mercoledì 17 settembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) L'Onu dice che entro due anni l'Iran avrà l'atomica, Israele sarà costretto a intervenire e il mondo fa finta di non vedere, di Magdi Cristiano Allam
2) 17/09/2008 09:15 – CINA - Tre morti e oltre 6 mila neonati colpiti dal latte avvelenato - Inquisite 22 ditte produttrici. Alcune di queste hanno esportato in Asia e Africa. Moilti bambini malati di gravi insufficienze renali. Il numero è destinato a salire. Bloccata la vendita del latte in polvere nel Paese, migliaia di genitori volano a Hong Kong per comprare marche estere.
3) 16/09/2008 15:23 – VATICANO - Mons. Ravasi, superare la diffidenza tra evoluzionismo e teologia - Presentato in Vaticano un convegno internazionale che si propone di esaminare l’opera di Darwin scientificamente, eliminando quel contesto ideologico tra “evoluzionisti” e “creazionisti” che oggi la segna e la diffidenza tra darwinismo e teologia.
4) Parsi: Sharia in Inghilterra e razzismo in Italia, che succede al processo di integrazione? - INT. Vittorio Emanuele Parsi - martedì 16 settembre 2008
5) Allam: una vera integrazione presuppone il recupero delle nostre radici - INT. Magdi Cristiano Allam - mercoledì 17 settembre 2008
6) Milano e i mistificatori di professione - Giorgio Vittadini - mercoledì 17 settembre 2008
7) Ideologia nazi-comunista nella seconda guerra mondiale di Robert A. Graham S.I. - Nazismo e comunismo: due ideologie anticristiane. La seconda guerra mondiale come conflitto ideologico e guerra di religione nell'analisi di un grande storico gesuita.
8) UE, MAURO: "PROGETTO MHADIE DIMOSTRA CHE SI PUÒ ARRIVARE A UNIFORMITÀ DI DATI E INFORMAZIONI SULLA DISABILITÀ
9) ETICA E GIUSTIZIA - È stato respinto il ricorso di un testimone di Geova che voleva essere risarcito per essere stato sottoposto a trasfusione salvavita nonostante avesse un cartellino con scritto «no sangue» - «Cure, il rifiuto non può essere preventivo» - La Cassazione: ci vuole sempre consenso (o dissenso) informato e attuale, Avvenire, 17 settembre 2008
10) INIZIATIVA DELLA PROVINCIA di Milano - Famiglie numerose: arriva la carta degli sconti - Ribassi fino al 10% su generi alimentari carburante e farmaci, Avvenire 17 settembre 2008

L'Onu dice che entro due anni l'Iran avrà l'atomica, Israele sarà costretto a intervenire e il mondo fa finta di non vedere
Dobbiamo prendere atto che il nostro mondo è certamente irresponsabile e quantomeno incosciente per il fatto che ci troviamo a un passo da una nuova catastrofe planetaria, a causa dell’inevitabilità di un attacco militare israeliano contro le centrali nucleari iraniane, anche se il conflitto continua ad essere trattato con il distacco di una questione di ordinaria amministrazione.
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
Dobbiamo prendere atto che il nostro mondo è certamente irresponsabile e quantomeno incosciente per il fatto che ci troviamo a un passo da una nuova catastrofe planetaria, a causa dell’inevitabilità di un attacco militare israeliano contro le centrali nucleari iraniane, anche se il conflitto continua ad essere trattato con il distacco di una questione di ordinaria amministrazione. Nel suo più recente rapporto l’Aiea, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, attesta che l’Iran prosegue indefessa nella produzione della bomba atomica e che il traguardo potrebbe essere raggiunto entro due anni. Stiamo parlando di un regime nazi-islamico che, per bocca del suo presidente Ahmadinejad, ha reiterato la volontà di annientare fisicamente Israele. Va da se che Israele mai e poi mai potrà permettere che l’Iran disponga della bomba atomica, nella consapevolezza che ciò si tradurrebbe nella sua fine e nel nuovo Olocausto del popolo ebraico. Ecco perché Israele non ha scelta: è costretto a colpire le centrali nucleari iraniane appena possibile.
E’ la stessa Aiea a suonare l’allarme in un rapporto reso noto questo lunedì 15 settembre: “Contrariamente alle richieste del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’Iran non ha sospeso l’arricchimento dell’uranio e le attività correlate”. Si specifica che l’Iran ha già installato 3.820 centrifughe per l’arricchimento dell’uranio ed altre 2.000 sono in fase di installazione. L’Onu denuncia, al paragrafo 17, punto D del rapporto, che l’Iran ha condotto un esperimento su “cariche esplosive emisferiche con l’assistenza di esperti stranieri”. E’ stato accertato che l’Iran dispone già di 480 chili di uranio impoverito e che, disponendo di altri 1.700 chili, potrebbe arricchirlo e costruire l’arma atomica. Una fonte dell’Onu ha ammesso che l’Iran è in grado di avere la bomba atomica in due anni. Chiarendo che a causa della mancanza di collaborazione dell’Iran, l’inchiesta dell’Onu “è arrivata un punto morto”, rafforzando la tesi sulla finalità militare del nucleare iraniano.
Dal canto suo Israele ha intensificato la sua preparazione militare. Il Pentagono ha annunciato, lo scorso 12 settembre, la vendita ad Israele di 1.000 bombe Gbu 39, del valore di circa 77 milioni di dollari. Si tratta di bombe intelligenti che, pur pesando solo 113 chili, sono in grado di penetrare i più protetti bunker sotterranei avendo la stessa efficacia di una bomba da una tonnellata con un sistema di guida che garantisce un raggio d’errore non superiore agli 8 metri. Si sa che le centrali nucleari iraniane sono state costruite in profondità.
Le Nazioni Unite ostentano neutralità, impiegando alternativamente più carota che bastone con il regime nazi-islamico iraniano, pur di non irritare nessuno all’interno di un consesso mondiale che sopravvive all’insegna del “volemose bene”, tentando di far coesistere tutto e il contrario di tutto.
Gli Stati Uniti d’America sono paralizzati tra l’impotenza dell’amministrazione Bush che è riuscita a recuperare in extremis una qualche credibilità in Iraq grazie alla sostanziale sconfitta di Al Qaeda, ma si è ritrovata subito in difficoltà in Afghanistan e in Pakistan dove la centrale del terrorismo islamico globalizzato ha mobilitato le sue forze, e tra le imminenti elezioni presidenziali di novembre che potrebbero, con l’eventuale vittoria di Barack Obama, accelerare la crisi del mondo unipolare emerso all’indomani del crollo del Muro di Berlino e mettere in moto una deflagrazione multipolare dalle conseguenze imprevedibili.
L’Europa dà spettacolo di funambolismo per inseguire gli appetiti implacabili del dio denaro a cui si prostra un colosso di materialità dai piedi d’argilla che ha rinnegato e perso la sua spiritualità, tentando disperatamente di salvaguardare quel che resta di moralità in una civiltà in inesorabile declino.
Il resto del mondo persegue, ciascuno per proprio conto, i rispettivi interessi in un contesto in cui prevalgono il caos economico e l’incertezza politica, al punto da favorire la sottovalutazione o la strumentalizzazione del conflitto israelo-iraniano per influenzare arbitrariamente l’opinione pubblica.
In generale si fa finta di non vedere e di non capire la reale portata di un conflitto che potrebbe far deflagrare la terza guerra mondiale, dal momento che nel mirino ci sono delle centrali nucleari e che non si può del tutto escludere l’uso diretto della bomba atomica. Molti in cuor loro auspicano che Israele faccia da sola il “gioco sporco”, riservandosi la possibilità di condannarlo pubblicamente, pur condividendo pienamente l’obiettivo di eliminare la minaccia di un regime islamico fanatico sul piano ideologico, autoritario sul piano interno e bellicoso sul piano internazionale. Questo è certamente il caso dei ricchi paesi petroliferi arabi dirimpettai dell’Iran nel Golfo Persico, che sono consapevoli che il regime degli ayatollah rappresenta la principale minaccia alla loro sicurezza e stabilità, ma mai e poi mai potranno schierarsi pubblicamente dalla parte di Israele.
Ma noi, uomini e donne liberi e di buona volontà che non siamo succubi di nessuno e di alcunché, non possiamo continuare a restare silenti e inerti. Perché in questo caso il silenzio equivale alla connivenza e l’inerzia equivale alla complicità. Quando in gioco c’è l’affermazione e la difesa del valore fondante della nostra umanità, la sacralità della vita che oggi più che mai sulla scena internazionale si identifica nel riconoscimento e nella salvaguardia del diritto all’esistenza di Israele, noi dobbiamo essere in prima linea a favore della vita e contro chi deliberatamente nega la vita. Impegniamoci con tutti gli strumenti umani e civili di cui disponiamo. Documentiamoci seriamente per conoscere e diffondere la verità che corrisponde alla corretta rappresentazione della realtà, senza mistificazione e strumentalizzazione ideologica. Eleviamo la nostra voce contro i nuovi nazisti islamici che vorrebbero imporci la tirannide e l’oscurantismo. Denunciamo e ribelliamoci alla pavidità, all’ingenuità, al buonismo e alla collusione ideologica di un’Europa serva del dio denaro e di un’America dal fiato corto che pur di salvarsi dai terroristi tagliagola si è arresa ai terroristi taglialingua.
Cari amici, vi saluto con la convinzione che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo che considerino centrali i valori e le regole, della conoscenza oggettiva, della comunicazione responsabile, della sacralità della vita, della dignità della persona, dei diritti e doveri, della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse generale, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi e successi ed un mondo di bene.
Magdi Cristiano Allam


17/09/2008 09:15 – CINA - Tre morti e oltre 6 mila neonati colpiti dal latte avvelenato - Inquisite 22 ditte produttrici. Alcune di queste hanno esportato in Asia e Africa. Moilti bambini malati di gravi insufficienze renali. Il numero è destinato a salire. Bloccata la vendita del latte in polvere nel Paese, migliaia di genitori volano a Hong Kong per comprare marche estere.

Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Melamina è stata trovata nel latte in polvere di 22 ditte cinesi dopo controlli approfonditi, ha detto oggi Li Changjiang, capo degli ispettori per la sicurezza e la qualità alimentare. Un terzo bambino è morto, nel Zhejiang, e il ministro per la Salute Chen Zhu parla di 6.244 malati accertati per avere bevuto il latte, 1.327 sono ricoverati in ospedale e 158 hanno “insufficienze renali acute”. Ma si prevede che il numero aumenti, perché le analisi sono ancora in corso e la malattia può manifestarsi anche dopo tempo. Molti dei bambini ricoverati sono in condizioni “gravi”: hanno grandi difficoltà ad urinare e vomitano.
Le analisi svolte su 109 ditte casearie nell’intera Nazione hanno trovato melamina nel latte in polvere di 22 ditte: è una sostanza velenosa per l’uomo usata per produrre plastica e colla. La sua molecola è simile a quella delle proteine e, dopo che il latte è stato allungato con acqua, può farlo sembrare ricco di sostanze nutritive, così da superare controlli non approfonditi sulla qualità. Ora è stata bloccata la vendita del prodotto e migliaia di genitori della Cina meridionale volano a Hong Kong per comprare latte che sperano più sicuro.
Lo scandalo ha colpito la settimana scorsa la ditta leader Sanlu, che si è difesa accusando i fornitori di latte. Il governo ha messo sotto accusa 4 funzionari di Shijianzhuang, capitale dell’Hebei e sede della ditta, accusati di avere avuto notizia della contraffazione sin dal 2 agosto, ma di averla “coperta” durante il periodo olimpico informandone il governatore dell’Hebei solo l’8 settembre. Ma ora sono coinvolte anche ditte come la Yili della Mongolia Interna, una degli sponsor delle Olimpiadi; la Mengniu, quotata sulla borsa di Hong Kong; la Guangdong Yashili Group e la Qingdao Suncare Co. Ltd che esportano il loro latte in Yemen, Bangladesh, Myanmar, Gabon e Burundi. I prodotti esportati sono stati richiamati, anche se gli ispettori dicono che nei campioni per l’esportazione non è stata trovata melamina.
La Cina è il secondo produttore mondiale di latte in polvere per bambini e la Sanlu da 15 anni è la ditta leader che da sola nel 2007 ha coperto il 18,3% della produzione cinese. Per il 43% è di proprietà della multinazionale neozelandese Fonterra, che ha informato della vicenda il premier Helen Clark, che ha a sua volta informato il governo cinese. Pechino si è mossa solo dopo le pressioni neo-zelandesi.
L'ispettore capo Li Changjiang spiega che “gli standard cinesi di sicurezza [alimentare]… non comprendono controlli su ogni sostanza tossica, perché non è stata finora considerata la possibilità che simili sostanze [come la melamina] fossero aggiunte. Includeremo anche controlli sulla tossicità”.
Esperti osservano come questa situazione può causare grande allarme sulla sicurezza alimentare anche di altri prodotti.


16/09/2008 15:23 – VATICANO - Mons. Ravasi, superare la diffidenza tra evoluzionismo e teologia - Presentato in Vaticano un convegno internazionale che si propone di esaminare l’opera di Darwin scientificamente, eliminando quel contesto ideologico tra “evoluzionisti” e “creazionisti” che oggi la segna e la diffidenza tra darwinismo e teologia.

Città del Vaticano (AsiaNews) - Non c’è “incompatibilità a priori” tra la teoria dell'evoluzione, l’insegnamento biblico e la teologia, c’è però bisogno di fare “chiarezza”, a 150 anni dalla pubblicazione, sull’opera di Charles Darwin, che oggi “viene ancora troppo spesso discussa più in chiave ideologica che non scientifica”, ingenerando confusioni, fino alla opposizione frontale fra “evoluzionismo” e “creazionismo”, presente soprattutto nel mondo americano.
Questo l’obiettivo che si pone il convegno internazionale "Biological Evolution: Facts and Theories. A Critical Appraisal 150 years after ‘The Origin of Species’", che si terrà a Roma dal 3 al 7 marzo 2009, organizzato congiuntamente dalla Pontificia università Gregoriana e dalla Notre Dame University (Indiana, USA), sotto il patrocinio del Pontificio consiglio della cultura nell’ambito del progetto STOQ (Science, Theology and the ontological Quest), e che è stato presentato oggi in Vaticano.
La Chiesa cattolica è molto interessata a tale questione. Essa, peraltro, non ha mai condannato l’opera di Darwin e molti papi, fin da Pio XII hanno affermato che l’evoluzionismo non è in contrasto con la fede. Anzi, mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura (nella foto), ha sottolineato oggi il discorso che Giovanni Paolo II fece nel 1996 alla Pontificia accademia delle scienze, nel quale affermava che l’evoluzione si presenta “non più come mera ipotesi”, ma come “teoria che si è progressivamente imposta all’attenzione dei ricercatori a seguito di scoperte fatte in diverse discipline”.
Di qui, ha aggiunto il presidente del Pontificio consiglio, l’importanza del confronto tra evoluzione e teologia, che devono superare la reciproca diffidenza. Questo confronto, ha aggiunto, è diventato come un “emblema” del rapporto tra scienza e fede. “Il convegno - ha concluso - cerca di intrecciare in armonia parte scientifica con parte filosofica e teologica, in un ascolto reciproco”.
Tra i partecipanti dell'incontro ci saranno scienziati di ogni fede e anche non credenti, filosofi e teologi, cattolici e protestanti. Non ci saranno invece esponenti dell'“Intelligent Design”. Si tratta, come ha spiegato p. Marc Leclerc, docente di filosofia della natura alla Gregoriana, di coloro che, soprattutto negli Usa, hanno “contribuito” alla attuale “confusione”, perché, “pur ammettendo il fatto massiccio dell'evoluzione delle specie, intende fare leve sulle insufficienze della teoria neodarwiniana per proporsi in qualche modo in spiegazione alternativa, allo stesso livello: come se solo il ‘disegno intelligente’ di Dio potesse spiegare i processi dell'evoluzione”. In questo modo, si arriva a confondere i “due piani distinti” della “finalità” e del “meccanismo”.
D’altro canto, come ha evidenziato Gennaro Auletta, direttore scientifico del progetto STOQ e docente di Filosofia della scienza alla Gregoriana, “un confronto sulla cruciale questione dell’evoluzione, tra scienziati, filosofi e teologi, non è una cosa del tutto irrilevante, e perfino coloro che usano la teoria dell’evoluzione in chiave anti-religiosa e anti-umanistica, proprio nel fare questo, dovrebbero riconoscerlo”.


Parsi: Sharia in Inghilterra e razzismo in Italia, che succede al processo di integrazione? - INT. Vittorio Emanuele Parsi - IlSussidiario.net - martedì 16 settembre 2008
Giudici islamici possono sentenziare in Inghilterra secondo la sharia. Questa è la notizia diffusasi da poco tempo, ma a quanto pare relativa a una pratica già in corso dal 2007. Secondo l'Arbitration Act, infatti, si può attribuire agli arbitrati valore legale se entrambe le parti di una disputa attribuiscono al giudice il potere di emanare una sentenza nel loro caso. In base a questa norma il giudizio di una corte islamica risulta valido a tutti gli effetti. Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali all'Università Cattolica di Milano, spiega di che cosa si tratta
Professor Parsi, qual è la portata di un simile provvedimento?
Da quello che so io il provvedimento inglese recepisce sentenze di tribunali islamici per quel che riguarda il diritto di famiglia nelle relazioni tra musulmani come un matrimonio oppure questioni di eredità. Quindi è una normativa collocata nell'ambito degli “arbitrati”. Se due persone vorranno essere sottoposte a un arbitrato in base a queste norme, e se le norme non contravvengono ai diritti fondamentali sanciti da quella che si può definire impropriamente “la costituzione di Inghilterra”, saranno libere di procedere in tal modo. Questo è il senso di quanto hanno deciso gli inglesi. Non hanno certamente stabilito che la sharia vale quanto la Magna Charta. L'arbitrato fra le questioni private come il matrimonio può essere raggiunto anche se stabilito da un tribunale islamico che in questo caso è equiparato a una corte arbitrale a tutti gli effetti.
Si può dire che questa concessione è legata al fatto che i cittadini musulmani concepiscono il diritto come connaturato alla religione?
Questo può darsi, anzi in un certo qual senso è proprio così.
Già definire una legge “islamica” vuol dire entrare in una dimensione religiosa. Occorre anche precisare che in Inghilterra esiste un sistema di common law che per alcuni aspetti è ancora più stratificato di quello vigente negli Stati Uniti o nel Canada. In poche parole il concetto è: se esiste una cospicua parte di cittadini britannici che sono appartenenti al credo musulmano, tutto quello che possiamo realizzare giuridicamente per integrare nella nostra società quella comunità è da farsi. Per il sistema giuridico italiano questa operazione sarebbe impensabile perché implicherebbe una complicazione enorme.
Qual è l'impatto che un tale modo di procedere potrebbe avere a livello di diritto europeo?
Il sistema continentale, il cosiddetto Civil Law, è sicuramente più rigido da questo punto di vista. Quanto detto per l'Italia vale più o meno per tutto il continente. Noi europei continentali abbiamo un sistema di fonti gerarchiche in cui la legge emana dei codici relativi che non si rintracciano nel tessuto sociale e, soprattutto, nei quali il matrimonio non è principalmente inteso come un contratto. Per poter giungere a trattare il matrimonio come un arbitrato occorre partire dal principio che il matrimonio è sostanzialmente un contratto fra due adulti consenzienti, e poi definire i contenuti di tale contratto.
Il paradosso è che in nome di una visione molto secolare dell'istituto matrimoniale, come quella che si ha nel Common Law, si è in grado di immettere come possibile fonte di regolamentazione interna dei rapporti, una legge religiosa. Quindi la religione in questo caso c'entra, ma se rientra nel diritto lo può fare perché la sua rilevanza religiosa è fondamentalmente derubricata al massimo livello, totalmente svilita nella sostanza.
Il problema di una giusta integrazione rimane di forte attualità. Purtroppo questo è spesso collegato a gravi fatti, come quello recentemente avvenuto a Milano dove un cittadino italiano di colore è stato ucciso a sprangate. Come vede l'evolversi della situazione da noi?
So ancora molto poco sui fatti e sull'innesco della dinamica. Qualunque cosa avesse fatto il ragazzo che è morto sicuramente non giustificava il suo omicidio. C'è un problema generale di integrazione nella società italiana, questo è vero, ma non riguarda solo la nostra nazione. La presenza di persone che appartengono a culture che vengono classificate come troppo “diverse” provoca inevitabilmente uno stress nei meccanismi di integrazione. Ma c'è un secondo elemento. E questo è relativo non soltanto alla questione della sicurezza, che è stata tirata in ballo forse un po' troppo, bensì alla diffusa sensazione di impunità. Il problema è che ci sono violazioni di norme che di fatto non producono sanzioni.
Ad esempio qualche giorno fa un signore di sessant'anni ubriaco, guidando un'auto di lusso, ha investito una vigilessa che cercava di bloccarlo. È stato inseguito e arrestato in flagranza di reato, ma il magistrato l'ha rimesso subito in libertà e non ha convalidato l'arresto.
Quando la società percepisce, non l'insicurezza, ma il fatto che le norme non vengono applicate col necessario rigore, possono scattare reazioni come quella avuta dal padre e dal figlio che hanno ucciso quel ragazzo di colore. Sono fenomeni che possono avere per soggetto persone di qualunque tipo. Non c'è dubbio che se a livello di opinione pubblica si ritiene che alcune persone sono più facilmente sensibili a un certo tipo di comportamento criminoso può scattare una motivazione in più.
Ma il punto è che le sanzioni devono essere applicate con una serietà maggiore di quanto avviene. Questo è un criterio che non fa distinzioni di culture o discriminazioni, dev'essere valido per tutti.
Esistono a suo avviso delle buone prassi, dei processi virtuosi ai quali rifarsi per ottenere un'efficiente integrazione?
Questo provvedimento preso in Inghilterra è, tutto sommato, un'azione di buon senso.
È pacificamente accettato dal sistema legislativo, dalla mentalità, da un tipo di cultura politica che è molto meno astratta e teorica della nostra. In Inghilterra non si parla di “destra” o di “sinistra” in questi casi, ma di risolvere un problema che si fa urgente.
In generale vedo che chi si è posto il problema dell'integrazione prima di noi italiani, anche per questioni storiche oggettive, ossia inglesi, francesi e olandesi, ha avuto modo di costruire un modello e si è dato da fare. L'impressione è che in Italia ci si muova con la solita confusione dettata dall'astrattezza dei principi che, d'altra parte, faticano a trovare un'applicazione autentica. Occorrerebbe ispirarsi dunque a quei modelli virtuosi che caratterizzano i Paesi che prima di noi hanno avuto a che fare con l'immigrazione e con problemi di integrazione.


Allam: una vera integrazione presuppone il recupero delle nostre radici - INT. Magdi Cristiano Allam - IlSussidiario.net - mercoledì 17 settembre 2008
Magdi Allam, l'altro giorno la stampa ha messo in luce una pratica che in Inghilterra avviene già da un po' di tempo, ossia la possibilità per alcuni arbitrati famigliari musulmani di ricorrere a una corte islamica: qual è la sua opinione in merito?
È sicuramente un ulteriore passo all'indietro in una deriva etica del multiculturalsimo che, avendo fatto venir meno, in linea di principio, un comune collante identitario e valoriale per l'insieme della società, perviene alla realtà di un doppio binario giuridico che dispone le legge islamica valida per i musulmani e la legge dello Stato valida per i non musulmani. Quindi si riconosce ai musulmani una specificità anche su questioni giuridiche che comportano una concezione diversa della persona, della donna, della famiglia, della società e della vita.
Si tratta di un orrore giuridico che accentua sempre di più la deflagrazione e la disgregazione della società britannica dal suo interno ed è il risultato della cecità di chi ha perseguito finora una concezione relativista della vita, sottomettendosi all'islamicamente corretto, e ispirandosi a una concezione buonista della convivenza, che è di fatto il contrario del bene civile. In Inghilterra si sta proseguendo nel suicidio della propria identità e della propria nazione.
Secondo lei il fatto che tale consuetudine si sia radicata in Inghilterra può essere circoscritto al sistema giuridico britannico o è sintomo di una tendenza destinata a prendere piede in tutto il nostro Continente?
L'Inghilterra è il Paese che più di ogni altro si è spinto avanti nel perseguimento del modello multiculturalista e si ispira a quella che è stata la politica coloniale della Gran Bretagna. Il Regno Unito ha tradotto al suo interno una prassi che veniva perseguita nelle sue colonie con il risultato di aver creato nella sua realtà sociale una serie di ghetti dove vivono persone appartenenti prevalentemente alla stessa etnia o alla stessa confessione e che percepiscono se stessi come un'identità differenziata.
Questo è un presupposto che poi, inevitabilmente, porta all'implosione sociale. Un'implosione che i britannici hanno toccato con mano il 7 luglio del 2005 quando quattro cittadini inglesi si fecero esplodere nel centro di Londra. Ma evidentemente non c'è limite alla cecità e si immagina che pur di salvarsi dai terroristi taglia gola ci si possa affidare ai terroristi “taglia lingua”, il cui messaggio è: «se volete avere salva la pelle dovete sottomettervi alle leggi islamiche e alle condizioni islamiche perché queste leggi sono un qualcosa che appartiene a uno specifico religioso imprescindibile. Noi vi garantiamo la convivenza pacifica se voi ci permetterete di legiferare secondo la legge islamica».
Insomma si tratta di una resa e di una follia perché stiamo parlando della Gran Bretagna non dell'Arabia Saudita, ed è una degenerazione etica e giuridica che certamente potrà avvenire altrove in Europa dove l'assenza di un modello di convivenza che si fondi sul rispetto dei valori e delle regole dell'identità autoctona europea, che ha le sue radici profonde, nella fede, nella cultura e nella tradizione giudaico crisitana, porterà anche altrove a questa deriva.
A proposito invece di quanto accaduto recentemente a Milano, ossia l'omicidio di un ragazzo di colore ad opera di un padre e di un figlio titolari di un bar, si sono sentiti allarmismi relativi a un ritorno del razzismo nel nostro paese. È davvero così oppure si tratta semplicemente di una strumentalizzazione ideologica che non aiuta ad affrontare seriamente il processo di integrazione degli stranieri?
Per quello che riguarda questo episodio specifico io credo che sia doveroso attendere l'esito degli accertamenti che verranno fatti. Perché purtroppo quello che ci dà in pasto la stampa o la televisione è prevalentemente mistificazione della realtà, quindi in assenza di dati oggettivi ed è così impossibile poter maturare delle valutazioni. È invece vero che in Italia manca un livello di convivenza sociale che da un lato garantisca la sicurezza assoluta per gli autoctoni e dell'altro favorisca l'integrazione.
Con quest'ultmo termine non si deve intendere qualcosa che porti con sé solo diritti e libertà agli altri, ma ci si deve basare su un percorso vincolante in cui i diritti e doveri, libertà e regole, devono essere affermati e rispettati in modo paritario. Questa dimensione è certamente carente in Italia e l'assenza di questa cultura dei diritti e dei doveri, fa sì che si ingeneri facilmente l'arbitrio. Un fenomeno che porta da un lato ad atteggiamenti illegali da parte di chi individua nell'Italia una sorta di landa deserta dove ognuno può arrivare e fare quello che vuole e, dall'altro, purtroppo ad atteggiamenti illegali, xenofobi e razzisti da parte di Italiani che non si sentono adeguatamente tutelati dalle istituzioni. Ribadisco che non sto parlando di questo caso specifico, ma di un contesto più generale.
Qual è, a suo avviso, la strada da percorrere per una vera integrazione?
Occorre affermare con chiarezza e con determinazione il primato di quei valori, di quelle regole e di quelle identità che sono il fondamento della civiltà e società Italiana. Bisogna divenire capaci di affermarli ed essere pronti a difendere questo insieme di consuetudini culturali. Devono essere gli italiani stessi a ergersi a difesa di un modello credibile e rispettabile di valori e di regole ed esigere che gli altri facciano altrettanto. Noi dobbiamo partire dai noi stessi, occuparci della fragilità interiore dei nostri concittadini. Questa è l'unica strada percorribile per affermare un'effettiva convivenza. È un discorso che ricalca in modo fedele quello che avviene all'interno della famiglia. Senza regole la convivenza salta, si ingenerano delle tensioni che portano a conflitti, violenza, e quant'altro.
Quello che è vero nel microcosmo è tale anche nel macrocosmo.


Milano e i mistificatori di professione - Giorgio Vittadini - IlSussidiario.net - mercoledì 17 settembre 2008
L’hanno ammazzato in un impeto di odio per aver rubato una scatola di biscotti. Ma come mai può accadere una cosa del genere? Ha ragione chi ha già ridisegnato Milano come un Bronx dominato dal razzismo e dalla xenofobia di “destra”? Chi ragiona così mistifica, così come mistifica chi descrive Milano e la Lombardia come un luogo in cui la razza padana pura deve difendersi dall’attacco dei barbari stranieri. Milano e la Lombardia, più di altri luoghi italiani, hanno vissuto il continuo incontro di popoli diversi - Camuni, Galli, Romani, Longobardi, Franchi e poi, via via, nel corso dei secoli, Tedeschi, Spagnoli, Francesi, Austriaci – che, dopo essersi combattuti, si sono ricomposti in una popolazione profondamente unita, capace di valorizzare, nelle nostre città, le diverse identità in un destino comune. Quale è il segreto di questa storia plurimillenaria? E’ l’esperienza di una identità, umana e cristiana, forte, capace di educare ognuno al valore unico e irripetibile della persona, al carattere relazionale dell’esistenza, e, perciò, al valore della famiglia, della comunità locale, del gruppo sociale, delle realtà etniche. Per questo, persino il secolo dei Lumi, a Milano, ha prodotto un dialogo per il progresso, tra laici e credenti, ben lontano dalle violenze efferate della rivoluzione francese. Per questo, a differenza che altrove, anche in Italia, nei due secoli scorsi, la convivenza tra un cristianesimo amante della democrazia e del progresso spirituale e materiale, un socialismo non massimalista, un liberalismo non antireligioso, hanno fatto di Milano il cuore dello sviluppo del nostro Paese. Per questo, in epoche più recenti, l’immigrazione dal Sud Italia ha modificato il volto etnico del milanese e del lombardo, senza creare ghetti come altrove, ma permettendo un destino di prosperità operosa, non solo a chi non l’aveva nel suo luogo di origine, ma per tutti.
Proprio quando vengono meno questi ideali vissuti, incentrati sul valore unico di ogni singolo uomo, la convivenza degenera, ci si rinchiude in se stessi. Ciò avviene non solo quando si inneggia alla razza, ma, più frequentemente, quando si propaganda un relativismo senza valori e senza certezze e si riduce il cristianesimo a vago sincretismo universale, pensando così di creare tolleranza. C’è chi si illude di riempire il vuoto che ne consegue cercando potere e ricchezza, c’è chi, perdendo la propria identità, si sente minacciato da quella degli altri e comincia a odiare il “diverso” per etnia, politica, gruppo, religione, classe.
Perciò, il futuro positivo di Milano non è nei predicatori del nulla, nei pseudo-moralisti intrisi di ideologie che si sentono purtroppo anche in questi giorni, ma nelle miriadi di comunità locali, parrocchiali, movimenti, associazioni, circoli, imprese e realtà concrete, dove continua una tradizione di vita vissuta intrecciata di ideali, di carità verso persone reali, di lavoro che diventa occasione di redenzione umana e sociale per tutti. Una amministrazione particolarmente attenta allo sviluppo e a una sussidiarietà solidale, valorizzatrice di quanto di buono si muove, sarà di aiuto in questo difficile cammino.
(Il Giornale 17 settembre 2008)


Ideologia nazi-comunista nella seconda guerra mondiale di Robert A. Graham S.I. - Nazismo e comunismo: due ideologie anticristiane. La seconda guerra mondiale come conflitto ideologico e guerra di religione nell'analisi di un grande storico gesuita.
[Da «La Civiltà Cattolica», 1994, II, 359-366]
Nel diario del card. Jacques Martin, recentemente pubblicato, leggiamo che Papa Pio XII, l’8 ottobre 1941, disse a mons. Giovanni Battista Montini che «una vittoria dell’Asse significherebbe la fine del cristianesimo in Europa». Questo aneddoto (1) è sorprendente non tanto per la sostanza quanto per il linguaggio; infatti il Pontefice della seconda guerra mondiale non aveva mai reso pubblico un giudizio così pesante. Tuttavia tale resoconto è avvalorato da un’altra fonte, anch’essa di terza mano. Alla fine del gennaio 1941, il card. Pierre Gerlier di Lione fu ricevuto in udienza dal Papa. Nel settembre dello stesso anno egli confidò al pastore protestante Marc Boegner che il Pontefice gli aveva detto personalmente: «Se la Germania vincesse la guerra, io ritengo che sarebbe la più grande sventura che colpirebbe la Chiesa da molti secoli a questa parte» (2).
Il Papa e la minaccia del nazismo
Una previsione cosi pessimistica riguardo alla situazione della Chiesa sotto il nazismo non era una novità in Europa. Nei mesi finali della guerra, il 3 settembre 1944, dopo la liberazione, il card. Jules Saliège di Tolosa dichiarò: «Non dovrebbe sorprendere sentirmi ripetere che, con la sconfitta di Hitler, il cristianesimo è sfuggito al più grande pericolo che lo abbia minacciato dai tempi della sua nascita». Coloro che non erano accecati dalle passioni politiche si rendevano conto di che cosa riservava il futuro. Per i cattolici tedeschi, e in particolare per i loro vescovi, era facile prevedere che una vittoria nazista sarebbe stata seguita da una persecuzione a tutto campo in patria. Avendo mano libera in un’Europa alla sua mercé, Hitler avrebbe schiacciato la Chiesa «come un rospo» (wie eine Kröte). Pio XII era ben consapevole di questa preoccupazione dei vescovi tedeschi e la condivideva in pieno.
Viene spontaneo domandarsi perché allora, se il Papa pensava che una vittoria dei nazisti sarebbe stata cosi disastrosa, non lo avesse detto in modo inequivocabile esortando i fedeli a mobilitarsi contro Hitler. Questo implica una semplificazione grossolana della situazione in cui il Papa si trovava, una situazione incandescente come la guerra nel cuore dell’Europa. Anche oggi al Pontefice vengono suggeriti, in analoghe condizioni, consigli e soluzioni semplicistici. Persone ben intenzionate — e disperate — non riescono a comprendere perché il Papa non si rechi di persona dai governanti e implori i belligeranti, o addirittura ordini loro, di cessare le ostilità.
Pio XII sperimentò una situazione analoga nei giorni che precedettero lo scoppio della seconda guerra mondiale. Il quotidiano inglese Manchester Guardian sosteneva che numerose persone avevano inviato telegrammi al Papa implorandolo di recarsi «immediatamente e personalmente» da Hitler per prevenire una strage a livello internazionale. Il sottinteso era che la Santa Sede non aveva fatto tutto ciò che era in suo potere in favore della pace. L’accusa toccò nel vivo Pio XII, che scrisse di suo pugno la risposta, apparsa su L’Osservatore Romano del 15 settembre 1939. Egli affermava (in terza persona) che Sua Santità aveva esaurito tutte le possibilità che in qualche modo potevano offrire anche la minima speranza di mantenere la pace (3).
Nel 1941 era dunque cosi difficile, o addirittura impossibile, anche per i cattolici europei e americani intelligenti, comprendere ciò che il Papa stava cercando di dire sul nazismo e sui suoi mali? Gli ostacoli erano di natura sia materiale sia psicologica. La carta stampata di ambedue le patti non era una fonte d’informazione affidabile. Le parole del Papa o non venivano pubblicate affatto, come in Germania, o venivano riferite in estratti controllati, come in Italia, o censurate nei punti più significativi, come nella Francia di Vichy. Lo stesso Osservatore Romano riportava rispettosamente tutti i discorsi del Papa, ma si asteneva dall’aggiungere interpretazioni e commenti. La Radio Vaticana invece si spinse oltre, con la conseguenza che gli inglesi, ben contenti del servizio non richiesto, ritrasmettevano la loro versione in Germania.
Ma il Papa non incontrava solo ostacoli materiali per rendere manifeste le sue preoccupazioni. C’erano anche ostacoli di natura psicologica da parte della gente, legati a troppi interessi e pregiudizi. Poteva il Papa dire agli italiani nel 1941 che una «vittoria dell’Asse significherebbe la fine del cristianesimo in Europa»? Quanti italiani gli avrebbero creduto (4)? Per quanto riguarda gli Stati Uniti, tanto per fare un esempio chiaro, le implicazioni degli avvertimenti del Papa andavano nella direzione opposta dell’atteggiamento prevalentemente isolazionista e antibellicista dei cattolici, compresi molti vescovi. Fu solo l’8 dicembre 1941, con la dichiarazione di guerra, che le parole del Papa divennero chiare e digeribili.
Due ideologie anticristiane
Nel 1941, all’apice dell’egemonia nazi-comunista, il Papa ebbe la sua guerra da intraprendere, con le proprie armi, non a livello politico ma a quello delle idee. In quell’anno nelle menti delle persone c’era una grande confusione a causa del «nuovo ordine»; il nazismo e il comunismo sembravano avere le carte vincenti. Il fallimento della democrazia era un tema comune nei commenti politici, che fosse visto in positivo o in negativo. Ma aveva fallito anche il cristianesimo? Questo era argomento di contesa tra alcuni influenti intellettuali francesi, soprattutto tra quelli che si erano radunati a Vichy, colpiti in maniera particolarmente favorevole dalle vittorie dei nazisti. Il drammaturgo Henri de Montherlant parlava in quel senso in uno dei suoi scritti dell’epoca. Abel Bonnard, dell’Accademia Francese, si chiese: «Perché dovremmo aspettarci che il cristianesimo sopravviva più a lungo dell’Impero romano?». A Berlino e a Mosca il cristianesimo era stato cancellato da tempo.
All’aspetto ideologico della seconda guerra mondiale non è stata data l’importanza che esso merita. Troppo spesso gli statisti e gli storici descrivono gli eventi solo da un punto di vista politico e militare. L’ideologia è come l’asino di Buridano: gli storici la lasciano ai filosofi e i filosofi la considerano una pseudoscienza, un trastullo dei giornalisti e dei demagoghi. Ma l’ideologia totalitaria asservì l’Europa per buona parte della seconda guerra mondiale. E proprio il rapporto delle idee con la politica, con l’interpretazione degli eventi contemporanei, con la cultura che fa l’ideologia. Essenzialmente esclusiva, essa non tollera opposizione né rivali. Era inevitabile che, sin dall’inizio, entrasse in violento conflitto con la religione nel campo delle idee. Ciò che era secondario o irrilevante per gli storici e i filosofi era una questione di vita o di morte per la Chiesa cattolica.
Il nazionalsocialismo e il marxismo-leninismo erano le principali ideologie della guerra. Le teorie di Karl Marx, adattate da Lenin, costituivano le fondamenta del comunismo mondiale imperniato sull’Unione Sovietica. Non è necessario ricordare l’aperta e violenta ostilità del marxismo nei confronti della religione, resa operativa in Unione Sovietica. I nazisti, dal canto loro, avevano «Il mito del secolo XX. Una valutazione delle lotte per il rinnovamento spirituale del nostro tempo» (Der Mythus des 20. Jahrhunderts. Eine Wertung der geistigen Gestaltenkämpfe unserer Zeit) di Alfred Rosenberg. Il Mythus venne rapidamente messo all’Indice dal Vaticano all’inizio del 1934. Non si trattava certo di un capolavoro del pensiero speculativo, ma si limitava a formulare sfacciatamente e volgarmente lo spirito radicalmente anticristiano, pagano e razzista del Movimento, diventando in questo modo la «bibbia» del nazionalsocialismo. Si trattava di una lettura obbligata per i membri del partito, il che spiega le numerose ristampe che ebbe negli anni Trenta. Esso ebbe anche altri più sofisticati equivalenti, come il libro di Ernest Bergmann dal titolo La Chiesa nazionale tedesca, il quale sosteneva che il cristianesimo era semita e antitedesco; il cristianesimo predicava pietà e misericordia per il debole, permettendo addirittura al debole di avere figli; la razza era la vera forza del progresso ecc. L’opera di Bergmann venne posta all’Indice dei Libri Proibiti contemporaneamente al Mythus.
Hitler sostenne sempre che il Mythus non era una enunciazione ufficiale del nazionalsocialismo. Ma Rosenberg era il responsabile della «cultura e ideologia» del partito nazista e il titolo altisonante che gli era stato attribuito nella struttura del partito era quello di «Fiduciario del Führer per la formazione intellettuale del partito» (Beauftragter des Führers für die gesamte weltanschauliche Schulung und Erziehung des NSDAP). Una copia del Mythus venne depositata, con le debite cerimonie, sulla pietra angolare del nuovo studio di Norimberga, dove il partito teneva le sue spettacolari adunate. Il saluto simbolico a questa «bibbia» e a tutto ciò che essa rappresentava venne aspramente commentato da L’Osservatore Romano del 21 settembre 1937, in un editoriale di prima pagina scritto — ma non firmato — dallo stesso card. Pacelli. Nel 1946 Rosenberg venne impiccato proprio a Norimberga.
Secondo Rosenberg, la razza, intesa come la razza tedesca, era la punta di diamante della nuova rivoluzione. La «cultura nordica» era la norma per il futuro della Germania. Era una mistica del sangue. Ogni altro valore era nemico, soprattutto il cristianesimo, che, con i suoi dogmi semiti, aveva espropriato il popolo tedesco della sua eredità nordica. Perciò era necessario costruire una nuova «chiesa» sulle rovine della vecchia. I concetti cristiani avevano portato solo degenerazione. Come non c’era alcun posto per il cristianesimo, ancor meno c’era posto per la Chiesa cattolica, per «Roma», la grande avversaria di tutto ciò che era autenticamente tedesco.
Il Mythus apparve a molti come una mostruosità pseudoscientifica, da non prendere in considerazione. Lo stesso trattamento superficiale venne riservato al Mein Kampf di Hitler. Era mai possibile prendere tali libri sul serio? Le cose mutarono radicalmente quando ambedue gli autori raggiunsero i vertici del potere politico. Allora quei testi divennero ideologia, che impose il suo tragico tributo agli eventi umani, controllando le menti e la volontà di migliaia di persone.
Il Partito Comunista Francese e la guerra
In campo comunista, il potere dell’ideologia venne esemplificato in maniera convincente dalla condotta del Partito Comunista Francese nel 1939. Lo storico patto di non aggressione siglato tra Hitler e Stalin il 23 agosto aprì la strada alla guerra. Per mesi e anni il partito aveva denunciato ad alta voce il nazismo o «fascismo», come preferiva definirlo. E aveva numerose buone ragioni per farlo: molti comunisti tedeschi languivano nei campi di concentramento e la stessa Parigi era piena di esuli dalla Germania. Tutto appariva estremamente chiaro. I negoziati di Stalin con Hitler furono come un fulmine a ciel sereno e lo shock fu tremendo.
I comunisti francesi, la cui fede politica era meno salda e la capacità di comprensione minore, abbandonarono il partito disgustati e disillusi. I compagni di cammino non comunisti erano, naturalmente, ancor più disorientati, mortificati e umiliati. Mosca non aveva fatto il minimo accenno a ciò che bolliva in pentola, tantomeno aveva dato istruzioni su come comportarsi a riguardo. Lo scompiglio e l’imbarazzo erano patetici. Gli ideologi del partito esaminavano attentamente le sue passate dichiarazioni alla ricerca di indizi che spiegassero ciò che era accaduto. Non ci volle comunque molto perché il partito si riprendesse e trovasse lumi nell’interpretazione del marxismo-leninismo: Stalin, conclusero le sue menti, con una mossa geniale, aveva inaugurato la storica «guerra imperialista». Grazie al patto stretto con il diavolo, egli aveva allontanato dalla Russia lo spettro della guerra e anzi, addirittura, forse il suo desiderio era stato proprio quello di provocarla. Infatti ora i nazisti imperialisti e le democrazie erano gli uni contro le altre all’inizio di una guerra prevedibilmente rovinosa, che avrebbe visto la fine del capitalismo e aperto la strada alla rivoluzione proletaria. Il partito francese doveva prendere una difficile decisione, che avrebbe avuto un costo molto alto. Esso la mise in atto senza alcuna esitazione, in nome della fedeltà alla propria ideologia.
Prima del voltafaccia sovietico, i deputati comunisti avevano addirittura votato alla Camera a favore del bilancio militare. Ma ora non c’erano dubbi su quale fosse il loro dovere: essi si dichiararono contrari alla guerra. La reazione del Governo a tale influenza demoralizzante era prevedibile: il partito venne bandito e il suo quotidiano, L’Humanité, soppresso. Tuttavia, i membri del partito alla Camera si riorganizzarono sotto un altro nome e, il 9 ottobre, inviarono una petizione a Edouard Herriot, presidente della Camera, nella quale chiedevano immediati negoziati di pace con la Germania. Dopo tanti mesi di denunce nei confronti dei munichois, adesso erano i comunisti stessi a chiedere una nuova Monaco. Alcuni giorni pin tardi, Maurice Thorez, segretario generale del Partito Comunista Francese, disertò dall’esercito e fuggì in Belgio attraversando il confine. Da lì Thorez si recò in Russia, dove rimase. Anche Jacques Duclos, un altro leader del partito, si trasferì in Belgio e da qui ritorno quando i tedeschi entrarono a Parigi.
In tempo di guerra l’ideologia comunista aveva prevalso sul patriottismo francese. La differenza stava nel fatto che Stalin e Hitler erano ora alleati in un patto di non aggressione e, nelle categorie marxiste-leniniste, la guerra aveva quindi cambiato carattere. Per un anno, almeno nella zona occupata, il partito mantenne un atteggiamento discreto. Allo stesso tempo, Stalin non chiese a Hitler il rilascio dei molti comunisti tedeschi, né gli esuli tedeschi in Francia, anche i non ebrei, pensarono per un solo momento di ritornare in patria. Essi piuttosto, se potevano, fuggivano in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. La maggior parte di loro erano stati anche privati della cittadinanza tedesca.
In breve, i comunisti francesi, interpretando fedelmente il materialismo dialettico del marxismo-leninismo, videro nella seconda guerra mondiale la classica guerra «imperialista»., che era stata preannunciata e che, come nel 1917 per la Russia, avrebbe portato alla dittatura del proletariato. Non si può non ammirare la coerenza con cui obbedirono ai dettami del programma del partito. L’opposizione alla guerra, con quello che comportava di slealtà e diserzione, per non dire tradimento, costò loro molto cara. Essa implicò anche la collaborazione con il nemico. Ma nel giugno del 1941 le cose subirono un altro cambiamento radicale. La guerra non era più una «guerra imperialista»: la madrepatria sovietica era in pericolo e Stalin poteva contare su di loro. Compiendo un altro notevole voltafaccia, perfettamente spiegabile in termini d’ideologia, i comunisti francesi entrarono nella résistance, sabotando le installazioni tedesche. Alla fine del 1944 Maurice Thorez, di ritorno dall’Unione Sovietica, riprese il suo vecchio posto, salutato dalla stampa comunista, con uno sfacciato bluff, come un eroe della resistenza. A volte l’ideologia può presentare aspetti comici.
La seconda guerra mondiale è stata una «guerra ideologica»
L’ideologia, con la pretesa di avere una visione globale della vita, può essere una forza distruttiva quando è nelle mani di coloro che hanno un potere assoluto e l’apparato statale sotto il loro controllo. Naturalmente ogni società umana con una missione culturale deve avere una sua «mistica» di qualche genere per offrire direzione e significato. Le idee sono una forza creativa indispensabile di vita. Lo stesso termine «ideologia». può avere un significato legittimo e, in passato, e stato inteso in senso molto ampio per indicare ogni idée-force. Ma il termine è caduto in discredito da quando le due maggiori ideologie del nostro tempo hanno fatto una fine ingloriosa, dopo aver messo il mondo a ferro e fuoco con la guerra e la sovversione.
La seconda guerra mondiale è stata una «guerra ideologica». Anche se c’erano in gioco altri importanti motivi di natura puramente militare o politica, per quanto riguardava il Reich nazionalsocialista gli eventi del 1939-45 furono di carattere ideologico: si trattava del «nuovo ordine». Analogo discorso può essere fatto per l’Unione Sovietica, certamente per il periodo della «guerra imperialista» (1939-41) e anche successivamente.
Si è trattato pure di una «guerra di religione»? Anche in questo caso possiamo dare una risposta affermativa. I leaders nazisti del Reich avevano una violenta finalità antireligiosa che inculcavano nella loro opera ufficiale d’indottrinamento e ispiravano ai loro aderenti, come le SS, da cui essi si attendevano che tagliassero i ponti con i «legami confessionali», ovvero che apostatassero. Più precisamente, essi avevano elaborato, alla luce delle loro concezioni, un piano per la «riorganizzazione» della Chiesa cattolica, che avevano anche cominciato a mettere in pratica. Le Chiese cattolica e protestante in Germania correvano un rischio gravissimo sotto il nazismo. Pio XII era intimamente consapevole del pericolo che «una vittoria dell’Asse significherebbe la fine del cristianesimo in Europa». Perché questa minaccia di distruzione fosse particolarmente grave nel 1941 lo vedremo in un prossimo articolo.
(1) Cfr J. MARTIN, Mes Six Papes, Paris, Mame, 1993, 36.
(2) J. DUCHESNE, Les Catholiques Français sous l’Occupation, Paris, Grasset, 1966, 174.
(3) Actes ed documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, I, 303.
(4) Chiaroveggenza e dubbi non mancavano. La preoccupazione relativa allo schieramento dell’Asse era radicata anche nei circoli fascisti. L’accademico Francesco Orestano pubblicò un articolo clamoroso su Gerarchia del dicembre 1942, nel quale si metteva in guardia contro la minaccia alla religione rappresentata dall’ideologia nazista. L’articolo venne denunciato da Goebbels. In proposito cfr il nostro «La questione religiosa nella crisi dell’Asse», in Civ. Catt. 1977 I 441-455.
© Civiltà Cattolica
Si ringrazia il Direttore GianPaolo Salvini S.I. per aver concesso la riproduzione dell’articolo.


UE, MAURO: "PROGETTO MHADIE DIMOSTRA CHE SI PUÒ ARRIVARE A UNIFORMITÀ DI DATI E INFORMAZIONI SULLA DISABILITÀ"

Bruxelles - 16/09/2008 - "Il progetto presentato oggi al Parlamento europeo ha dimostrato che è possibile arrivare a un'uniformità di dati e informazioni sulla disabilità in tutti i paesi dell'Unione europea" - È il commento del Vicepresidente del Parlamento europeo, On. Mario Mauro, al progetto MHADIE sulla disabilità, inserito nel sesto Programma quadro della Commissione europea, presentato stamani al Parlamento europeo dalla coordinatrice, la Dott.ssa Matilde Leonardi dell'Istituto neurologico 'Besta' di Milano. L'obiettivo è quello di fornire gli strumenti per migliorare la capacità europea di raccolta e analisi dei dati su salute e disabilità - "La definizione a cui si è arrivati grazie al progetto, che considera la disabilità insieme al contesto in cui è inserita, permette di ampliare in maniera considerevole il terreno sul quale si possono sviluppare le politiche a livello comunitario" - prosegue Mauro - "La politica sulla disabilità non ha alcun senso se non considera il contesto familiare come fattore determinante per facilitare le condizioni di vita dei disabili, e se esclude dai dati statistici le persone al di sopra dei 65 anni o i bambini da 0 a 6" - "conclude Mauro -"Allo stesso modo è indispensabile una seria politica dei trasporti, altro fattore chiave per l'inclusione sociale e la partecipazione delle persone disabili".

PROGETTO MHADIE – Measuring Health and Disability in Europe: supporting policy development
La disabilità è un fenomeno multidimensionale risultante dall’interazione tra lo stato di salute individuale e l’ambiente fisico e sociale. I dati sulla disabilità e gli strumenti per misurarla devono rispecchiare tale modello di disabilità bio-psicosociale. E’ essenziale quindi disporre di informazioni valide e attendibili per progettare, attuare o valutare politiche ed attività legislative destinate a combattere la discriminazione, a promuovere l’integrazione sociale e la partecipazione ed a favorire le pari opportunità. La Classificazione internazionale di Funzione, Disabilità e Salute (ICF) dell’OMS offre una cornice che permette di documentare l’interazione tra lo stato di salute e le caratteristiche ambientali, nonché la diversa distribuzione della disabilità in gruppi e contesti differenti.
Il progetto di coordinamento MHADIE intende dimostrare la fattibilità e l’utilità del modello ICF nella misurazione dei tipi di menomazione e della loro prevalenza, utilizzando quindi strumenti di misurazione preesistenti. Si dimostrerà che i dati attualmente raccolti, a livello nazionale ed internazionale, rivelano l’esistenza di una certa confusione a livello concettuale, nonché di incongruenze ed ambiguità per quanto riguarda la disabilità e la relazione tra condizione di salute, menomazione ed altri fattori ambientali. Gli obiettivi del progetto sono:
1. utilizzare il modello ICF per analizzare le indagini esistenti sulla salute generale nella popolazione e i dati statistici relativi all’istruzione
2. mostrare l’adeguatezza del modello ICF per descrivere e misurare i modelli di disabilità in campioni clinici di determinate malattie in diversi paesi, in sezione trasversale e su di un arco di tempo, come pure la sua fattibilità ed utilità nei settori clinici, riabilitativi ed educativi
3. produrre direttive politiche e linee guida per armonizzare le fonti di dati già esistenti con il modello ICF.

La metodologia utilizzata condurrà ad un’integrazione dei sistemi statistici di informazione esistenti, che si svilupperà tra nazioni e settori diversi e nell’arco del tempo tra i membri presenti e futuri dell’UE.


ETICA E GIUSTIZIA - È stato respinto il ricorso di un testimone di Geova che voleva essere risarcito per essere stato sottoposto a trasfusione salvavita nonostante avesse un cartellino con scritto «no sangue» - «Cure, il rifiuto non può essere preventivo» - La Cassazione: ci vuole sempre consenso (o dissenso) informato e attuale, Avvenire, 17 settembre 2008
Richiamate le indicazioni del Codice di deontologia medica e del Comitato nazionale per la bioetica
DA ROMA PINO CIOCIOLA
U na sentenza della Suprema Corte che – tan­to implicitamente quanto evidentemente – ne ' corregge' almeno un’altra prece­dente. Ribadendo che va tutelato il diritto a rifiu­tare le terapie, ma soltanto dopo che delle stesse si sia stati informati in tutto e per tutto, soltanto se un’eventuale rifiuto viene manifestato quando si è in pericolo di vita (non prima) e da una terza persona soltanto se questa è «un rappresentante ad acta» capace di dimostrare, con certezza, il dis­senso del paziente che rappresenta. Come per al­tro viene fuori «tanto dal Codice di deontologia medica quanto dal documento del Comitato naziona­le per la Bioetica del 1992 » citati dalla stessa Corte.
«La validità del consenso preven­tivo ad un trattamento sanitario non appare in alcun modo legitti­mamente predicabile in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stes­so » e così allo stesso modo «la effi­cacia di uno speculare dissenso 'ex ante' privo di qualsiasi informa­zione medicoterapeutica deve ritenersi altrettan­to impredicabile, sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente».
Tutto questo l’ha appena messo nero su bianco la terza Sezione civile della Cassazione attraverso la sentenza sul caso di un testimone di Geova che a­veva chiesto il risarcimento dei danni morali e bio­logici perché i medici dell’ospedale di Pordenone gli avevano trasfuso del sangue nonostante aves­se scritto su un cartellino «No sangue». Sentenza che non ha naturalmente nulla a che fare col ca­so di Eluana Englaro eppure sembra decisamen­te 'evocarla'. Un dissenso a priori è quindi «impredicabile» per­ché – ribadisce la Cassazione – un conto è « l’e­spressione di un generico dissenso ad un tratta­mento in condizioni di piena salute» ed un altro «è riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita». La Cassazione insomma è più che esplicita motivando la sentenza: «Nell’ipote­si di pericolo grave e immediato per la vita del pa­ziente – afferma – il dissenso del medesimo deve essere oggetto di manifestazione espressa, ine­quivoca, attuale, informata».
Allora, nel caso specifico del testimone di Geova, «è innegabile l’esigenza che, a manifestare il dis­senso al trattamento trasfusionale, sia o lo stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntua­le, espressa dichiarazione dalla quale inequivoca­mente emerga la volontà di impedire la trasfusio­ne anche in ipotesi di pericolo di vi­ta, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappre­sentante ad acta il quale, dimo­strata l’esistenza del proprio pote­re rappresentativo, confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanita­ri ». Se allora va riconosciuto al pa­ziente «un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condot­ta lo esponga al rischio stesso del­la vita», tuttavia – sempre stando al caso di Pordenone – la Cassa­zione sottolinea efficacemente come il «sibillino 'niente sangue' vergato su un cartellino» non pos­sa essere considerato come consenso informato di rifiuto alle cure, visto che il paziente era arrivato all’ospedale «in stato di perdita di conoscenza e in pericolo di vita».
Dunque è impossibile ritenere tutto ciò anche so­lo un vago consenso informato, perché un’inter­pretazione contraria «significherebbe che sul me­dico curante graverebbe il compito (invero inso­stenibile) di ricostruire sul piano della causalità i­potetica la reale volontà del paziente secondo un giudizio prognostico 'ex ante'». E non soltanto, ma anche «di presumere induttivamente la reale 're­sistenza' delle sue convinzioni religiose a fronte dell’improvviso, repentino, non altrimenti evita­bile insorgere di un reale pericolo di vita, scon­giurabile soltanto con una trasfusione di sangue».


INIZIATIVA DELLA PROVINCIA di Milano - Famiglie numerose: arriva la carta degli sconti - Ribassi fino al 10% su generi alimentari carburante e farmaci, Avvenire 17 settembre 2008
DI ANDREA GARNERO
C ontro il carovita e a sostegno delle fa­miglie più numero­se, scende in campo la ' Family card'. Una carta di credito prepagata Ma­sterCard rilasciata gratui­tamente a nuclei familia­ri composti da almeno 5 persone residenti nella stessa abitazione.
Il progetto è frutto della si­nergia tra Provincia, Asso­ciazione nazionale fami­glie numerose e ' Qui! Group'.
« Non è una ' carta dei po­veri'. Non discrimina ma mette in rete il sistema bancario ed economico cercando di rispondere al­le domande delle fami­glie » , ha dichiarato l’as­sessore alle Politiche so­ciali della Provincia, Ezio Casati.
' Qui! Group' offre una carta di credito a tutti gli effetti: accettata in tutto il mondo, ha un suo Iban, prevede funzionalità di Home banking (per esem­pio pagare le bollette da casa) e fornisce in qua­lunque momento i movi­menti di denaro.
È uno strumento di sussi­diarietà, « Vogliamo, come dice l’articolo 31 della Co­stituzione, che lo Stato a­gevoli con misure econo­miche le famiglie», ha det­to il coordinatore di Fami­glie numerose, Cesare Pa­lombi. Nelle tasche di chi ha bisogno, arriva una car­ta che permette d’usufrui­re di sconti dal 4 al 10%, presso partner che aderi­scono all’iniziativa, su a­limentari, abbigliamento, libri, trasporti, farmacie, laboratori dentistici, casa­linghi e carburanti ( 4% di detrazione solo ai distri­butori Erg). Così facendo il titolare accumula del de- naro sulla carta e al rag­giungimento di 10 euro, lo sconto viene ricaricato.
Da parte della Provincia, sono stati investiti per il progetto 50mila euro. Il servizio è rivolto a 60mila famiglie e 7.500 carte sono già pronte per essere di­stribuite nel mese prossi­mo.
Inoltre, collegata a questa iniziativa è prevista una tessera identica ma con un credito iniziale di 1.500 euro che sarà assegnata alle famiglie più bisogno­se segnalate da un appo­sito comitato etico: Onlus, Comuni e Provincia.
« La Card è aperta a tutti i Comuni che vorranno col­laborare per le famiglie della loro area, offrendo ulteriori convenzioni nei propri servizi pubblici e presso le attività econo­miche presenti nel loro territorio», ha ribadito Ca­sati.