Nella rassegna stampa di oggi:
1) Catechesi del Papa sulla nascita degli Ordini francescano e domenicano - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
2) SUONA LA SVEGLIA per l'Osservatore Romano - Finalmente anche l’Osservatore Romano pubblica oggi, dopo sei giorni dai funerali, l’annuncio della morte del confessore della fede mons. Leo Yao Liang, vescovo cinese della chiesa clandestina, condannato ai lavori forzati per il “crimine” di voler rimanere fedele al Sommo Pontefice e alla Chiesa universale.
3) LA CANDIDATURA DI EMMA BONINO - Guelfi e ghibellini No, questione di valori - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 13 gennaio 2010
4) Io, loro e Lara: la pellicola vista dallo scrittore - Quel film di Verdone troppo nichilista per essere cattolico - La rimpatriata del missionario è disastrosa, al punto da costringerlo a rientrare subito in Africa - di Vittorio Messori
5) Sono 5 miliardi i perseguitati per la loro fede - Il Pew Forum on Religion & Public Life di Washington ha effettuato un’indagine dettagliata che prende in esame le restrizioni alla libertà religiosa nazione per nazione e ne è scaturito un rapporto di settantadue pagine, dal titolo Global Restrictions on Religion. December 2009. Il dato che emerge sconcertante è che più di cinque dei sei e rotti miliardi di abitanti del pianeta non sono liberi di praticare la loro religione. Ma le restrizioni non si trovano solo in Cina, India, Arabia Saudita o nei paesi di maggioranza musulmana e buddista: anche nella laicissima Francia, in Gran Bretagna, patria del politically correct, nella Grecia ortodossa, o nello stato di Israele, non sono tutte rose e fiori, anzi…- Il Giornale mercoledì 13 gennaio 2010 - di Rino Cammilleri
6) Licenziata per “bullismo” cristiano - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 13 gennaio 2010
7) TERREMOTO HAITI/ Zorzi (Avsi): il crollo più grave è quello della speranza, l’Italia può fare molto - Redazione giovedì 14 gennaio 2010 – ilsussidiario.net
8) NELLE CARTE IL GELO DI UN’AGONIA PROCURATA E NUDE VERITÀ - Eluana non era «devastata» ma è stata straziata - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 14 gennaio 2010
9) Scozia, il parlamento pensa al suicidio - di Silvia Guzzetti – Avvenire, 14 gennaio 2010 - La Camera di Edimburgo si prepara a votare una proposta di legge avanzata da Margo MacDonald, deputata che soffre di morbo di Parkinson e chiede la depenalizzazione della «morte volontaria assistita» Anche in Inghilterra è prevista a breve l’approvazione delle linee guida in materia
10) Selezione in provetta per sentenza, legge 40 umiliata – Il Tribunale di Salerno ha abbattuto ieri in un colpo solo due pilastri della norma consentendo l’accesso alla procreazione assistita a una coppia non sterile e dando il via libera alla 'scelta' dell’embrione sano. Un drammatico caso umano diventa ancora una volta il grimaldello per forzare le garanzie disposte dal Parlamento - Avvenire, 14 gennaio 2010
Catechesi del Papa sulla nascita degli Ordini francescano e domenicano - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'aula Paolo VI, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Continuando la catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, il Papa si è soffermato su due grandi Ordini mendicanti (francescani e domenicani).
* * *
Cari fratelli e sorelle,
all'inizio del nuovo anno guardiamo alla storia del Cristianesimo, per vedere come si sviluppa una storia e come può essere rinnovata. In essa possiamo vedere che sono i santi, guidati dalla luce di Dio, gli autentici riformatori della vita della Chiesa e della società. Maestri con la parola e testimoni con l’esempio, essi sanno promuovere un rinnovamento ecclesiale stabile e profondo, perché essi stessi sono profondamente rinnovati, sono in contatto con la vera novità: la presenza di Dio nel mondo. Tale consolante realtà, che in ogni generazione cioè nascono santi e portano la creatività del rinnovamento, accompagna costantemente la storia della Chiesa in mezzo alle tristezze e agli aspetti negativi del suo cammino. Vediamo, infatti, secolo per secolo, nascere anche le forze della riforma e del rinnovamento, perché la novità di Dio è inesorabile e dà sempre nuova forza per andare avanti. Così accadde anche nel secolo tredicesimo, con la nascita e lo straordinario sviluppo degli Ordini Mendicanti: un modello di grande rinnovamento in una nuova epoca storica. Essi furono chiamati così per la loro caratteristica di "mendicare", di ricorrere, cioè, umilmente al sostegno economico della gente per vivere il voto di povertà e svolgere la propria missione evangelizzatrice. Degli Ordini Mendicanti che sorsero in quel periodo, i più noti e i più importanti sono i Frati Minori e i Frati Predicatori, conosciuti come Francescani e Domenicani. Essi sono così chiamati dal nome dei loro Fondatori, rispettivamente Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman. Questi due grandi santi ebbero la capacità di leggere con intelligenza "i segni dei tempi", intuendo le sfide che doveva affrontare la Chiesa del loro tempo.
Una prima sfida era rappresentata dall’espansione di vari gruppi e movimenti di fedeli che, sebbene ispirati da un legittimo desiderio di autentica vita cristiana, si ponevano spesso al di fuori della comunione ecclesiale. Erano in profonda opposizione alla Chiesa ricca e bella che si era sviluppata proprio con la fioritura del monachesimo. In recenti Catechesi mi sono soffermato sulla comunità monastica di Cluny, che aveva sempre più attirato giovani e quindi forze vitali, come pure beni e ricchezze. Si era così sviluppata, logicamente, in un primo momento, una Chiesa ricca di proprietà e anche immobile. Contro questa Chiesa si contrappose l'idea che Cristo venne in terra povero e che la vera Chiesa avrebbe dovuto essere proprio la Chiesa dei poveri; il desiderio di una vera autenticità cristiana si oppose così alla realtà della Chiesa empirica. Si tratta dei cosiddetti movimenti pauperistici del Medioevo. Essi contestavano aspramente il modo di vivere dei sacerdoti e dei monaci del tempo, accusati di aver tradito il Vangelo e di non praticare la povertà come i primi cristiani, e questi movimenti contrapposero al ministero dei Vescovi una propria "gerarchia parallela". Inoltre, per giustificare le proprie scelte, diffusero dottrine incompatibili con la fede cattolica. Ad esempio, il movimento dei Catari o Albigesi ripropose antiche eresie, come la svalutazione e il disprezzo del mondo materiale – l’opposizione contro la ricchezza diventa velocemente opposizione contro la realtà materiale in quanto tale - la negazione della libera volontà, e poi il dualismo, l'esistenza di un secondo principio del male equiparato a Dio. Questi movimenti ebbero successo, specie in Francia e in Italia, non solo per la solida organizzazione, ma anche perché denunciavano un disordine reale nella Chiesa, causato dal comportamento poco esemplare di vari esponenti del clero.
I Francescani e i Domenicani, sulla scia dei loro Fondatori, mostrarono, invece, che era possibile vivere la povertà evangelica, la verità del Vangelo come tale, senza separarsi dalla Chiesa; mostrarono che la Chiesa rimane il vero, autentico luogo del Vangelo e della Scrittura. Anzi, Domenico e Francesco trassero proprio dall’intima comunione con la Chiesa e con il Papato la forza della loro testimonianza. Con una scelta del tutto originale nella storia della vita consacrata, i Membri di questi Ordini non solo rinunciavano al possesso di beni personali, come facevano i monaci sin dall’antichità, ma neppure volevano che fossero intestati alla comunità terreni e beni immobili. Intendevano così testimoniare una vita estremamente sobria, per essere solidali con i poveri e confidare solo nella Provvidenza, vivere ogni giorno della Provvidenza, della fiducia di mettersi nelle mani di Dio. Questo stile personale e comunitario degli Ordini Mendicanti, unito alla totale adesione all’insegnamento della Chiesa e alla sua autorità, fu molto apprezzato dai Pontefici dell’epoca, come Innocenzo III e Onorio III, i quali offrirono il loro pieno sostegno a queste nuove esperienze ecclesiali, riconoscendo in esse la voce dello Spirito. E i frutti non mancarono: i gruppi pauperistici che si erano separati dalla Chiesa rientrarono nella comunione ecclesiale o, lentamente, si ridimensionarono fino a scomparire. Anche oggi, pur vivendo in una società in cui spesso prevale l’"avere" sull’"essere", si è molto sensibili agli esempi di povertà e di solidarietà, che i credenti offrono con scelte coraggiose. Anche oggi non mancano simili iniziative: i movimenti, che partono realmente dalla novità del Vangelo e lo vivono con radicalità nell’oggi, mettendosi nelle mani di Dio, per servire il prossimo. Il mondo, come ricordava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi, ascolta volentieri i maestri, quando sono anche testimoni. È questa una lezione da non dimenticare mai nell’opera di diffusione del Vangelo: vivere per primi ciò che si annuncia, essere specchio della carità divina.
Francescani e Domenicani furono testimoni, ma anche maestri. Infatti, un’altra esigenza diffusa nella loro epoca era quella dell’istruzione religiosa. Non pochi fedeli laici, che abitavano nelle città in via di grande espansione, desideravano praticare una vita cristiana spiritualmente intensa. Cercavano dunque di approfondire la conoscenza della fede e di essere guidati nell’arduo, ma entusiasmante cammino della santità. Gli Ordini Mendicanti seppero felicemente venire incontro anche a questa necessità: l'annuncio del Vangelo nella semplicità e nella sua profondità e grandezza era uno scopo, forse lo scopo principale di questo movimento. Con grande zelo, infatti, si dedicarono alla predicazione. Erano molto numerosi i fedeli, spesso vere e proprie folle, che si radunavano per ascoltare i predicatori nelle chiese e nei luoghi all’aperto, pensiamo a sant'Antonio, per esempio. Venivano trattati argomenti vicini alla vita della gente, soprattutto la pratica delle virtù teologali e morali, con esempi concreti, facilmente comprensibili. Inoltre, si insegnavano forme per nutrire la vita di preghiera e la pietà. Ad esempio, i Francescani diffusero molto la devozione verso l’umanità di Cristo, con l’impegno di imitare il Signore. Non sorprende allora che fossero numerosi i fedeli, donne ed uomini, che sceglievano di farsi accompagnare nel cammino cristiano da frati Francescani e Domenicani, direttori spirituali e confessori ricercati e apprezzati. Nacquero, così, associazioni di fedeli laici che si ispiravano alla spiritualità di san Francesco e di san Domenico, adattata al loro stato di vita. Si tratta del Terzo Ordine, sia francescano che domenicano. In altri termini, la proposta di una "santità laicale" conquistò molte persone. Come ha ricordato il Concilio Ecumenico Vaticano II, la chiamata alla santità non è riservata ad alcuni, ma è universale (cfr Lumen gentium, 40). In tutti gli stati di vita, secondo le esigenze di ciascuno di essi, si trova la possibilità di vivere il Vangelo. Anche oggi ogni cristiano deve tendere alla "misura alta della vita cristiana", a qualunque stato di vita appartenga!
L’importanza degli Ordini Mendicanti crebbe così tanto nel Medioevo che Istituzioni laicali, come le organizzazioni del lavoro, le antiche corporazioni e le stesse autorità civili, ricorrevano spesso alla consulenza spirituale dei Membri di tali Ordini per la stesura dei loro regolamenti e, a volte, per la soluzione di contrasti interni ed esterni. I Francescani e i Domenicani diventarono gli animatori spirituali della città medievale. Con grande intuito, essi misero in atto una strategia pastorale adatta alle trasformazioni della società. Poiché molte persone si spostavano dalle campagne nelle città, essi collocarono i loro conventi non più in zone rurali, ma urbane. Inoltre, per svolgere la loro attività a beneficio delle anime, era necessario spostarsi secondo le esigenze pastorali. Con un’altra scelta del tutto innovativa, gli Ordini mendicanti abbandonarono il principio di stabilità, classico del monachesimo antico, per scegliere un altro modo. Minori e Predicatori viaggiavano da un luogo all’altro, con fervore missionario. Di conseguenza, si diedero un’organizzazione diversa rispetto a quella della maggior parte degli Ordini monastici. Al posto della tradizionale autonomia di cui godeva ogni monastero, essi riservarono maggiore importanza all’Ordine in quanto tale e al Superiore Generale, come pure alla struttura delle provincie. Così i Mendicanti erano maggiormente disponibili per le esigenze della Chiesa Universale. Questa flessibilità rese possibile l’invio dei frati più adatti per lo svolgimento di specifiche missioni e gli Ordini Mendicanti raggiunsero l’Africa settentrionale, il Medio Oriente, il Nord Europa. Con questa flessibilità il dinamismo missionario venne rinnovato.
Un’altra grande sfida era rappresentata dalle trasformazioni culturali in atto in quel periodo. Nuove questioni rendevano vivace la discussione nelle università, che sono nate alla fine del XII secolo. Minori e Predicatori non esitarono ad assumere anche questo impegno e, come studenti e professori, entrarono nelle università più famose del tempo, eressero centri di studi, produssero testi di grande valore, diedero vita a vere e proprie scuole di pensiero, furono protagonisti della teologia scolastica nel suo periodo migliore, incisero significativamente nello sviluppo del pensiero. I più grandi pensatori, san Tommaso d'Aquino e san Bonaventura, erano mendicanti, operando proprio con questo dinamismo della nuova evangelizzazione, che ha rinnovato anche il coraggio del pensiero, del dialogo tra ragione e fede. Anche oggi c’è una "carità della e nella verità", una "carità intellettuale" da esercitare, per illuminare le intelligenze e coniugare la fede con la cultura. L’impegno profuso dai Francescani e dai Domenicani nelle università medievali è un invito, cari fedeli, a rendersi presenti nei luoghi di elaborazione del sapere, per proporre, con rispetto e convinzione, la luce del Vangelo sulle questioni fondamentali che interessano l’uomo, la sua dignità, il suo destino eterno. Pensando al ruolo dei Francescani e Domenicani nel Medioevo, al rinnovamento spirituale che suscitarono, al soffio di vita nuova che comunicarono nel mondo, un monaco disse: "In quel tempo il mondo invecchiava. Due Ordini sorsero nella Chiesa, di cui rinnovarono la giovinezza come quella di un’aquila" (Burchard d’Ursperg, Chronicon).
Cari fratelli e sorelle, invochiamo proprio all'inizio di quest'anno lo Spirito Santo, eterna giovinezza della Chiesa: egli faccia sentire ad ognuno l’urgenza di offrire una testimonianza coerente e coraggiosa del Vangelo, affinché non manchino mai santi, che facciano risplendere la Chiesa come sposa sempre pura e bella, senza macchia e senza ruga, capace di attrarre irresistibilmente il mondo verso Cristo, verso la sua salvezza.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
E ora mi rivolgo con affetto ai pellegrini di lingua italiana; siete tanti, grazie per il vostro entusiasmo. In particolare, saluto gli Assistenti ecclesiastici dell’UNITALSI, che in questi giorni stanno celebrando il loro Convegno, ed auspico che quest'importante incontro sia per tutti occasione di rinnovato slancio apostolico e di sempre più generoso servizio ai fratelli. Saluto i rappresentanti dell’Associazione "Centro per la salvaguardia del Creato", di Bergamo e li incoraggio a proseguire con entusiasmo nella loro significativa opera di interesse sociale e morale.
Infine, come sempre, mi rivolgo ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli presenti. La Liturgia odierna ricorda Sant'Ilario, Vescovo di Poitiers, vissuto in Francia nel IV secolo, che "fu tenace assertore della divinità di Cristo" (Liturgia), difensore della fede e maestro di verità. Il suo esempio sostenga voi, cari giovani, nella costante e coraggiosa ricerca di Cristo: specialmente voi studenti della diocesi di Caserta, grazie per la vostra presenza e grazie per il vostro impegno nella fede, vedo e sento la forza della vostra fede; incoraggi voi, cari malati, ad offrire le vostre sofferenze affinché il Regno di Dio si diffonda in tutto il mondo; ed aiuti voi, cari sposi novelli, ad essere testimoni dell'amore di Cristo nella vita familiare.
[APPELLO DEL SANTO PADRE]
Desidero ora rivolgere un appello per la drammatica situazione in cui si trova Haiti. Il mio pensiero va, in particolare, alla popolazione duramente colpita, poche ore fa, da un devastante terremoto, che ha causato gravi perdite in vite umane, un grande numero di senzatetto e di dispersi e ingenti danni materiali. Invito tutti ad unirsi alla mia preghiera al Signore per le vittime di questa catastrofe e per coloro che ne piangono la scomparsa. Assicuro la mia vicinanza spirituale a chi ha perso la propria casa e a tutte le persone provate in vario modo da questa grave calamità, implorando da Dio consolazione e sollievo nella loro sofferenza. Mi appello alla generosità di tutti, affinché non si faccia mancare a questi fratelli e sorelle che vivono un momento di necessità e di dolore, la nostra concreta solidarietà e il fattivo sostegno della Comunità Internazionale. La Chiesa Cattolica non mancherà di attivarsi immediatamente tramite le sue Istituzioni caritative per venire incontro ai bisogni più immediati della popolazione.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
SUONA LA SVEGLIA per l'Osservatore Romano - Finalmente anche l’Osservatore Romano pubblica oggi, dopo sei giorni dai funerali, l’annuncio della morte del confessore della fede mons. Leo Yao Liang, vescovo cinese della chiesa clandestina, condannato ai lavori forzati per il “crimine” di voler rimanere fedele al Sommo Pontefice e alla Chiesa universale. Infatti, dopo che AsiaNews aveva dato la notizia della morte e dei funerali di questo confessore della fede, era seguito un quasi generalizzato silenzio, anche nei mezzi di comunicazione cattolici, compreso l’Osservatore Romano. Silenzio interrotto il giorno 9 - due giorni dopo i funerali del compianto presule ed in seguito anche alle proteste circolate nella net - dal Foglio (Paolo Rodari, La politica vaticana in Cina è attendista e l’addio al vescovo Yao lo dice). Solamente ieri, 11 gennaio, dal Vaticano si dava ufficialmente notizia del decesso e si tracciava un commovente profilo del vescovo Yao (Mons. Yao è stato veramente il buon pastore che dà la vita per le sue pecore) con un comunicato dell’agenzia Fides (agenzia di informazione della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli), ripreso poi anche da Radio Vaticana e dal blog Settimo cielo di Sandro Magister.
Oggi è arrivato anche l’Osservatore Romano… meglio tardi che mai caro prof. Vian.
Riportiamo il comunicato integrale dell’agenzia Fides
COMUNICATO
Mons. Yao è stato veramente il buon pastore
che dà la vita per le sue pecore
Il 30 dicembre 2009 è deceduto, all’età di 86 anni, Sua Ecc. Mons. Leo Yao Liang, Vescovo Coadiutore della diocesi di Siwantze (Chongli- Xiwanzi), nella provincia di Hebei (Cina Continentale).
Il Presule era nato l’11 aprile 1923 nel villaggio di Gonghui, nella contea di Zhangbei. Ordinato sacerdote il 1º agosto 1948, lavorò come viceparroco in varie parrocchie della diocesi fino a quando gli fu impedito di esercitare il ministero sacerdotale e fu costretto a guadagnarsi da vivere coltivando ortaggi e vendendo legna. Nel 1956 fu condannato ai lavori forzati per aver rifiutato di aderire al movimento d’indipendenza della Chiesa cattolica dal Papa. Due anni dopo gli fu inflitta la pena del carcere a vita sempre per lo stesso “crimine”, quello cioè di voler rimanere fedele al Sommo Pontefice e alla Chiesa universale. Fu liberato nel 1984 dopo quasi trenta anni di prigione. Ordinato vescovo il 19 febbraio 2002, nel luglio 2006 fu di nuovo sequestrato dalla polizia in seguito alla consacrazione di una nuova chiesa nella contea di Guyuan, e trascorse altri trenta mesi in prigione. Una volta liberato, ma sempre sotto stretta sorveglianza, ha potuto impegnarsi per gli affari della diocesi nonostante tutte le difficoltà. Alla Messa domenicale da lui celebrata partecipavano ogni settimana più di mille fedeli.
Dopo la morte di Mons. Yao, le Autorità civili hanno proibito alla comunità cattolica di onorarlo con il titolo di “vescovo”, imponendo che si usasse quello di “pastore clandestino”. La mattina del 6 gennaio corrente mese, migliaia di fedeli, provenienti da varie parti del Paese, hanno partecipato ai suoi funerali nonostante i controlli della polizia e l’abbondante nevicata, dimostrando così che Mons. Yao è stato veramente il buon pastore, che dà la vita per le sue pecore. In lui, come negli altri sei Vescovi cinesi che sono morti durante l’anno 2009, si sono compiute le parole del libro della Sapienza: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto” (3, 1-6).
(Agenzia Fides 11/01/2010)
LA CANDIDATURA DI EMMA BONINO - Guelfi e ghibellini No, questione di valori - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 13 gennaio 2010
Secondo l’opinione di Franco Marini polemizzare con l’ormai lanciata candidatura di Emma Bonino nelle elezioni regionali del Lazio alla testa della coalizione di centrosinistra ci farebbe tornare indietro alla «lotta tra guelfi e ghibellini», con la conseguente perdita della lezione di laicità che ci ha lasciato don Sturzo. Sembra infatti di capire che, secondo Marini, radicali e cattolici conducano battaglie non dissimili: i radicali si battono per i diritti civili e questo è un tema che non va considerato prerogativa della sinistra. «Fa parte del retroterra dello stesso mondo cattolico accettare la centralità della persona». Non si potrebbe dir meglio: il tema della centralità della persona, in tutte le sue possibili dimensioni, è infatti e chiaramente il baricentro dell’ impegno politico dei cristiani. E allora come si spiegano le tante e tante polemiche che hanno visto contrapposti i radicali e i cattolici? Un colossale equivoco? Ovviamente no.
I diritti civili per i quali si battono, e da sempre, i radicali non sono i diritti della persona, ma i diritti dell’individuo. La differenza tra queste due categorie è molto netta. Parlare di persona significa parlare di relazionalità, solidarietà, dignità, ricerca di un bene comune ed oggettivo, consapevolezza di una comune appartenenza alla famiglia umana. L’orizzonte in cui ci si colloca quando si parla di individuo è invece ben diverso: è l’orizzonte del primato della soggettività, che relativizza l’oggettività del bene e assolutizza come insindacabili le preferenze dei singoli. Sono sovrapponibili la categoria 'persona' e la categoria 'individuo'? In parte sì, ma solo in parte: sono sovrapponibili (e peraltro non sempre) solo quando entrano in gioco legittimi interessi economici, di cui è ragionevole rivendicare una piena tutela politica e sociale. Quando però entrano in gioco valori che vanno al di là dell’orizzonte dell’economia (intesa in senso stretto) sovrapporre le due categorie è impossibile: l’individualismo attiva dinamiche libertarie, il personalismo dinamiche relazionali. Per l’individualismo l’«io» è la realtà primigenia; il «noi» non è altro se non la somma di tutti gli «io» e l’io ha quindi un primato sul «noi». Per il personalismo, invece, non c’è un «io» che non venga prodotto da un «noi» e questo spiega sia il rispetto che al «noi» è dovuto dall’«io», sia il fatto che questo rispetto non toglie assolutamente nulla alla dignità di ogni singolo «io», ma l’orienta verso un bene che quando è autentico è bene di tutti e mai soltanto del singolo.
Ecco perché tra individualismo e personalismo possono anche esserci convergenze significative, ma non sul piano dei valori «non negoziabili», perché su questo piano la differenza è netta. Questioni come la legalizzazione degli stupefacenti, la difesa del matrimonio e della famiglia, la tutela della vita (della vita prenatale, della vita in provetta, della vita dei malati) marcano l’ inconciliabilità tra il modo radicale e il modo personalistico di pensare i diritti civili. Chi insiste su questo punto non commette alcun delitto di lesa laicità, perché qui non si tratta di schierarsi dalla parte dello Stato o dalla parte del Papa: l’inconciliabilità tra individualismo e personalismo non ha carattere confessionale, ma si radica in una diversa (e parimenti laica!) visione antropologica del bene umano. I poteri dei presidenti delle Regioni sono significativi, sia in tema di famiglia che soprattutto in tema di sanità e di bioetica (lo si è visto pochi mesi fa, in occasione della tristissima vicenda di Eluana Englaro): sono temi già incandescenti e sempre più destinati a diventarlo nei prossimi mesi. Emma Bonino, con la schiettezza che le è propria, non nasconde che su queste tematiche essa continua a condividere le posizioni individualistiche tipiche dell’ideologia radicale (del resto solo un ingenuo potrebbe pensare al contrario) e non cessa, secondo un vecchio vizio dei radicali, di accusare di integralismo i cattolici che non condividono la sua candidatura. È davvero arrivato il momento di smetterla di usare parole ad effetto (come appunto guelfi/ghibellini, laicità, integralismo) e di ricordarci che il rispetto, che non deve mai mancare per le persone, non sempre va esteso alla loro ideologia.
Io, loro e Lara: la pellicola vista dallo scrittore - Quel film di Verdone troppo nichilista per essere cattolico - La rimpatriata del missionario è disastrosa, al punto da costringerlo a rientrare subito in Africa - di Vittorio Messori
Non è difficile avere un pregiudizio positivo verso Carlo Verdone. Non è difficile, dico, in un mondo dello spettacolo dove i comici si trasformano in demagoghi giustizialisti e in capipopolo giacobini. Dove registi pensosi, sprezzanti del pubblico, lanciano i loro «messaggi» e le loro «denunce sociali» in film finanziati coi soldi pubblici e che, dopo una fugace apparizione in qualche festival, non raggiungono gli schermi. Dove — me lo raccontava un amico — l’imprudenza di qualcuno portò sul set di una pellicola veri cani antidroga della Finanza, invece dei finti previsti, e gli animali impazzirono, non sapendo quale attore, o attrice bloccare per primi.
Il look e, a quanto mi dicono, l’ordinatissimo stile di vita di Verdone, sono quelli di un direttore di ufficio postale o di un professore di scienze alle medie. Eppure, quel suo volto tondo e apparentemente anonimo sa trasformarsi e contorcersi come fosse di caucciù e la battuta lo trasforma in una sorta di Woody Allen de noantri, dove il sulfureo umorismo ebraico è sostituito dalla arguta bonarietà romanesca. Non andando molto spesso al cinema, non ho visto tutti i film di un regista e attore che, proprio in questo 2010, compie trent’anni di carriera. Non potevo perdere, però, questo Io, loro e Lara anche per la segnalazione fattami da un monsignore amico che ha partecipato a una proiezione in anteprima. «Non ci sono scene pornografiche, tranne qualche seno che spunta a metà. C’è, è vero, una quantità impressionante di parolacce: ma non fermiamoci lì, oggi tutti parlano così ed è proprio un ritratto nudo e crudo della società italiana che Verdone voleva darci. Ma, sotto certo macchiettismo in fondo autoironico, per non prendersi troppo sul serio, c’è il vecchio romano che ha studiato dalle suore e dai preti, che ha di certo uno zio o una cugina religiosi e che, dunque, non può non essere permeato sin nelle ossa di cattolicesimo». Così mi diceva quel sacerdote, suggerendomi di andare a vedere il film per, poi, scambiare opinioni.
La prima— confortante— sorpresa riservatami dalla pellicola è stata la sala esaurita, in una sera di neve in un multiplex sperduto tra le vigne delle colline moreniche del Garda. La seconda è stata un pur timido e breve tentativo di applauso al termine della proiezione. Avevo con me un taccuino, per segnare qualche critica ma, alla fine, l’ho deposto nella tasca. In bianco. Certo: a giustificare un simile «nulla da eccepire» in questioni teologiche (per usare un termine troppo impegnativo) conta anche la mancanza di approfondimento scelta da Verdone. La crisi del missionario in Africa nasce da motivazioni scontate, da cose dei tempi della bagarre postconciliare. Per dirla con le parole di don Carlo, il protagonista omonimo dell’attore e regista: «Ho l’impressione che, laggiù, la gente abbia bisogno di protezione civile più che di protezione divina». Il prete, soprattutto se missionario, come agente di promozione economica e politica e non come annunciatore della vittoria della morte nella Risurrezione di Gesù. Un déjà vu. Nulla di nuovo né di «scavato», dunque, dietro la crisi di identità di don Carlo. Quanto alla sue reazioni davanti al «puttanaio», parole sue, che trova dopo dieci anni di Africa nella sua famiglia, nella sua Roma: beh, alla sorpresa, all’incapacità di capire che stia succedendo, seguono reazioni da prete di sempre che, pur alternando il turpiloquio alle giaculatorie, non si allontana dalle classiche esortazioni alla solidarietà, alla comprensione, all’accoglienza. Tutto molto edificante, pur sotto le forme più che laiche dell’attore e regista; tutto unito, tra l’altro, ad altre edificazioni, come la reazione violenta ai tentativi di seduzione sia di tardone che di ragazze.
Ha detto Verdone: «I vertici della Conferenza episcopale, al termine di una proiezione privata, mi hanno detto: "Ci hai fatto una carezza"». Non sappiamo se fosse davvero la «cupola» della Conferenza episcopale a visionare Io, loro e Lara, ma è plausibile che il giudizio sia stato sostanzialmente positivo, come già accennavo. Ma l’indubbio marchio cattolico del film di un romano permeato di cattolicesimo sino al midollo, deve fare i conti con il finale, dove qualche critico ha visto un happy end posticcio, un’aggiunta per mandare lo spettatore a casa sereno. Al contrario, è qui la chiave dell’opera e il credente, almeno, non può non allarmarsi per una conclusione di impotenza e di fallimento. La rimpatriata del missionario è stata disastrosa, al punto da costringerlo a rifar subito le valigie e a rientrare in Africa. La «cura» per la sua crisi si è dimostrata ben peggiore del male. Restano intatti, dunque, anzi rafforzati, i suoi problemi che mettono in discussione la fede stessa.
Ma gli auguri di Natale, che giungono alla remota missione via web-cam dalla terribile famigliola, confermano che nulla è cambiato e nulla cambierà neppure lì. Il vecchio padre continuerà a imbottirsi di viagra per fronteggiare le giovani badanti, il fratello affarista continuerà a sniffare coca, le nipoti continueranno a essere schiave di mode assurde, la sorella continuerà con le sue nevrosi devastanti, Lara ha avuto il suo bambino ma continuerà con il suo turbinio di amori. Il mondo è questo, non c’è speranza di mutamento, né per credenti né per non credenti. La sola possibilità sta in quello scrollare il capo, sorridendo tra il malinconico e il rassegnato, con cui Verdone chiude il film, mentre il precario collegamento con Roma si interrompe. È la vita, bellezza, nessuno può farci niente! Realismo, certo. Ma che slitta verso lo scetticismo, se non il nichilismo, se ad esso non si affianca l’afflato di Speranza che deve animare il credente. Problematico definire «cattolica» una prospettiva dove c’è posto solo per il sorriso rassegnato di chi è ormai convinto che nulla cambierà mai, che ogni attesa di un mondo più umano è cosa da riderci sopra. Come, appunto, un comico deve fare. E come Verdone, sia detto a sua lode, sa fare benissimo.
Vittorio Messori
08 gennaio 2010
Sono 5 miliardi i perseguitati per la loro fede - Il Pew Forum on Religion & Public Life di Washington ha effettuato un’indagine dettagliata che prende in esame le restrizioni alla libertà religiosa nazione per nazione e ne è scaturito un rapporto di settantadue pagine, dal titolo Global Restrictions on Religion. December 2009. Il dato che emerge sconcertante è che più di cinque dei sei e rotti miliardi di abitanti del pianeta non sono liberi di praticare la loro religione. Ma le restrizioni non si trovano solo in Cina, India, Arabia Saudita o nei paesi di maggioranza musulmana e buddista: anche nella laicissima Francia, in Gran Bretagna, patria del politically correct, nella Grecia ortodossa, o nello stato di Israele, non sono tutte rose e fiori, anzi…- Il Giornale mercoledì 13 gennaio 2010 - di Rino Cammilleri
I temi religiosi sono tornati in auge da quando i terroristi islamici ci hanno fatto capire, a suon di bombe e sgozzamenti, che c’è al mondo un sacco di gente per cui la religione è una cosa importante. Così, ci siamo dovuti interessare al fatto - e, dunque, accorgere - che al mondo c’è anche un sacco di gente per niente libera di praticare la religione che preferisce. Ma non sapevamo che quest’ultima categoria di persone costituisce la maggioranza schiacciante del genere umano. Addirittura, più di cinque dei sei e rotti miliardi di abitanti del pianeta.
Ora per la prima volta è stata effettuata una indagine dettagliata, nazione per nazione, e ne è scaturito un rapporto di settantadue pagine, dal titolo Global Restrictions on Religion. December 2009. Stilato dal Pew Forum on Religion & Public Life di Washington, ha una precisione scientifica che ha risvegliato l’attenzione del vaticanista Sandro Magister, il quale gli ha dedicato una puntata del suo visitatissimo blog. L’indagine del Pew Forum analizza ben 198 nazioni e copre due anni, dal 2006 al 2008. Manca la Corea del Nord per ovvie ragioni: l’ossessione per la segretezza tipica dei regimi comunisti non fa trapelare alcun dato all’esterno. Detta indagine tiene conto sia delle restrizioni alla libertà religiosa imposte dai governi sia quelle provocate dalla pressione sociale (che può essere maggioritaria o di gruppi particolarmente violenti).
In alcuni posti i due tipi di pressione si sommano, in altri prevale l’uno o l’altro. Uno dei diagrammi che visualizzano numericamente i risultati prende in considerazione i cinquanta Paesi più popolati. Su questi spiccano India e Cina, la cui popolazione rispettiva supera il miliardo di individui. Per motivi diversi (pressione sociale in India, restrizioni governative in Cina), ecco già più di due miliardi di persone con problemi riguardo alla libertà religiosa.
Se aggiungiamo non pochi Paesi islamici, et voilà: oltre il settanta per cento dell’umanità vive in posti dove adorare in pace chi si vuole va dal molto difficile all’impossibile. In India il governo centrale predica la libertà religiosa ma ha approvato leggi anti-conversione. Nel Paese, comunque, sono certi gruppi fondamentalisti a fomentare l’odio religioso. Indù e musulmani fanno la loro parte, talvolta difendendosi, talaltra attaccando. In certe zone a farne le spese sono i cristiani, com’è noto. In Cina (ma anche in Vietnam) la popolazione non ha alcun problema con le diverse fedi; sono i governi a praticare la persecuzione. Nigeria e Bangladesh offrono dati differenti: le autorità sono neutrali (per ora) mentre le varie fazioni ogni tanto esplodono in pogrom ai danni del credo altrui. L’unico Paese in cui le coordinate cartesiane si sommano (ostilità sociale e divieti governativi) e registrano i picchi massimi è l’Arabia Saudita, che per la religione musulmana (di cui custodisce due dei tre «luoghi santi» ai sunniti) è interamente «terra sacra». Qui, ormai è universalmente noto, anche l’atto di culto privato diverso da quello ufficiale è reato penale. Tra gli altri Paesi interamente (e ufficialmente) musulmani, i più popolosi sono il Pakistan e l’Indonesia. I loro dati si discostano, sì, da quelli sauditi, ma mica tanto. In più, la situazione è sempre precaria, il che vuol dire che in qualsiasi momento potrebbero balzare ai vertici della classifica. Anche l’Egitto non scherza con il suo dieci per cento di cristiani copti. Pure qui ogni giorno è buono per un aggiornamento del posto in classifica. Si tenga conto che l’Egitto detiene l’università islamica più autorevole dell’intera «sunna» (la comunità dei fedeli musulmani) e da essa scaturiscono le interpretazioni coraniche più seguite. E poi c’è l'Iran, repubblica «islamica» fin dal nome, di credo sciita: le restrizioni in questo Paese appartengono ai due campi presi in considerazione dall’indagine del Pew Forum. Ma non si pensi che la palma dell’intolleranza spetti al solo islam.
Anche i Paesi ufficialmente buddisti fanno la loro parte: Sri Lanka, Myanmar e Cambogia reprimono in vario modo tutte le religioni diverse da quella di Stato. A volte le restrizioni colpiscono versioni diverse dello stesso credo. È il caso dell’Indonesia, ufficialmente musulmano, nel quale gli Ahmadi non hanno vita facile. Lo stesso in Turchia per gli Alevi. In Turchia, poi, la Chiesa cattolica non ha riconoscimento ufficiale, cosa che comporta non piccole restrizioni in campo amministrativo. Come nella cristiana Grecia: qui solo gli ortodossi, gli ebrei e i musulmani hanno status giuridico (il che significa libertà di organizzazione e di proprietà), non così i cristiani di altre confessioni. Mettendosi davanti al planisfero squadernato dal rapporto del Pew Forum ci si accorge subito che l’area della libertà religiosa è piuttosto limitata, nel mondo, e si trova principalmente nei Paesi a maggioranza cristiana come le Americhe, l’Europa, parte dell’Africa sub-sahariana e l'Australia. Ma neanche qui sono tutte rose e fiori.
La laicissima Francia impone restrizioni a tutti, dal turbante sikh al velo islamico ai crocifissi di grosse dimensioni. In Gran Bretagna, quantunque la Regina sia anche capo della chiesa statale, è il politicamente corretto a dettar legge, tant’è che le maggiori restrizioni le incontrano proprio i cristiani.
Un caso a sé (ma non troppo) è Israele, il cui governo accorda privilegi notevolissimi alle minoranze ultraortodosse dell’ebraismo, quantunque queste ultime costituiscano una frazione numericamente irrilevante della popolazione complessiva. Ma da qui in avanti si entra nella cronaca: è recentissima, per esempio, la condanna da parte del rabbinato ortodosso nei confronti di quelli che sputano addosso ai preti cristiani. Come abbiamo anticipato più sopra, per non pochi Paesi la situazione è ballerina. Per esempio, solo grazie al viaggio all’Avana di Giovanni Paolo II il mondo si rese conto che nella Cuba castrista era vietato festeggiare il Natale. Dunque, occhio alla cronaca (vedi quel che accade in Malesia, dove ai cristiani si vuol vietare l'uso della parola «Allah»), in attesa del Rapporto Pew 2010.
Il Giornale mercoledì 13 gennaio 2010
Licenziata per “bullismo” cristiano - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 13 gennaio 2010
Neppure il clima natalizio è riuscito ad arrestare l’ondata discriminatoria che sta colpendo i cristiani nel Regno Unito.
Questa volta è toccata a Olive Jones, insegnante di matematica con esperienza ventennale.
Da quattro anni la professoressa Jones ha scelto di dedicarsi all’insegnamento a domicilio di ragazzi gravemente ammalati o con particolari disturbi psichici. Per tale incarico ha ricevuto un contratto part-time di 12 ore settimanali dalla Oak Hill Short Stay School e dai Servizi Scolastici del Comune di North Somerset.
Durante una delle sue lezioni domiciliari la professoressa Jones, approfittando del fatto che la sua alunna si sentisse male, ha deciso di scambiare due chiacchiere con la madre della ragazza. In quello che doveva essere un normale colloquio tra donne, la Jones ha commesso l’imprudenza di toccare un argomento oggi pericoloso in Gran Bretagna: la propria fede religiosa.
Così, l’incauta insegnante ha raccontato alla madre dell’alunna un episodio accadutole quando da adolescente aiutava i genitori nella fattoria di famiglia vicino a Carmarthen nel Galles. Mentre si trovava alla guida di un trattore e stava affrontando una salita particolarmente ripida, all’improvviso il mezzo agricolo cominciò a ribaltarsi e per un puro caso non fu all’origine di un incidente mortale. Da quel momento la Jones interpretò quel “caso” come un miracolo ed si avvicinò alla fede.
Malgrado non avesse fatto trapelare alcun disappunto, la madre della ragazza decise di inoltrare un reclamo contro l’insegnante per quella sua personale esternazione. Neppure le autorità interessate dalla protesta della donna avvisarono la professoressa Jones, la quale, del tutto ignara della denuncia a suo carico, decise di proseguire tranquillamente nel proprio lavoro tornando successivamente a visitare l’alunna per le consuete lezioni.
L’insegnante questa volta, però, commette una seconda imprudenza chiedendo alla ragazza se desidera che preghi per le sue particolari condizioni di salute. A quella inaspettata domanda la stessa ragazza volge lo sguardo alla madre che seccamente replica: «Noi veniamo da una famiglia che non crede».
Di fronte a tale reazione la Jones desiste immediatamente. Anzi, adducendo a pretesto che la ragazza non si sentisse particolarmente portata per la matematica, chiede alla madre se intenda cancellare le successive lezioni. La madre risponde di no, desiderando che la propria figlia continui a ricevere l’insegnamento domiciliare.
Nonostante le due donne si lascino in buoni rapporti, nel giro di poche ore la professoressa Jones viene convocata dalla preside della scuola che le contesta il fatto di aver manifestato, durante il servizio, la propria fede, qualificando quel fatto come un vero e proprio atto di «bullismo». Un gesto di pura ed inqualificabile prepotenza.
Da qui, il licenziamento in tronco.
La professoressa Jones, ovviamente, non la prende benissimo.
Dichiara di sentirsi «devastata» dal provvedimento che considera «completely disproportionate» e un vero «marchio di infamia» inflitto alla sua persona.
«Se avessi commesso un atto criminale», confessa, «credo che la reazione sarebbe stata la stessa».
La professoressa si scaglia contro l’interpretazione del concetto di libertà di opinione applicata nel suo caso. Sul punto la donna ha le idee molto chiare: «Sono davvero stupita che in un Paese con una forte tradizione cristiana come la Gran Bretagna sia diventato sempre più difficile parlare della propria fede». Ciò che la rende più furiosa non è tanto l’errata interpretazione delle nuove ambigue disposizioni normative in materia di uguaglianza, quanto il «politically-correct system» che impedisce, di fatto, «la possibilità di esternare in pubblico qualunque riferimento alla dimensione religiosa della propria coscienza, pur potendo tale circostanza essere potenzialmente utile anche agli altri». «La sensazione che ho», continua la Jones, «è che se avessi parlato di qualunque altro argomento al mondo, non ci sarebbero stati problemi, ma il semplice fatto di aver toccato il tema del cristianesimo ha rappresentato la violazione di un tabù. Lo stesso cristianesimo viene ormai visto come una “no-go area”, un campo minato nel quale è più prudente non addentrarsi in pubblico».
La mia amica avvocatessa Andrea Williams, direttrice del Christian Legal Centre, che assiste la professoressa, ha espresso il suo commento: «Storie come quella di Olive Jones stanno, purtroppo, diventando sempre più diffuse in questo Paese e rappresentano il risultato di un’applicazione maldestra delle cosiddette politiche sull’uguaglianza, le quali si traducono, di fatto, in una vera e propria discriminazione a carico dei cristiani nel tentativo di eliminare la dimensione religiosa dalla sfera pubblica». «Olive Jones», continua la direttrice del Christian Legal Centre, «ha avuto compassione per la sua allieva e si è ritrovata senza lavoro per aver espresso la speranza che nasce dalla sua fede. E’ tempo che si recuperi un approccio di “common sense” su queste delicate materie».
Nick Yates, portavoce del Comune di North Somerset, si è limitato ad un freddo e laconico comunicato: «Olive Jones ha lavorato come insegnante per i Servizi Scolastici di North Somerset. Una denuncia è stata sporta da un genitore nei suoi confronti. Su tale denuncia è in corso un’attività istruttoria».
Nel frattempo la professoressa Jones è stata licenziata senza preavviso.
Episodi del genere fanno persino rimpiangere gli eccessi di un certo sindacalismo scolastico di casa nostra.
Gianfranco Amato, Presidente di Scienza e Vita di Grosseto
TERREMOTO HAITI/ Zorzi (Avsi): il crollo più grave è quello della speranza, l’Italia può fare molto - Redazione giovedì 14 gennaio 2010 – ilsussidiario.net
Un terremoto di proporzioni tremende ha sconvolto Haiti, il Paese più povero del continente americano. Il sisma, di magnitudo 7, si è verificato alle 22,53, ora italiana, seguito da un’altra decina di scosse. L’epicentro è stato individuato a una ventina di chilometri dalla capitale Port-au-Prince, a circa 8 km di profondità. I danni sono incalcolabili. Non si contano i morti e i dispersi. Numerosi palazzi si sono sbriciolati, tra cui quello presidenziale. Le linee elettriche e quelle telefoniche sono fuori uso e un solo ospedale, nella capitale, funziona. Questo ha già esaurito la sua capacità di accoglienza, e la Croce rossa internazionale è al lavoro per evitare un’emergenza sanitaria. Carlo Zorzi, che dal 2003 al 2008 ha vissuto ad Haiti come cooperante di Avsi - attualmente ricopre il medesimo incarico in Costa d'Avorio - racconta a ilsussidiario.net le sue impressioni. E le tribolazioni di un Paese che conosce molto bene.
Cosa ha provato sentendo la notizia?
Una grande tristezza, un grande dolore e il pensiero di un Paese che continua a essere martoriato, che non riesce più a chiudere il ciclo di povertà e sofferenza. E che da trent'anni vive nell'emergenza costante. Ogni piccolo tentativo di portarlo allo sviluppo è sempre stato soffocato da condizioni esterne che, ogni volta, lo hanno precipitato in nuove situazioni di emergenza. Penso alla popolazione, svuotata del sentimento e dell'interesse ad agire e prendere in mano le sorti del proprio Paese. E ai tanti amici e colleghi, alle migliaia di bambini con i quali lavoravo e ai compagni di scuola di mio figlio. Anche lui, con lacrime agli occhi, guardava la tv, pensando ai suoi amici. Siamo stati 5 anni là, è un lungo periodo. Attendo di vedere dove lavoravo. Le prime informazioni mi dicono che tutto è crollato.
Può descriverci il Paese?
E' il Paese più povero del continente americano, uno dei più poveri al mondo. Politiche e strategie fallimentari, e pressioni di vario genere, han fatto sì che non imboccasse la strada dello sviluppo. Da lì transita molta droga verso gli Usa o il Canada. Santo Domingo, che occupa due terzi dell’isola sulla quale risiede Haiti, ha i suoi problemi, certo. Ma ha imboccato un’altra strada, fondata sul turismo, con 4 milioni di visitatori all’anno. Eppure, il mare e il cielo sono gli stessi. Ma ad Haiti si vive con un’ora di elettricità al giorno, i camion portano alle case l’acqua potabile, l'80 per cento della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, e il 60 per cento con meno di uno.
Un terremoto è sempre una tragedia. Ancor di più se al dramma si somma il fatto che Haiti è il Paese più povero del continente americano. Questo elemento che conseguenze avrà?
Mio figlio, che ha dieci anni, guardando le immagini della catastrofe, mi ha detto: “papà, ma qui ci vorranno di nuovo altri 30 anni per ricostruire qualcosa”. Credo che riassuma bene. Ci saranno ripercussioni incredibili. Milioni di haitiani son già emigrati all'estero. Ora la diaspora si amplificherà.
Quali sono secondo lei i punti più critici da affrontare ora?
Anzitutto quelli dell'urgenza: bisogna trovare i morti, i dispersi, pulire le strade, far sì che riprenda la vita normale. Ma è necessario considerare tutto ciò nell'ottica dello sviluppo, non solo dell’emergenza. Ad Haiti regna l’anarchia. Lo stato è inesistente. Sarà necessario mettere ordine, creare leggi e creare le condizioni perché vengano fatte applicare. Significa far sì che venga ricostituita la presenza dello stato, e che questo possa godere di autorevolezza.
Sarà possibile tamponare l'emergenza sanitaria?
Sono pessimista. Penso a quello che il Paese offre in questo momento. I morti per il terremoto, e quelli che ci saranno per le conseguenze. Le risposte del Paese in quanto tale sono pressoché inesistenti.
Cosa farà l’America per aiutare la popolazione?
Mi pare che l'amministrazione Obama sia sincera nel manifestare dolore e la volontà di intervenire. Sono vicini, ben equipaggiati. Credo che arriveranno nel giro di poche ore. Spero che non si fermino solo 15 giorni. Il Paese ha bisogno di essere accompagnato. Ha bisogno di ristabilire i servizi di base. L’America può fare molto sfruttando il grave momento per aiutare lo stato a gestirsi. Spero che la tensione attuale, dovuta all’emozione del momento, non si abbassi. Perché da solo il paese non ce la farà mai.
Che contributo potrà dare l’Italia?
Enorme. L’Italia dovrebbe, anzitutto, allinearsi con gli altri Paesi, come la Francia o l'America Latina, nel dare aiuto immediato. Ma, al di là dell’immediato, gli italiani potrebbero dare un grande contributo mettendo a frutto la loro sensibilità. Non c’è solo un problema di costruzione di case, ma un problema di “ricostruzione” dell’umano, là dove è la persona ad essere distrutta. Gli haitiani sono disperati. Ma lo sono da anni. Questa è l’ennesima sciagura che si abbatte su di loro. Si sentono gente maledetta su una terra maledetta. Hanno perso la voglia di reagire. Spero che da questa catastrofe possa nascere una scintilla per costruire qualcosa di nuovo. Qualcosa che generi un contesto in cui la gente riacquisti la voglia e l'energia per reagire.
IL DOLORE E IL GRIDO - E NOI APRIAMO LE NOSTRE PALME VUOTE - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 14 gennaio 2010
La tragedia di Haiti lascia senza fiato. Gigantesca. Più di quanto si immaginava. Il numero delle vittime imprecisato, si parla di decine e decine di migliaia. In una parte di un’isola già povera e provata da miseria e fatica di vivere, si è abbattuta una sventura che lascia attoniti. Come se a sventura si aggiungesse sventura in un baratro senza fondo. Haiti, nome esotico e di buia miseria. Nome di terra lontana. Di popolo provato e povero. E il fiato non si sa dove prenderlo. Se metti la faccia tra le mani, il respiro non torna. E se anche ti volti da un’altra parte, il respiro non torna. E se ancora maledici i terremoti, non torna. Come non tornano le decine di migliaia di innocenti. I bambini e le donne. Come non tornano i sepolti vivi.
Un raddoppiamento di male. Di sventura. Un raddoppiamento di catastrofe. Una insistenza del dolore e della mancanza di fiato. Come se nessun 'perché' gridato in faccia a nessuno e nemmeno gridato in faccia al cielo potesse esaurire lo sconforto, e la durezza che impietrisce davanti al disastro e alle immagini di disastro. Nessun 'perché' rigirato nelle mani, nessuna domanda ricacciata in gola, può esaurire l’inquietudine. Una doppia ingiustizia. Una moltiplicata sventura. Anche il cuore più sordo sente il grido di questa sventura. Anche il cuore più duro si crepa davanti alla morte che domina così apertamente, così sfacciatamente. Anche l’anima che non sospira mai, sente il fiato che si tira. Il fiato che non arriva. Il fiato che si rompe.
Quasi non si arriva nemmeno alla domanda, lecita, urgente di cosa si può fare, di fronte a questa tragedia. Quasi non si arriva a formulare nessuna domanda su cosa fare, perché si rimane inchiodati a una domanda più forte, più radicale: cosa possiamo essere? Sì, insomma, cosa si è, cosa è essere uomini davanti a questi eventi? Perché sembra quasi che ogni forza nostra, ogni umana dignità siano annullate. Radiate. Come se esser uomini davanti a tali tragedie sia quasi una cosa grottesca. Tappi di sughero nel mare in tempesta. Formiche in balìa della strage, come diceva Leopardi di fronte al Vesuvio sterminatore.
Da dove riprendere fiato, umanità, dignità davanti a tale strage? Non c’è altra possibilità: davanti a questo genere di cose, o si prega o si maledice Dio. O si è credenti o si diventa contro Dio. Una delle due. E se il cristiano dice di esser quello che prega, invece di esser l’uomo che maledice, non lo fa per sentimentalismo. Non lo fa per comodità. Anzi, è più scomodo. Molto più scomodo. Ma più vero. Perché quando il mistero della vita sovrasta – nella sventura come nelle grandi gioie – è più vero aprire le palme vuote, o piene di calcinacci o di sangue dei fratelli e dire: tienili nelle tue braccia. Tienili nel Tuo cuore. Perché noi non riusciamo a conservare nemmeno ciò che amiamo. Perché la vita è più grande di noi, ci eccede da ogni parte, e la morte è un momento di eccedenza della vita. Un momento in cui la vita tocca fisicamente il suo mistero.
La natura non è Dio. In natura esistono anche i disastri. Come gli spettacoli e gli incanti. Ma la natura non è Dio. Non preghiamo la natura, che ha pregi e difetti, come ogni creatura. Preghiamo Dio creatore di abbracciare il destino delle vittime. Il destino triste di questi fratelli. Che valgono per Lui come il più ricco re morto anziano e sereno nel proprio letto. Che ci ricordano, nel loro dolore, che non siamo padroni del destino.
NELLE CARTE IL GELO DI UN’AGONIA PROCURATA E NUDE VERITÀ - Eluana non era «devastata» ma è stata straziata - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 14 gennaio 2010
«In data 9 febbraio il cadavere della signorina Eluana Englaro veniva trasferito all’obitorio della 'Quiete' su barella in acciaio. Trattasi di cadavere femminile, della lunghezza di circa 171 centimetri, del peso di 53.5 chili, cute liscia ed elastica, capelli neri... Entrambi i lobi presentano un foro per orecchini.
Indossa una camicia da notte in cotone rosa». Il resto ve lo risparmiamo. Dura 133 pagine la 'Relazione di consulenza tecnica medico-legale', letta la quale il gip di Udine l’altro giorno ha definitivamente stabilito che il tutto è avvenuto 'regolarmente'.
Un testo che si regge a fatica e che toglie il sonno, e non tanto nelle pagine dell’autopsia, quando ormai Eluana è morta, ma in quelle tragiche, disumane dell’agonia, quando era viva e nelle stanze udinesi della 'Quiete' la si faceva morire.
Ora lo sappiamo: nei giorni e nelle notti in cui alla giovane donna venivano sottratti l’acqua e il nutrimento (il sostegno vitale, lo chiama il documento), l’équipe del dottor De Monte sedeva accanto a lei e la osservava, prendeva appunti, diligentemente compilava di ora in ora la 'Scheda di rilevazione degli elementi indicativi di sofferenza'.
Una crocetta alla voce 'respiro affaticato e affannoso' ne indica frequenza e durata, un’altra rileva 'l’emissione di suoni spontanei', un’altra ancora i singoli lamenti sfuggiti a Eluana 'durante il nursing', ovvero mentre le mani di medici e infermieri nulla 'potevano' per salvarle la vita e dissetarla (il Protocollo parlava chiaro, e loro erano lì per applicarlo, volontari), ma sul suo corpo continuavano a operare quelle piccole attenzioni richieste dallo stesso Protocollo: 'Si procederà all’igiene giornaliera di routine al fine di garantire il decoro...'. Il decoro.
Sono pagine meticolose, capillari. Gelide. Il 3 febbraio, primo giorno di ricovero alla 'Quiete' di Udine (nel cuore della notte la giovane era stata prelevata da un’ambulanza e strappata alla clinica di Lecco dove viveva da quindici anni), la voce di Eluana si è sentita sette volte, e l’équipe solerte le ha annotate tutte. I suoni si moltiplicano il 4, e poi il 5, finché il 6 (all’alba di quel giorno si è smesso definitivamente di nutrire e dissetare la giovane) la mano di un’infermiera scrive per la prima volta: 'Sembrano sospiri'. E forse lo sono, se il giorno 7 cessano anche quelli. Eluana morirà improvvisamente già il 9 febbraio alle 19 e 35, senza più la forza di gemere: 'nessun suono', ma ore e ore di 'respiro affaticato e affannoso'. Nei palmi delle mani, strette, i segni delle sue stesse unghie.
Ancora più esplicite le pagine del diario clinico di quei sette giorni udinesi, racconto di un’agonia che inizia sull’ambulanza, quando il dottor De Monte annota la terribile tosse che scosse Eluana, e prosegue con asettico cinismo: Eluana si lamenta, Eluana non ha quasi più saliva, non suda nemmeno più, le mucose si asciugano, 'iniziata umidificazione', 'idratata la bocca', 'frizionata su tutto il corpo con salviette rinfrescanti'. Il decoro.
L’igiene. C’è anche lo spasmo con cui la prima notte arrivò a espellere il sondino: allora lo scrivemmo e ci diedero dei bugiardi... 'Non eseguito cambio pannolone perché non urina più': è il giorno della morte. Tutto regolare, dicono i magistrati, tutto perfettamente annotato. A parte quella mezzoretta tra il decesso e la registrazione dell’elettrocardiogramma, un 'ritardo dovuto alla difficoltà di reperimento dello strumento', scrive il capo dell’équipe... A parte, ancora, quelle tre ore che l’8 febbraio, il giorno prima della morte, in piena agonia, una giornalista di Rai 3 Friuli e un fotografo trascorrono nella stanza di Eluana riprendendone gli affanni.
Ci avevano detto che Eluana non avrebbe sofferto, e veniamo a sapere che morì tra gli spasmi, con 42 di febbre. Che da molti anni pesava 65 chili. Che risultava «obiettivamente in buone condizioni generali e di nutrizione, con respiro spontaneo e valido, vigile durante buona parte della giornata». Che da due anni aveva di nuovo «il mestruo». Che l’alimentazione col sondino «non aveva mai dato complicanze » e i «parametri vitali si erano sempre mantenuti stabili, la paziente non ha presentato mai patologie ad eccezione di sporadiche bronchiti-influenzali, prontamente risolte con antipiretici ». Ce l’avevano descritta come un corpo 'inguardabile', una vista 'devastante, piagata dal decubito, magra come uscita da un campo di concentramento'.
È pure calva, aggiunse Roberto Saviano... 'Ha capelli neri, cute liscia ed elastica, corpo normale, nessun decubito', recita ora l’autopsia. Ma lo attesta il perito: «Le disposizioni sono state minuziosamente seguite».
Scozia, il parlamento pensa al suicidio - di Silvia Guzzetti – Avvenire, 14 gennaio 2010 - La Camera di Edimburgo si prepara a votare una proposta di legge avanzata da Margo MacDonald, deputata che soffre di morbo di Parkinson e chiede la depenalizzazione della «morte volontaria assistita» Anche in Inghilterra è prevista a breve l’approvazione delle linee guida in materia
«A bbiamo chiesto, con una lettera al presidente del parlamento scozzese, di esaminare se la nuova proposta di legge entri in conflitto con la convenzione europea sui diritti umani » . Gordon MacDonald, portavoce per la Scozia di Care not killing alliance, un’associazione pro vita, spiega così l’ultima iniziativa per fermare la legalizzazione del suicidio assistito. La legge è stata proposta da Margo MacDonald, una deputata indipendente che soffre del morbo di Parkinson. « Pensiamo che il parlamento discuterà e voterà sulla legge prima della fine di giugno. Quasi sicuramente la nuova legislazione verrà respinta perché la volonta politica è contraria al suicidio assistito » , spiega MacDonald Gordon, che aggiunge però come « questo non riflette necessariamente il pensiero della pubblica opinione. Due sondaggi hanno dato risultati opposti sull’argomento. Purtroppo la risposta degli intervistati spesso dipende da come viene formulata la domanda. È difficile sapere come la pensano gli scozzesi. Credo che ci sia molta ignoranza sull’argomento. Molti si fermano al sentimento iniziale di simpatia e partecipazione per il dolore del sofferente e non analizzano le conseguenze di una legalizzazione del suicidio assistito » .
Anche la Gran Bretagna attende per metà febbraio l’approvazione definitiva delle linee guida in materia di suicidio assistito preparate dal pubblico ministero Keir Starmer. Linee guida che sono state pensate, anche lì, in risposta alla richiesta di Debbie Purdy – una malata di sclerosi multipla che vorrebbe morire con l’aiuto del marito – rivolta ai Law Lords , la piu’ alta corte di appello del Regno Unito, di chiarire se un parente o un amico che assiste una persona che si suicida può essere incriminato.
«Il suicidio assistito è illegale in questo momento in Gran Bretagna e chi lo favorisce dovrebbe finire sotto processo » , spiega Alastair Thompson, portavoce per Inghilterra e Galles sempre di Care not killing alliance, « eppure 118 persone sono andate nella clinica svizzera Dignitas e sono morte, con l’aiuto di un parente o di un amico, senza che questi ultimi venissero incriminati » .
« S
iamo molto preoccupati – continua Thompson – della direzione in cui si si sta muovendo. Se le linee guida verranno definitivamente approvate significa che un parente potrà aiutare un portatore di handicap o un malato terminale ad andare in Svizzera a morire. Ad essere incriminati saranno soltanto i parenti di persone sane. Una discriminazione aberrante.
Siamo preoccupati anche per la definizione di sanità mentale che viene data. Diverse associazioni di medici, non legate al movimento per la vita, hanno anche espresso preoccupazione perché le linee guida ritengono che chi ha tentato più volte di suicidarsi è ritenuto mentalmente in grado di decidere per se stesso. Mentre secondo la professione medica chi tenta il suicidio è da ritenersi malato e soprattutto bisognoso di aiuto » .
Selezione in provetta per sentenza, legge 40 umiliata – Il Tribunale di Salerno ha abbattuto ieri in un colpo solo due pilastri della norma consentendo l’accesso alla procreazione assistita a una coppia non sterile e dando il via libera alla 'scelta' dell’embrione sano. Un drammatico caso umano diventa ancora una volta il grimaldello per forzare le garanzie disposte dal Parlamento - Avvenire, 14 gennaio 2010
E’ di ieri pomeriggio la notizia relativa a un giudice di Salerno che ha autorizzato l’accesso alla fecondazione artificiale a una coppia senza alcun problema di sterilità. A quanto si apprende, i coniugi (una coppia lombarda) sarebbero portatori sani di una malattia genetica ereditaria, e per questo si sarebbero rivolti a un centro di procreazione artificiale dopo «5 gravidanze, un figlio solo e 4 lutti» al fine di poter effettuare la diagnosi preimpianto sugli embrioni.
Secondo il magistrato – Antonio Scarpa – cui la coppia ha presentato ricorso «il diritto a procreare, e lo stesso diritto alla salute dei soggetti coinvolti, verrebbero irrimediabilmente lesi da una interpretazione delle norme in esame che impedissero il ricorso alle tecniche di Pma (procreazione medicalmente assistita, ndr ) da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che però rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili; solo la Pma attraverso la diagnosi preimpianto, e quindi l’impianto solo degli embrioni sani, mediante una lettura 'costituzionalmente' orientata dell’articolo 13, consentono di scongiurare tale simile rischio».
In pratica, secondo la sentenza, l’accesso alle tecniche, oggi riservato solo alle persone sterili e infertili, potrebbe essere ampliato attraverso «una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 13». Finché non si conosceranno le motivazioni non sarà possibile sapere quale contorto ragionamento abbia portato a riconoscere questa possibilità.
Tuttavia risulta alquanto improbabile trovarne il fondamento nell’articolo 13 della legge 40. Questo articolo, infatti, tra le altre cose vieta «ogni forma di selezione a scopo eugenetico» e «qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano». Inoltre, prevede che «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche a essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso».
Senza contare che è ancora pienamente vigente il divieto di crioconservazione e soppressione degli embrioni contenuto nell’articolo 14. Un divieto inequivocabile, che cozza con la possibilità di effettuare la diagnosi preimpianto, la quale implica l’eliminazione degli embrioni eventualmente affetti da qualche patologia.
Due paletti, quelli del divieto di diagnosi preimpianto e di selezione, chiaramente desumibili da diverse disposizioni contenute nella normativa, anche dopo le censure compiute dalla Corte Costituzionale con la sentenza 151 del 2009. Con questa pronuncia la Consulta aveva dichiarato incostituzionali le parole «a un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre» contenute nell’articolo 14 della legge, abbattendo il limite numerico massimo di embrioni generabili per ciascun ciclo. Inoltre, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14 «nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come stabilisce tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna».
Questa sentenza della Consulta non ha però eliminato il divieto di diagnosi preimpinato e di selezione. Ciò è desumibile, oltre che dalle disposizione ancora vigenti, anche da quanto affermato dalla Corte stessa in un’altra pronuncia, la 369 del 2006. Interpellata in seguito alla rimessione di un giudice di Cagliari, chiamato a decidere sul ricorso di una coppia che chiedeva di poter effettuare la diagnosi preimpianto, la Consulta dichiarava la «manifesta inammissibilità» della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13 della legge 40, rilevando che il divieto di diagnosi preimpianto è «desumibile anche da altri articoli della stessa legge, non impugnati, nonché dall’interpretazione dell’intero testo legislativo alla luce dei suoi criteri ispiratori». Se tale divieto è desumibile «dall’interpretazione dell’intero testo legislativo» non si comprende come un singolo giudice, come quello di Salerno, attraverso un’interpretazione «costituzionalmente orientata» dell’articolo 13, possa aver autorizzato – contraddicendo la stessa Corte costituzionale – tale pratica vietata dalla legge.
Anche la questione dell’accesso alle tecniche, ampliato arbitrariamente ieri da questo giudice è esplicitamente regolato dalla legge 40: oggi il ricorso alla fecondazione artificiale è riservato alle coppie infertili o sterili proprio perché, come afferma l’articolo 4, «è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione». Era prevedibile che le temerarie aperture verso la possibilità di eseguire la diagnosi preimpianto avanzate da alcuni centri portasse inevitabilmente a reclamare l’accesso alle tecniche anche le coppie non sterili ma portatrici di malattie genetiche. Un’altra dimostrazione che la diagnosi preimpianto stravolgerebbe di fatto lo spirito di tutta la legge, nata con lo scopo di «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (articolo 1) e non per altre finalità, come quella di evitare i rischi genetici legati alla gravidanza in sé.
E’ vero che le attuali linee guida, emanate nel 2008, hanno introdotto il concetto di «sterilità di fatto» per le persone portatrici di Hiv, che, anche se fertili, possono accedere alle tecniche. Una disposizione di dubbia legittimità, considerato che l’articolo 4 della legge è molto chiaro nel menzionare i soggetti che possono accedere alla fecondazione. Inoltre l’articolo 7 specifica che le linee guida debbano contenere solo «l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita» e non la disciplina dell’accesso a tali procedure.
Su questo punto ha espresso molto bene la ratio della normativa il Tar del Lazio, che nella sentenza del 23 maggio del 2005 escluse «che il metodo (artificiale) della procreazione assistita, il cui fine è solamente quello di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità e infertilità umane, possa offrire delle opportunità maggiori del metodo naturale».
1) Catechesi del Papa sulla nascita degli Ordini francescano e domenicano - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
2) SUONA LA SVEGLIA per l'Osservatore Romano - Finalmente anche l’Osservatore Romano pubblica oggi, dopo sei giorni dai funerali, l’annuncio della morte del confessore della fede mons. Leo Yao Liang, vescovo cinese della chiesa clandestina, condannato ai lavori forzati per il “crimine” di voler rimanere fedele al Sommo Pontefice e alla Chiesa universale.
3) LA CANDIDATURA DI EMMA BONINO - Guelfi e ghibellini No, questione di valori - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 13 gennaio 2010
4) Io, loro e Lara: la pellicola vista dallo scrittore - Quel film di Verdone troppo nichilista per essere cattolico - La rimpatriata del missionario è disastrosa, al punto da costringerlo a rientrare subito in Africa - di Vittorio Messori
5) Sono 5 miliardi i perseguitati per la loro fede - Il Pew Forum on Religion & Public Life di Washington ha effettuato un’indagine dettagliata che prende in esame le restrizioni alla libertà religiosa nazione per nazione e ne è scaturito un rapporto di settantadue pagine, dal titolo Global Restrictions on Religion. December 2009. Il dato che emerge sconcertante è che più di cinque dei sei e rotti miliardi di abitanti del pianeta non sono liberi di praticare la loro religione. Ma le restrizioni non si trovano solo in Cina, India, Arabia Saudita o nei paesi di maggioranza musulmana e buddista: anche nella laicissima Francia, in Gran Bretagna, patria del politically correct, nella Grecia ortodossa, o nello stato di Israele, non sono tutte rose e fiori, anzi…- Il Giornale mercoledì 13 gennaio 2010 - di Rino Cammilleri
6) Licenziata per “bullismo” cristiano - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 13 gennaio 2010
7) TERREMOTO HAITI/ Zorzi (Avsi): il crollo più grave è quello della speranza, l’Italia può fare molto - Redazione giovedì 14 gennaio 2010 – ilsussidiario.net
8) NELLE CARTE IL GELO DI UN’AGONIA PROCURATA E NUDE VERITÀ - Eluana non era «devastata» ma è stata straziata - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 14 gennaio 2010
9) Scozia, il parlamento pensa al suicidio - di Silvia Guzzetti – Avvenire, 14 gennaio 2010 - La Camera di Edimburgo si prepara a votare una proposta di legge avanzata da Margo MacDonald, deputata che soffre di morbo di Parkinson e chiede la depenalizzazione della «morte volontaria assistita» Anche in Inghilterra è prevista a breve l’approvazione delle linee guida in materia
10) Selezione in provetta per sentenza, legge 40 umiliata – Il Tribunale di Salerno ha abbattuto ieri in un colpo solo due pilastri della norma consentendo l’accesso alla procreazione assistita a una coppia non sterile e dando il via libera alla 'scelta' dell’embrione sano. Un drammatico caso umano diventa ancora una volta il grimaldello per forzare le garanzie disposte dal Parlamento - Avvenire, 14 gennaio 2010
Catechesi del Papa sulla nascita degli Ordini francescano e domenicano - In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'aula Paolo VI, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Continuando la catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, il Papa si è soffermato su due grandi Ordini mendicanti (francescani e domenicani).
* * *
Cari fratelli e sorelle,
all'inizio del nuovo anno guardiamo alla storia del Cristianesimo, per vedere come si sviluppa una storia e come può essere rinnovata. In essa possiamo vedere che sono i santi, guidati dalla luce di Dio, gli autentici riformatori della vita della Chiesa e della società. Maestri con la parola e testimoni con l’esempio, essi sanno promuovere un rinnovamento ecclesiale stabile e profondo, perché essi stessi sono profondamente rinnovati, sono in contatto con la vera novità: la presenza di Dio nel mondo. Tale consolante realtà, che in ogni generazione cioè nascono santi e portano la creatività del rinnovamento, accompagna costantemente la storia della Chiesa in mezzo alle tristezze e agli aspetti negativi del suo cammino. Vediamo, infatti, secolo per secolo, nascere anche le forze della riforma e del rinnovamento, perché la novità di Dio è inesorabile e dà sempre nuova forza per andare avanti. Così accadde anche nel secolo tredicesimo, con la nascita e lo straordinario sviluppo degli Ordini Mendicanti: un modello di grande rinnovamento in una nuova epoca storica. Essi furono chiamati così per la loro caratteristica di "mendicare", di ricorrere, cioè, umilmente al sostegno economico della gente per vivere il voto di povertà e svolgere la propria missione evangelizzatrice. Degli Ordini Mendicanti che sorsero in quel periodo, i più noti e i più importanti sono i Frati Minori e i Frati Predicatori, conosciuti come Francescani e Domenicani. Essi sono così chiamati dal nome dei loro Fondatori, rispettivamente Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman. Questi due grandi santi ebbero la capacità di leggere con intelligenza "i segni dei tempi", intuendo le sfide che doveva affrontare la Chiesa del loro tempo.
Una prima sfida era rappresentata dall’espansione di vari gruppi e movimenti di fedeli che, sebbene ispirati da un legittimo desiderio di autentica vita cristiana, si ponevano spesso al di fuori della comunione ecclesiale. Erano in profonda opposizione alla Chiesa ricca e bella che si era sviluppata proprio con la fioritura del monachesimo. In recenti Catechesi mi sono soffermato sulla comunità monastica di Cluny, che aveva sempre più attirato giovani e quindi forze vitali, come pure beni e ricchezze. Si era così sviluppata, logicamente, in un primo momento, una Chiesa ricca di proprietà e anche immobile. Contro questa Chiesa si contrappose l'idea che Cristo venne in terra povero e che la vera Chiesa avrebbe dovuto essere proprio la Chiesa dei poveri; il desiderio di una vera autenticità cristiana si oppose così alla realtà della Chiesa empirica. Si tratta dei cosiddetti movimenti pauperistici del Medioevo. Essi contestavano aspramente il modo di vivere dei sacerdoti e dei monaci del tempo, accusati di aver tradito il Vangelo e di non praticare la povertà come i primi cristiani, e questi movimenti contrapposero al ministero dei Vescovi una propria "gerarchia parallela". Inoltre, per giustificare le proprie scelte, diffusero dottrine incompatibili con la fede cattolica. Ad esempio, il movimento dei Catari o Albigesi ripropose antiche eresie, come la svalutazione e il disprezzo del mondo materiale – l’opposizione contro la ricchezza diventa velocemente opposizione contro la realtà materiale in quanto tale - la negazione della libera volontà, e poi il dualismo, l'esistenza di un secondo principio del male equiparato a Dio. Questi movimenti ebbero successo, specie in Francia e in Italia, non solo per la solida organizzazione, ma anche perché denunciavano un disordine reale nella Chiesa, causato dal comportamento poco esemplare di vari esponenti del clero.
I Francescani e i Domenicani, sulla scia dei loro Fondatori, mostrarono, invece, che era possibile vivere la povertà evangelica, la verità del Vangelo come tale, senza separarsi dalla Chiesa; mostrarono che la Chiesa rimane il vero, autentico luogo del Vangelo e della Scrittura. Anzi, Domenico e Francesco trassero proprio dall’intima comunione con la Chiesa e con il Papato la forza della loro testimonianza. Con una scelta del tutto originale nella storia della vita consacrata, i Membri di questi Ordini non solo rinunciavano al possesso di beni personali, come facevano i monaci sin dall’antichità, ma neppure volevano che fossero intestati alla comunità terreni e beni immobili. Intendevano così testimoniare una vita estremamente sobria, per essere solidali con i poveri e confidare solo nella Provvidenza, vivere ogni giorno della Provvidenza, della fiducia di mettersi nelle mani di Dio. Questo stile personale e comunitario degli Ordini Mendicanti, unito alla totale adesione all’insegnamento della Chiesa e alla sua autorità, fu molto apprezzato dai Pontefici dell’epoca, come Innocenzo III e Onorio III, i quali offrirono il loro pieno sostegno a queste nuove esperienze ecclesiali, riconoscendo in esse la voce dello Spirito. E i frutti non mancarono: i gruppi pauperistici che si erano separati dalla Chiesa rientrarono nella comunione ecclesiale o, lentamente, si ridimensionarono fino a scomparire. Anche oggi, pur vivendo in una società in cui spesso prevale l’"avere" sull’"essere", si è molto sensibili agli esempi di povertà e di solidarietà, che i credenti offrono con scelte coraggiose. Anche oggi non mancano simili iniziative: i movimenti, che partono realmente dalla novità del Vangelo e lo vivono con radicalità nell’oggi, mettendosi nelle mani di Dio, per servire il prossimo. Il mondo, come ricordava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi, ascolta volentieri i maestri, quando sono anche testimoni. È questa una lezione da non dimenticare mai nell’opera di diffusione del Vangelo: vivere per primi ciò che si annuncia, essere specchio della carità divina.
Francescani e Domenicani furono testimoni, ma anche maestri. Infatti, un’altra esigenza diffusa nella loro epoca era quella dell’istruzione religiosa. Non pochi fedeli laici, che abitavano nelle città in via di grande espansione, desideravano praticare una vita cristiana spiritualmente intensa. Cercavano dunque di approfondire la conoscenza della fede e di essere guidati nell’arduo, ma entusiasmante cammino della santità. Gli Ordini Mendicanti seppero felicemente venire incontro anche a questa necessità: l'annuncio del Vangelo nella semplicità e nella sua profondità e grandezza era uno scopo, forse lo scopo principale di questo movimento. Con grande zelo, infatti, si dedicarono alla predicazione. Erano molto numerosi i fedeli, spesso vere e proprie folle, che si radunavano per ascoltare i predicatori nelle chiese e nei luoghi all’aperto, pensiamo a sant'Antonio, per esempio. Venivano trattati argomenti vicini alla vita della gente, soprattutto la pratica delle virtù teologali e morali, con esempi concreti, facilmente comprensibili. Inoltre, si insegnavano forme per nutrire la vita di preghiera e la pietà. Ad esempio, i Francescani diffusero molto la devozione verso l’umanità di Cristo, con l’impegno di imitare il Signore. Non sorprende allora che fossero numerosi i fedeli, donne ed uomini, che sceglievano di farsi accompagnare nel cammino cristiano da frati Francescani e Domenicani, direttori spirituali e confessori ricercati e apprezzati. Nacquero, così, associazioni di fedeli laici che si ispiravano alla spiritualità di san Francesco e di san Domenico, adattata al loro stato di vita. Si tratta del Terzo Ordine, sia francescano che domenicano. In altri termini, la proposta di una "santità laicale" conquistò molte persone. Come ha ricordato il Concilio Ecumenico Vaticano II, la chiamata alla santità non è riservata ad alcuni, ma è universale (cfr Lumen gentium, 40). In tutti gli stati di vita, secondo le esigenze di ciascuno di essi, si trova la possibilità di vivere il Vangelo. Anche oggi ogni cristiano deve tendere alla "misura alta della vita cristiana", a qualunque stato di vita appartenga!
L’importanza degli Ordini Mendicanti crebbe così tanto nel Medioevo che Istituzioni laicali, come le organizzazioni del lavoro, le antiche corporazioni e le stesse autorità civili, ricorrevano spesso alla consulenza spirituale dei Membri di tali Ordini per la stesura dei loro regolamenti e, a volte, per la soluzione di contrasti interni ed esterni. I Francescani e i Domenicani diventarono gli animatori spirituali della città medievale. Con grande intuito, essi misero in atto una strategia pastorale adatta alle trasformazioni della società. Poiché molte persone si spostavano dalle campagne nelle città, essi collocarono i loro conventi non più in zone rurali, ma urbane. Inoltre, per svolgere la loro attività a beneficio delle anime, era necessario spostarsi secondo le esigenze pastorali. Con un’altra scelta del tutto innovativa, gli Ordini mendicanti abbandonarono il principio di stabilità, classico del monachesimo antico, per scegliere un altro modo. Minori e Predicatori viaggiavano da un luogo all’altro, con fervore missionario. Di conseguenza, si diedero un’organizzazione diversa rispetto a quella della maggior parte degli Ordini monastici. Al posto della tradizionale autonomia di cui godeva ogni monastero, essi riservarono maggiore importanza all’Ordine in quanto tale e al Superiore Generale, come pure alla struttura delle provincie. Così i Mendicanti erano maggiormente disponibili per le esigenze della Chiesa Universale. Questa flessibilità rese possibile l’invio dei frati più adatti per lo svolgimento di specifiche missioni e gli Ordini Mendicanti raggiunsero l’Africa settentrionale, il Medio Oriente, il Nord Europa. Con questa flessibilità il dinamismo missionario venne rinnovato.
Un’altra grande sfida era rappresentata dalle trasformazioni culturali in atto in quel periodo. Nuove questioni rendevano vivace la discussione nelle università, che sono nate alla fine del XII secolo. Minori e Predicatori non esitarono ad assumere anche questo impegno e, come studenti e professori, entrarono nelle università più famose del tempo, eressero centri di studi, produssero testi di grande valore, diedero vita a vere e proprie scuole di pensiero, furono protagonisti della teologia scolastica nel suo periodo migliore, incisero significativamente nello sviluppo del pensiero. I più grandi pensatori, san Tommaso d'Aquino e san Bonaventura, erano mendicanti, operando proprio con questo dinamismo della nuova evangelizzazione, che ha rinnovato anche il coraggio del pensiero, del dialogo tra ragione e fede. Anche oggi c’è una "carità della e nella verità", una "carità intellettuale" da esercitare, per illuminare le intelligenze e coniugare la fede con la cultura. L’impegno profuso dai Francescani e dai Domenicani nelle università medievali è un invito, cari fedeli, a rendersi presenti nei luoghi di elaborazione del sapere, per proporre, con rispetto e convinzione, la luce del Vangelo sulle questioni fondamentali che interessano l’uomo, la sua dignità, il suo destino eterno. Pensando al ruolo dei Francescani e Domenicani nel Medioevo, al rinnovamento spirituale che suscitarono, al soffio di vita nuova che comunicarono nel mondo, un monaco disse: "In quel tempo il mondo invecchiava. Due Ordini sorsero nella Chiesa, di cui rinnovarono la giovinezza come quella di un’aquila" (Burchard d’Ursperg, Chronicon).
Cari fratelli e sorelle, invochiamo proprio all'inizio di quest'anno lo Spirito Santo, eterna giovinezza della Chiesa: egli faccia sentire ad ognuno l’urgenza di offrire una testimonianza coerente e coraggiosa del Vangelo, affinché non manchino mai santi, che facciano risplendere la Chiesa come sposa sempre pura e bella, senza macchia e senza ruga, capace di attrarre irresistibilmente il mondo verso Cristo, verso la sua salvezza.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
E ora mi rivolgo con affetto ai pellegrini di lingua italiana; siete tanti, grazie per il vostro entusiasmo. In particolare, saluto gli Assistenti ecclesiastici dell’UNITALSI, che in questi giorni stanno celebrando il loro Convegno, ed auspico che quest'importante incontro sia per tutti occasione di rinnovato slancio apostolico e di sempre più generoso servizio ai fratelli. Saluto i rappresentanti dell’Associazione "Centro per la salvaguardia del Creato", di Bergamo e li incoraggio a proseguire con entusiasmo nella loro significativa opera di interesse sociale e morale.
Infine, come sempre, mi rivolgo ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli presenti. La Liturgia odierna ricorda Sant'Ilario, Vescovo di Poitiers, vissuto in Francia nel IV secolo, che "fu tenace assertore della divinità di Cristo" (Liturgia), difensore della fede e maestro di verità. Il suo esempio sostenga voi, cari giovani, nella costante e coraggiosa ricerca di Cristo: specialmente voi studenti della diocesi di Caserta, grazie per la vostra presenza e grazie per il vostro impegno nella fede, vedo e sento la forza della vostra fede; incoraggi voi, cari malati, ad offrire le vostre sofferenze affinché il Regno di Dio si diffonda in tutto il mondo; ed aiuti voi, cari sposi novelli, ad essere testimoni dell'amore di Cristo nella vita familiare.
[APPELLO DEL SANTO PADRE]
Desidero ora rivolgere un appello per la drammatica situazione in cui si trova Haiti. Il mio pensiero va, in particolare, alla popolazione duramente colpita, poche ore fa, da un devastante terremoto, che ha causato gravi perdite in vite umane, un grande numero di senzatetto e di dispersi e ingenti danni materiali. Invito tutti ad unirsi alla mia preghiera al Signore per le vittime di questa catastrofe e per coloro che ne piangono la scomparsa. Assicuro la mia vicinanza spirituale a chi ha perso la propria casa e a tutte le persone provate in vario modo da questa grave calamità, implorando da Dio consolazione e sollievo nella loro sofferenza. Mi appello alla generosità di tutti, affinché non si faccia mancare a questi fratelli e sorelle che vivono un momento di necessità e di dolore, la nostra concreta solidarietà e il fattivo sostegno della Comunità Internazionale. La Chiesa Cattolica non mancherà di attivarsi immediatamente tramite le sue Istituzioni caritative per venire incontro ai bisogni più immediati della popolazione.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
SUONA LA SVEGLIA per l'Osservatore Romano - Finalmente anche l’Osservatore Romano pubblica oggi, dopo sei giorni dai funerali, l’annuncio della morte del confessore della fede mons. Leo Yao Liang, vescovo cinese della chiesa clandestina, condannato ai lavori forzati per il “crimine” di voler rimanere fedele al Sommo Pontefice e alla Chiesa universale. Infatti, dopo che AsiaNews aveva dato la notizia della morte e dei funerali di questo confessore della fede, era seguito un quasi generalizzato silenzio, anche nei mezzi di comunicazione cattolici, compreso l’Osservatore Romano. Silenzio interrotto il giorno 9 - due giorni dopo i funerali del compianto presule ed in seguito anche alle proteste circolate nella net - dal Foglio (Paolo Rodari, La politica vaticana in Cina è attendista e l’addio al vescovo Yao lo dice). Solamente ieri, 11 gennaio, dal Vaticano si dava ufficialmente notizia del decesso e si tracciava un commovente profilo del vescovo Yao (Mons. Yao è stato veramente il buon pastore che dà la vita per le sue pecore) con un comunicato dell’agenzia Fides (agenzia di informazione della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli), ripreso poi anche da Radio Vaticana e dal blog Settimo cielo di Sandro Magister.
Oggi è arrivato anche l’Osservatore Romano… meglio tardi che mai caro prof. Vian.
Riportiamo il comunicato integrale dell’agenzia Fides
COMUNICATO
Mons. Yao è stato veramente il buon pastore
che dà la vita per le sue pecore
Il 30 dicembre 2009 è deceduto, all’età di 86 anni, Sua Ecc. Mons. Leo Yao Liang, Vescovo Coadiutore della diocesi di Siwantze (Chongli- Xiwanzi), nella provincia di Hebei (Cina Continentale).
Il Presule era nato l’11 aprile 1923 nel villaggio di Gonghui, nella contea di Zhangbei. Ordinato sacerdote il 1º agosto 1948, lavorò come viceparroco in varie parrocchie della diocesi fino a quando gli fu impedito di esercitare il ministero sacerdotale e fu costretto a guadagnarsi da vivere coltivando ortaggi e vendendo legna. Nel 1956 fu condannato ai lavori forzati per aver rifiutato di aderire al movimento d’indipendenza della Chiesa cattolica dal Papa. Due anni dopo gli fu inflitta la pena del carcere a vita sempre per lo stesso “crimine”, quello cioè di voler rimanere fedele al Sommo Pontefice e alla Chiesa universale. Fu liberato nel 1984 dopo quasi trenta anni di prigione. Ordinato vescovo il 19 febbraio 2002, nel luglio 2006 fu di nuovo sequestrato dalla polizia in seguito alla consacrazione di una nuova chiesa nella contea di Guyuan, e trascorse altri trenta mesi in prigione. Una volta liberato, ma sempre sotto stretta sorveglianza, ha potuto impegnarsi per gli affari della diocesi nonostante tutte le difficoltà. Alla Messa domenicale da lui celebrata partecipavano ogni settimana più di mille fedeli.
Dopo la morte di Mons. Yao, le Autorità civili hanno proibito alla comunità cattolica di onorarlo con il titolo di “vescovo”, imponendo che si usasse quello di “pastore clandestino”. La mattina del 6 gennaio corrente mese, migliaia di fedeli, provenienti da varie parti del Paese, hanno partecipato ai suoi funerali nonostante i controlli della polizia e l’abbondante nevicata, dimostrando così che Mons. Yao è stato veramente il buon pastore, che dà la vita per le sue pecore. In lui, come negli altri sei Vescovi cinesi che sono morti durante l’anno 2009, si sono compiute le parole del libro della Sapienza: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto” (3, 1-6).
(Agenzia Fides 11/01/2010)
LA CANDIDATURA DI EMMA BONINO - Guelfi e ghibellini No, questione di valori - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 13 gennaio 2010
Secondo l’opinione di Franco Marini polemizzare con l’ormai lanciata candidatura di Emma Bonino nelle elezioni regionali del Lazio alla testa della coalizione di centrosinistra ci farebbe tornare indietro alla «lotta tra guelfi e ghibellini», con la conseguente perdita della lezione di laicità che ci ha lasciato don Sturzo. Sembra infatti di capire che, secondo Marini, radicali e cattolici conducano battaglie non dissimili: i radicali si battono per i diritti civili e questo è un tema che non va considerato prerogativa della sinistra. «Fa parte del retroterra dello stesso mondo cattolico accettare la centralità della persona». Non si potrebbe dir meglio: il tema della centralità della persona, in tutte le sue possibili dimensioni, è infatti e chiaramente il baricentro dell’ impegno politico dei cristiani. E allora come si spiegano le tante e tante polemiche che hanno visto contrapposti i radicali e i cattolici? Un colossale equivoco? Ovviamente no.
I diritti civili per i quali si battono, e da sempre, i radicali non sono i diritti della persona, ma i diritti dell’individuo. La differenza tra queste due categorie è molto netta. Parlare di persona significa parlare di relazionalità, solidarietà, dignità, ricerca di un bene comune ed oggettivo, consapevolezza di una comune appartenenza alla famiglia umana. L’orizzonte in cui ci si colloca quando si parla di individuo è invece ben diverso: è l’orizzonte del primato della soggettività, che relativizza l’oggettività del bene e assolutizza come insindacabili le preferenze dei singoli. Sono sovrapponibili la categoria 'persona' e la categoria 'individuo'? In parte sì, ma solo in parte: sono sovrapponibili (e peraltro non sempre) solo quando entrano in gioco legittimi interessi economici, di cui è ragionevole rivendicare una piena tutela politica e sociale. Quando però entrano in gioco valori che vanno al di là dell’orizzonte dell’economia (intesa in senso stretto) sovrapporre le due categorie è impossibile: l’individualismo attiva dinamiche libertarie, il personalismo dinamiche relazionali. Per l’individualismo l’«io» è la realtà primigenia; il «noi» non è altro se non la somma di tutti gli «io» e l’io ha quindi un primato sul «noi». Per il personalismo, invece, non c’è un «io» che non venga prodotto da un «noi» e questo spiega sia il rispetto che al «noi» è dovuto dall’«io», sia il fatto che questo rispetto non toglie assolutamente nulla alla dignità di ogni singolo «io», ma l’orienta verso un bene che quando è autentico è bene di tutti e mai soltanto del singolo.
Ecco perché tra individualismo e personalismo possono anche esserci convergenze significative, ma non sul piano dei valori «non negoziabili», perché su questo piano la differenza è netta. Questioni come la legalizzazione degli stupefacenti, la difesa del matrimonio e della famiglia, la tutela della vita (della vita prenatale, della vita in provetta, della vita dei malati) marcano l’ inconciliabilità tra il modo radicale e il modo personalistico di pensare i diritti civili. Chi insiste su questo punto non commette alcun delitto di lesa laicità, perché qui non si tratta di schierarsi dalla parte dello Stato o dalla parte del Papa: l’inconciliabilità tra individualismo e personalismo non ha carattere confessionale, ma si radica in una diversa (e parimenti laica!) visione antropologica del bene umano. I poteri dei presidenti delle Regioni sono significativi, sia in tema di famiglia che soprattutto in tema di sanità e di bioetica (lo si è visto pochi mesi fa, in occasione della tristissima vicenda di Eluana Englaro): sono temi già incandescenti e sempre più destinati a diventarlo nei prossimi mesi. Emma Bonino, con la schiettezza che le è propria, non nasconde che su queste tematiche essa continua a condividere le posizioni individualistiche tipiche dell’ideologia radicale (del resto solo un ingenuo potrebbe pensare al contrario) e non cessa, secondo un vecchio vizio dei radicali, di accusare di integralismo i cattolici che non condividono la sua candidatura. È davvero arrivato il momento di smetterla di usare parole ad effetto (come appunto guelfi/ghibellini, laicità, integralismo) e di ricordarci che il rispetto, che non deve mai mancare per le persone, non sempre va esteso alla loro ideologia.
Io, loro e Lara: la pellicola vista dallo scrittore - Quel film di Verdone troppo nichilista per essere cattolico - La rimpatriata del missionario è disastrosa, al punto da costringerlo a rientrare subito in Africa - di Vittorio Messori
Non è difficile avere un pregiudizio positivo verso Carlo Verdone. Non è difficile, dico, in un mondo dello spettacolo dove i comici si trasformano in demagoghi giustizialisti e in capipopolo giacobini. Dove registi pensosi, sprezzanti del pubblico, lanciano i loro «messaggi» e le loro «denunce sociali» in film finanziati coi soldi pubblici e che, dopo una fugace apparizione in qualche festival, non raggiungono gli schermi. Dove — me lo raccontava un amico — l’imprudenza di qualcuno portò sul set di una pellicola veri cani antidroga della Finanza, invece dei finti previsti, e gli animali impazzirono, non sapendo quale attore, o attrice bloccare per primi.
Il look e, a quanto mi dicono, l’ordinatissimo stile di vita di Verdone, sono quelli di un direttore di ufficio postale o di un professore di scienze alle medie. Eppure, quel suo volto tondo e apparentemente anonimo sa trasformarsi e contorcersi come fosse di caucciù e la battuta lo trasforma in una sorta di Woody Allen de noantri, dove il sulfureo umorismo ebraico è sostituito dalla arguta bonarietà romanesca. Non andando molto spesso al cinema, non ho visto tutti i film di un regista e attore che, proprio in questo 2010, compie trent’anni di carriera. Non potevo perdere, però, questo Io, loro e Lara anche per la segnalazione fattami da un monsignore amico che ha partecipato a una proiezione in anteprima. «Non ci sono scene pornografiche, tranne qualche seno che spunta a metà. C’è, è vero, una quantità impressionante di parolacce: ma non fermiamoci lì, oggi tutti parlano così ed è proprio un ritratto nudo e crudo della società italiana che Verdone voleva darci. Ma, sotto certo macchiettismo in fondo autoironico, per non prendersi troppo sul serio, c’è il vecchio romano che ha studiato dalle suore e dai preti, che ha di certo uno zio o una cugina religiosi e che, dunque, non può non essere permeato sin nelle ossa di cattolicesimo». Così mi diceva quel sacerdote, suggerendomi di andare a vedere il film per, poi, scambiare opinioni.
La prima— confortante— sorpresa riservatami dalla pellicola è stata la sala esaurita, in una sera di neve in un multiplex sperduto tra le vigne delle colline moreniche del Garda. La seconda è stata un pur timido e breve tentativo di applauso al termine della proiezione. Avevo con me un taccuino, per segnare qualche critica ma, alla fine, l’ho deposto nella tasca. In bianco. Certo: a giustificare un simile «nulla da eccepire» in questioni teologiche (per usare un termine troppo impegnativo) conta anche la mancanza di approfondimento scelta da Verdone. La crisi del missionario in Africa nasce da motivazioni scontate, da cose dei tempi della bagarre postconciliare. Per dirla con le parole di don Carlo, il protagonista omonimo dell’attore e regista: «Ho l’impressione che, laggiù, la gente abbia bisogno di protezione civile più che di protezione divina». Il prete, soprattutto se missionario, come agente di promozione economica e politica e non come annunciatore della vittoria della morte nella Risurrezione di Gesù. Un déjà vu. Nulla di nuovo né di «scavato», dunque, dietro la crisi di identità di don Carlo. Quanto alla sue reazioni davanti al «puttanaio», parole sue, che trova dopo dieci anni di Africa nella sua famiglia, nella sua Roma: beh, alla sorpresa, all’incapacità di capire che stia succedendo, seguono reazioni da prete di sempre che, pur alternando il turpiloquio alle giaculatorie, non si allontana dalle classiche esortazioni alla solidarietà, alla comprensione, all’accoglienza. Tutto molto edificante, pur sotto le forme più che laiche dell’attore e regista; tutto unito, tra l’altro, ad altre edificazioni, come la reazione violenta ai tentativi di seduzione sia di tardone che di ragazze.
Ha detto Verdone: «I vertici della Conferenza episcopale, al termine di una proiezione privata, mi hanno detto: "Ci hai fatto una carezza"». Non sappiamo se fosse davvero la «cupola» della Conferenza episcopale a visionare Io, loro e Lara, ma è plausibile che il giudizio sia stato sostanzialmente positivo, come già accennavo. Ma l’indubbio marchio cattolico del film di un romano permeato di cattolicesimo sino al midollo, deve fare i conti con il finale, dove qualche critico ha visto un happy end posticcio, un’aggiunta per mandare lo spettatore a casa sereno. Al contrario, è qui la chiave dell’opera e il credente, almeno, non può non allarmarsi per una conclusione di impotenza e di fallimento. La rimpatriata del missionario è stata disastrosa, al punto da costringerlo a rifar subito le valigie e a rientrare in Africa. La «cura» per la sua crisi si è dimostrata ben peggiore del male. Restano intatti, dunque, anzi rafforzati, i suoi problemi che mettono in discussione la fede stessa.
Ma gli auguri di Natale, che giungono alla remota missione via web-cam dalla terribile famigliola, confermano che nulla è cambiato e nulla cambierà neppure lì. Il vecchio padre continuerà a imbottirsi di viagra per fronteggiare le giovani badanti, il fratello affarista continuerà a sniffare coca, le nipoti continueranno a essere schiave di mode assurde, la sorella continuerà con le sue nevrosi devastanti, Lara ha avuto il suo bambino ma continuerà con il suo turbinio di amori. Il mondo è questo, non c’è speranza di mutamento, né per credenti né per non credenti. La sola possibilità sta in quello scrollare il capo, sorridendo tra il malinconico e il rassegnato, con cui Verdone chiude il film, mentre il precario collegamento con Roma si interrompe. È la vita, bellezza, nessuno può farci niente! Realismo, certo. Ma che slitta verso lo scetticismo, se non il nichilismo, se ad esso non si affianca l’afflato di Speranza che deve animare il credente. Problematico definire «cattolica» una prospettiva dove c’è posto solo per il sorriso rassegnato di chi è ormai convinto che nulla cambierà mai, che ogni attesa di un mondo più umano è cosa da riderci sopra. Come, appunto, un comico deve fare. E come Verdone, sia detto a sua lode, sa fare benissimo.
Vittorio Messori
08 gennaio 2010
Sono 5 miliardi i perseguitati per la loro fede - Il Pew Forum on Religion & Public Life di Washington ha effettuato un’indagine dettagliata che prende in esame le restrizioni alla libertà religiosa nazione per nazione e ne è scaturito un rapporto di settantadue pagine, dal titolo Global Restrictions on Religion. December 2009. Il dato che emerge sconcertante è che più di cinque dei sei e rotti miliardi di abitanti del pianeta non sono liberi di praticare la loro religione. Ma le restrizioni non si trovano solo in Cina, India, Arabia Saudita o nei paesi di maggioranza musulmana e buddista: anche nella laicissima Francia, in Gran Bretagna, patria del politically correct, nella Grecia ortodossa, o nello stato di Israele, non sono tutte rose e fiori, anzi…- Il Giornale mercoledì 13 gennaio 2010 - di Rino Cammilleri
I temi religiosi sono tornati in auge da quando i terroristi islamici ci hanno fatto capire, a suon di bombe e sgozzamenti, che c’è al mondo un sacco di gente per cui la religione è una cosa importante. Così, ci siamo dovuti interessare al fatto - e, dunque, accorgere - che al mondo c’è anche un sacco di gente per niente libera di praticare la religione che preferisce. Ma non sapevamo che quest’ultima categoria di persone costituisce la maggioranza schiacciante del genere umano. Addirittura, più di cinque dei sei e rotti miliardi di abitanti del pianeta.
Ora per la prima volta è stata effettuata una indagine dettagliata, nazione per nazione, e ne è scaturito un rapporto di settantadue pagine, dal titolo Global Restrictions on Religion. December 2009. Stilato dal Pew Forum on Religion & Public Life di Washington, ha una precisione scientifica che ha risvegliato l’attenzione del vaticanista Sandro Magister, il quale gli ha dedicato una puntata del suo visitatissimo blog. L’indagine del Pew Forum analizza ben 198 nazioni e copre due anni, dal 2006 al 2008. Manca la Corea del Nord per ovvie ragioni: l’ossessione per la segretezza tipica dei regimi comunisti non fa trapelare alcun dato all’esterno. Detta indagine tiene conto sia delle restrizioni alla libertà religiosa imposte dai governi sia quelle provocate dalla pressione sociale (che può essere maggioritaria o di gruppi particolarmente violenti).
In alcuni posti i due tipi di pressione si sommano, in altri prevale l’uno o l’altro. Uno dei diagrammi che visualizzano numericamente i risultati prende in considerazione i cinquanta Paesi più popolati. Su questi spiccano India e Cina, la cui popolazione rispettiva supera il miliardo di individui. Per motivi diversi (pressione sociale in India, restrizioni governative in Cina), ecco già più di due miliardi di persone con problemi riguardo alla libertà religiosa.
Se aggiungiamo non pochi Paesi islamici, et voilà: oltre il settanta per cento dell’umanità vive in posti dove adorare in pace chi si vuole va dal molto difficile all’impossibile. In India il governo centrale predica la libertà religiosa ma ha approvato leggi anti-conversione. Nel Paese, comunque, sono certi gruppi fondamentalisti a fomentare l’odio religioso. Indù e musulmani fanno la loro parte, talvolta difendendosi, talaltra attaccando. In certe zone a farne le spese sono i cristiani, com’è noto. In Cina (ma anche in Vietnam) la popolazione non ha alcun problema con le diverse fedi; sono i governi a praticare la persecuzione. Nigeria e Bangladesh offrono dati differenti: le autorità sono neutrali (per ora) mentre le varie fazioni ogni tanto esplodono in pogrom ai danni del credo altrui. L’unico Paese in cui le coordinate cartesiane si sommano (ostilità sociale e divieti governativi) e registrano i picchi massimi è l’Arabia Saudita, che per la religione musulmana (di cui custodisce due dei tre «luoghi santi» ai sunniti) è interamente «terra sacra». Qui, ormai è universalmente noto, anche l’atto di culto privato diverso da quello ufficiale è reato penale. Tra gli altri Paesi interamente (e ufficialmente) musulmani, i più popolosi sono il Pakistan e l’Indonesia. I loro dati si discostano, sì, da quelli sauditi, ma mica tanto. In più, la situazione è sempre precaria, il che vuol dire che in qualsiasi momento potrebbero balzare ai vertici della classifica. Anche l’Egitto non scherza con il suo dieci per cento di cristiani copti. Pure qui ogni giorno è buono per un aggiornamento del posto in classifica. Si tenga conto che l’Egitto detiene l’università islamica più autorevole dell’intera «sunna» (la comunità dei fedeli musulmani) e da essa scaturiscono le interpretazioni coraniche più seguite. E poi c’è l'Iran, repubblica «islamica» fin dal nome, di credo sciita: le restrizioni in questo Paese appartengono ai due campi presi in considerazione dall’indagine del Pew Forum. Ma non si pensi che la palma dell’intolleranza spetti al solo islam.
Anche i Paesi ufficialmente buddisti fanno la loro parte: Sri Lanka, Myanmar e Cambogia reprimono in vario modo tutte le religioni diverse da quella di Stato. A volte le restrizioni colpiscono versioni diverse dello stesso credo. È il caso dell’Indonesia, ufficialmente musulmano, nel quale gli Ahmadi non hanno vita facile. Lo stesso in Turchia per gli Alevi. In Turchia, poi, la Chiesa cattolica non ha riconoscimento ufficiale, cosa che comporta non piccole restrizioni in campo amministrativo. Come nella cristiana Grecia: qui solo gli ortodossi, gli ebrei e i musulmani hanno status giuridico (il che significa libertà di organizzazione e di proprietà), non così i cristiani di altre confessioni. Mettendosi davanti al planisfero squadernato dal rapporto del Pew Forum ci si accorge subito che l’area della libertà religiosa è piuttosto limitata, nel mondo, e si trova principalmente nei Paesi a maggioranza cristiana come le Americhe, l’Europa, parte dell’Africa sub-sahariana e l'Australia. Ma neanche qui sono tutte rose e fiori.
La laicissima Francia impone restrizioni a tutti, dal turbante sikh al velo islamico ai crocifissi di grosse dimensioni. In Gran Bretagna, quantunque la Regina sia anche capo della chiesa statale, è il politicamente corretto a dettar legge, tant’è che le maggiori restrizioni le incontrano proprio i cristiani.
Un caso a sé (ma non troppo) è Israele, il cui governo accorda privilegi notevolissimi alle minoranze ultraortodosse dell’ebraismo, quantunque queste ultime costituiscano una frazione numericamente irrilevante della popolazione complessiva. Ma da qui in avanti si entra nella cronaca: è recentissima, per esempio, la condanna da parte del rabbinato ortodosso nei confronti di quelli che sputano addosso ai preti cristiani. Come abbiamo anticipato più sopra, per non pochi Paesi la situazione è ballerina. Per esempio, solo grazie al viaggio all’Avana di Giovanni Paolo II il mondo si rese conto che nella Cuba castrista era vietato festeggiare il Natale. Dunque, occhio alla cronaca (vedi quel che accade in Malesia, dove ai cristiani si vuol vietare l'uso della parola «Allah»), in attesa del Rapporto Pew 2010.
Il Giornale mercoledì 13 gennaio 2010
Licenziata per “bullismo” cristiano - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 13 gennaio 2010
Neppure il clima natalizio è riuscito ad arrestare l’ondata discriminatoria che sta colpendo i cristiani nel Regno Unito.
Questa volta è toccata a Olive Jones, insegnante di matematica con esperienza ventennale.
Da quattro anni la professoressa Jones ha scelto di dedicarsi all’insegnamento a domicilio di ragazzi gravemente ammalati o con particolari disturbi psichici. Per tale incarico ha ricevuto un contratto part-time di 12 ore settimanali dalla Oak Hill Short Stay School e dai Servizi Scolastici del Comune di North Somerset.
Durante una delle sue lezioni domiciliari la professoressa Jones, approfittando del fatto che la sua alunna si sentisse male, ha deciso di scambiare due chiacchiere con la madre della ragazza. In quello che doveva essere un normale colloquio tra donne, la Jones ha commesso l’imprudenza di toccare un argomento oggi pericoloso in Gran Bretagna: la propria fede religiosa.
Così, l’incauta insegnante ha raccontato alla madre dell’alunna un episodio accadutole quando da adolescente aiutava i genitori nella fattoria di famiglia vicino a Carmarthen nel Galles. Mentre si trovava alla guida di un trattore e stava affrontando una salita particolarmente ripida, all’improvviso il mezzo agricolo cominciò a ribaltarsi e per un puro caso non fu all’origine di un incidente mortale. Da quel momento la Jones interpretò quel “caso” come un miracolo ed si avvicinò alla fede.
Malgrado non avesse fatto trapelare alcun disappunto, la madre della ragazza decise di inoltrare un reclamo contro l’insegnante per quella sua personale esternazione. Neppure le autorità interessate dalla protesta della donna avvisarono la professoressa Jones, la quale, del tutto ignara della denuncia a suo carico, decise di proseguire tranquillamente nel proprio lavoro tornando successivamente a visitare l’alunna per le consuete lezioni.
L’insegnante questa volta, però, commette una seconda imprudenza chiedendo alla ragazza se desidera che preghi per le sue particolari condizioni di salute. A quella inaspettata domanda la stessa ragazza volge lo sguardo alla madre che seccamente replica: «Noi veniamo da una famiglia che non crede».
Di fronte a tale reazione la Jones desiste immediatamente. Anzi, adducendo a pretesto che la ragazza non si sentisse particolarmente portata per la matematica, chiede alla madre se intenda cancellare le successive lezioni. La madre risponde di no, desiderando che la propria figlia continui a ricevere l’insegnamento domiciliare.
Nonostante le due donne si lascino in buoni rapporti, nel giro di poche ore la professoressa Jones viene convocata dalla preside della scuola che le contesta il fatto di aver manifestato, durante il servizio, la propria fede, qualificando quel fatto come un vero e proprio atto di «bullismo». Un gesto di pura ed inqualificabile prepotenza.
Da qui, il licenziamento in tronco.
La professoressa Jones, ovviamente, non la prende benissimo.
Dichiara di sentirsi «devastata» dal provvedimento che considera «completely disproportionate» e un vero «marchio di infamia» inflitto alla sua persona.
«Se avessi commesso un atto criminale», confessa, «credo che la reazione sarebbe stata la stessa».
La professoressa si scaglia contro l’interpretazione del concetto di libertà di opinione applicata nel suo caso. Sul punto la donna ha le idee molto chiare: «Sono davvero stupita che in un Paese con una forte tradizione cristiana come la Gran Bretagna sia diventato sempre più difficile parlare della propria fede». Ciò che la rende più furiosa non è tanto l’errata interpretazione delle nuove ambigue disposizioni normative in materia di uguaglianza, quanto il «politically-correct system» che impedisce, di fatto, «la possibilità di esternare in pubblico qualunque riferimento alla dimensione religiosa della propria coscienza, pur potendo tale circostanza essere potenzialmente utile anche agli altri». «La sensazione che ho», continua la Jones, «è che se avessi parlato di qualunque altro argomento al mondo, non ci sarebbero stati problemi, ma il semplice fatto di aver toccato il tema del cristianesimo ha rappresentato la violazione di un tabù. Lo stesso cristianesimo viene ormai visto come una “no-go area”, un campo minato nel quale è più prudente non addentrarsi in pubblico».
La mia amica avvocatessa Andrea Williams, direttrice del Christian Legal Centre, che assiste la professoressa, ha espresso il suo commento: «Storie come quella di Olive Jones stanno, purtroppo, diventando sempre più diffuse in questo Paese e rappresentano il risultato di un’applicazione maldestra delle cosiddette politiche sull’uguaglianza, le quali si traducono, di fatto, in una vera e propria discriminazione a carico dei cristiani nel tentativo di eliminare la dimensione religiosa dalla sfera pubblica». «Olive Jones», continua la direttrice del Christian Legal Centre, «ha avuto compassione per la sua allieva e si è ritrovata senza lavoro per aver espresso la speranza che nasce dalla sua fede. E’ tempo che si recuperi un approccio di “common sense” su queste delicate materie».
Nick Yates, portavoce del Comune di North Somerset, si è limitato ad un freddo e laconico comunicato: «Olive Jones ha lavorato come insegnante per i Servizi Scolastici di North Somerset. Una denuncia è stata sporta da un genitore nei suoi confronti. Su tale denuncia è in corso un’attività istruttoria».
Nel frattempo la professoressa Jones è stata licenziata senza preavviso.
Episodi del genere fanno persino rimpiangere gli eccessi di un certo sindacalismo scolastico di casa nostra.
Gianfranco Amato, Presidente di Scienza e Vita di Grosseto
TERREMOTO HAITI/ Zorzi (Avsi): il crollo più grave è quello della speranza, l’Italia può fare molto - Redazione giovedì 14 gennaio 2010 – ilsussidiario.net
Un terremoto di proporzioni tremende ha sconvolto Haiti, il Paese più povero del continente americano. Il sisma, di magnitudo 7, si è verificato alle 22,53, ora italiana, seguito da un’altra decina di scosse. L’epicentro è stato individuato a una ventina di chilometri dalla capitale Port-au-Prince, a circa 8 km di profondità. I danni sono incalcolabili. Non si contano i morti e i dispersi. Numerosi palazzi si sono sbriciolati, tra cui quello presidenziale. Le linee elettriche e quelle telefoniche sono fuori uso e un solo ospedale, nella capitale, funziona. Questo ha già esaurito la sua capacità di accoglienza, e la Croce rossa internazionale è al lavoro per evitare un’emergenza sanitaria. Carlo Zorzi, che dal 2003 al 2008 ha vissuto ad Haiti come cooperante di Avsi - attualmente ricopre il medesimo incarico in Costa d'Avorio - racconta a ilsussidiario.net le sue impressioni. E le tribolazioni di un Paese che conosce molto bene.
Cosa ha provato sentendo la notizia?
Una grande tristezza, un grande dolore e il pensiero di un Paese che continua a essere martoriato, che non riesce più a chiudere il ciclo di povertà e sofferenza. E che da trent'anni vive nell'emergenza costante. Ogni piccolo tentativo di portarlo allo sviluppo è sempre stato soffocato da condizioni esterne che, ogni volta, lo hanno precipitato in nuove situazioni di emergenza. Penso alla popolazione, svuotata del sentimento e dell'interesse ad agire e prendere in mano le sorti del proprio Paese. E ai tanti amici e colleghi, alle migliaia di bambini con i quali lavoravo e ai compagni di scuola di mio figlio. Anche lui, con lacrime agli occhi, guardava la tv, pensando ai suoi amici. Siamo stati 5 anni là, è un lungo periodo. Attendo di vedere dove lavoravo. Le prime informazioni mi dicono che tutto è crollato.
Può descriverci il Paese?
E' il Paese più povero del continente americano, uno dei più poveri al mondo. Politiche e strategie fallimentari, e pressioni di vario genere, han fatto sì che non imboccasse la strada dello sviluppo. Da lì transita molta droga verso gli Usa o il Canada. Santo Domingo, che occupa due terzi dell’isola sulla quale risiede Haiti, ha i suoi problemi, certo. Ma ha imboccato un’altra strada, fondata sul turismo, con 4 milioni di visitatori all’anno. Eppure, il mare e il cielo sono gli stessi. Ma ad Haiti si vive con un’ora di elettricità al giorno, i camion portano alle case l’acqua potabile, l'80 per cento della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, e il 60 per cento con meno di uno.
Un terremoto è sempre una tragedia. Ancor di più se al dramma si somma il fatto che Haiti è il Paese più povero del continente americano. Questo elemento che conseguenze avrà?
Mio figlio, che ha dieci anni, guardando le immagini della catastrofe, mi ha detto: “papà, ma qui ci vorranno di nuovo altri 30 anni per ricostruire qualcosa”. Credo che riassuma bene. Ci saranno ripercussioni incredibili. Milioni di haitiani son già emigrati all'estero. Ora la diaspora si amplificherà.
Quali sono secondo lei i punti più critici da affrontare ora?
Anzitutto quelli dell'urgenza: bisogna trovare i morti, i dispersi, pulire le strade, far sì che riprenda la vita normale. Ma è necessario considerare tutto ciò nell'ottica dello sviluppo, non solo dell’emergenza. Ad Haiti regna l’anarchia. Lo stato è inesistente. Sarà necessario mettere ordine, creare leggi e creare le condizioni perché vengano fatte applicare. Significa far sì che venga ricostituita la presenza dello stato, e che questo possa godere di autorevolezza.
Sarà possibile tamponare l'emergenza sanitaria?
Sono pessimista. Penso a quello che il Paese offre in questo momento. I morti per il terremoto, e quelli che ci saranno per le conseguenze. Le risposte del Paese in quanto tale sono pressoché inesistenti.
Cosa farà l’America per aiutare la popolazione?
Mi pare che l'amministrazione Obama sia sincera nel manifestare dolore e la volontà di intervenire. Sono vicini, ben equipaggiati. Credo che arriveranno nel giro di poche ore. Spero che non si fermino solo 15 giorni. Il Paese ha bisogno di essere accompagnato. Ha bisogno di ristabilire i servizi di base. L’America può fare molto sfruttando il grave momento per aiutare lo stato a gestirsi. Spero che la tensione attuale, dovuta all’emozione del momento, non si abbassi. Perché da solo il paese non ce la farà mai.
Che contributo potrà dare l’Italia?
Enorme. L’Italia dovrebbe, anzitutto, allinearsi con gli altri Paesi, come la Francia o l'America Latina, nel dare aiuto immediato. Ma, al di là dell’immediato, gli italiani potrebbero dare un grande contributo mettendo a frutto la loro sensibilità. Non c’è solo un problema di costruzione di case, ma un problema di “ricostruzione” dell’umano, là dove è la persona ad essere distrutta. Gli haitiani sono disperati. Ma lo sono da anni. Questa è l’ennesima sciagura che si abbatte su di loro. Si sentono gente maledetta su una terra maledetta. Hanno perso la voglia di reagire. Spero che da questa catastrofe possa nascere una scintilla per costruire qualcosa di nuovo. Qualcosa che generi un contesto in cui la gente riacquisti la voglia e l'energia per reagire.
IL DOLORE E IL GRIDO - E NOI APRIAMO LE NOSTRE PALME VUOTE - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 14 gennaio 2010
La tragedia di Haiti lascia senza fiato. Gigantesca. Più di quanto si immaginava. Il numero delle vittime imprecisato, si parla di decine e decine di migliaia. In una parte di un’isola già povera e provata da miseria e fatica di vivere, si è abbattuta una sventura che lascia attoniti. Come se a sventura si aggiungesse sventura in un baratro senza fondo. Haiti, nome esotico e di buia miseria. Nome di terra lontana. Di popolo provato e povero. E il fiato non si sa dove prenderlo. Se metti la faccia tra le mani, il respiro non torna. E se anche ti volti da un’altra parte, il respiro non torna. E se ancora maledici i terremoti, non torna. Come non tornano le decine di migliaia di innocenti. I bambini e le donne. Come non tornano i sepolti vivi.
Un raddoppiamento di male. Di sventura. Un raddoppiamento di catastrofe. Una insistenza del dolore e della mancanza di fiato. Come se nessun 'perché' gridato in faccia a nessuno e nemmeno gridato in faccia al cielo potesse esaurire lo sconforto, e la durezza che impietrisce davanti al disastro e alle immagini di disastro. Nessun 'perché' rigirato nelle mani, nessuna domanda ricacciata in gola, può esaurire l’inquietudine. Una doppia ingiustizia. Una moltiplicata sventura. Anche il cuore più sordo sente il grido di questa sventura. Anche il cuore più duro si crepa davanti alla morte che domina così apertamente, così sfacciatamente. Anche l’anima che non sospira mai, sente il fiato che si tira. Il fiato che non arriva. Il fiato che si rompe.
Quasi non si arriva nemmeno alla domanda, lecita, urgente di cosa si può fare, di fronte a questa tragedia. Quasi non si arriva a formulare nessuna domanda su cosa fare, perché si rimane inchiodati a una domanda più forte, più radicale: cosa possiamo essere? Sì, insomma, cosa si è, cosa è essere uomini davanti a questi eventi? Perché sembra quasi che ogni forza nostra, ogni umana dignità siano annullate. Radiate. Come se esser uomini davanti a tali tragedie sia quasi una cosa grottesca. Tappi di sughero nel mare in tempesta. Formiche in balìa della strage, come diceva Leopardi di fronte al Vesuvio sterminatore.
Da dove riprendere fiato, umanità, dignità davanti a tale strage? Non c’è altra possibilità: davanti a questo genere di cose, o si prega o si maledice Dio. O si è credenti o si diventa contro Dio. Una delle due. E se il cristiano dice di esser quello che prega, invece di esser l’uomo che maledice, non lo fa per sentimentalismo. Non lo fa per comodità. Anzi, è più scomodo. Molto più scomodo. Ma più vero. Perché quando il mistero della vita sovrasta – nella sventura come nelle grandi gioie – è più vero aprire le palme vuote, o piene di calcinacci o di sangue dei fratelli e dire: tienili nelle tue braccia. Tienili nel Tuo cuore. Perché noi non riusciamo a conservare nemmeno ciò che amiamo. Perché la vita è più grande di noi, ci eccede da ogni parte, e la morte è un momento di eccedenza della vita. Un momento in cui la vita tocca fisicamente il suo mistero.
La natura non è Dio. In natura esistono anche i disastri. Come gli spettacoli e gli incanti. Ma la natura non è Dio. Non preghiamo la natura, che ha pregi e difetti, come ogni creatura. Preghiamo Dio creatore di abbracciare il destino delle vittime. Il destino triste di questi fratelli. Che valgono per Lui come il più ricco re morto anziano e sereno nel proprio letto. Che ci ricordano, nel loro dolore, che non siamo padroni del destino.
NELLE CARTE IL GELO DI UN’AGONIA PROCURATA E NUDE VERITÀ - Eluana non era «devastata» ma è stata straziata - LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 14 gennaio 2010
«In data 9 febbraio il cadavere della signorina Eluana Englaro veniva trasferito all’obitorio della 'Quiete' su barella in acciaio. Trattasi di cadavere femminile, della lunghezza di circa 171 centimetri, del peso di 53.5 chili, cute liscia ed elastica, capelli neri... Entrambi i lobi presentano un foro per orecchini.
Indossa una camicia da notte in cotone rosa». Il resto ve lo risparmiamo. Dura 133 pagine la 'Relazione di consulenza tecnica medico-legale', letta la quale il gip di Udine l’altro giorno ha definitivamente stabilito che il tutto è avvenuto 'regolarmente'.
Un testo che si regge a fatica e che toglie il sonno, e non tanto nelle pagine dell’autopsia, quando ormai Eluana è morta, ma in quelle tragiche, disumane dell’agonia, quando era viva e nelle stanze udinesi della 'Quiete' la si faceva morire.
Ora lo sappiamo: nei giorni e nelle notti in cui alla giovane donna venivano sottratti l’acqua e il nutrimento (il sostegno vitale, lo chiama il documento), l’équipe del dottor De Monte sedeva accanto a lei e la osservava, prendeva appunti, diligentemente compilava di ora in ora la 'Scheda di rilevazione degli elementi indicativi di sofferenza'.
Una crocetta alla voce 'respiro affaticato e affannoso' ne indica frequenza e durata, un’altra rileva 'l’emissione di suoni spontanei', un’altra ancora i singoli lamenti sfuggiti a Eluana 'durante il nursing', ovvero mentre le mani di medici e infermieri nulla 'potevano' per salvarle la vita e dissetarla (il Protocollo parlava chiaro, e loro erano lì per applicarlo, volontari), ma sul suo corpo continuavano a operare quelle piccole attenzioni richieste dallo stesso Protocollo: 'Si procederà all’igiene giornaliera di routine al fine di garantire il decoro...'. Il decoro.
Sono pagine meticolose, capillari. Gelide. Il 3 febbraio, primo giorno di ricovero alla 'Quiete' di Udine (nel cuore della notte la giovane era stata prelevata da un’ambulanza e strappata alla clinica di Lecco dove viveva da quindici anni), la voce di Eluana si è sentita sette volte, e l’équipe solerte le ha annotate tutte. I suoni si moltiplicano il 4, e poi il 5, finché il 6 (all’alba di quel giorno si è smesso definitivamente di nutrire e dissetare la giovane) la mano di un’infermiera scrive per la prima volta: 'Sembrano sospiri'. E forse lo sono, se il giorno 7 cessano anche quelli. Eluana morirà improvvisamente già il 9 febbraio alle 19 e 35, senza più la forza di gemere: 'nessun suono', ma ore e ore di 'respiro affaticato e affannoso'. Nei palmi delle mani, strette, i segni delle sue stesse unghie.
Ancora più esplicite le pagine del diario clinico di quei sette giorni udinesi, racconto di un’agonia che inizia sull’ambulanza, quando il dottor De Monte annota la terribile tosse che scosse Eluana, e prosegue con asettico cinismo: Eluana si lamenta, Eluana non ha quasi più saliva, non suda nemmeno più, le mucose si asciugano, 'iniziata umidificazione', 'idratata la bocca', 'frizionata su tutto il corpo con salviette rinfrescanti'. Il decoro.
L’igiene. C’è anche lo spasmo con cui la prima notte arrivò a espellere il sondino: allora lo scrivemmo e ci diedero dei bugiardi... 'Non eseguito cambio pannolone perché non urina più': è il giorno della morte. Tutto regolare, dicono i magistrati, tutto perfettamente annotato. A parte quella mezzoretta tra il decesso e la registrazione dell’elettrocardiogramma, un 'ritardo dovuto alla difficoltà di reperimento dello strumento', scrive il capo dell’équipe... A parte, ancora, quelle tre ore che l’8 febbraio, il giorno prima della morte, in piena agonia, una giornalista di Rai 3 Friuli e un fotografo trascorrono nella stanza di Eluana riprendendone gli affanni.
Ci avevano detto che Eluana non avrebbe sofferto, e veniamo a sapere che morì tra gli spasmi, con 42 di febbre. Che da molti anni pesava 65 chili. Che risultava «obiettivamente in buone condizioni generali e di nutrizione, con respiro spontaneo e valido, vigile durante buona parte della giornata». Che da due anni aveva di nuovo «il mestruo». Che l’alimentazione col sondino «non aveva mai dato complicanze » e i «parametri vitali si erano sempre mantenuti stabili, la paziente non ha presentato mai patologie ad eccezione di sporadiche bronchiti-influenzali, prontamente risolte con antipiretici ». Ce l’avevano descritta come un corpo 'inguardabile', una vista 'devastante, piagata dal decubito, magra come uscita da un campo di concentramento'.
È pure calva, aggiunse Roberto Saviano... 'Ha capelli neri, cute liscia ed elastica, corpo normale, nessun decubito', recita ora l’autopsia. Ma lo attesta il perito: «Le disposizioni sono state minuziosamente seguite».
Scozia, il parlamento pensa al suicidio - di Silvia Guzzetti – Avvenire, 14 gennaio 2010 - La Camera di Edimburgo si prepara a votare una proposta di legge avanzata da Margo MacDonald, deputata che soffre di morbo di Parkinson e chiede la depenalizzazione della «morte volontaria assistita» Anche in Inghilterra è prevista a breve l’approvazione delle linee guida in materia
«A bbiamo chiesto, con una lettera al presidente del parlamento scozzese, di esaminare se la nuova proposta di legge entri in conflitto con la convenzione europea sui diritti umani » . Gordon MacDonald, portavoce per la Scozia di Care not killing alliance, un’associazione pro vita, spiega così l’ultima iniziativa per fermare la legalizzazione del suicidio assistito. La legge è stata proposta da Margo MacDonald, una deputata indipendente che soffre del morbo di Parkinson. « Pensiamo che il parlamento discuterà e voterà sulla legge prima della fine di giugno. Quasi sicuramente la nuova legislazione verrà respinta perché la volonta politica è contraria al suicidio assistito » , spiega MacDonald Gordon, che aggiunge però come « questo non riflette necessariamente il pensiero della pubblica opinione. Due sondaggi hanno dato risultati opposti sull’argomento. Purtroppo la risposta degli intervistati spesso dipende da come viene formulata la domanda. È difficile sapere come la pensano gli scozzesi. Credo che ci sia molta ignoranza sull’argomento. Molti si fermano al sentimento iniziale di simpatia e partecipazione per il dolore del sofferente e non analizzano le conseguenze di una legalizzazione del suicidio assistito » .
Anche la Gran Bretagna attende per metà febbraio l’approvazione definitiva delle linee guida in materia di suicidio assistito preparate dal pubblico ministero Keir Starmer. Linee guida che sono state pensate, anche lì, in risposta alla richiesta di Debbie Purdy – una malata di sclerosi multipla che vorrebbe morire con l’aiuto del marito – rivolta ai Law Lords , la piu’ alta corte di appello del Regno Unito, di chiarire se un parente o un amico che assiste una persona che si suicida può essere incriminato.
«Il suicidio assistito è illegale in questo momento in Gran Bretagna e chi lo favorisce dovrebbe finire sotto processo » , spiega Alastair Thompson, portavoce per Inghilterra e Galles sempre di Care not killing alliance, « eppure 118 persone sono andate nella clinica svizzera Dignitas e sono morte, con l’aiuto di un parente o di un amico, senza che questi ultimi venissero incriminati » .
« S
iamo molto preoccupati – continua Thompson – della direzione in cui si si sta muovendo. Se le linee guida verranno definitivamente approvate significa che un parente potrà aiutare un portatore di handicap o un malato terminale ad andare in Svizzera a morire. Ad essere incriminati saranno soltanto i parenti di persone sane. Una discriminazione aberrante.
Siamo preoccupati anche per la definizione di sanità mentale che viene data. Diverse associazioni di medici, non legate al movimento per la vita, hanno anche espresso preoccupazione perché le linee guida ritengono che chi ha tentato più volte di suicidarsi è ritenuto mentalmente in grado di decidere per se stesso. Mentre secondo la professione medica chi tenta il suicidio è da ritenersi malato e soprattutto bisognoso di aiuto » .
Selezione in provetta per sentenza, legge 40 umiliata – Il Tribunale di Salerno ha abbattuto ieri in un colpo solo due pilastri della norma consentendo l’accesso alla procreazione assistita a una coppia non sterile e dando il via libera alla 'scelta' dell’embrione sano. Un drammatico caso umano diventa ancora una volta il grimaldello per forzare le garanzie disposte dal Parlamento - Avvenire, 14 gennaio 2010
E’ di ieri pomeriggio la notizia relativa a un giudice di Salerno che ha autorizzato l’accesso alla fecondazione artificiale a una coppia senza alcun problema di sterilità. A quanto si apprende, i coniugi (una coppia lombarda) sarebbero portatori sani di una malattia genetica ereditaria, e per questo si sarebbero rivolti a un centro di procreazione artificiale dopo «5 gravidanze, un figlio solo e 4 lutti» al fine di poter effettuare la diagnosi preimpianto sugli embrioni.
Secondo il magistrato – Antonio Scarpa – cui la coppia ha presentato ricorso «il diritto a procreare, e lo stesso diritto alla salute dei soggetti coinvolti, verrebbero irrimediabilmente lesi da una interpretazione delle norme in esame che impedissero il ricorso alle tecniche di Pma (procreazione medicalmente assistita, ndr ) da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che però rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili; solo la Pma attraverso la diagnosi preimpianto, e quindi l’impianto solo degli embrioni sani, mediante una lettura 'costituzionalmente' orientata dell’articolo 13, consentono di scongiurare tale simile rischio».
In pratica, secondo la sentenza, l’accesso alle tecniche, oggi riservato solo alle persone sterili e infertili, potrebbe essere ampliato attraverso «una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 13». Finché non si conosceranno le motivazioni non sarà possibile sapere quale contorto ragionamento abbia portato a riconoscere questa possibilità.
Tuttavia risulta alquanto improbabile trovarne il fondamento nell’articolo 13 della legge 40. Questo articolo, infatti, tra le altre cose vieta «ogni forma di selezione a scopo eugenetico» e «qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano». Inoltre, prevede che «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche a essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso».
Senza contare che è ancora pienamente vigente il divieto di crioconservazione e soppressione degli embrioni contenuto nell’articolo 14. Un divieto inequivocabile, che cozza con la possibilità di effettuare la diagnosi preimpianto, la quale implica l’eliminazione degli embrioni eventualmente affetti da qualche patologia.
Due paletti, quelli del divieto di diagnosi preimpianto e di selezione, chiaramente desumibili da diverse disposizioni contenute nella normativa, anche dopo le censure compiute dalla Corte Costituzionale con la sentenza 151 del 2009. Con questa pronuncia la Consulta aveva dichiarato incostituzionali le parole «a un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre» contenute nell’articolo 14 della legge, abbattendo il limite numerico massimo di embrioni generabili per ciascun ciclo. Inoltre, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14 «nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come stabilisce tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna».
Questa sentenza della Consulta non ha però eliminato il divieto di diagnosi preimpinato e di selezione. Ciò è desumibile, oltre che dalle disposizione ancora vigenti, anche da quanto affermato dalla Corte stessa in un’altra pronuncia, la 369 del 2006. Interpellata in seguito alla rimessione di un giudice di Cagliari, chiamato a decidere sul ricorso di una coppia che chiedeva di poter effettuare la diagnosi preimpianto, la Consulta dichiarava la «manifesta inammissibilità» della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13 della legge 40, rilevando che il divieto di diagnosi preimpianto è «desumibile anche da altri articoli della stessa legge, non impugnati, nonché dall’interpretazione dell’intero testo legislativo alla luce dei suoi criteri ispiratori». Se tale divieto è desumibile «dall’interpretazione dell’intero testo legislativo» non si comprende come un singolo giudice, come quello di Salerno, attraverso un’interpretazione «costituzionalmente orientata» dell’articolo 13, possa aver autorizzato – contraddicendo la stessa Corte costituzionale – tale pratica vietata dalla legge.
Anche la questione dell’accesso alle tecniche, ampliato arbitrariamente ieri da questo giudice è esplicitamente regolato dalla legge 40: oggi il ricorso alla fecondazione artificiale è riservato alle coppie infertili o sterili proprio perché, come afferma l’articolo 4, «è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione». Era prevedibile che le temerarie aperture verso la possibilità di eseguire la diagnosi preimpianto avanzate da alcuni centri portasse inevitabilmente a reclamare l’accesso alle tecniche anche le coppie non sterili ma portatrici di malattie genetiche. Un’altra dimostrazione che la diagnosi preimpianto stravolgerebbe di fatto lo spirito di tutta la legge, nata con lo scopo di «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (articolo 1) e non per altre finalità, come quella di evitare i rischi genetici legati alla gravidanza in sé.
E’ vero che le attuali linee guida, emanate nel 2008, hanno introdotto il concetto di «sterilità di fatto» per le persone portatrici di Hiv, che, anche se fertili, possono accedere alle tecniche. Una disposizione di dubbia legittimità, considerato che l’articolo 4 della legge è molto chiaro nel menzionare i soggetti che possono accedere alla fecondazione. Inoltre l’articolo 7 specifica che le linee guida debbano contenere solo «l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita» e non la disciplina dell’accesso a tali procedure.
Su questo punto ha espresso molto bene la ratio della normativa il Tar del Lazio, che nella sentenza del 23 maggio del 2005 escluse «che il metodo (artificiale) della procreazione assistita, il cui fine è solamente quello di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità e infertilità umane, possa offrire delle opportunità maggiori del metodo naturale».