giovedì 11 settembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) IL PAPA A PARIGI E LOURDES - IN UN CERTO SENSO IL VIAGGIO PIÙ CONGENIALE, di DAVIDE RONDONI, Avvenire, 11 settembre 2008
2) La morte cerebrale. Un caso di pensiero unico
3) P. Bernard: In Orissa, noi cristiani trattati peggio delle bestie
4) Benedetto XVI delinea le caratteristiche dell'apostolo di ogni epoca
5) BENEDETTO XVI - UDIENZA GENERALE .- Aula Paolo VI - Mercoledì, 10 settembre 2008 - San Paolo (4)
6) Poco praticanti e poco virtuosi. Ma sono loro che fanno "Chiesa di popolo"
7) L’umano religioso - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it
8) FISICA/ Al via l'esperimento che ci porterà alle origini dell’universo INT., Lucio Rossi , mercoledì 10 settembre 2008, IlSussidiario.net
9) SCUOLA/ Galli della Loggia: bisogna dare voce a chi vuole un reale cambiamento, INT. Ernesto Galli della Loggia, giovedì 11 settembre 2008
10) Rick, il milionario convertito - la storia - È stato uno degli inventori dello scanner. Il successo, i soldi, poi la figlia che si converte ed entra in un convento di clausura. Una rivoluzione

IL PAPA A PARIGI E LOURDES - IN UN CERTO SENSO IL VIAGGIO PIÙ CONGENIALE, di DAVIDE RONDONI, Avvenire, 11 settembre 2008
Il Papa domani va a Parigi. E sarebbe già una grande notizia, anzi è una grande notizia. Perché Parigi è Parigi e il Papa è il Papa. E nulla si può com­prendere della storia del mondo – del­la società, dell’arte, della civiltà – senza Parigi. E nulla senza il Papa. Ma, se si può dire, in questo caso è una super­notizia. Un superincontro. Non so come scrivere: ma questi saranno giorni sto­rici. Sarebbe un segno di grave ottusità trattarlo come un solito viaggio papale – a parte il fatto, che tali viaggi sono 'so­liti' solo per gli osservatori superfciali, dato che per chi vi partecipa davvero ciascuno di essi è speciale.
Quel che inizia domani è realmente un evento speciale: perché è 'questa' Pari­gi, ed è 'questo' Papa. È la Parigi che ha sperimentato prima di altri, nei recenti anni dei disordini nelle banlieues e nelle polemiche sui segni religiosi, il fallimen­to di superficiali ipotesi di convivenza co­siddette 'multiculturali', garantite da re­lativismo storico e ideale. È la Parigi che sta ricordando i quarantenni delle ma­nifestazioni del ’68 e delle crisi che ne se­guirono e che scossero le ideologie do­minanti. È la Francia dove, come ha do­cumentato questo giornale, c’è una si­gnificativa riscoperta della fede cristiana da parte di intellettuali di primo piano. Ed è la Francia che sta provando a elabora­re con una ricerca inquieta ma fertile un volto e un con­tenuto nuovi alla parola ' laicità', termine che è sem­pre stato caro e di­feso, come se fosse il figlio prediletto della Dea Ragione, anche quando sembrava ridursi a nome di un fan­toccio, a eufemi­smo per coprire un odio anticristiano, o a mascherare una fredda volontà di dominio insofferente di ogni disturbo.
È questa Parigi da tanto tempo città del­l’amore e della bellezza, cantati da poeti antichissimi e recenti. La città del gran­de Baudelaire che accusava i pensatori illuministi di chiamare 'progresso' il lo­ro tentativo di eliminare Dio e il proble­ma del peccato e della salvezza. La città del personalismo di Mounier, della pas­sione di Péguy, dell’inquieta certezza di Bernanos e Mauriac, del nitore amoroso di Claudel. Le viene incontro il Papa che ha conoscenza e rispetto per la ragione. E che non la oppone alla fede. Il Papa che non scambia la tensione alla fraternità – parola cristiana resa francesissima – con un astratto e inefficace insalatone senti­mentale che uccide ogni sapore e non impegna nessuno alla serietà, facilitan­do dunque derive e disordine.
Arriva questo Papa, che dell’amore e del­la bellezza di cui la vita e la storia si ar­ricchiscono nell’incontro con Cristo par­la a tutti, in libri ed encicliche colte, e in chiacchiere improvvisate. In questa Pa­rigi che si trova ancora una volta al cro­cevia della storia e delle sue tensioni più urgenti, arriva il Papa che chiede agli Sta­ti di rispettare il fondamento di ogni lai­cità, pena lo scadere in violenti, ipocriti e sottili totalitarismi: ovvero rispetto del­la vita, e favorire le condizioni più natu­rali per la vita. E che chiede siano rispet­tate, laicamente, le vere libertà, che non sono una somma di azioni giustificate dall’arbitrio individualistico, ma le e­spressioni della intera personalità: la li­bertà di espressione, di far figli e di edu­carli, di religione, e di intrapresa sociale ed economica.
Il Papa incontrerà la Francia e la Francia incontrerà il Papa. Sarà un incontro di autorità. Ma sarà soprattutto un incon­tro di popolo, a Parigi e in quel luogo di grande fede popolare che è Lourdes. U­no di quei luoghi cristiani dove la fede di tanti chiede il miracolo. Che è anche u­no di quei luoghi cristiani da cui tutti, se hanno gli occhi laicamente aperti, rice­vono uno choc di umanità e di speranza.




La morte cerebrale. Un caso di pensiero unico
Considerazioni sulla "morte cerebrale" dopo l'articolo dell'"Osservatore Romano"
di Roberto de Mattei
L'intolleranza mediatica contro l'editoriale di Lucetta Scaraffia, I segni della morte, sull'"Osservatore Romano" del 3 settembre 2008, suggerisce alcune considerazioni sul tema delicato e cruciale della morte cerebrale.
Tutti possono consentire sulla definizione, in negativo, della morte come "fine della vita". Ma che cos'è la vita? La biologia attribuisce la qualifica di vivente ad un organismo che ha in sé stesso un principio unitario e integratore che ne coordina le parti e ne dirige l'attività. Gli organismi viventi sono tradizionalmente distinti in vegetali, animali ed umani. La vita della pianta, dell'animale e dell'uomo, pur di natura diversa, presuppone, in ogni caso un sistema integrato animato da un principio attivo e unificatore. La morte dell'individuo vivente, sul piano biologico, è il momento in cui il principio vitale che gli è proprio cessa le sue funzioni. Lasciamo da parte il fatto che, per l'essere umano, questo principio vitale, definito anima, sia di natura spirituale e incorruttibile. Fermiamoci al concetto, unanimamente ammesso, che l'uomo può dirsi clinicamente morto quando il principio che lo vivifica si è spento e l'organismo, privato del suo centro ordinatore, inizia un processo di dissoluzione che porterà alla progressiva decomposizione del corpo.
Ebbene, la scienza non ha finora potuto dimostrare che il principio vitale dell'organismo umano risieda in alcun organo del corpo. Il sistema integratore del corpo, considerato come un "tutto", non è infatti localizzabile in un singolo organo, sia pure importante, come il cuore o l'encefalo. Le attività cerebrali e cardiache presuppongono la vita, ma non è propriamente in esse la causa della vita. Non bisogna confondere le attività con il loro principio. La vita è qualcosa di inafferrabile che trascende i singoli organi materiali, dell'essere animato, e che non può essere misurata materialmente, e tanto meno creata: è un mistero della natura, su cui è giusto che la scienza indaghi, ma di cui la scienza non è padrona. Quando la scienza pretende di creare o manipolare la vita, si fa essa stessa filosofia e religione, scivolando nello "scientismo".
Perdita delle funzioni
Il volume Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, pubblicato in coedizione dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e da Rubbettino (Soveria Mannelli 2008), con il contributo di diciotto studiosi internazionali, dimostra questi concetti in quasi cinquecento pagine. Non solo non può essere accettato il criterio neurologico che fa riferimento alla "morte corticale", perché in essa rimane integro parte dell'encefalo e permane attiva la capacità di regolazione centrale delle funzioni omeostatiche e vegetative; non solo non può essere accettato il criterio che fa riferimento alla morte del tronco-encefalo, perché non è dimostrato che le strutture al di sopra del tronco abbiano perso la possibilità di funzionare se stimolate in altro modo; ma neppure può essere accettato il criterio della cosiddetta "morte cerebrale", intesa come cessazione permanente di tutte le funzioni dell'encefalo (cervello, cervelletto e tronco cerebrale) con la conseguenza di uno stato di coma irreversibile. Lo stesso prof. Carlo Alberto De Fanti, il neurologo che vuole staccare la spina a Liliana Englaro, autore di un libro dedicato a questo argomento (Soglie, Bollati Boringhieri, Torino 2007), ha ammesso che la morte cerebrale può essere forse definita un "punto di non ritorno", ma "non coincide con la morte dell'organismo come un tutto (che si verifica solo dopo l'arresto cardiocircolatorio)" ("L'Unità", 3 settembre 2008). E' evidente come il "punto di non ritorno", posto che sia realmente tale, è una situazione di gravissima menomazione, ma non è la morte dell'individuo.
L'irreversibilità della perdita delle funzioni cerebrali, accertata dall'"encefalogramma piatto", non dimostra la morte dell'individuo. La perdita totale dell'unitarietà dell'organismo, intesa come la capacità di integrare e coordinare l'insieme delle sue funzioni, non dipende infatti dall'encefalo, e neppure dal cuore. L'accertamento della cessazione del respiro e del battito del cuore non significa che nel cuore o nei polmoni stia la fonte della vita. Se la tradizione giuridica e medica, non solo occidentale, ha da sempre ritenuto che la morte dovesse essere accertata attraverso la cessazione delle attività cardiocircolatorie è perché l'esperienza dimostra che all'arresto di tali attività fa seguito, dopo alcune ore, il rigor mortis e quindi l'inizio della disgregazione del corpo. Ciò non accade in alcun modo dopo la cessazione delle attività cerebrali. Oggi la scienza fa sì che donne con encefalogramma piatto possano portare a termine la gravidanza, mettendo al mondo bambini sani. Un individuo in stato di "coma irreversibile" può essere tenuto in vita, con il supporto di mezzi artificiali; un cadavere non potrà mai essere rianimato, neppure collegandolo a sofisticati apparecchi.
I criteri di Harvard
Restano da aggiungere alcune considerazioni. Il direttore del Centro Nazionale Trapianti, Alessandro Nanni Costa, ha dichiarato i criteri di Harvard "non sono mai stati messi in discussione dalla comunità scientifica" ("La Repubblica", 3 settembre 2008). Se anche ciò fosse vero, e non lo è, è facile rispondere che ciò che caratterizza la scienza è proprio la sua capacità di porre sempre in discussione i risultati acquisiti. Qualsiasi epistemologo sa che la finalità della scienza non è produrre certezze, bensì ridurre le incertezze. Altri, come il prof. Francesco D'Agostino, presidente onorario del Comitato Nazionale di Bioetica, sostengono che, sul piano scientifico, la tesi contraria alla morte cerebrale "è ampiamente minoritaria" ("Il Giornale", 3 settembre 2008). Il prof. D'Agostino ha scritto belle pagine in difesa del diritto naturale e non può ignorare che il criterio della maggioranza può avere rilievo sotto l'aspetto politico e sociale, non certo quando si tratta di verità filosofiche o scientifiche. Intervenendo nel dibattito, una studiosa "laica" come Luisella Battaglia osserva che "il valore degli argomenti non si misura dal numero delle persone che vi aderiscono" e "il fatto che i dubbi siano avanzati da frange minoritarie non ha alcuna rilevanza dal punto di vista della validità delle tesi sostenute" ("Il Secolo XIX", 4 settembre 2008). Sul piano morale poi l'esistenza stessa di una possibilità di vita esige l'astensione dall'atto potenzialmente omicida. Se esiste anche solo il dieci per cento che dietro un cespuglio vi sia un uomo, nessuno è autorizzato ad aprire il fuoco. In campo bioetico, il principio in dubio pro vita resta centrale.
La verità è che la definizione della morte cerebrale fu proposta dalla Harvard Medical School, nell'estate del 1968, pochi mesi dopo il primo trapianto di cuore di Chris Barnard (dicembre 1967), per giustificare eticamente i trapianti di cuore, che prevedevano che il cuore dell'espiantato battesse ancora, ovvero che, secondo i canoni della medicina tradizionale, egli fosse ancora vivo. L'espianto, in questo caso equivaleva ad un omicidio, sia pure compiuto "a fin di bene". La scienza poneva la morale di fronte a un drammatico quesito: è lecito sopprimere un malato, sia pure condannato a morte, o irreversibilmente leso, per salvare un'altra vita umana, di "qualità" superiore?
Di fronte a questo bivio, che avrebbe dovuto imporre un serrato confronto tra opposte teorie morali, l'Università di Harvard si assunse la responsabilità di una "ridefinizione" del concetto di morte che permettesse di aprire la strada ai trapianti, aggirando le secche del dibattito etico. Non c'era bisogno di dichiarare lecita l'uccisione del paziente vivo; era sufficiente dichiararlo clinicamente morto. In seguito al rapporto scientifico di Harvard, la definizione di morte venne cambiata in quasi tutti gli Stati americani e, in seguito, anche nella maggior parte dei Paesi cosiddetti sviluppati (in Italia, la "svolta" fu segnata dalla legge 29 dicembre 1993 n. 578 che all'art. 1 recita: "La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello").
Opposte teorie morali
La natura del dibattito non è dunque scientifica, ma etica. Che questa sia la verità lo conferma il senatore del PD Ignazio Marino che in un articolo su "Repubblica" del 3 settembre definisce l'articolo dell'"Osservatore Romano" "un atto irresponsabile che rischia di mettere in pericolo la possibilità di salvare centinaia di migliaia di vite grazie alla donazione degli organi". Queste parole insinuano innanzitutto una menzogna: quella che il rifiuto della morte cerebrale porti alla cessazione di ogni tipo di donazione, laddove il problema etico non riguarda la maggior parte dei trapianti, ma si pone solo per il prelievo di organi vitali che comporti la morte del donatore, come è il caso dell'espianto del cuore. Ciò spiega come Benedetto XVI, che ha sempre nutrito riserve verso il concetto di morte cerebrale, si sia a suo tempo detto favorevole alla donazione di organi (cfr. Sandro Magister, Trapianti e morte cerebrale, l'"Osservatore Romano" ha rotto il tabù, www.chiesa). Il vero problema è che il prezzo da pagare per salvare queste vite è quello tragico di sopprimerne altre. Si vuole sostituire il principio utilitaristico secondo cui si può fare il male per ottenere un bene, alla massima occidentale e cristiana secondo cui non è lecito fare il male, neppure per ottenere un bene superiore. Se un tempo i "segni" tradizionali della morte dovevano accertare che una persona viva non fosse considerata morta, oggi il nuovo criterio harvardiano pretende di trattare il vivente come un cadavere per poterlo espiantare. A monte di tutto questo sta quel medesimo disprezzo per la vita umana che dopo avere imposto la legislazione sull'aborto vuole spalancare la strada a quella sull'eutanasia.
Libero 9 settembre 2008


P. Bernard: In Orissa, noi cristiani trattati peggio delle bestie
Mentre la situazione tende a ritornare alla normalità, pur tra paure e tensioni, emergono i racconti delle violenze subite, un vero e proprio attentato “contro la sacralità e dignità della vita”. La testimonianza di p. Bernard Digal, picchiato a lungo e lasciato tramortito per ore nella foresta.
Mumbai (AsiaNews) – “L’attacco contro i cristiani dell’Orissa è stato un attacco contro la sacralità e la dignità della vita umana. Il mondo deve sapere. In alcuni Paesi perfino gli animali vengono difesi nel loro benessere da leggi e diritti. A Kandhamal siamo stati trattati peggio degli animali: ogni cosa indegna, ogni oscenità, ogni tortura è stata possibile contro i cristiani. Uomini. Donne, bambini, tutti sono stati oggetto di atrocità brutali”.
Così p. Bernard Dighal, economo della diocesi di Bhubaneshwar, testimonia ad AsiaNews il suo dolore per quanto avviene in Orissa. P. Bernard ha subito violenze e pestaggi per ore ad opera dei radicali indù; per una notte intera è rimasto senza conoscenza e seminudo nella foresta, finché non è stato ritrovato dal suo autista.
Ora è in cura a Mumbai, presso l’Holy Spirit Hospital. Mentre accetta di parlare con AsiaNews, sta subendo un’ennesima trasfusione di sangue. Il suo pensiero va alla sua gente e ai suoi familiari, tutti fuggiti da casa per evitare di essere uccisi, e ora in uno dei campi di rifugio vicino a Bhubaneshwar: “Il mio cuore è pieno di gratitudine perché Dio ha salvato la mia vita. Ma mentre io sono qui curato, la mia gente è nascosta nella foresta e nemmeno lì sono al sicuro. Ci sono madri che allattano i loro neonati, bambinetti, giovani e vecchi: tutti sono immersi nella precarietà e nel terrore. Vi sono pericoli perfino nei campi profughi”.
“Ero in visita alle parrocchie del distretto di Kandhamal proprio il 23 agosto, quando Swami Laxamananda Saraswati e 4 suoi adepti sono stati uccisi dai maoisti. Il 25 agosto il Vhp (Vishwa Hindu Parishad) e altri gruppi radicali del Sangh Parivar hanno deciso uno sciopero dall’alba al tramonto, raccogliendo migliaia di persone”.
Il 25 p. Bernard era andato a trovare p. Alexander Chandi, nella parrocchia di Sankrakhol, quando una folla di indù ha attaccato la chiesa.
“La notte del 25 agosto la parrocchia e la casa del parroco sono state razziate e incendiate. Sentivamo la folla da lontano arrivare gridando slogan violenti, accuse contro il cristianesimo… Temendo per la nostra vita, siamo fuggiti nella foresta.
Gli estremisti hanno bruciato anche la mia aiuto. Mentre il p. Alexander è rimasto nella foresta, io mi sono mosso per andare a trovare alcuni miei parenti nelle vicinanze. Ho camminato almeno 15 km. A un certto punto gli estremisti mi hanno visto e agguantato , picchiandomi con sbarre di ferro, lance, asce e grosse pietre. Non so per quanto tempo mi hanno picchiato perché ho perso coscienza. Il mio autista mi ha trovato il giorno dopo, dopo 10 ore e mi ha portato all’ospedale. Solo lì ho ripreso coscienza”.
Senza acredine, ma anche senza dolcezza, p. Bernard ricorda: “Sono stato picchiato e lasciato nella foresta completamente nudo per 10 ore; altri sono stati tagliati a pezzi; altri bruciati vivi… È umano tutto questo? Non è un attentato alla vita?”
“A Kandhamal – conclude il sacerdote – la vita dei cristiani è sotto il diretto attacco dei radicali dell’Hindutva. La polizia e il governo sono inefficaci o talvolta non vogliono prendere alcuna misura preventiva per contenere queste forze che stanno distruggendo la nostra vita e dignità”.
Intanto p. Babu Joseph, portavoce della ConferEnza episcopale dell’India, ha detto che la situazione in Orissa sta ritornano alla normalità, ma vi sono ancora tensioni e paure. C’è bisogno di un maggior controllo nei campi profughi, per evitare infiltrazioni di radicali indù, e maggiori cure mediche per i feriti. Ma tutti si chiedono quando potranno ritornare a ricostruire le loro case distrutte.
di Nirmala Carvalho
AsiaNews 10/09/2008 16:23


Benedetto XVI delinea le caratteristiche dell'apostolo di ogni epoca
San Paolo, modello di tutti gli evangelizzatori

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 10 settembre 2008 (ZENIT.org).- Le caratteristiche di ogni apostolo, partendo dagli scritti paolini, sono state l'argomento centrale della catechesi che Benedetto XVI ha pronunciato questo mercoledì in occasione dell'udienza generale, alla quale hanno partecipato pellegrini provenienti da 15 Paesi diversi.
Continuando la riflessione della scorsa settimana sull'apostolo Paolo, il Papa ha spiegato che questi “aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo dei Dodici”.
Nelle sue Lettere, ha ricordato, “appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo”.
La prima è quella di “avere 'visto il Signore', cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita”.
L'incontro con Cristo ha segnato l'inizio della missione di Paolo, che “non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo”.
Pur sentendosi indegno di questo compito per il fatto di aver perseguitato la Chiesa, Paolo è sicuro del suo apostolato perché “è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo”.
“In definitiva, è il Signore che costituisce nell'apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore”, ha aggiunto il Papa.
La seconda caratteristica è quella di “essere stati inviati”, cioè il fatto di essere “ambasciatore e portatore di un messaggio”. Per questo Paolo si definisce apostolo di Gesù Cristo, “cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio”.
Il fatto che l'iniziativa parta da Cristo “sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni interesse personale”.
La terza caratteristica è il dedicare completamente la propria vita a questa missione. “Quello di 'apostolo', infatti, non è e non può essere un titolo onorifico. Esso impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l'esistenza del soggetto interessato”, ha affermato il Pontefice.
Un elemento tipico del vero apostolo, portato alla luce da Paolo, “è una sorta di identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte”, ha osservato Benedetto XVI.
“Nessuno come Paolo, infatti, ha evidenziato come l'annuncio della croce di Cristo appaia 'scandalo e stoltezza', a cui molti reagiscono con l'incomprensione ed il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi”.
Tutte le sofferenze associate alla missione, tuttavia, sono coronate dalla “gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo”.
“Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana”, ha concluso il Pontefice.
Al termine del suo intervento, il Papa ha salutato i presenti, soprattutto un gruppo di parlamentari del Regno Unito e un gruppo di giornalisti che partecipa al Seminario di comunicazione (cfr. ZENIT, 8 settembre 2008) presso la Pontificia Università della Santa Croce, ai quali ha chiesto “una sempre più generosa testimonianza evangelica nell'odierna società”.


BENEDETTO XVI - UDIENZA GENERALE .- Aula Paolo VI - Mercoledì, 10 settembre 2008 - San Paolo (4)
Cari fratelli e sorelle,
mercoledì scorso ho parlato della grande svolta che si ebbe nella vita di san Paolo a seguito dell’incontro con il Cristo risorto. Gesù entrò nella sua vita e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo. E’ proprio di questa sua nuova condizione di vita, cioè dell’essere egli apostolo di Cristo, che vorrei parlare oggi. Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che erano stati apostoli prima” di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della Chiesa. Eppure, come tutti sanno, anche san Paolo interpreta se stesso come Apostolo in senso stretto. Certo è che, al tempo delle origini cristiane, nessuno percorse tanti chilometri quanti lui, per terra e per mare, con il solo scopo di annunciare il Vangelo.
Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7). In quello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso come “l'infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,9-10). La metafora dell'aborto esprime un'estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia: “Sono l'ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2). Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Da persecutore a fondatore di Chiese: questo ha fatto Dio in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto!
Cos'è, dunque, secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli? Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo. La prima è di avere “visto il Signore” (cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce nell'apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Non per nulla Paolo dice di essere “apostolo per vocazione” (Rm 1,1), cioè “non da parte di uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1). Questa è la prima caratteristica: aver visto il Signore, essere stato chiamato da Lui.
La seconda caratteristica è di “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco apóstolos significa appunto “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e rappresentante di un mandante. È per questo che Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1). Ancora una volta emerge in primo piano l'idea di una iniziativa altrui, quella di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni interesse personale.
Il terzo requisito è l’esercizio dell’“annuncio del Vangelo”, con la conseguente fondazione di Chiese. Quello di “apostolo”, infatti, non è e non può essere un titolo onorifico. Esso impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l'esistenza del soggetto interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore?” (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi afferma: “La nostra lettera siete voi..., una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (3,2-3).
Non ci si stupisce, dunque, se il Crisostomo parla di Paolo come di “un’anima di diamante” (Panegirici, 1,8), e continua dicendo: “Allo stesso modo che il fuoco appiccandosi a materiali diversi si rafforza ancor di più..., così la parola di Paolo guadagnava alla propria causa tutti coloro con cui entrava in relazione, e coloro che gli facevano guerra, catturati dai suoi discorsi, diventavano un alimento per questo fuoco spirituale” (ibid., 7,11). Questo spiega perché Paolo definisca gli apostoli come “collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9; 2 Cor 6,1), la cui grazia agisce con loro. Un elemento tipico del vero apostolo, messo bene in luce da san Paolo, è una sorta di identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo, infatti, ha evidenziato come l'annuncio della croce di Cristo appaia “scandalo e stoltezza” (1 Cor 1,23), a cui molti reagiscono con l'incomprensione ed il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi. A questa sorte, di apparire “scandalo e stoltezza”, partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: è questa l’esperienza della sua vita. Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di ironia: “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all'ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi” (1 Cor 4,9-13). E’ un autoritratto della vita apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo.
Paolo, peraltro, condivide con la filosofia stoica del suo tempo l'idea di una tenace costanza in tutte le difficoltà che gli si presentano; ma egli supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell'amore di Dio e di Cristo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39). Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana.
Come si vede, san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza; potremmo dire ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva il suo ministero con fedeltà e con gioia, “per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). E nei confronti delle Chiese, pur sapendo di avere con esse un rapporto di paternità (cfr 1 Cor 4,15), se non addirittura di maternità (cfr Gal 4,19), si poneva in atteggiamento di completo servizio, dichiarando ammirevolmente: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24). Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia.



L’umano religioso - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it
giovedì 11 settembre 2008
Famiglia, formazione e fede. Sono “le tre parole, i tre valori” che Benedetto XVI ha consegnato ai giovani sardi raccolti in piazza Yenne a Cagliari. Ha chiesto loro di pregare lo Spirito per avere la luce e la forza di farli propri. “Riappropriatevi, cari giovani, del valore della famiglia; amatela non solo per tradizione, ma per una scelta matura e consapevole. L’amore vero non s’improvvisa, è fatto di responsabilità, e anche di senso del dovere”. Niente di più lontano dalle facili e vuote lusinghe che sono offerte ai giovani dalla mentalità consumistica del “mordi e fuggi”, in cui “il guadagno e il successo sono diventati i nuovi idoli”. C’è un passaggio del discorso che colpisce per la sua rilevanza culturale e antropologica. Sviluppando il tema dell’emergenza educativa, giudicata come incapacità di tramandare il patrimonio culturale e i valori fondamentali di una società, Benedetto XVI esorta i giovani a essere “davvero liberi, ossia appassionati alla verità”. La verità vi farà liberi, ha detto Gesù. Il nichilismo moderno predica l’opposto, che cioè è la libertà a rendere veri, fino a negare la verità stessa. In questo passaggio del discorso mi pare racchiusa una verità di sempre e insieme una lettura interessante del dramma moderno in cui si è operato il ribaltamento di prospettiva ideale descritto dal Papa. Ci sentiamo liberi di scegliere, di cambiare, di non sentirci legati da vincoli ideali, ma, alla resa dei conti, sembra che manchi l’essenziale perché in questo scambio/scelta di cose e persone, è stato escluso il nostro io e con lui un criterio di giudizio. È come se avessimo pensato noi stessi alla stregua delle cose, fossimo rimasti sul piano materiale, esteriore e mancasse il nostro cuore. E’ nell’insoddisfazione continua che sperimentiamo che l’io umano è sete d’infinito, è nelle situazioni quotidiane che si svela la nostra natura irriducibile. Tuttavia trascuriamo questi segnali d’infinito che sorgono in noi inaspettatamente, fino a trascurare noi stessi. Liberi per cosa se non c’è niente con cui confrontare se stessi? È solo di fronte alla verità che la libertà acquista valore e soddisfa. Senza verità, senza un termine di confronto esterno a noi, non c’è soddisfazione vera, ma momentaneo appagamento, effimero com’è effimero un momento che passa. Di fronte alla verità, invece, la libertà può lottare, ribellarsi, ma misurarsi in un’esperienza umana che è preclusa a chi non accetta confronto e si ferma alla propria reazione o al proprio pensiero. Ecco allora la proposta, originale, che ci stupisce come può stupire solo ciò che veramente corrisponde: la fede come uno stare con Gesù da cui imparare ciò “che la società spesso non è più in grado di dare, cioè il senso religioso”. È il senso religioso vissuto, lo spazio dato alle domande che abitano il cuore di ogni uomo e lo pongono in dialogo con la Presenza misteriosa che la ragione avverte e non sa spiegare, a dare libertà alla vita, costruttività e bellezza. “La fede, prima che una credenza religiosa, è un modo di vedere la realtà, una sensibilità interiore che arricchisce l’essere umano”. Gesù risponde al nostro cuore ma non chiude la posizione religiosa di domanda umana, al contrario, esalta l’umano perché dona al vivere una pienezza e un’intensità nuova.



Poco praticanti e poco virtuosi. Ma sono loro che fanno "Chiesa di popolo"
Sono i cattolici comuni, che in Italia sono maggioranza ma ai quali finora non si è prestata la dovuta attenzione. Oggi sono al governo del paese. Per la Chiesa sono un'opportunità e una sfida. Un'analisi esclusiva del professor Pietro De Marco

di Sandro Magister

ROMA, 11 settembre 2008 – Nell'omelia della messa celebrata domenica scorsa a Cagliari, in Sardegna, Benedetto XVI ha invocato "una nuova generazione di laici cristiani impegnati", capaci di operare "con competenza e rigore morale" nel campo del lavoro, dell'economia, della politica.

Il papa non ha aggiunto altro. Ma queste sue parole sono scese su un uditorio già all'erta. Perché in Italia da tempo c'è polemica sul ruolo dei cattolici in campo politico.

La discussione si è fatta più vivace dopo le elezioni generali della scorsa primavera. Un giornale d'opinione vicino alle posizioni della Chiesa, "il Foglio" diretto da Giuliano Ferrara, ha lamentato che con la vittoria di Silvio Berlusconi i cattolici siano praticamente scomparsi, come tali, dal governo del paese.

In effetti non si vedono, nel nuovo governo, cattolici cresciuti nelle scuole politiche delle associazioni confessionali. Epigoni dell'Azione Cattolica o di quel grande partito cattolico che fu la Democrazia Cristiana sopravvivono quasi solo nei partiti d'opposizione.

Ciò non toglie che l'attuale governo sia anch'esso zeppo di cattolici, al pari dell'elettorato moderato e conservatore che gli ha dato la vittoria. Ma si tratta di cattolici comuni, senza etichetta, molti dei quali arrivati per la prima volta sulla scena politica.

I cattolici comuni – saltuari nella pratica religiosa e nell'osservanza dei precetti morali ma pur sempre legati alla Chiesa – costituiscono la larga maggioranza dei cattolici italiani. Sono essi che danno corpo a quella "Chiesa di popolo" che distingue l'Italia da tanti altri paesi d'Europa, e che l'avvicina piuttosto, per certi aspetti religiosi, agli Stati Uniti d'America.

Nel 2001 Arturo Parisi – professore di sociologia all'università di Bologna e acuto analista del cattolicesimo italiano, eletto in parlamento negli anni Novanta nelle file della sinistra e per due anni ministro della difesa – intuì per primo la novità dell'ingresso in politica di questi cattolici che lui chiamava "irregolari". E mise in guardia i cattolici blasonati, ai quali lui stesso apparteneva, dal cadere vittima della "sindrome del figlio fedele, quello restato a casa nella parabola del figliol prodigo", con "quel senso di superiorità intellettuale e morale che spesso ci contraddistingue".

Ancora nel 2001 un altro sociologo della religione, Luca Diotallevi, analizzò a fondo questa eccezionalità dell'Italia, comparandola ad altri paesi, nel libro "Il rompicapo della secolarizzazione italiana. Caso italiano, teorie americane e revisione del paradigma della secolarizzazione".

Tuttavia, salvo poche eccezioni, i cattolici comuni continuano a essere trascurati dalle analisi e dalle discussioni.

Ha invece per loro un'attenzione costante e specialissima la gerarchia della Chiesa. Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, il cardinale Camillo Ruini – presidente della conferenza episcopale italiana dal 1991 al 2007 – e il suo successore Angelo Bagnasco hanno addirittura proposto l'italiana "Chiesa di popolo" come modello per altre nazioni.

Sul terreno politico, l'attenzione della gerarchia della Chiesa per i cattolici comuni ha prodotto in Italia un evento memorabile: la vittoria nei referendum del 2005 a difesa della vita del concepito.

In un saggio pubblicato quest'anno su "Polis", il professor Diotallevi ha mostrato quanto l'esito di quei referendum sia stato influenzato dall'identificazione cattolica di larga parte del popolo italiano e dall'azione della gerarchia nel guidarla.

Insomma, i cattolici comuni sono protagonisti di straordinaria importanza del "caso italiano". La loro centralità impone di ripensare i consueti schemi di analisi. Con risultati nuovi e sorprendenti.

È quanto fa qui di seguito il professor Pietro De Marco, professore di sociologia della religione all'università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale, in questa nota scritta per www.chiesa:


Sui cattolici "scomparsi dalla politica"

di Pietro De Marco

1. La diagnosi della scomparsa dei cattolici, come tali, dalla vita pubblica e politica italiana è semplicemente un equivoco. Oppure è un incubo, che nasce dalla ristretta autoreferenzialità di alcuni cattolici, quelli che pensano ancora di essere gli unici politici cattolici legittimi. Al contrario: oggi dei cattolici governano in Italia con un ampio mandato di elettori cattolici, senza che abbiano dietro di sé un partito cristiano né un percorso formativo in associazioni confessionali. Il fenomeno costituisce in Italia e in Europa una relativa novità. Vediamo.

Nella discussione corrente sui cattolici manca un protagonista: la sociologia della religione. Non i sondaggi socio-demoscopici, ma la sociologia in quanto tale.

La sociologia della religione italiana è tra le migliori del mondo, per conoscenza del proprio oggetto, per finezza metodologica, per qualità di risultati e intelligenza di persone. Eppure nel dibattito politico è come se non esistesse. Per due ragioni, credo.

La prima: la sociologia della religione in Italia è prevalentemente destinata all'accertamento e all’analisi delle credenze e delle pratiche – e questa è in effetti la sua forza, oggi –, ma il committente e destinatario delle sue conoscenze è un limitato sottogruppo del mondo cattolico ed ecclesiastico.

La seconda ragione dipende dalla prima: le conoscenze socioreligiose – nel percorso che va dal sociologo al clero e ai laicati qualificati, e viceversa – sono usate da élite che leggono i dati con pessimismo minoritario o paternalismo pastoralistico. È una lettura che appare concentrata sui fenomeni di diminuzione o di ripresa della pratica religiosa alta, quella dei praticanti assidui, riservando una riflessione pressoché nulla, al di là del dato statistico, alle forme meno assidue e marginali della credenza e della pratica cattolica.

In questo utilizzo selettivo dei dati è come se la religione "modale" (espressione che Roberto Cipriani riferisce ai tantissimi praticanti occasionali e deboli credenti) fosse composta di uomini e donne che sono "qualcosa di meno", dal punto di vista spirituale, etico, rituale, rispetto ai soggetti che rientrano nel modello virtuoso. In quanto tali, i credenti "modali" sono pensati come esterni al corpo sociale cattolico.

Insomma, dopo decenni di polemiche contro una sociologia della religione che sarebbe stata funzionale alla istituzione preconciliare, ci troviamo oggi alle prese con una sociologia della religione sì valida, ma utilizzata soltanto da una minoranza cattolica: fatta di sociologi. di pastoralisti, di alcuni vescovi e di qualche giornalista. Una minoranza ecclesiale che da tempo sta monitorando – senza il conforto dei fatti – l’atteso declino della Chiesa cattolica, dal quale declino secolaristico aspetta da decenni la rigenerazione del cristianesimo o della religione. Una siffatta lettura dei dati raramente interessa l’opinione pubblica, se non per le episodiche notizie su quanti sono d’accordo con il magistero della Chiesa circa questa o quella materia bioetica.


2. Fino a quando in Italia la classe politica cattolica democristiana ed ex democristiana, collocata oggi a sinistra, apparteneva al nucleo virtuoso della religione di Chiesa "orientata e riflessiva", come qualche sociologo la definisce, o, con linguaggio più corrente, ai credenti e praticanti assidui, la categoria di "politico cattolico" sembrava chiara e rassicurante, anche per l’osservatore.

Oggi, però, i cattolici attivi nella politica e nei governi italiani sono per lo più dei praticanti ordinari, non i risultati di trafile virtuose. Sono spesso religiosi "modali", quelli che si dicono "abbastanza d’accordo" nelle risposte ai questionari, quelli della pratica "quasi regolare". Sono anche cattolici che si dichiarano talora "distanti e a disagio".

Per una sociologia della religione emancipata dall’empito profetico conciliare, almeno per la più affinata, che conosce la varietà e complessità della Chiesa di Roma, anche questi cattolici non "virtuosi", "quasi regolari", talora un po' "a modo mio", dovrebbero essere considerati cattolici a pieno titolo, ai quali dedicare analisi adeguate, e non dei semi-cattolici, catastrofico segnale della secolarizzazione avanzante. Non è compito del sociologo discriminare il gregge cattolico secondo modelli interni di eccellenza. E quale eccellenza poi? Quella del solidarista o quella del mistico? Del comunitarista liturgico o del missionario carismatico? Il sociologo, ad esempio, non può avere remore nel definire cattolico un "ritualismo" che permane per robusta tradizione familiare o per il venerato ricordo di una mamma che ci accompagnava in Chiesa. Lascerà a qualche parroco dire – non credo sotto impulso dello Spirito Santo – che se si va alla messa "per tradizione" è meglio non andarci.

Il ragionamento cattolico minoritario si fonda su una invecchiata lettura dei sintomi: posto che i cattolici poco assidui o "modali" sono masse in via di allontanamento dalla Chiesa e dalla sua disciplina, si conclude che non ha più senso chiamarli cattolici, né ritenerli politicamente rilevanti come cattolici.

Sennonché le indagini degli ultimi venti anni in Italia invalidano la previsione dell’abbandono progressivo della Chiesa cattolica, di cui le forme deboli di credenza e appartenenza sarebbero fasi o sintomi. La composizione plurale, le disomogeneità e le difformità tra i credenti – che giustamente preoccupano chi si dedica alla cura d’anime – sono stabili da anni, per non dire strutturali. Rappresentano la complessità cattolica, quella propria dell’eccezione italiana brillantemente analizzata da Luca Diotallevi. Una complessità cattolica che, al di là delle sue differenziazioni di forme e di intensità religiosa, ritiene comunque rilevanti la tradizione e l’appartenenza cattolica, con le persone e le istituzioni che le rappresentano e trasmettono.

Solo così posto, il profilo cattolico che investe oltre l’80 per cento della popolazione italiana diviene significativo anche per l’analista della società civile. In altri termini: la varietà delle opzioni religiose corrisponde alla possibilità moderna di differenziarsi da altre persone e da altri modelli. Ma questo differenziarsi non corrisponde a una deriva individualistica postcristiana. Se le religiosità che qualche sociologo chiama "a modo mio" hanno caratteri ricorrenti e riconoscibili, questo implica che ogni "a modo mio" percorre tracciati costanti e neppure molto numerosi, dei quali si possono individuare i modelli. E almeno una parte di questi modelli di religiosità debolmente conformi possono essere considerati un effetto – qualcuno direbbe un successo – dell'azione antisecolarista della Chiesa.


3. Ora, il nuovo blocco elettorale di maggioranza e di governo in Italia appare costituito in maggioranza proprio da cattolici "modali". Ossia da quei cattolici che non siedono nelle prime panche delle chiese, non operano nei consigli parrocchiali, non leggono saggi di teologia, ma credono nella morale cattolica anche se la praticano con difficoltà, fanno frequentare ai figli l’ora di religione nelle scuole (diversamente dai cattolici progressisti, che non lo fanno) e non amano sentire dire dai catechisti che il diavolo non esiste e neppure esiste il peccato.

Vi è in questi cattolici poco assidui un attaccamento al nucleo istituzionale e dogmatico cattolico, magari ereditato dal catechismo, che nei cattolici "qualificati" non c’è, nonostante la maggiore cultura religiosa di questi ultimi. Credo che tra i politici che governano oggi l’Italia siano scarsi gli atei professi alla Piergiorgio Odifreddi, o gli scettici anticattolici alla Corrado Augias. Dal punto di vista socioreligioso l'attuale classe governante è cattolica, cattolica secondo realtà, la realtà composita della "Chiesa di popolo" italiana. È cattolica in quanto consente sull’essenziale della visione cattolica del mondo. Questo consenso non fa, per se stesso, le persone virtuose. Ogni credente, specialmente se umile, sa di essere nel peccato e di non avere garanzia di salvezza personale, se non per la misericordia di Dio e la mediazione della Chiesa. Non è abbastanza istruito da pensare, come il teologo "moderno" Vito Mancuso, che Cristo è una intensificazione dell’energia della vita universale che tutti ci investe e infine ci salverà tutti. I cattolici più vecchi ricordano di aver letto qualcosa del genere nei romanzi del modernista Antonio Fogazzaro.

Così, se è necessario che i parroci richiamino i cattolici a fedeltà e pienezza di amore, è meno necessario che dei politici cattolici "virtuosi" si esibiscano a modello di autentica laicità, di vera cultura sociale cattolica e simili. I cattolici, quanto meno sono "virtuosi" (felice categoria coniata da Max Weber), più sono consapevoli dei loro limiti, più hanno bisogno della Chiesa e sanno di averne. Né potrebbe essere diversamente. È così dalle origini.

Ora, a un semplice esame delle posizioni personali dei ministri e dei quadri dell'attuale governo, è facile trovare tra essi una maggioranza di cattolici, magari distribuita nelle diverse tipologie che da anni i sociologi propongono per cogliere la differenziazione entro e ai margini della "Chiesa di popolo" che costituisce l'eccezione italiana.


4. Da quanto detto, dunque, l'automatismo che in Italia identifica i cattolici con gli eredi della Democrazia Cristiana, ovvero con i membri di organizzazioni diversissime tra loro come l'Azione Cattolica, Comunione e Liberazione, l'Opus Dei, i volontariati e il sindacalismo cristiano, implica un rischio di cecità diagnostica del presente.

In sede di analisi politica dobbiamo non dimenticare ciò che sappiamo in sede socioreligiosa. Cattolici non sono soltanto, o anzitutto, i "virtuosi", ma tutta la costellazione dei credenti. In sede politica pubblica, il ragionamento del ministro del tesoro Giulio Tremonti sulla necessità di un ordinamento cristiano nel cuore dell'Occidente è forse meno significativamente cattolico di quello un "virtuoso" che invece ama l'invisibilità della "differenza cristiana"? È forse meno cattolica l’effervescenza di un praticante del largo popolo della Lombardia, preso tra lavoro e timori di sicurezza, di quella di un uomo o di una donna che si dedicano alla parrocchia nella presunta prospettiva escatologista della "Lettera a Diogneto"? Sono domande paradossali, ma credo serissime.

La forma "virtuosa" sviluppata nel cattolicesimo politico italiano col nome di "azione cattolica" fu la creazione necessaria, ma contingente, di una Chiesa sottoposta nel XIX secolo alla sfida dei nuovi stati liberali e delle nuove religioni civili laiciste. Ma oggi l'indebolimento dell'imperatività degli stati impone di riconoscere e valorizzare coloro che sono cattolici anche al di fuori fuori di quella passata grande milizia. E proprio questo è stato lo stile di governo della presidenza della conferenza episcopale italiana negli ultimi venti anni.

La CEI del cardinale Camillo Ruini ha operato inoltre con la consapevolezza che quel modello "virtuoso" di militanza cattolica era stato permeato da spiritualismi e utopie che l'avevano spinto fino all'autoannientamento, specialmente dopo gli anni Sessanta, e spesso alimentava l'opposizione interna agli ultimi due pontificati. Anche per questo i papi e la CEI si sono rivolti e si rivolgono preferibilmente al "popolo cristiano" piuttosto che ai "virtuosi", nonostante tutte le fragilità e gli accomondamenti quotidiani del cristiano comune.



5. Sia la base elettorale moderato-conservatrice, sia l'attuale governo italiano possono dunque essere detti cattolici, sia pure in un senso radicalmente diverso rispetto alla passata lunga stagione della Democrazia Cristiana.

Per questo la presenza e la guida della Chiesa sui fondamentali cristiani e umani, se ha oggi lo svantaggio di non disporre della storica intermediazione dei laicati addestrati a questo, ha il vantaggio di rivolgersi in Italia a una società ancora cristianamente sensibile e a quadri di governo non ostili od estranei alla Chiesa, come invece sono le culture politiche marxiste e laiche radicali che la tradizione cattolica "virtuosa" ha più volte legittimato a governare.

Se oggi il Principe non è più cristiano nel senso delle società di Ancien Régime, neppure è anticristiano. Né saranno i cattolici modernizzanti ad imporre quasi da soli, oggi, la finzione di una sfera pubblica laicamente neutralizzata. Non è casuale che i meno capaci di orientare cristianamente l'agire politico, in Italia e in Europa, siano oggi proprio loro, i cattolici "virtuosi" laico-democratici. Nella stagione conciliare essi avevano troppo scommesso, per autenticare la legittimità dei cristiani ad esistere, su una comprenetrazione tra cristianità e modernità che idealizzava il Moderno come nuova cristianità trasfigurata e realizzata.

In un paesaggio religioso e civile come quello italiano, la Chiesa docente è chiamata ad agire politicamente come in una paradossale condizione di nuova cristianità postsecolare. Dovrà agire non attraverso le milizie "virtuose" collaudate nelle stagioni del liberalismo e dei totalitarismi (milizie che si sono spesso contrapposte alla stessa gerarchia sul terreno teologico-politico), ma in un orizzonte universalistico di proposta, di negoziato, di consultazione, e anche di necessario comando. Dico universalistico perché, senza tale respiro rivolto a tutti, la guida cattolica dell'uomo comune (che è anche in larga maggioranza il cattolico comune) rimarrà chiusa negli affetti solidali delle piccole comunità delle parrocchie e delle organizzazioni, e la Chiesa docente non riuscirà ad esprimere posizioni razionali all’altezza del bene comune. Rischiando di ottenenere oggi, sul terreno pubblico, meno di quanto ottenne la conclusa tradizione di "azione cattolica".

Per riassumere. Primo: l'immagine di un parlamento e di un governo "senza cattolici", e conseguentemente di una Chiesa senza referenti politici, si alimenta di una diagnosi erronea. Secondo: l’intelligencija cattolica con radici nel dopoconcilio e nella Democrazia Cristiana è largamente assorbita dalla costellazione delle sinistre laiche radicali, con differenziati destini di cultura di opposizione. Terzo: la gerarchia e i cattolici che interpretano la Chiesa nello spazio pubblico devono ridefinire canali e codici di una comunicazione politica autorevole con l'universo popolo cristiano. E con una classe di governo "cattolica" ma non di "azione cattolica".


FISICA/ Al via l'esperimento che ci porterà alle origini dell’universo
INT. Lucio Rossi , mercoledì 10 settembre 2008, IlSussidiario.net
Il 10 settembre al Cern di Ginevra il primo fascio di protoni è stato immesso nel tunnel di LHC e inizierà ad accelerare fino a raggiungere velocità di poco inferiori a quella della luce preparandosi quindi per gli attesi esperimenti. È l’inizio della entusiasmante avventura della fisica del XXI secolo, che potrebbe far fare un potente balzo in avanti alla nostra comprensione della natura e della sua storia. Ma non è l’inizio dell’esperienza di ricerca, di progettazione e di immaginazione per tanti fisici, ingegneri e tecnici di ogni disciplina che da anni stanno lavorando affinché la “macchina delle meraviglie”, cioè il Grande Collisore Adronico (Large Hadron Collider, LHC), possa funzionare a dovere. Ma il termine “macchina” non rende assolutamente l’idea del gigantesco sistema tecnico-scientifico che è stato installato nei sotterranei del Cern. Per conoscerlo un po’ meglio e capire come si è arrivati allo start up dei prossimi giorni, abbiamo incontrato Lucio Rossi, fisico italiano (tra gli oltre mille che partecipano all’impresa) in forza al Cern dove dal 2001 è a capo del gruppo Magneti Superconduttori.
Quando parliamo di LHC, a che tipo di struttura dobbiamo pensare?
Le normali rappresentazioni che possiamo farci di un laboratorio o di un esperimento scientifico non sono adeguate per descrivere LHC. Basti pensare che tutto si svolge in una galleria circolare lunga 27 chilometri e larga 4 metri, tra i 50 e i 175 metri di profondità in un’area al confine svizzero-francese. Lì sono distribuiti i diversi componenti del sistema, cioè: l’infrastruttura tecnica che permette l’accelerazione delle particelle, quindi l’insieme dei 1700 magneti superconduttori e tutti gli impianti necessari per mantenerli a temperatura di 1,9 gradi sopra lo zero assoluto; gli equipaggiamenti e la strumentazione per i quattro esperimenti, che sono dislocati lungo la circonferenza; il sistema informatico per la gestione delle apparecchiature e per l’elaborazione dei dati.
Quindi un oggetto non facile da mettere a punto?
Sì. Infatti, dopo le fasi della progettazione e accanto alla costruzione della struttura generale, il grosso lavoro che ci ha tenuti col fiato sospeso in questi ultimi anni è stato quello dei test. La posta scientifica in gioco e gli ingenti investimenti messi in campo (dell’ordine dei 5 miliardi di euro, tra materiali, personale ed esperimenti) impongono la massima precisione e affidabilità di ogni singolo componente e del sistema nel suo insieme. Dapprima quindi si sono collaudati i vari apparati uno ad uno: ad esempio tutti i magneti sono stati sottoposti a prove singole e hanno dimostrato di funzionare perfettamente; abbiamo avuto un tasso di rigetto inferiore al 2%. Tuttavia il funzionamento collettivo introduce una serie di effetti e di problemi nuovi; perciò siamo passati a test più complessi: l’intero percorso è stato suddiviso in otto parti e si è proceduto al collaudo di un ottante alla volta. Contemporaneamente sono state provate le apparecchiature coinvolte negli esperimenti e poi i sottosistemi fino all’intero impianto relativo a ogni esperimento.
Cosa accadrà allora il prossimo 10 settembre?
Verranno iniettati i fasci di protoni e si inizierà a farli circolare. Allora si potrà dire che la macchina è operativa. Dapprima circoleranno pochi protoni poi si avranno fasci più consistenti, formati da pacchetti di 100 miliardi di particelle. I fasci verranno accelerati fino a velocità oltre il 99,9% di quella della luce e in tale condizione un fascio di particelle circolerà per 10 ore, percorrendo 10 miliardi di chilometri, equivalenti ad un viaggio di andata e ritorno dalla Terra al pianeta Nettuno.
Ma le attività di test, o come voi le chiamate, di commissioning, non sono finite.
Effettuato il commissioning dell’hardware, si dovrà fare quello dei fasci. A questo punto entreranno in gioco più direttamente i fisici; ci sono infatti molte problematiche connesse alla fisica dei fasci: la loro velocità, la focalizzazione, la possibilità che si allarghino troppo e altre ancor più delicate.
E finalmente si arriverà all’evento tanto atteso, cioè le collisioni …
I fasci di protoni accelerati si incroceranno circa 30milioni di volte al secondo per cui Lhc produrrà fino a 600milioni di collisioni al secondo. Ma bisogna precisare cosa si intende per collisioni. Un fascio di particelle infatti non è come ce lo possiamo immaginare, come un getto d’acqua o un fascio luminoso: le dimensioni dei protoni sono talmente piccole che il fascio è quasi vuoto. Allora per provocare lo scontro bisogna aumentarne la densità; e lo si fa comprimendolo, “strizzandolo”, tramite l’effetto di altri magneti speciali in modo che, giunti al centro di ognuno delle stazioni sperimentali, i fasci possano collidere e fornire le informazioni richieste.
Quando si avranno i primi risultati scientifici?
Anche qui le cose non vanno come si può superficialmente immaginare. Non dobbiamo pensare una collisione che genera magicamente la scoperta del secolo: si devono accumulare una serie di eventi sui quali poi si sviluppano indagini statistiche. Da queste possono uscire i risultati, anche i più sorprendenti. C’è molta aspettativa per il cosiddetto bosone di Higgs, la particella che spiegherebbe la natura della massa; ma si punta anche a capire meglio le supersimmetrie, o a rivelare altre dimensioni dello spazio-tempo, per ora solo previste dalle teorie.
Comunque bisognerà attendere i primi mesi del 2009 per avere i primi annunci significativi.
E le tappe successive?
Prevediamo che ci vorranno 4-5 anni per raggiungere le energie e la luminosità (cioè il numero di eventi per secondo) massime previste per una “macchina” del genere. D’altra parte, per la natura stessa di questi esperimenti, se si vogliono avere collisioni statisticamente rilevanti bisogna aumentare moltissimo la luminosità; perciò bisognerà fare un upgrade di LHC. C’è già un piano, detto super LHC, per cambiare, verso il 2013-2014, alcune parti dell’acceleratore sostituendo alcuni magneti. Un ulteriore aggiornamento è ipotizzato per il 2018, quando nuove materiali superconduttori (in particolare il composto Niobio 3 Stagno) potrebbero consentire di applicare magneti più potenti per aumentare l’effetto di focalizzazione dei fasci e dare ai fisici l’opportunità di migliorare le collisioni.
Se tutto ciò funzionerà, saremo pronti anche per aumentare l’energia, raddoppiandola e arrivando all’estremo limite di 30 Teraelettronvolt (TeV, così si misurano le energie in questi esperimenti) nel centro di massa; ma se ciò sarà possibile lo potremo dire solo verso il 2015.
Qualcuno parla già del dopo LHC…
Sì, ci sono diversi gruppi di fisici che lavorano al progetto ILC, International Linear Collider, un acceleratore lineare lungo 30 chilometri nel quale far scontrare non più particelle pesanti ma i più leggeri elettroni e antielettroni. Si avrebbero allora collisioni molto più “pulite”, dove basterebbero energie ben inferiori ai 7 TeV di LHC: potrebbe essere sufficiente mezzo TeV, o al più un TeV. In realtà ILC non è ancora un vero progetto: ci sono sì alcune linee generali ma c’è ancora da decidere un elemento non da poco come la localizzazione. E poi la sua validità non è indipendente da quello che LHC potrà scoprire: si potrebbe anche constatare che al di sotto del TeV non si possono avere risultati utili; in tal caso l’idea di un acceleratore lineare di quel tipo sarebbe totalmente vanificata; si dovrebbe allora prender in considerazione un altro tipo di collisore lineare, chiamati CLIC, che però è ancora in una fase di dimostrazione di principio e quindi non potrebbe essere costruito prima del 2020-2025.
A cura di Mario Gargantini


SCUOLA/ Galli della Loggia: bisogna dare voce a chi vuole un reale cambiamento, INT. Ernesto Galli della Loggia, giovedì 11 settembre 2008
Ad agosto, con un’editoriale accorato sul Corriere della Sera, aveva lanciato un vero e proprio «grido di dolore» (così lui stesso lo definì) sulla situazione della scuola italiana, segnata dal difetto principale di essere «senz’anima». Ora, alla luce dei dati dell’Ocse che ancora una volta bocciano la nostra scuola, Ernesto Galli della Loggia torna a discutere di istruzione, e di come l’opinione pubblica percepisce il problema.
Professor Galli della Loggia, i dati Ocse danno la solita sentenza sulla nostra scuola: bocciata. Che significato hanno questi dati?
I dati hanno il valore di fotografare la scuola italiana, e la loro lettura non ha possibilità di equivoco. Siamo un sistema d'istruzione agli ultimi posti nell’area dei Paesi che rientrano in questa classifica, per le ragioni che gli stessi dati illustrano bene. Non è un problema di ammontare complessivo della spesa, ma è un problema di “modo” della spesa. C’è infatti un eccesso di insegnanti, che si trovano quindi ad essere malpagati; e si sa che se una professione è malpagata non attira i migliori. Il tutto a causa di quel demenziale egualitarismo che non prevede nessuna premiazione del merito.
Chi, secondo lei, ha la maggiore responsabilità per il fatto che sia venuta a crearsi questa situazione?
La scuola, come molte altre cose pubbliche in Italia, da alcuni decenni è nelle mani dei sindacati, che sono tra i più evidenti responsabili – soprattutto la Cisl, che come si sa è il sindacato più forte nel pubblico impiego – dello sfascio dello Stato italiano. Il loro unico interesse economico – cioè l’interesse personale dei gruppi dirigenti sindacali che devono accrescere i propri introiti – è aumentare il gruppo degli addetti per accrescere le quote di iscrizione che incamerano, in quella maniera, a tutti nota, che non si fonda sull’adesione sistematica e ripetuta dell’iscritto, ma che una volta data rimane poi a vita, assicurando così l’afflusso di introiti. Eccoli qua i responsabili.
Di fronte alla crisi della nostra scuola si propongono molte ricette: da dove a suo modo di vedere bisognerebbe ripartire per ridare qualità al sistema? Qual è cioè la priorità?
Io penso che il buon senso ci dica che innanzitutto bisogna fare il contrario di quello che si è fatto negli ultimi trent’anni: se una cosa ha determinate caratteristiche che non la fanno funzionare, bisogna per prima cosa eliminare quelle caratteristiche. L’autonomia, ad esempio, o meglio la finta autonomia, si è rivelata un disastro: o l’autonomia viene data per intero, cioè a livello amministrativo, o non vale. È pronta l’Italia a dare al singolo preside un gruzzolo di soldi da spendere come meglio crede, ad esempio per reclutare professori migliori? Se non è questo, allora basta con l’autonomia.
Poi, cos’altro bisogna cambiare?
Bisogna poi piantarla con tutte le attività extra-curricolari che affollano le giornate degli studenti italiani, distraendoli dall’apprendimento delle cose che contano: le gite, le chiacchiere, le proiezioni cinematografiche, le conferenze sulla pace e così via. Tutte cose inutili, che vanno eliminate. Infine, cercare in tutti modi di diminuire il numero dei professori, introducendo aumenti degli stipendi e incominciando innanzitutto col dare dei premi di merito.
I dati sulla spesa nella scuola italiana cadono proprio nel momento in cui da più parti si alzano proteste contro i tagli all’istruzione: cosa ne pensa di queste proteste?
Il principale problema che impedisce un cambiamento in questo campo è il fatto che nella scuola si è ormai formata una communis opinio protestataria, pronta a scendere in piazza contro i tagli e contro qualunque cambiamento. Non per nulla non c’è stato ministro dell’Istruzione negli ultimi quindici anni che non abbia dovuto fare i conti con rivolte periodiche e sistematiche. Questo è colpa dell’opinione pubblica e dei giornali, che invece di stigmatizzare e dire le cose come stanno, sono corrivi e attratti dall’idea che chi protesta ha sempre ragione. Basta vedere come i giornali romani hanno riportato l’iniziativa presa dai professori di alcune scuole di andare in classe listati a lutto, per protestare contro i tagli: tutte cose che meriterebbero stigmatizzazione e ridicolizzazione, e che invece i giornali trattano con grande serietà.
Come fare allora per sensibilizzare correttamente l’opinione pubblica sul tema scuola?
Ci vorrebbe un cambiamento di punto di vista, soprattutto nei giornali e in chi ha ancora la capacità e la voglia di ragionare sui dati di fatto reali. Nella scuola e nell’opinione pubblica c’è molta stanchezza nei confronti di questo decadimento del sistema d’istruzione, e c’è effettivamente desiderio di una svolta; disgraziatamente, però, non c’è ancora chi dà voce a questo desiderio. Manca, potremmo dire, l’organizzazione di questo stato d’animo. Quindi prevale l’altro stato d’animo, quello protestatario, quel residuato “democratico-progressista” di un orientamento dell’opinione pubblica che si trascina stancamente da 20-30 anni a questa parte.
Come le sono sembrate le reazioni al suo editoriale del 21 agosto dal titolo «Scuola: la crisi di un’istituzione»?
Non mi pare che abbia generato dibattito: hanno risposto i ministri Gelmini e Tremonti, ma per il resto non mi sembra che ci sia stata un’opinione pubblica reattiva. Certo, io ho ricevuto molte mail di lettori che hanno espresso opinione di consenso; pubblicamente invece c’è un fortissimo ritardo del ceto intellettuale diffuso, di quel milione o due di persone che costituiscono la classe dirigente, che hanno una fortissima ritrosia a chiamare le cose con il loro nome, e a prendere il toro per le corna. Ho molto apprezzato invece quanto detto dal ministro Gelmini, che ha cercato di dire almeno delle cose vere, e di delineare com’è la situazione secondo il suo punto di vista.
Quindi è più un problema di intellettuali che non di società civile?
Anche della società civile: nel Mezzogiorno, ad esempio, la reazione di fronte ai dati che descrivono una situazione di ritardo non è stata quella di dire “sì, effettivamente, bisogna darsi da fare”, ma di protestare dicendo che il ministro è razzista. Quei dati però, soprattutto sulla scuola al Sud, non li ha inviati il ministro. Invece di guardare in faccia la realtà si fa in modo che tutto diventi oggetto di “polemicuccia”.


Rick, il milionario convertito - la storia - È stato uno degli inventori dello scanner. Il successo, i soldi, poi la figlia che si converte ed entra in un convento di clausura. Una rivoluzione - DAL NOSTRO INVIATO A PHNOM PENH, Avvenire 11 settembre 2008
P er cavarsela ha dovuto dar­si un nome americano. È con quello che passerà alla storia dell’elettronica. L’ingegner Rick Tan, cambogiano nato e cre­sciuto buddista, è stato tra gli in­ventori dello scanner. Una vera ri­voluzione, applicata dal campo medico a quello tipografico. «U­na rivoluzione? Per un po’ l’ho cre­duto anch’io». A piedi nudi, sedu­to a gambe incrociate nella posi­zione del loto, Rick afferra una Bib­bia e con quella indica la parete in fondo: «La vera rivoluzione è quel­la lì». Mentre si avvicina al grande crocifisso, Rick ricorda di quando era diventato milionario, degli in­carichi di prestigio. «E poi una bel­la villa in California, auto extra­lusso, vacanze a cinque stelle». Quel che si dice una vita da fare in­vidia. «Poi alcuni anni fa mia figlia va a chiudersi in un convento di clausura negli Stati Uniti, e mio figlio quasi si faceva pre­te ». Per dirla nel gergo infor­matico: «Ho rischiato di fare tilt».
Abituato com’era a trovare u­na soluzione grazie alla scien­za, alla matematica e alla logi­ca, «quella volta sono entrato in crisi sul serio». La moglie non di­sapprovò la scelta della loro ra­gazza. «Ed è grazie a lei che ho co­minciato a cercare di rispondere a una domanda: chi è questo Ge­sù che ha fatto perdere la testa a mia figlia?». La risposta è in quel­lo che Rick ha fatto dopo. Si è ri­preso il suo nome khmer, Vierac, e adesso è a Phnom Penh.
La villa in California? Venduta. Le auto Lexus da centomila dollari? Vendute anche quelle. «E con i sol­di diamo una mano ai missionari qui in Cambogia». Non ha paura di correre nel fango con padre Ma­rio Ghezzi e raccogliere nelle bi­donville i bambini malati. In un Paese senza assistenza sanitaria gratuita, Vierac li porta in ospeda­le a sue spese. E se dentro a una palafitta c’è una vecchia mori­bonda, Vierac e padre Mario si ar­rampicano e restano per ore dove nessuno resisterebbe più di cin­que minuti. La vita di adesso per l’ingegner Tan è anche una rivincita sull’odio. «Mio padre? Chissà in quale fossa lo hanno gettato». Tra le cataste di scheletri rinvenuti nei campi del­la morte di Pol Pot, gli spettrali “kil­ling fields”, potrebbe esserci quel­lo del professor Tan. Quando i kh­mer rossi presero Phnom Penh, il papà di Vierac studiava a Parigi. «Gli dissero di tornare, che non gli sarebbe accaduto nulla». E il pro­fessore tornò. «Nessuno lo ha mai più visto», racconta il figlio. Spari­to come ogni altro studioso. Era l’Anno Zero dell’era di Pol Pot. Ba­sta intellettuali, basta libri, in men­te solo l’utopia della purezza con­tadina. Perché fosse chiaro quale idea di istruzione avesse il regime, il peggiore centro di tortura fu sta­bilito nel liceo francese di Phnom Penh, che da quel momento sfor­nava 300 cadaveri al giorno. An­che per questo il ragazzo che si fa­ceva chiamare Rick appena pos­sibile fuggì in America. Adesso per lui è come riprendere la lettura di un libro dissepolto dalle macerie. «E purtroppo ora mi è più facile capire anche il grande limite filo­sofico della religione buddista, che in Cambogia ha forti inclinazioni animiste. La concezione del Khar­ma, del destino che non si può mutare, è un freno all’emancipa­zione dei poveri». La gente crede di doversi rassegnare alla cattiva sorte, «così facendo si spera di po­ter meritare la reincarnazione in un essere più avvantaggiato, più ricco». Perciò il cristianesimo è u­na rivoluzione che investe la sfe­ra religiosa, ma non lascia immu­tato il contesto sociale. Come ogni innovazione incontra forti resi­stenze: «Gesù ci insegna a mette­re a frutto i talenti ed essere così di aiuto al prossimo». E lo scan­ner, davvero non ne ha più uno in casa? «Certo che ce l’ho, mi serve per duplicare i passi del Vangelo e per tradurre in lingua khmer il ca­techismo ».
Nello Scavo