della somma dei suoi geni. Ce lo ha ricordato Francis Collins, il padre del genoma umano, quando il 26 giugno 2000, in una conferenza stampa tenuta alla Casa Bianca pronunciò al mondo intero, appunto, la celebre frase: «We are clearly much, much more than the sum total of our genes».

Essere genitori non è, quindi, una questione di geni. La Chiesa, ad esempio, da secoli sussurra all’orecchio dei suoi figli che l’uomo è capace di una fecondità che non è riducibile solo a quella carnale. «È per questo - ricordava don Luigi Giussani, il fondatore di Cl - che un uomo e una donna che non hanno figli e che ne adottano sono veramente padri e madri nella misura in cui educano un figlio. Molto più della grande maggioranza che getta fuori dal ventre il figlio e non si cura del suo destino». Davvero non è una questione di geni.


18/01/2010 - La Vietnam News Agency nega la repressione a Dong Chiem. E attacca AsiaNews - L’agenzia governativa scrive che sulla “rimozione” del crocefisso AsiaNews ha riferito “storie infamanti”. Altre fonti governative dicono che la croce è stata distrutta dai fedeli. Peccato che sia stata fatta saltare con l’esplosivo, che le bastonate della polizia abbiano fermato la protesta dei parrocchiani e che i vescovi invitino le autorità a non tenere comportamenti che suscitino “ulteriore malcontento, rabbia e sfiducia tra la popolazione”
Roma (AsiaNews) - “I cattolici non hanno subito repressione”. Forte della certezza che le viene dal non poter essere smentita, in patria, nemmeno dai fatti, la Vietnam News Agency, organo del regime, intitola così una nota del 16 gennaio sulla vicenda della croce distrutta a Dong Chiem. Nel testo si legge che “AsiaNews.it ha diffuso storie diffamanti riguardanti la recente rimozione di una croce illegalmente eretta sul monte Nui Che”, “riprese dalla Radio Vaticana e da Radio Maria, portando incomprensione e preoccupazione nella comunità internazionale”.

Notiamo, intanto, come è descritto l’accaduto. La VNA parla di “rimozione” del crocefisso, il che dà l’idea di una cosa smontata, che può essere rimontata. In realtà, come dice il vescovo Francis Nguyen Van Sang e AsiaNews ha riportato, la croce è stata fatta saltare con l’esplosivo da agenti e militari. E, per restare alla descrizione del fatto, altre fonti filogovernative, come Hanoi Moi e la Voice of Vietnam, hanno scritto che “i fedeli hanno distrutto la croce dopo essere stati ammaestrati dal governo ed aver riconosciuto il loro errato comportamento…”.

Non sappiamo se questi fedeli sono gli stessi cinque arrestati il 7 gennaio, il giorno dopo la “rimozione” della croce, o i due finiti in ospedale (ci sono le foto) perché protestavano insieme a molti altri, tutti bastonati, o JB Nguyen Huu Vinh, giornalista cattolico aggredito e lasciato svenuto in mezzo alla strada, mentre cercava di informarsi sull’accaduto. O i mille della parrocchia di Ham Long che volevano recarsi sul monte Che, fermati dalla polizia sequestrando la patente dei conducenti dei bus, o le centinaia di parrocchiani di Ham Long che, invece, hanno usato le loro motociclette, e sono passati. O quelli, pure arrivati, che hanno usato le barche. O i duemila della vicina parrocchia di Nghia Ai che, insieme a fedeli locali, il 13, hanno inscenato una protesta davanti all’ufficio del Comitato del popolo.

E non si capisce perché della vicenda di questi “cattolici che non hanno subito repressione” si sono occupati numerosi vescovi vietnamiti, come mons. Joseph Nguyen Van Yen, di Phat Diem, che è andato di persona a portare solidarietà, o mons. mons. Michael Hoang Duc Oang, vescovo di Kon Tum, che, nell’impossibilità di recarsi a Dong Chiem, ha inviato una lettera di solidarietà a mons. Joseph Ngo Quang Kiet, arcivescovo di Hanoi, nella giurisdizione del quale c’è anche Dong Chiem. Arcivescovado dal quale il vicecancelliere, padre John Le Trong Cung, il 7 definiva “un vero sacrilegio” la distruzione della croce. E aggiungeva “l’aver assalito brutalmente inermi e innocenti civili è un atto selvaggio e inumano, che ferisce gravemente la dignità umana. Questa ottusa condotta va condannata”.

Forse, più che preoccuparsi di “addomesticare” i fatti, i responsabili vietnamiti dovrebbero prestare ascolto ai 10 vescovi del nord del loro Paese che, a proposito di questa vicenda, invitano le autorità a non usare misure che possono creare “ulteriore malcontento, rabbia e sfiducia tra la popolazione” e confermano la volontà di “collaborare con il governo” per il bene del Paese e la costruzione di “una grande famiglia” in cui tutti i membri possano coesistere in maniera pacifica. Senza rischiare di “non subire repressione”.