sabato 13 settembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Discorso di Benedetto XVI per l'incontro con i giovani a Parigi
2) 13/09/2008 10:56 Papa: Con Cristo, fuggite gli idoli, che alienano l’uomo
3) "Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui" - Due anni esatti dopo Ratisbona, un altro grande discorso di papa Joseph Ratzinger al mondo della cultura. A Parigi, al Collège des Bernardins, il 12 settembre 2008. Eccone il testo integrale di Benedetto XVI
4) Intervista al regista Rezo Chkheidze - Curatore: Scalfi, P. Romano, Fonte: CulturaCattolica.it
5) STORIA/ Eugenio Corti: quei soldati che salvarono la libertà - INT. Eugenio Corti, da IlSussidiario.it
6) «La ragione è uno dei nomi di Dio» Jean-Luc Marion: conoscere Dio è già un atto di fede nella razionalità, Avvenire, 13 settembre 2008


Discorso di Benedetto XVI per l'incontro con i giovani a Parigi
PARIGI, venerdì, 12 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo venerdì sera da Benedetto XVI in occasione della veglia di preghiera dei giovani sul sagrato della Cattedrale di Notre-Dame di Parigi.
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Cari giovani,

dopo il raccoglimento orante dei Vespri a Notre-Dame, è con entusiasmo che voi mi salutate stasera, dando così un carattere festoso e molto simpatico a questo incontro. Esso mi richiama quello indimenticabile dello scorso luglio a Sydney, al quale alcuni di voi hanno partecipato in occasione della Giornata mondiale della Gioventù. Questa sera, vorrei parlarvi di due punti profondamente legati l’uno all’altro, che costituiscono un vero tesoro nel quale voi potrete porre il vostro cuore (cfr Mt 6, 21). Il primo si collega col tema scelto per Sydney. E’ pure quello della vostra veglia di preghiera che sta per cominciare tra qualche istante. Si tratta di un passo degli Atti degli Apostoli, libro che alcuni qualificano molto giustamente come il Vangelo dello Spirito Santo: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1, 8). Il Signore lo dice a voi, e ve lo dice ora.
Sydney ha fatto riscoprire a molti giovani l’importanza dello Spirito Santo, nella nostra vita, nella vita del cristiano. Lo Spirito ci mette intimamente in rapporto con Dio, presso il quale si trova la sorgente d’ogni ricchezza umana autentica. Tutti voi cercate di amare e di essere amati! È verso Dio che voi dovete volgervi per imparare ad amare e per avere la forza di amare. Lo Spirito, che è Amore, può aprire i vostri cuori per ricevere il dono dell’amore autentico. Tutti voi cercate la verità e volete viverne, viverne realmente! Questa verità è Cristo. Egli è la sola Via, l’unica Verità e la vera Vita. Seguire Cristo significa veramente “prendere il largo”, come dicono diverse volte i Salmi. La strada della Verità è una e nello stesso tempo molteplice, secondo i diversi carismi, come la Verità è una e nello stesso tempo di una ricchezza inesauribile. Affidatevi allo Spirito Santo per scoprire Cristo. Lo Spirito è la guida necessaria per la preghiera, l’anima della nostra speranza e la sorgente della vera gioia.
Per approfondire queste verità di fede, vi incoraggio a meditare la grandezza del Sacramento della Confermazione che avete ricevuto e che vi introduce in una vita di fede adulta. È urgente comprendere sempre meglio questo sacramento per verificare la qualità e la profondità della vostra fede e per rafforzarla. Lo Spirito Santo vi fa avvicinare al Mistero di Dio e vi fa comprendere chi è Dio. Egli vi invita a vedere nel vostro prossimo il fratello che Dio vi ha donato per vivere in comunione con lui, umanamente e spiritualmente, per vivere nella Chiesa dunque. Nel rivelarvi chi è il Cristo morto e risuscitato per noi, Egli vi spinge a testimoniare. Voi siete nell’età della generosità. È urgente parlare di Cristo attorno a voi, alle vostre famiglie e ai vostri amici, nei vostri luoghi di studio, di lavoro o di divertimento.
Non abbiate paura! Abbiate “il coraggio di vivere il Vangelo e l’audacia di proclamarlo” (Messaggio ai giovani del mondo, 20 luglio 2007). Per questo io vi incoraggio a trovare le parole adatte per annunciare Dio intorno a voi, poggiando la vostra testimonianza sulla forza dello Spirito implorata nella preghiera. Portate la Buona Novella ai giovani della vostra età e anche agli altri. Essi conoscono le turbolenze degli affetti, la preoccupazione e l’incertezza di fronte al lavoro ed agli studi. Affrontano sofferenze e fanno l’esperienza di gioie uniche.
Rendete testimonianza di Dio, perché, in quanto giovani, voi fate pienamente parte della comunità cattolica in virtù del vostro battesimo e in ragione della comune professione di fede (cfr. Ef 4, 5). La Chiesa conta su di voi, ci tengo a dirvelo! In questo anno dedicato a san Paolo, vorrei affidarvi un secondo tesoro, che era al centro della vita di questo Apostolo affascinante: si tratta del mistero della Croce. Domenica, a Lourdes, celebrerò la festa della Croce Gloriosa unendomi ad innumerevoli pellegrini. Molti di voi portano al collo una catena con una croce. Anch’io ne porto una, come tutti i Vescovi del resto. Non è un ornamento, né un gioiello. È il simbolo prezioso della nostra fede, il segno visibile e materiale del legame con Cristo. San Paolo parla chiaramente della Croce all’inizio della sua Prima Lettera ai Corinzi. A Corinto, viveva una comunità agitata e turbolenta che era esposta ai pericoli della corruzione presente nell’ambiente. Questi pericoli sono simili a quelli che conosciamo oggigiorno. Non citerò che i seguenti: le discussioni e le contese all’interno della comunità dei credenti, la seduzione esercitata dalle pseudo-sapienze religiose o filosofiche, la superficialità della fede e la morale dissoluta. San Paolo inizia la sua lettera scrivendo: “La parola della Croce è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio” (1 Cor 1, 18). Poi l’Apostolo mostra l’opposizione singolare che esiste fra la sapienza e la follia, secondo Dio e secondo gli uomini.
Egli ne parla quando evoca la fondazione della Chiesa a Corinto e, poi, a proposito della propria
predicazione. Egli conclude insistendo sulla bellezza della sapienza di Dio che Cristo – e, sulle sue orme, i suoi Apostoli – sono venuti ad insegnare al mondo e ai cristiani. Questa sapienza, misteriosa e restata nascosta (cfr 1 Cor 2, 7), ci è stata rivelata dallo Spirito, perché “l’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito” (1 Cor 2, 14).
Lo Spirito apre all’intelligenza umana nuovi orizzonti che la superano e le fa capire che l’unica vera sapienza risiede nella grandezza di Cristo. Per i cristiani la Croce è simbolo della sapienza di Dio e del suo amore infinito rivelatosi nel dono salvifico di Cristo morto e risorto per la vita del mondo, per la vita di ciascuno e di ciascuna di voi in particolare. Possa questa scoperta sconvolgente di Dio che si è fatto uomo per amore invitarvi a rispettare e a venerare la Croce! Essa è non soltanto il segno della vostra vita in Dio e della vostra salvezza, ma è anche – voi lo comprendete – la testimone muta dei dolori degli uomini e, allo stesso tempo l’espressione unica e preziosa di tutte le loro speranze. Cari giovani, io so che venerare la Croce attira a volte la derisione e anche la persecuzione.
La Croce mette in questione in qualche modo la sicurezza umana, ma rende sicura, anche e soprattutto, la grazia di Dio e conferma la nostra salvezza. Questa sera, io vi affido la Croce di Cristo. Lo Spirito Santo ve ne farà comprendere i misteri d’amore e voi esclamerete allora con san Paolo: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella Croce del nostro Signore Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6, 14). Paolo aveva capito la parola di Gesù – apparentemente paradossale - secondo cui solo donando (“perdendo”) la propria vita la si può trovare (cfr Mc 8,35; Gv 12,24) e ne aveva concluso che la Croce esprime la legge fondamentale dell’amore, la formula perfetta della vera vita. Possa l’approfondimento del mistero della Croce far scoprire ad alcuni fra voi la chiamata a servire Cristo in maniera più totale nella vita sacerdotale o religiosa!
È tempo ora di cominciare la veglia di preghiera, per la quale vi siete raccolti stasera. Non dimenticate i due tesori che il Papa vi ha presentato stasera: lo Spirito Santo e la Croce! Vorrei, per concludere, dirvi ancora una volta che io conto su di voi, cari giovani, e desidererei che voi faceste esperienza oggi e domani della stima e dell’affetto della Chiesa, e il mondo vedrà così la Chiesa vivente! Che Dio vi accompagni ogni giorno e benedica voi insieme con le vostre famiglie e i vostri amici. Ben volentieri imparto a voi la Benedizione Apostolica, così come a tutti i giovani della Francia.

[Traduzione delle aggiunte a braccio a cura di ZENIT
© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


13/09/2008 10:56 Papa: Con Cristo, fuggite gli idoli, che alienano l’uomo
Davanti a circa 300 mila persone sulla spianata degli Invalides, Benedetto XVI propone l’eucaristia come modo per attingere al vero destino dell’uomo, tralasciando “il denaro, la sete del potere e dell’avere e persino del sapere”. L’invito ai giovani a scoprire la loro chiamata e a seguire il Cristo nel sacerdozio. Nel pomeriggio il pontefice si trasferisce a Lourdes.
Parigi (AsiaNews) – Con un totale capovolgimento della teoria marxista sulla religione “oppio dei popoli” e del razionalismo illuminista, sull’inutilità di Dio per la vita, Benedetto XVI ha rivendicato oggi che Cristo, l’eucarestia, la messa, aiutano l’uomo a liberarsi dagli “idoli” che, come nell’antico paganesimo “costituivano una potente alienazione e distoglievano l’uomo dal suo vero destino”. E proprio per liberare l’uomo dalla prigionia degli idoli, il papa ha invitato i giovani a seguire la chiamata alla vocazione sacerdotale e religiosa.
Al secondo giorno della sua visita in Francia, il pontefice ha celebrato la messa sulla spianata degli Invalides con quasi 300 mila persone: una presenza di popolo oltre ogni previsione, quasi a smentire tutte le teorie sulla secolarizzazione che domina la nazione, una volta chiamata “figlia primogenita della Chiesa”.
Nella sua omelia il papa ha commentato le letture della liturgia di san Giovanni Crisostomo, uno dei più grandi Padre della Chiesa del IV secolo, che ha lasciato opere di catechesi, liturgia e teologia ancora oggi vive in oriente e occidente.
Partendo dall’invito dell’apostolo Paolo sul “Fuggite l’idolatria” (1 Cor 10, 14), il pontefice spiega cosa sono gli idoli: “La parola ‘idolo’ deriva dal greco e significa ‘immagine’, ‘figura’, ‘rappresentazione’, ma anche ‘spettro’, ‘fantasma’, ‘vana apparenza’”. E aggiunge: “L’idolo è un inganno, perché distoglie dalla realtà chi lo serve per confinarlo nel regno dell’apparenza. Ora, non è questa una tentazione propria della nostra epoca, che è la sola sulla quale noi possiamo agire efficacemente? Tentazione d’idolatrare un passato che non esiste più, dimenticandone le carenze; tentazione d’idolatrare un futuro che non esiste ancora, credendo che l’uomo, con le sole sue forze, possa realizzare la felicità eterna sulla terra…. Il denaro, la sete dell’avere, del potere e persino del sapere non hanno forse distolto l’uomo dal suo Fine vero? ”.
Benedetto XVI ricorda che la condanna dell’idolatria è condanna del peccato, ma non del peccatore; anzi, l’uomo è chiamato alla verità e alla conversione; a scoprire Dio attraverso l’uso della ragione. Ma “come cercare Dio?”.
La “comunione al corpo di Cristo”, l’eucaristia è la via attraverso cui siamo aiutati a liberarci dagli idoli perché scopriamo il volto vero di Dio: “Milioni di volte da venti secoli, nella più umile delle cappelle come nella più grandiosa delle basiliche o delle cattedrali, il Signore risorto si è donato al suo popolo, divenendo così, secondo la formula di sant’Agostino, ‘più intimo a noi che noi medesimi’ (cfr Confess. III, 6.11)”. E ancora: “La Messa ci invita a discernere ciò che, in noi, obbedisce allo Spirito di Dio e ciò che, in noi, resta in ascolto dello spirito del male”; “Lui solo [il Cristo presente nell’eucaristia] ci insegna a fuggire gli idoli, miraggi del pensiero”.
L’urgenza di celebrare l’eucaristia come strumento di verità per i fedeli e per il mondo, spinge il papa a fare un appello ai giovani: “Non abbiate paura! Non abbiate paura di donare la vostra vita a Cristo! Niente rimpiazzerà mai il ministero dei sacerdoti nella vita della Chiesa. Niente rimpiazzerà mai una Messa per la salvezza del mondo! Cari giovani o meno giovani che mi ascoltate, non lasciate senza risposta la chiamata di Cristo”.
L’ultimo invito è alla missione, a comunicare la fede nella verità e nell’amore verso i nostri interlocutori: “Quando parliamo, cerchiamo noi il bene del nostro interlocutore? Quando pensiamo, cerchiamo di mettere il nostro pensiero in sintonia con il pensiero di Dio? Quando agiamo, cerchiamo di diffondere l’Amore che ci fa vivere?”.
E conclude: “Io vi affido, cari cristiani di Parigi e di Francia all’azione potente e misericordiosa del Dio d’amore che è morto per noi sulla Croce e risorto vittoriosamente al mattino di Pasqua. A tutti gli uomini di buona volontà che mi ascoltano, io ridico con san Paolo: Fuggite il culto degli idoli, non smettete di fare il bene! Che Dio nostro Padre vi attragga a sé e faccia brillare su di voi lo splendore della sua gloria!”.
E quasi a chiedere un impegno deciso dai fedeli, durante la messa vengono rinnovate le promesse battesimali, con la triplice domanda di rifiutare il male e Satana e credere nel Padre, nel Figlio e nello Spirito.
Nel pomeriggio il papa si trasferisce a Lourdes per celebrare il giubileo dei 150 anni delle apparizioni mariane a Bernadette Soubirous.


"Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui" - Due anni esatti dopo Ratisbona, un altro grande discorso di papa Joseph Ratzinger al mondo della cultura. A Parigi, al Collège des Bernardins, il 12 settembre 2008. Eccone il testo integrale di Benedetto XVI
Signor Cardinale, Signora Ministro della Cultura, Signor Sindaco, Signor Cancelliere dell’Institut de France, cari amici!

Grazie, Signor Cardinale, per le Sue parole gentili. Ci troviamo in un luogo storico, edificato dai figli di san Bernardo di Clairvaux e che il Suo predecessore, il compianto Cardinale Jean-Marie Lustiger, ha voluto come centro di dialogo tra la Sapienza cristiana e le correnti culturali intellettuali e artistiche dell’attuale società. Saluto in modo particolare la Signora Ministro della Cultura che rappresenta il Governo, così come i Signori Giscard d’Estaing e Chirac. Rivolgo ugualmente il mio saluto ai Ministri presenti, ai rappresentanti dell’Unesco, al Signor Sindaco di Parigi e a tutte le altre Autorità. Non voglio dimenticare i miei colleghi dell’Institut de France, i quali conoscono la considerazione che nutro nei loro confronti. Ringrazio il Principe de Broglie per le sua cordiali parole. Ci rivedremo domani mattina. Ringrazio i delegati della comunità musulmana francese per aver accettato di partecipare a questo incontro: rivolgo loro i miei migliori auguri per il ramadan in corso. Il mio caloroso saluto va ora naturalmente all’insieme del multiforme mondo della cultura, che voi, cari invitati, rappresentate così degnamente.

Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione. È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato? Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto?

Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: "quaerere Deum", cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. "Quaerere Deum": poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq: nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (cfr "L’amour des lettres et le desir de Dieu", p.14). Il desiderio di Dio, "le désir de Dieu", include "l’amour des lettres", l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una "dominici servitii schola". Il monastero serve alla "eruditio", alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola.

Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, é una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr At 2, 37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.35). Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, 'legere' e 'lectio' vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p. 21).

E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui. I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il "Gloria", che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il "Sanctus", che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229).

In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: "Coram angelis psallam Tibi, Domine" – davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella "regio dissimilitudinis". Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.

Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia, "Rotulus pugillaris", I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica.

Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole, che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea la storia. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per questo il Catechismo della Chiesa Cattolica con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità. Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.

Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6). E ancora: “Dove c’è lo Spirito… c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.

Nella considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto chiamava il monachesimo – abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l’ “ora”. E di fatto è a partire da ciò che viene determinata la direzione dell’insieme della vita monastica. Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano. Benedetto parla nella sua "Regola" non propriamente della scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo visto – in essa erano cose praticamente scontate. Parla però esplicitamente del lavoro (cfr cap. 48). Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro particolare. I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5, 17). Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.

Siamo partiti dall’osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il "quaerere Deum" – mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della prima lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3, 15) (Logos deve diventare apo-logia, la Parola deve diventare risposta). Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.

Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “ad extra” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità straniere” (At 17, 18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dèi ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano consiste in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. "Verbum caro factum est" (Gv 1, 14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.

La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. "Quaerere Deum" – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.


Intervista al regista Rezo Chkheidze - Curatore: Scalfi, P. Romano, Fonte: CulturaCattolica.it
venerdì 12 settembre 2008
L’energia dell’uomo deve muoversi nella stessa direzione dell’energia del Creatore
La prima mondiale del film “La candela dalla tomba del Signore” del regista georgiano Rezo Chkheidze fu presentata al cineforum “Il paladino d’oro”. Rezo nasce nel 1926 nella città di Kutausi. Il padre scrittore venne arrestato e fucilato nel 1937. Il suo film più famoso è considerato “Il padre del soldato” (1964); seguono “Tuo figlio, terra” (1980) e “La candela dalla tomba del Signore” ((2008). La strada dell’eroe dell’ultimo film che ha portato a piedi fino in Georgia una candela accesa il giorno di Pasqua alla tomba del Signore è anche la strada che il regista ha dovuto percorrere per più di sette anni per poter giungere alla proiezione del film.
(Si tenga presente che l’intervista è del 30 maggio 2008)
D. Rezo Davidovich il nuovo film georgiano – russo è venuto alla luce faticosamente …
R. Se i film tardano ad uscire non è per pigrizia, ma per mancanza di soldi.

D. Come giudica il diluvio di telefilm di massa e, in genere, la produzione cinematografica russa?
R. Attraverso la televisione il popolo dovrebbe crescere spiritualmente. L’impressione che si ottiene è terribile. Immaginiamo di rivedere fra 20 anni i film che vediamo oggi. Penso che la gente giudicherebbe che i registi dovrebbero essere processati. Se un nemico volesse farci del male non potrebbe scegliere qualche cosa di peggiore sia per lo stato che per il popolo di questi film.
Se leggiamo la nuova produzione letteraria occidentale, se guardiamo i film occidentali, troviamo del materiale serio, almeno in certi libri e in certi film. Da noi (nello spazio postsovietico) nell’arte domina l’aspetto commerciale. Nell’ambito della cinematografia e della televisione si è creata una situazione terribile. Sembra che tutto sia a livello del mondo animale.

D. E’ possibile cambiare la situazione?
R. Il mondo ha bisogno di essere risanato. Intendo dire il mondo come sistema di vita. Intere generazioni russe del passato possedevano nel loro carattere una tipica caratteristica che si esprimeva in un sentimento particolare verso la Patria, un sentimento di amore che troviamo per esempio in Pushkin e Tolstoj. Ora nell’arte si nota un disinteresse per i problemi etici, fondamentali per impostare la vita.
Sta nelle forze dell’arte autentica il saper risanare l’anima umana. Il globo terrestre è fatto in modo che gli uomini, con i loro peccati, possano affrettarne la fine; ma nello stesso tempo gli uomini sono in grado di sistemare benevolmente ogni situazione. In questo ultimo caso l’iceberg si ritira.

D. Come è nato il film “La candela dalla tomba del Signore”?
R. Un amico mi portò il racconto dello scrittore svedese S. Lagerlef. E noi abbiamo subito incominciato a preparare lo scenario. In verità nella fonte letteraria l’azione si svolge nella Firenze del secolo XII, mentre noi l’abbiamo trasferita nella Georgia d’oggi. Nell’originale il cavaliere porta la candela accesa dalla Terra Santa, nella nostra versione l’attore va al Festival del cinema a Gerusalemme lui pure accende la candela alla tomba del Signore.
C’è Dio, c’è l’uomo e c’è anche la terra. Spesso accade che la volontà di Dio non sia completamente conosciuta dall’uomo e da tutto il popolo. Dobbiamo tendere alla sinergia fra l’uomo e Dio. E questo succede quando l’energia dell’uomo e l’energia di Dio si muovono verso la stessa direzione. Quando questo accade si ottiene una grande vittoria.
Secondo il mio parere la tragedia di Stalin sta nel fatto che egli diresse la sua colossale energia contro la volontà di Dio. Lo stesso vale per la sconfitta della Germania nella seconda guerra mondiale. La loro perversa idea fin dall’inizio era destinata al fallimento perché era contro Dio.
Ho voluto presentare questa lotta del bene contro il male nel film “La candela dalla tomba del Signore”. L’eroe principale e l’eroina sono persone giovani che iniziano la loro vita. Il loro primo incontro e il manifestarsi di una reciproca simpatia avviene fra le impalcature di una chiesa che intendono restaurare. Mi sono servito del restauro per inculcare l’idea del rinnovamento, della trasfigurazione. Le riprese furono fatte nel villaggio di Timotesubani dove esiste una chiesa del secolo XII, mentre il deserto lo abbiamo ripreso in Egitto.
Il nostro film è un racconto, una parabola. L’eroe si chiama Luka Bagrationi, nome che appartiene alla dinastia imperiale. Alla Georgia si pone il problema di fondo: l’unica vera via. A me sembra che questa via sia la monarchia costituzionale. Penso che il popolo scelga questa via. La Russia è un paese ortodosso e noi dobbiamo trovare su questa comune base un’affinità più profonda.
Quando nel film si spegne la candela del nostro eroe ed egli non sa che fare per conservare il fuoco, improvvisamente si ode l’inno di Pasqua: la processione pasquale prende inizio da una chiesa russa. Persone di diversa provenienza si raccolgono attorno a Luka e gli offrono le proprie candele …

D. Georgiani e russi nel film si incontrano con buone intenzioni …
R. In Georgia ci fu una certa donna russa, Eka Privalova, che si occupava di restauro, proveniva dallo Studio scientifico degli affreschi georgiani. Il suo prototipo nel film è Lidija Fedoseeva Pushkina.

D. I rapporti fra russi e georgiani si debilitano a causa dei contrasti politici?
R. I rapporti con i russi non sono mutati. El’dar Rjazanov è andato recentemente in Georgia. E’ un grande artista. Lo riconobbero per strada, lo abbracciarono. L’arte russa è tenuta in grande stima dai georgiani. Nei russi c’è un aspetto di cui voi non vi date conto: i russi, voi, siete un popolo che non ama star seduto e dirigere. Molti russi di valore vissero in Russia come sconosciuti. L’uomo russo, nella città georgiana, occupava un posto umile e tranquillo … La letteratura russa ed il teatro sono molto amati … Ma, devo dirlo, cresce fra noi una certa mentalità che neppure voi potete vivere senza la Georgia.


STORIA/ Eugenio Corti: quei soldati che salvarono la libertà - INT Eugenio Corti - sabato 13 settembre 2008
Ha quasi novant'anni, uno spirito prontissimo, una memoria di ferro, un'enorme gioia di vivere e uno sguardo positivo su tutte le cose, lui, Eugenio Corti, che, tornato dalla ritirata di Russia, si arruolò volontario nel Regio Esercito per cacciare i nazisti dalla sua patria. Scrittore letto e tradotto in Europa, Russia e Stati Uniti, è famoso soprattutto per la sua opera principale, Il Cavallo Rosso. Oggi, a pochi giorni dall'anniversario dell'8 settembre, ci racconta il proprio pensiero sia in merito agli immancabili e numerosi dibattiti sorti per l'occasione sia sui nuovi rischi ideologici che attraversano questa nuova Europa.
Professor Corti, perché la sua opera risulta ancora essere così straordinariamente attuale?
Ho ambientato il mio romanzo più importante nella parte principale del XX secolo, che è il mio secolo. Le vicende narrate occupano uno spazio di circa un terzo del periodo, ossia dal '40 al '75, anno del referendum sul divorzio che ha segnato un grande cambiamento legislativo per quel che concerne il costume in Italia. Ma più ampiamente, nel tempo, si sono visti i risultati di una tendenza ideologica da me descritta. Il mio lavoro avrebbe dovuto essere addirittura, secondo il critico inglese Richard Brown, il “romanzo spartiacque” per la giusta comprensione del XX secolo.
Qual è la chiave di lettura che ha conferito questo eccezionale taglio al suo romanzo?
Ne Il Cavallo Rosso descrivo le cose secondo la concezione di Agostino d'Ippona il quale afferma che nella costruzione delle società c'è un alternarsi continuo della “città terrena” e della “città di Dio”.
In sostanza tutto il gioco della storia, secondo Agostino, si alterna tra chi nell'organizzazione della vita degli uomini fa spazio a Dio e chi no. Chi non fa spazio a Dio, anche se le sue intenzioni sono buone, segue il Principe di questo mondo, il Demonio.
Ho visto nel ventesimo secolo, nel mio secolo, perché quando questo è finito compivo 80 anni, la riprova di questa concezione. L'esperienza centrale di quel secolo è stata segnata dal tentativo dell'affermazione di due città terrene e contrapposte: il nazismo da una parte e il comunismo dall'altra. Si tratta di due concezioni assolutamente imparentate fra di loro, perché al fondo derivavano dagli stessi principi teorici.
Quindi si può dire che il suo “vate” è niente meno che Sant'Agostino. Ma nella sua vita può dire di aver fatto esperienza anche della “città celeste”?
Sì, il ritorno della “città celeste” l'ho visto. Dopo la guerra la gente era macerata interiormente e affidò la ricostruzione a uomini politici di impostazione cristiana, Adenauer, ma soprattutto Shuman e De Gasperi. Furono i principali indirizzatori politici del dopoguerra, che hanno dato il via alla ricostruzione non solo materiale, ma anche spirituale dell'Europa. Con gli orrori della guerra il livello morale dell'uomo si era stato molto abbassato, era stata raggiunta un'abiezione indescrivibile con conseguenze sociali inenarrabili. Questi politici avviarono l'Europa futura. E, a ben vedere, la buona radice di questa Europa la si scorge nel fatto che ha trascorso il più lungo periodo della propria storia senza una guerra. Ma adesso ha preso piede, purtroppo, la costruzione di una città terrena, sempre di natura ideologica, sebbene più nascosta e strisciante, dove la droga, intesa in molti sensi, sostituisce l'ideale e l'aborto rappresenta le stesse stragi di natura eugenetica protratte dalle ideologie del secolo passato.
Come mai, soprattutto nei primi tempi, si scontrò e continua a imbattersi contro così tante difficoltà per ottenere la pubblicazione dei suoi scritti?
I miei libri non sono accettati dalla cultura dominante attuale, perché io ne faccio una critica molto forte. Accuso il mondo di oggi, attraverso i miei scritti, di essere l'erede di quello passato. E accuso gran parte di coloro che furono miei contemporanei di indifferenza nei confronti di quanto accadeva al di là della cortina di ferro. Se in un certo qual modo sono una vittima però, per fortuna, non mi è capitata la stessa sorte di coloro che vivevano sotto il sistema leninista dell'eliminazione fisica. Adesso la morte è “gramsciana”, è una morte sociale, vengo escluso dalla grande stampa, dai premi letterari, sono tagliato fuori e isolato in quel modo. Ringraziando il Cielo a noi “dissidenti” non ci ammazzano più fisicamente, ma cercano di soffocarci. Fortunatamente un po' di efficacia si ha lo stesso perché i lettori ci sono e ancora fanno traduzioni e vendono i miei libri.
Qual è la sua opinione in merito ai recenti dibattiti sull'8 settembre e, più in generale, sul dopoguerra?
Adesso finalmente vedo in corso giusti episodi di revisionismo. Secondo me sarebbe opportuna anche un'analisi approfondita del comportamento di molti fascisti verso gli ebrei. Non che voglia rinnegare le leggi razziali in Italia o rivalutare gli orrori del fascismo, ma non per questo paragonerei l'odio antisemita, tipico del nazionalsocialismo, ai fondamenti ideologici fascisti, che con la razza avevano ben poco a che fare. Semmai, si rifacevano al mito di Roma, un impero, si sa, multietnico per natura.
Quando occupammo la Francia del sud, un piccolissimo territorio perché nell'occasione, come in quasi tutta la seconda guerra mondiale, non facemmo una grande figura sotto il profilo militare, furono migliaia gli ebrei francesi a trasferirsi sotto il nostro controllo. Questo perché non ci interessava spedirli nei campi di concentramento. Ma, al di là di questo giudizio, la mia opinione è che nei dibattiti storici attuali sia ancora forte la spinta ideologica da entrambe le parti, il che lascia poco spazio per la piena comprensione di quanto accadde e dell'atteggiamento di alcuni protagonisti dell'epoca.
E che cosa ne pensa del monopolio culturale che i partigiani hanno effettuato sulla Resistenza e la liberazione, ignorando, ad esempio, i soldati italiani che si batterono a fianco degli alleati?
Questa invece è davvero una sconcezza penosa! I soldati italiani che hanno combattuto contro i tedeschi e i fascisti in Italia sono stati numerosi quanto i partigiani. Anzi questi ultimi cominciarono ad essere un migliaio, poi si accrebbero e, con la liberazione, tutti si proclamarono partigiani.
La storia dei soldati del re, soldati italiani a sud che liberarono il nord, è stata totalmente ignorata per fare posto al mito dei partigiani. È un'ingiustizia vera e propria, perché facemmo le stesse ore di combattimento e subimmo le stesse perdite, se non di più. Inoltre tutti pensano ai soldati come dei professionisti obbligati a combattere. In quel caso invece si trattò di una libera scelta fatta da migliaia di giovani dopo l'armistizio dell'8 settembre. Non è che fossimo più buoni, ma semplicemente avevamo l'idea che bisognava tornare a casa e per farlo dovevamo cacciare via i tedeschi. Ma il nostro modo di agire e di pensare reincarnava il modo di sentire di tutta la nazione. Ogni volta che la gente ci accoglieva ci chiamavano i “nostri”, i veri “nostri”. Eravamo diversi dai tedeschi e dagli alleati. Quanto accadde poi in Italia è simile a quello che avvenne con partigiani greci. Ossia, dopo la guerra, i partigiani occuparono tutte le posizioni politiche e sociali divenendo i padroni della vita civile di ogni paese.
Col passare degli anni crebbe il risentimento dei soldati che combatterono per la libertà e che videro svilupparsi una mentalità che acclamava solo una parte di coloro che si erano battuti.
Più o meno lo stesso risentimento dei reduci del Vietnam rispetto ai militanti che fecero il '68 rimanendosene comodamente in America?
Esattamente lo stesso tipo di ingiustizia e lo stesso tipo di rabbia. Il mondo va avanti così, funziona sempre in questo modo, anche se il bene e la verità alla lunga prevalgono.
Tutta questa realtà l'ho descritta nei miei romanzi. E Il Cavallo Rosso finisce negli anni settanta proprio allo scopo di descrivere l'insorgere di questo nuovo tipo di ideologia moderna di cui ho parlato prima. Ci fu il miracolo economico, ci furono grandi segnali di ripresa in Italia e in tutto il mondo, ma già allora cominciavano a profilarsi questi altri tipi di discriminazione verso quei modi giusti di intendere la vita che anticipavano questa epoca.


«La ragione è uno dei nomi di Dio» Jean-Luc Marion: conoscere Dio è già un atto di fede nella razionalità, Avvenire, 13 settembre 2008

C’è una parte del discorso che l’ha colpita particolarmente?
Mi è piaciuta l’intera dimostrazione e non una singola parte. La forza della logica che regge tutta la dimostrazione del Papa.
Una cultura senza ricerca di Dio corrisponde a una capitolazione della ragione, ha detto Benedetto XVI. Cosa pensa di quest’analisi?
Mi pare un’analisi profonda e assolutamente vera. In un certo senso, si tratta di una diagnosi quasi nicciana della morte di Dio e della crisi della razionalità nelle sue accezioni più contemporanee.
Credo che il Papa abbia voluto dare una lezione di razionalità nel senso più forte del termine.
Il Papa ha anche parlato delle sfide poste oggi da un certo arbitrio e dal fanatismo…
Sì, per affrontare il tema dell’ambiguità dell’espressione religiosa nei testi sacri.
Una concezione del testo letterale come autorità assoluta conduce in modo evidente al fanatismo o all’irrazionalismo soggettivo. Il testo sacro diventa un’espressione della ragione quando incontra la dimensione dello spirito. La libertà, poi, non corrisponde a poter dire ciò che si vuole, ma a poter accrescere la propria intelligenza nello spirito.
A fare da contesto al discorso del Papa è anche una laicità alla francese che pare in lenta mutazione. Vede segnali incoraggianti, accanto alle recenti dichiarazioni dell’Eliseo?
È difficile dirlo. In ogni caso, la prosecuzione di un autentico dialogo è l’obiettivo della stessa riapertura del Collegio dei Bernardini nel cuore di Parigi. Esiste qualche segnale incoraggiante, è vero, ma in Francia ci sono ancora anche tanti anticlericali puri e duri. Permane un conflitto latente.
«Una concezione letterale del testo sacro come autorità assoluta conduce in modo evidente al fanatismo Deve incontrare invece la dimensione dello spirito»