sabato 16 gennaio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1. Alla Congregazione per la Dottrina della Fede il Papa ribadisce che l'unità dei cristiani è la priorità della Chiesa - La legge morale naturale interpella la società e il diritto (L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2010)
2. A centocinquant'anni dall'enciclica «Nullis certe verbis» di Pio IX - Le ragioni di Pietro di fronte alla modernità - di Raffaele Alessandrini (L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2010)
3. La comune testimonianza del Dio unico - di Norbert Hofmann Segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani (L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2010)
4. PERCHÉ VIOLARE LA LEGGE 40 È UNA SCELTA IRRESPONSABILE - E adesso chi fermerà le tentazioni di scartare figli? - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 16 gennaio 2010

Alla Congregazione per la Dottrina della Fede il Papa ribadisce che l'unità dei cristiani è la priorità della Chiesa - La legge morale naturale interpella la società e il diritto (L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2010)
La legge morale naturale "non è esclusivamente o prevalentemente confessionale", ma si fonda sulla stessa natura umana: lo ha ricordato Benedetto XVI ai partecipanti all'assemblea plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, ricevuti in udienza nella mattina di venerdì 15 gennaio, nella Sala Clementina.

Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
Carissimi fedeli collaboratori,
è per me motivo di grande gioia incontrarvi in occasione della Sessione Plenaria e manifestarvi i sentimenti di profonda riconoscenza e di cordiale apprezzamento per il lavoro che svolgete al servizio del Successore di Pietro nel suo ministero di confermare i fratelli nella fede (cfr. Lc 22, 32).
Ringrazio il Signor Cardinale William Joseph Levada per il suo indirizzo di saluto, nel quale ha richiamato le tematiche che impegnano attualmente la Congregazione, nonché le nuove responsabilità che il Motu Proprio "Ecclesiae Unitatem" le ha affidato, unendo in modo stretto al Dicastero la Pontificia Commissione Ecclesia Dei.
Vorrei ora brevemente soffermarmi su alcuni aspetti che Ella, Signor Cardinale, ha esposto.
Anzitutto, desidero sottolineare come la Vostra Congregazione partecipi del ministero di unità, che è affidato, in special modo, al Romano Pontefice, mediante il suo impegno per la fedeltà dottrinale. L'unità è infatti primariamente unità di fede, sostenuta dal sacro deposito, di cui il Successore di Pietro è il primo custode e difensore. Confermare i fratelli nella fede, tenendoli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto costituisce per colui che siede sulla Cattedra di Pietro il primo e fondamentale compito conferitogli da Gesù. È un inderogabile servizio dal quale dipende l'efficacia dell'azione evangelizzatrice della Chiesa fino alla fine dei secoli.
Il Vescovo di Roma, della cui potestas docendi partecipa la Vostra Congregazione, è tenuto costantemente a proclamare: "Dominus Iesus" - "Gesù è il Signore". La potestas docendi, infatti, comporta l'obbedienza alla fede, affinché la Verità che è Cristo continui a risplendere nella sua grandezza e a risuonare per tutti gli uomini nella sua integrità e purezza, così che vi sia un unico gregge, radunato attorno all'unico Pastore.
Il raggiungimento della comune testimonianza di fede di tutti i cristiani costituisce pertanto la priorità della Chiesa di ogni tempo, al fine di condurre tutti gli uomini all'incontro con Dio. In questo spirito confido in particolare nell'impegno del Dicastero perché vengano superati i problemi dottrinali che ancora permangono per il raggiungimento della piena comunione con la Chiesa da parte della Fraternità S. Pio X.
Desidero inoltre rallegrarmi per l'impegno in favore della piena integrazione di gruppi di fedeli e di singoli, già appartenenti all'Anglicanesimo, nella vita della Chiesa Cattolica, secondo quanto stabilito nella Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus. La fedele adesione di questi gruppi alla verità ricevuta da Cristo e proposta dal Magistero della Chiesa non è in alcun modo contraria al movimento ecumenico, ma mostra, invece, il suo ultimo scopo che consiste nel giungere alla piena e visibile comunione dei discepoli del Signore.
Nel prezioso servizio che rendete al Vicario di Cristo, mi preme ricordare anche come la Congregazione per la Dottrina della Fede nel settembre 2008 ha pubblicato l'Istruzione Dignitas personae su alcune questioni di bioetica. Dopo l'Enciclica Evangelium vitae del Servo di Dio Giovanni Paolo ii nel marzo 1995, questo documento dottrinale, centrato sul tema della dignità della persona, creata in Cristo e per Cristo, rappresenta un nuovo punto fermo nell'annuncio del Vangelo, in piena continuità con l'Istruzione Donum vitae, pubblicata da codesto Dicastero nel febbraio 1987.
In temi tanto delicati ed attuali, quali quelli riguardanti la procreazione e le nuove proposte terapeutiche che comportano la manipolazione dell'embrione e del patrimonio genetico umano, l'Istruzione ha ricordato che "il valore etico della scienza biomedica si misura con il riferimento sia al rispetto incondizionato dovuto ad ogni essere umano, in tutti i momenti della sua esistenza, sia alla tutela della specificità degli atti personali che trasmettono la vita" (Istr. Dignitas personae, n. 10). In tal modo il Magistero della Chiesa intende offrire il proprio contributo alla formazione della coscienza non solo dei credenti, ma di quanti cercano la verità e intendono dare ascolto ad argomentazioni che vengono dalla fede ma anche dalla stessa ragione. La Chiesa, nel proporre valutazioni morali per la ricerca biomedica sulla vita umana, attinge infatti alla luce sia della ragione che della fede (cfr. Ibid., n. 3), in quanto è sua convinzione che "ciò che è umano non solamente è accolto e rispettato dalla fede, ma da essa è anche purificato, innalzato e perfezionato" (Ibid., n. 7).
In questo contesto viene altresì data una risposta alla mentalità diffusa, secondo cui la fede è presentata come ostacolo alla libertà e alla ricerca scientifica, perché sarebbe costituita da un insieme di pregiudizi che vizierebbero la comprensione oggettiva della realtà. Di fronte a tale atteggiamento, che tende a sostituire la verità con il consenso, fragile e facilmente manipolabile, la fede cristiana offre invece un contributo veritativo anche nell'ambito etico-filosofico, non fornendo soluzioni precostituite a problemi concreti, come la ricerca e la sperimentazione biomedica, ma proponendo prospettive morali affidabili all'interno delle quali la ragione umana può ricercare e trovare valide soluzioni.
Vi sono, infatti, determinati contenuti della rivelazione cristiana che gettano luce sulle problematiche bioetiche: il valore della vita umana, la dimensione relazionale e sociale della persona, la connessione tra l'aspetto unitivo e quello procreativo della sessualità, la centralità della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna. Questi contenuti, iscritti nel cuore dell'uomo, sono comprensibili anche razionalmente come elementi della legge morale naturale e possono riscuotere accoglienza anche da coloro che non si riconoscono nella fede cristiana.
La legge morale naturale non è esclusivamente o prevalentemente confessionale, anche se la Rivelazione cristiana e il compimento dell'uomo nel mistero di Cristo ne illumina e sviluppa in pienezza la dottrina. Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, essa "indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale" (n. 1955). Fondata nella stessa natura umana e accessibile ad ogni creatura razionale, la legge morale naturale costituisce così la base per entrare in dialogo con tutti gli uomini che cercano la verità e, più in generale, con la società civile e secolare. Questa legge, iscritta nel cuore di ogni uomo, tocca uno dei nodi essenziali della stessa riflessione sul diritto e interpella ugualmente la coscienza e la responsabilità dei legislatori.
Nell'incoraggiarvi a proseguire nel Vostro impegnativo e importante servizio, desidero esprimervi anche in questa circostanza la mia spirituale vicinanza, impartendo di cuore a voi tutti, in pegno di affetto e di gratitudine, la Benedizione Apostolica.
(©L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2010)


A centocinquant'anni dall'enciclica «Nullis certe verbis» di Pio IX - Le ragioni di Pietro di fronte alla modernità - di Raffaele Alessandrini (L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2010)
Centocinquant'anni fa, a pochi mesi dall'armistizio di Villafranca - la fine della seconda guerra d'indipendenza italiana - Papa Pio IX, il 19 gennaio 1860, promulgava la lettera enciclica Nullis certe verbis che ribadiva con maggiore ampiezza i contenuti della precedente Qui nuper (18 giugno 1859). In più, ora, il nuovo documento pontificio conteneva una risposta diretta a Napoleone iii nel contesto di una vivace dialettica avviata in seguito alla pubblicazione dell'opuscolo del diplomatico e scrittore Arthur Dubreuil-Hélion visconte de La Guéronnière dal titolo Le Pape et le Congrès - in preparazione a un Congresso da tenere a Parigi che poi non ci sarebbe mai stato.
Il testo era ispirato, e forse dettato, dallo stesso imperatore dei francesi. In quelle pagine si proponeva in sostanza di lasciare al Papa solo la città di Roma e dintorni, affermando che la limitazione del potere temporale non avrebbe diminuito, ma, al contrario, avrebbe aumentato il prestigio del vescovo di Roma liberandolo, allo stesso tempo, delle preoccupazioni di gestire uno Stato, un'amministrazione, una polizia e un esercito. Seguiva uno scambio di lettere tra il Papa e Napoleone iii. Questi, nella più nota di queste missive, invitava Pio IX a "far sacrificio delle province ribelli affidandole a Vittorio Emanuele". Nella Nullis certe verbis Pio IX comunicava ai vescovi la sua posizione decisa a non voler rinunciare alle province dell'Emilia. A che cosa si riferiva?
Mentre piemontesi e francesi combattevano, e sconfiggevano, gli austriaci, respingendoli al di là dei confini naturali a nord dell'Italia, una serie di moti liberali erano scoppiati in Toscana e nello Stato del Papa. Le Marche e l'Umbria furono prontamente riconquistate con interventi energici delle truppe pontificie dove, specialmente a Perugia, la repressione fu severa. A Parma, Modena e a Bologna invece si instaurarono in accordo tra piemontesi e francesi le "dittature" liberali di Giuseppe Manfredi, di Luigi Carlo Farini e Leonetto Cipriani e i territori si sarebbero distaccati definitivamente da Roma riunendosi poi al Piemonte con i plebisciti del 11 e 12 marzo 1860. Il resto dei domini pontifici, a eccezione di Roma, sarebbe poi finito al Piemonte il 18 settembre di quello stesso anno, quan- do l'esercito piemontese, guidato dal generale Enrico Cialdini, sconfiggerà nella piana di Castelfidardo i pontifici del generale Christophe de Lamoricière. Esattamente dieci anni e due giorni prima di Porta Pia.
Proprio dopo la presa di Roma Pio IX avrebbe ripercorso per iscritto tutte le fasi del progressivo disgregarsi dello Stato della Chiesa in un'altra enciclica la Respicientes ea in omnia del 1° novembre 1870 nella quale il Papa protestò con forza contro la presa di Roma dichiarando inoltre di considerare la Santa Sede Apostolica come prigioniera di fatto: "Non possiamo qui passare sotto silenzio quell'enorme delitto che certamente vi è noto (...) come se i possessi e i diritti della Sede Apostolica, sacri e inviolabili per tanti titoli e sempre riconosciuti per tanti secoli, potessero essere contestati e rimessi in discussione". Né il Pontefice avrebbe omesso di sottolineare come "per abbellire la sacrilega spoliazione che abbiamo sofferta con ogni disprezzo del diritto naturale e umano si escogitò quell'apparato e quella finzione di plebiscito usata nelle province strappate a Noi".
Uno sguardo anche sommario di questi documenti dimostra che l'atteggiamento intransigente di Papa Mastai Ferretti nella difesa del potere temporale non solo è dettato da ragioni storiche, ma anche pastorali e dottrinali. Come ha osservato Giacomo Martina, "la creazione di uno Stato laico non implicava solo l'affermazione di libertà per tutti, individui e associazioni, compresa la Chiesa, ma la volontà di ridurre o escludere l'influsso sociale della Chiesa e una lotta aperta contro gli istituti religiosi, soprattutto quelli contemplativi (...) Non solo la società cambiava il suo volto e strutture ormai anacronistiche tramontavano, ma in molti casi si tentava di diminuire l'antica fede, sostituendola con una concezione acristiana, laica della vita e con una morale separata dalla religione" (Pio IX, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1986, pp. 148-149).
È alla luce di ciò che si comprende l'enciclica Quanta cura e l'annesso Sillabo sui principali errori dell'epoca (8 dicembre 1864). Ovvio che con la mentalità contemporanea - e una conoscenza storica di massa le cui fonti fondamentali sono sempre più modeste - una condanna tout court del liberalismo come principio filosofico possa facilmente suscitare più di una critica. Non si può invece negare una grande lungimiranza in Pio IX almeno nell'avere intuito i rischi dipendenti dalla tendenza a separare la politica e l'economia dalla morale, e dall'attribuzione di poteri sconfinati allo Stato. Sembra infatti difficile poter negare come nel secolo xx proprio l'esasperazione di tali fenomeni abbia trovato piena formalizzazione nei sistemi totalitari.
Quanto al potere temporale, la storiografia tende ora a sottolineare il rapporto innegabile con l'esigenza di libertà presto avvertita dalla Chiesa di Roma. Una libertà che più volte nei secoli molti avrebbero cercato di minare e di distruggere. Espressione e fondamento per oltre un millennio dell'indipendenza del magistero pontificio, il potere temporale in una prospettiva storica veniva a incidere fortemente non sulla natura della Chiesa, ma sulla "credibilità" umana della Chiesa stessa. Per tale ragione Papa Mastai Ferretti riteneva di non poter rinunciare al principato civile proprio come non vi avevano rinunciato predecessori di cui portava il nome come Pio vi e Pio vii. Anzi proprio per difendere tale diritto acquisito nei secoli, il primo era morto in esilio e il secondo aveva dovuto patire l'odiosa prigionia napoleonica.
Nel contesto del movimento risorgimentale italiano, è quindi d'importanza capitale ricordare e comprendere il dramma interiore di Pio IX, figlio del suo tempo, tendenzialmente aperto al nuovo, e tutt'altro che privo di amore per il suo Paese; ma vincolato al passato dalla sua veste di principe temporale. Una veste che egli personalmente asseriva di indossare come "dovere di coscienza". Pur aggiungendo: come fosse quest'ultimo "un pensiero assai secondario in confronto dell'altro (...) di procurare cioè che i popoli cattolici conoscano la verità, e siano rischiarati sui principi della virtù e del vizio che oggi si tenta di capovolgere" (Martina, Pio IX, già citato, p. 147).
Tale dunque la situazione di un papato da un lato avversato dalla rivoluzione liberale, laica e laicizzatrice, come reazionario e misoneista, dall'altro combattuto anche dagli stessi sovrani legittimisti, nelle loro costanti tentazioni giurisdizionalistiche - fossero gallicane, giuseppinistiche o febroniane. E dunque, secondo una tradizione antica, inclini ad abbassare il più possibile le prerogative del Pontefice romano per affermare e consolidare il proprio assolutismo.
È sempre alla luce di tali avversioni, contraddittorie solo in apparenza, che, in seguito, debbono essere lette le reazioni aspramente contrarie al concilio Vaticano i del 1870 e in particolare di fronte alla proclamazione del dogma dell'infallibilità. Significativo in proposito è ricordare come Paolo vi, il 5 marzo 1978, nel primo centenario della morte di Pio IX, tenesse a sottolineare quanto le definizioni del Vaticano i risplendano ancora oggi "come fari luminosi nel secolare sviluppo della teologia e come altrettanti punti fermi nel turbine dei movimenti ideologici (...) occorre infatti rilevare che promulgando la costituzione dogmatica Pastor aeternus, Pio IX - sottolineò Papa Montini - non fece che porre l'architrave di quella solida costruzione ecclesiologica che è stata completata e perfezionata dal concilio Vaticano ii nella Lumen gentium".
(©L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2010)


Domenica 17 gennaio la visita di Papa Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma

La comune testimonianza del Dio unico - di Norbert Hofmann Segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani (L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2010)
Nel pomeriggio di domenica 17 gennaio, Papa Benedetto XVI visiterà la comunità ebraica di Roma e in questo contesto il Tempio Maggiore, che si trova sul lungotevere, nelle immediate vicinanze del Vaticano. Per il Santo Padre si tratta dunque di un breve tragitto, dal centro della Chiesa cattolica universale al luogo sacro dell'ebraismo a Roma. Cristianesimo ed ebraismo in questa città vivono da sempre fianco a fianco. Hanno una lunga storia comune, fatta di momenti diversi: sia periodi di pacifica fratellanza che periodi di tensione. Sin dal tempo dei Maccabei nel ii secolo prima dell'era cristiana, v'è la testimonianza di una comunità ebraica a Roma, riconducibile direttamente all'ebraismo del secondo tempio di Gerusalemme. L'odierna comunità ebraica può dunque essere fiera della sua venerabile storia e della sua tradizione religiosa preservata nel corso dei secoli.
Papa Benedetto XVI non è il primo Pontefice a visitare il Tempio Maggiore di Roma: il primo a farlo è stato il suo predecessore, Papa Giovanni Paolo II, il 13 aprile 1986. Da Nostra aetate (n. 4) del concilio Vaticano II del 1965, che ha gettato le basi di un dialogo sistematico tra ebrei e cattolici da un punto di vista teologico e pratico, le relazioni tra le due comunità si sono man mano intensificate. Sebbene siano state soggette ad alti e bassi, esse sono oggi molto più resistenti che nel passato. Lo dimostra, per esempio, il "caso Williamson", che, a partire dal 24 gennaio 2009, ha messo alla prova i rapporti. Nel giro di alcune settimane, grazie agli sforzi compiuti da parte sia ebraica che cattolica, è stato possibile appianare la situazione. Il 12 febbraio 2009 il Papa ha ricevuto una delegazione composta dai presidenti delle principali organizzazioni ebraiche statunitensi. In tale occasione, egli ha ribadito con forza che il negazionismo e l'antisemitismo non hanno posto nella Chiesa cattolica; ha espresso la sua solidarietà al popolo ebraico e si è detto intenzionato a fare il possibile per promuovere le relazioni con l'ebraismo.
Al tempo stesso, il Papa annunciava ufficialmente il suo viaggio in Terra Santa, dall'8 al 15 maggio 2009. Uno degli scopi di tale pellegrinaggio è stato chiaramente quello di fornire un nuovo impulso al dialogo interreligioso tra le tre religioni monoteistiche. È stato alquanto significativo che, durante la sua permanenza in Israele, il Papa abbia visitato il memoriale di Yad-Wa-Shem per pregare per i sei milioni di ebrei, vittime innocenti della Shoah, e ricordare i loro nomi, "incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente". Il Santo Padre si è recato anche al Muro del Pianto, dove s'è fermato in silenziosa meditazione e ha riposto la sua preghiera in una fessura tra le pietre, come aveva fatto anche Papa Giovanni Paolo ii nel marzo del 2000. Il Santo Padre, inoltre, ha incontrato nel Centro Hechal Shlomo i due rabbini capo del Gran Rabbinato di Gerusalemme, Jonah Metzger e Shlomo Amar, come pure altri importanti rappresentanti dell'ebraismo israeliano e internazionale. Il viaggio del Pontefice in quanto tale, i numerosi incontri con i partners ebrei di dialogo della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo della Santa Sede e le parole pronunciate esplicitamente dal Papa sull'irreversibilità degli sforzi compiuti finora per la promozione del dialogo hanno sicuramente contribuito a rafforzare le relazioni tra le nostre comunità.
Ricordiamo per inciso che Papa Benedetto XVI ha già visitato due altre sinagoghe: il 19 agosto 2005 a Colonia, durante la Giornata mondiale della gioventù, e il 18 aprile 2008 a New York, in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti. Papa Benedetto XVI sarà dunque ricordato dalla storia anche come il Papa che ha visitato più sinagoghe. Egli ha dimostrato ripetutamente d'avere a cuore le relazioni tra ebrei e cattolici e soprattutto, come Papa tedesco, l'aspetto della riconciliazione, come ha sottolineato chiaramente nel discorso pronunciato il 28 maggio 2006 durante la sua visita al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.
Il fatto che Papa Benedetto XVI abbia scelto il 17 gennaio 2010 per incontrare la comunità ebraica di Roma è particolarmente simbolico. La Conferenza episcopale italiana festeggia dal 1990 una Giornata dell'ebraismo, che evidenzia l'unicità delle relazioni tra ebrei e cristiani, mette in risalto le radici ebraiche del cristianesimo e intende rafforzare i rapporti odierni tra ebraismo e Chiesa cattolica anche tramite azioni comuni. Questa Giornata è festeggiata il 17 gennaio, ovvero un giorno prima dell'inizio della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani (18-25 gennaio). In questo contesto, ricordiamo che il 2010 segna un piccolo giubileo: i vent'anni della Giornata dell'ebraismo nella Chiesa italiana. Anche altri Paesi hanno introdotto una simile iniziativa: l'Austria, la Polonia e i Paesi Bassi.
La decisione del Santo Padre d'effettuare quest'anno la visita alla Sinagoga di Roma, in occasione del ventesimo anniversario dell'introduzione della Giornata dell'ebraismo, dimostra chiaramente il desiderio di riconciliazione del Pontefice e il coraggio, donatogli da Dio, di ricominciare e andare oltre ogni possibile tensione. Il Papa va incontro agli ebrei, esprimendo la sua solidarietà al popolo che Dio ha scelto affinché sia luce per tutti i popoli.
Tutti questi incontri s'iscrivono nel contesto dei dialoghi sia internazionali che con il Gran Rabbinato d'Israele, dialoghi che hanno portato nel frattempo molti buoni frutti. Malgrado le differenze che rimarranno, abbiamo più profondamente riscoperto la nostra eredità comune e siamo fermamente decisi a dare insieme testimonianza del Dio unico e dei suoi comandamenti, fondamentali per la società e la civiltà odierna.
(©L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2010)


PERCHÉ VIOLARE LA LEGGE 40 È UNA SCELTA IRRESPONSABILE - E adesso chi fermerà le tentazioni di scartare figli? - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 16 gennaio 2010
Il desiderio di dare un fratello a un figlio già nato, da una parte; la probabilità altissima che il bambino nasca destinato in breve a morire, dall’altra. E intanto un altro figlio morto pochi mesi dopo la nascita, e alcuni aborti volontari perché i nascituri avevano già la stessa, terribile malattia: l’atrofia muscolare spinale di tipo 1. Una storia di lutti e dolore, di fronte alla quale un giudice di Salerno ha deciso di applicare una legge che non c’è per sostenere la coppia nel desiderio di avere un secondo figlio che non avesse ereditato la stessa patologia.
Una legge che non c’è, dicevamo: perché per poter accedere alle tecniche di fecondazione assistita e selezionare l’embrione sano fra quelli malati, come consentito dal tribunale, secondo la legge italiana la coppia avrebbe dovuto essere sterile o infertile (a differenza di quella in questione) e la diagnosi preimpianto non sarebbe stata da vietare, come invece è adesso.
Una sentenza ipercreativa, insomma, che ha modificato impunemente in un sol colpo il risultato di un voto parlamentare raggiunto dopo anni di lavoro e quello di un referendum: tale è la potenza dei giudici, a quanto pare, e ci chiediamo che senso abbia il lavoro paziente nelle aule di Camera e Senato quando la solerzia e la fantasia di un magistrato riescono così velocemente a sostituirsi al potere legislativo e pure alla Corte Costituzionale che, eventualmente, sarebbe stata l’unica legittimata a pronunciarsi.
La legge 40, che la sentenza di Salerno ha violato, non consente la scelta dell’embrione su base genetica, perché ogni selezione di questo tipo è eugenetica, indipendentemente dalle motivazioni che possono essere addotte. Una volta ammessa infatti la possibilità di produrre un certo numero di embrioni per selezionarne alcuni e scartarne altri, come avviene con la diagnosi preimpianto, chi decide quali sono le malattie gravissime che legittimerebbero la scelta e quelle che invece sono considerate accettabili? Fra le decine di embrioni che si dovranno generare per essere sicuri di ottenerne qualcuno sano non si cercheranno anche altre patologie, oltre a quelle mortali? In altre parole: chi cerca il figlio sano, e vuole escludere terribili malattie come l’atrofia muscolare o la fibrosi cistica, accetterà il rischio di avere embrioni affetti da sindrome di Down o con certi tipi di patologie cardiache, ad esempio, o vorrà invece cercare pure quelli per scartarli, visto che c’è la possibilità? Chi decide l’elenco delle malattie da individuare? Chi fisserà il limite? E di quale tipo sarà?
In Gran Bretagna alcune associazioni di persone affette da sordità hanno condotto una lunga battaglia per poter impiantare anche embrioni con lo stesso handicap: «Quali embrioni debbano essere scelti per l’impianto deve rimanere una decisione degli individui e dei loro medici» hanno rivendicato, ritenendo che la condizione di sordità (che conoscono bene per esperienza diretta) sia semplicemente quella di una minoranza che vive in modo diverso dagli altri, e che va dunque difesa dalle discriminazioni.
Quando il desiderio – legittimo e comprensibilissimo – di avere un figlio diventa un diritto esigibile l’inevitabile passo successivo è un ulteriore diritto: quello ad avere un figlio sano (o con caratteristiche precise) e quindi di poterselo scegliere, con criteri sempre più discrezionali. Un figlio subordinato a una selezione genetica, un figlio 'a condizione': una contraddizione in termini, che dovrebbe far ripensare al significato, alla responsabilità e al valore di mettere al mondo un bambino. Se possibile, non a ogni costo.