mercoledì 3 settembre 2008

Rassegna meeting Rimini:
1) Vivere da protagonisti - un ampio stralcio del commento al Messaggio del Papa al Meeting 2008
2) Intervento del card. Angelo Bagnasco al Meeting di Rimini
3) Bisogna contrastare la cristianofobia; intervento di monsignor Dominique Mamberti, segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede, al Meeting di Rimini
4) Cielle cancella la rivoluzione. La sinistra ringrazia, Renato Farina, Libero, 31 agosto 2008
5) Ma nessuna galera può avvilire il cuore, di Davide Rondoni, Avvenire, 31 agosto 2008
6) «Noi, i senza patria che abitano il Vangelo» - il libro del Gius - Scholz: essere apolidi ci fa essere a casa ovunque La commozione della Roccella: «Aveva ragione lui, solo se l’io diventa noi l’incontro con Dio è reale», Avvenire, 31 agosto 2008
7) «Il tesoro del Meeting? Abbraccio di diversità» - Vittadini: il nostro respiro sempre più mondiale. Avvenire, 31 agosto 2008
8) Il compito dei cattolici nella società di oggi - Intervento dell'arcivescovo Rino Fisichella al Meeting di Rimin, Osservatore Romano del 31 agosto


Vivere da protagonisti
Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
martedì 26 agosto 2008
Riportiamo un ampio stralcio del commento al Messaggio del Papa al Meeting 2008, invitandovi a prelevare il testo completo, che trovate in allegato. E' un utile contributo per la riflessione sul tema di fondo del Meeting, ma anche l'occasione per una ripresa di identità
La storia è compito di ogni io umano, quindi ogni persona è protagonista
Ma cosa significa fare storia da protagonisti? Certamente storia non è la semplice cronaca quotidiana; questo è un aspetto soltanto di superficie. Neppure si può ridurre la storia ai grandi eventi del mondo della politica, degli Stati: i trattati, gli incontri ad alto livello, le alleanze di tipo politico o economico, le solenni dichiarazioni, i conflitti e le guerre, gli accordi di pace. La storia è anche questo certamente, ma non è “solo” questo, e neppure “soprattutto” questo. Gli accadimenti fanno storia in quanto espressioni esistenziali di ciò che ogni persona è e che le idee rivelano e che divenendo condivise cioè cultura diventano fatti da essa ispirati. La storia è traduzione nei fatti di una visione spirituale e morale della realtà da parte di ogni persona. Ecco perché la storia è compito di ogni io umano che ne è il protagonista, come singolo, come appartenente ad un popolo, ai popoli, agli Stati.
- la storia è soprattutto compito di ogni persona: è lei la protagonista, il primo affluente della storia universale. La sua vita quotidiana fatta di gioie, speranze e dolori; di lavoro e di famiglia o comunità; di affetti e di rapporti… non è mai storia individuale. E’ sempre anche storia di tutti perché nessuno vive solo. Anche il più desolante isolamento esiste comunque dentro ad un contesto di relazioni dalle quali uno si esclude o è escluso, ma dove resta punto di riferimento unico e irripetibile, cioè protagonista. La vita quotidiana fa storia fino al momento terminale della vita proprio perché ogni persona in sé è “relazione” con Dio come essere dono unico e irripetibile nel suo essere e quindi con se stessa, con gli altri e con tutto il mondo che la circonda: negare questo è chiudere gli occhi all’evidenza in nome di una esasperazione tale dell’individuo, della sua autoreferenzialità e autodeterminazione, da portare esistenzialmente a quell’individualismo che dissolve l’essere stesso della persona in una solitudine infernale cioè a non essere nessuno e schiavo di tutti e di tutto. L’esistenza di ogni io umano tocca l’essere dono del Donatore divino nel proprio e altrui essere e del mondo circostante, crea o rompe legami e situazioni che coinvolgono poco o tanto; alimenta o contrasta la mentalità dominante, il sentire condiviso, comune; interroga chi ne è testimone diretto o indiretto; testimonia possibilità di divenire quello che si è o valori, ispira comportamenti generali, crea istituzioni e opere, genera uno stile di vita frutto di ethos di fondo. In sintesi rende trasparente una certa visione d’uomo e di mondo condivisa, una certa visione della vita, della sofferenza e della morte: una visione universale, una Weltanshauung. E senza sintesi o valori condivisi non si fa storia, ma solo episodi. Nessuno dunque è invisibile: ciascuno partecipa al fluire del grande fiume umano, comunque è protagonista: ed essere protagonista non è voglia di protagonismo, ma amore di identità
- la storia è compito anche dei popoli. I popoli, nella loro unità profonda, fanno storia avendo un raggio di condivisione e di efficacia più evidente dei singoli. Ma che tipo di efficacia ha un popolo nel contesto del mondo? Che cosa porta alla costruzione della storia umana? Aiuta a rispondere il guardare all’esempio di grandi popolazioni come i Greci e i Romani. Guardando a questi popoli, ai quali siamo profondamente legati, viene da pensare alla loro cultura prima che alle loro imprese politiche, economiche e militari. Ed è su questo piano, fatto soprattutto di valori e di idee, che queste “genti” hanno inciso sulla storia. Basta pensare ai rapporti tra Roma, la Grecia, Gerusalemme e i popoli nordici e slavi. Prima che al genio dei capi, la storia è determinata dalle idee e dai valori, come accade per ogni singola persona. I valori sono l’anima della cultura, della carta di identità di un popolo. Non sono una sua componente, ma il suo fattore principale. Il senso di appartenenza ad un popolo, ad una Nazione, dipende dal quadro di valori che riguardano l’origine della vita e la destinazione oltre la morte, il loro significato, non tanto i fini, le piccole speranze ma il fine, la grande speranza, la vita veramente vita cioè l’amore. Se questo non esiste o è giudicato inconoscibile, quindi consegnato all’individualismo nichilista di ciascuno, che cosa potrà attrarre gli uomini perché ogni io umano, ogni persona si senta appartenente ad una realtà di popolo? Che cosa li potrà sollecitare a sacrificarsi fino al dono della vita per la comunità?
- La storia è compito anche degli Stati. L’apparato politico e legislativo, le diverse espressioni dell’autorità statale, fanno storia e - a prima vista e spesso a livello scolastico - appaiono come i primi e più importanti protagonisti della storia umana. Se questo è vero per un certo aspetto o deformazione, non possiamo dimenticare gli altri livelli o protagonisti come ogni persona e i popoli. I livelli sono differenti, ma reale è solo la loro incisività nel corso delle cose. Tra l’altro, non sempre nella storia i popoli hanno mostrato accondiscendenza verso le decisioni degli Stati, indirizzando gli eventi in modo diverso. Ciò sta a testimoniare quanto ogni Stato debba sapersi e volersi come espressione del popolo a servizio di ogni persona, sapendo che questo è specificato da un insieme di idee e valori di tipo spirituale ed etico che costituiscono “l’anima della Nazione”, la sua identità profonda. Qualora uno Stato dovesse tradire quest’anima, tradirebbe la gente in ciò che ha di più intimo e più suo. Colpirebbe ciò che consente ad una moltitudine di sentirsi “popolo” e ad un territorio di sentirsi “casa”, “patria” di ogni io umano. Tradire l’anima di un popolo - magari con processi corrosivi e subdoli - vuol dire sgretolare, in nome di qualche ideologia o disegno politico - economico, ciò che consente ad ognuno di sentirsi parte di un tutto; significa derubarlo di ciò in cui crede, che gli appartiene, che gli è stato tramandato come patrimonio, che è la sua forza unificante. Un patrimonio ideale che, nella pluralità delle forme ma nell’unità fondamentale del pensare e del sentire, permette di percepirsi “famiglia”. Per questo motivo, intaccare direttamente i valori spirituali e morali di una comunità e di un Paese, è attaccare la sua integrità e fare cattiva storia. Ma anche la diffusione di miti, l’esaltazione dell’avere non a servizio dell’essere di ogni persona, la propaganda dell’apparenza e del facile successo - in una parola, della menzogna - aggredisce la base valoriale di un popolo, lo svilisce nel suo sentire, e lo indebolisce nella sua capacità di futuro. Tutto viene confinato nell’angusto perimetro del presente: l’antico motto - “panem et circenses” - è noto come strategia per svuotare la mente e l’anima. Oggi, nello scenario occidentale, al posto di questo criterio - che ha un evidente costo economico - si potrebbe sostituire un altro motto, “fa tutto quello che vuoi”. Inteso in senso assoluto e individualistico, esso disgrega l’anima popolare e il senso di appartenenza ad una identità che crea comunione tra gli uomini e permette la comunità di vita. La storia che manifesta l’eclisse dello spirito va contro l’uomo, diventa “antistoria”. Le luci e le ombre sono sempre intrecciate nel fluire del tempo, ma è necessario giudicare le linee evolutive e quelle che, invece, segnano retrocessioni anche gravi in ambiti vitali. La convinzione che la direttrice di fondo della storia non sia l’essere ma il dover essere cioè il progresso, e che perciò il bene venga sempre e solo dal futuro, è un pregiudizio diffuso e coltivato. Ma per smascherare il pregiudizio è necessario il giudizio con la sua libertà e il suo coraggio; soprattutto con la sua attenzione alla realtà in tutti gli ambiti o verità. Il criterio di giudizio non può essere che la verità dell’uomo, il bene autentico suo e della società: questo - il bene - è alla sua radice di natura


Intervento del card. Angelo Bagnasco al Meeting di Rimini
24 agosto 2008
1. «Nella Chiesa mi trovo a casa»
Così diceva Georges Bernanos [1888-1948]! È difficile vivere senza una casa intesa come spazio dove le dimensioni sono a misura d’uomo, sono riconosciute perché familiari, dove si coltivano gli affetti, dove esistono luoghi per raccogliersi, per sentirsi al riparo dalla«strada»pur necessaria e desiderata. Come scriveva Josef Pieper [1904-1997], l’uomo non può vivere sempre «sotto le stelle» ([1]): ha bisogno della casa, del finito e del piccolo per ritrovarsi, riposare, ricuperare energie e riprendere il cammino sotto il cielo. Allo stesso modo, l’uomo ha bisogno della volta stellata, degli orizzonti sconfinati, della strada dove tutto si può incontrare e può accadere. Possiamo dire che l’uomo, come ha bisogno del suo«ambiente», così ha bisogno del«mondo»: il primo per superare la dispersione e fare sintesi, il secondo per superare il ripiegamento e pensare in grande. In entrambi i casi l’uomo costruisce se stesso: egli infatti è un paradosso, creato finito ma programmato per l’infinito. È una linea di confine tra il tempo e l’eternità, è un desiderio incompiuto, un intrigo di ombre dove la luce è la stoffa di fondo.
La Chiesa è la nostra«casa», l’ambiente familiare dove rigeneriamo le forze e la speranza si alimenta. Ma – possiamo dire – che è anche il nostro«mondo»dove il cuore impara a pulsare oltre se stesso, e l’intelligenza è chiamata ad aprire gli orizzonti superando meandri e ottusità, particolarismi e divisioni. Nella Chiesa, infatti, incontriamo Cristo, il Verbo eterno fatto carne, l’unico Salvatore. Egli ci dona la paternità di Dio, svela il segreto della gioia, il senso del vivere e del morire. Nella Chiesa incontriamo un popolo, corpo di Gesù: facciamo l’esperienza della universalità che ci porta fino ai confini della terra: «Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo» (At 2,5). La duplice dimensione – piccolo e grande, finito e sconfinato, terra e cielo, tempo ed eternità – fa parte dell’essere della Chiesa che, come ricorda il Concilio Vaticano II [1962-1965], è«mistero»: mistero non perché realtà oscura e incomprensibile, ma perché è «sacramento», realtà umana e divina insieme, lo spazio nel quale ogni uomo incontra veramente l’amore di Dio che si è offerto in Cristo: «La Chiesa è in Cristo come un sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano» ([2]).
La Chiesa, dunque, offre ad ogni credente l’esperienza della casa – la parrocchia, il gruppo, la comunità – dove, a partire da Gesù, i volti noti, la conoscenza personale, l’amicizia concreta, l’appartenenza cordiale, il confronto, la bellezza e la fatica delle relazioni umane, l’esercizio della pazienza e del perdono, la virtù della fiducia… sono pane quotidiano. Ma offre anche – dicevamo – il respiro dell’universalità perché diffusa sino ai confini della terra secondo il mandato del Signore.
Il respiro dell’umanità palpita con un duplice movimento, di ampiezza e di profondità. Il mondo intero – nei diversi popoli, nazioni, culture – approda nel sentire della Chiesa e diventa eco e ricchezza della sua voce. Di questa voce ricca e sinfonica – che il vangelo illumina, purifica e valorizza attraverso il Magistero autentico – i credenti beneficiano, ne sono protagonisti e portatori.
Ma il mondo è presente nel cuore della Chiesa anche oltre la sua dilatazione geografica e temporale: se – per ipotesi – la presenza della Chiesa dovesse contrarsi e ridursi ad un punto ristretto della terra, ugualmente il suo respiro porterebbe l’eco dell’umanità intera, l’universalità del mondo. Infatti, il mandato di Gesù – «andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» – non tocca solamente la geografia della terra, ma tocca innanzitutto la geografia dell’anima: i problemi spirituali e materiali, le questioni dell’agire morale, le idee, i grandi interrogativi, le incertezze, i mutamenti culturali, le svolte epocali non sono solamente fuori dell’uomo, nell’ambiente della cultura e della società, ma sono dentro l’uomo, nel suo mondo interiore. Gli estremi confini della terra sono innanzitutto qui, negli orizzonti sconfinati dello spirito umano. Per questo il Concilio Vaticano II afferma con passione che «la gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia degli uomini d’oggi, soprattutto dei poveri e dei sofferenti, sono anche la gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia dei discepoli di Cristo, e non c’è nulla di veramente umano che non trovi eco nel loro cuore» ([3]). Questo orizzonte, che si dilata fino ai confini dell’uomo e dell’umanità, trova la sua radice nel mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che con l’incarnazione ha assunto l’umanità dell’uomo: «Si tratta dell’uomo in tutta la sua verità, nella sua piena dimensione – scrive Giovanni Paolo II [1978-2005] –. Non si tratta dell’uomo “astratto”, ma reale, dell’uomo “concreto” […]. Tale sollecitudine riguarda l’uomo intero [...]. [...] l’uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana» ([4]). Nulla dunque è estraneo a Dio, al suo interesse d’amore per ciò che è umano, sia nella sua dimensione individuale che pubblica. La Chiesa, che è il prolungamento di Cristo nel tempo, continua l’amore di Dio per il mondo sapendo che «l’uomo è la via della Chiesa» ([5]); consapevole che «in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, [ma] è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana» ([6]).
2. Fare storia
Che cos’è la storia? Certamente non è la semplice cronaca quotidiana; questo è un aspetto soltanto, di superficie. Neppure, mi sembra, si può ridurre ai grandi eventi del mondo della politica, degli Stati: i trattati, gli incontri ad alto livello, le alleanze di tipo politico o economico, le solenni dichiarazioni, i conflitti e le guerre, gli accordi di pace. La storia è questo certamente, ma non«solo»questo, e neppure«soprattutto»questo. Mi sembra che gli accadimenti fanno storia in quanto sono espressione di ciò che potremmo chiamare un’altra storia, invisibile come sono le idee, ma concreta come i fatti che la cultura ispira. Possiamo dire che la storia è traduzione nei fatti di una visione spirituale e morale della realtà.
La storia è compito di ogni uomo. Tenendo conto di una dimensione che mi sembra costitutiva della storia, quella ideale e quella comunitaria, potremmo parlare di differenti livelli: delle singole persone, dei popoli, degli Stati.
— Innanzitutto delle persone; è questo il primo affluente della storia universale. La loro vita quotidiana fatta di gioie, speranze e dolori; di lavoro e famiglia; di affetti e rapporti: non è mai storia solamente individuale. È sempre anche storia di tutti perché nessuno vive solo. Anche il più desolante isolamento esiste comunque dentro ad un contesto di relazioni dalle quali uno si esclude o è escluso, ma dove resta. La vita quotidiana fa storia proprio perché la persona in sé è«relazione»: negare questo è chiudere gli occhi all’evidenza in nome di una esasperazione tale dell’individuo e della sua autodeterminazione, da portare all’individualismo che azzera la persona stessa. Tornando al punto, l’esistenza di ciascuno tocca gli altri in qualche misura, crea legami e situazioni che coinvolgono poco o tanto; alimenta o contrasta la mentalità dominante, il sentire comune; interroga chi ne è testimone diretto o indiretto; testimonia valori, ispira comportamenti generali, crea istituzioni e opere, genera uno stile di vita frutto di un ethos di fondo. In sintesi, rende trasparente una certa visione dell’uomo e del mondo, della vita, della sofferenza e della morte: una visione universale, una Weltanschauung. Senza sintesi non c’è storia, ma solo episodi. Nessuno dunque è invisibile: ciascuno partecipa al fluire del grande fiume umano, è protagonista: ed essere protagonista non è voglia di protagonismo, ma amore di identità.
— I popoli. I popoli, nella loro unità profonda, fanno storia avendo un raggio di azione e di efficacia più evidente dei singoli. Ma, ci chiediamo, che tipo di efficacia ha un popolo nel contesto del mondo? Che cosa porta alla costruzione della storia umana? Aiuta a rispondere a queste domande l’esempio di grandi popolazioni come i greci e i romani. Guardando a questi popoli, ai quali siamo profondamente legati, viene da pensare alla loro cultura prima che alle loro imprese politiche, economiche e militari. È su questo piano, fatto di valori e di idee, che queste«genti»hanno inciso sulla storia. Basta pensare ai rapporti fra Roma, la Grecia e i popoli nordici e slavi. Prima che al genio dei capi, la storia è determinata dalle idee e dai valori, come accade per le singole persone. I valori sono l’anima della cultura, la carta d’identità di un popolo. Non sono una sua componente, ma il suo fattore principale. Il senso di appartenenza ad un popolo, ad una Nazione, dipende dal riconoscersi in un quadro di valori che riguardano la vita e la morte, il loro significato, non tanto i fini ma il fine. Se questo non esiste o è giudicato inconoscibile, quindi consegnato all’individualismo di ciascuno, che cosa potrà attrarre gli uomini perché si sentano appartenenti ad una realtà di popolo? Che cosa li potrà sollecitare a sacrificarsi fino al dono della vita per la comunità?
— Gli Stati. L’apparato politico e legislativo, le diverse espressioni dell’autorità statale, fanno storia e – a prima vista – appaiono come i primi e più importanti protagonisti della storia umana. Se questo è vero per un certo aspetto, non dobbiamo dimenticare quanto abbiamo ricordato sopra, gli altri livelli o protagonisti. I livelli sono differenti, ma reale è la loro incisività nel corso delle cose. Fra l’altro, non sempre nella storia i popoli hanno mostrato accondiscendenza verso le decisioni degli Stati, indirizzando gli eventi in modo diverso. Ciò sta a testimoniare quanto ogni Stato debba sapersi e volersi come espressione del popolo, sapendo che questo è specificato da un insieme di idee e valori di tipo spirituale ed etico che costituiscono«l’anima della nazione», la sua identità profonda. Qualora uno Stato dovesse tradire quest’anima, tradirebbe la gente in ciò che ha di più intimo e più suo. Colpirebbe ciò che consente ad una moltitudine di sentirsi«popolo»e ad un territorio di essere sentito come«casa», «patria». Tradire l’anima di un popolo – magari con processi corrosivi e subdoli – vuol dire sgretolare, in nome di qualche ideologia o disegno politico- economico, ciò che consente ad ognuno di sentirsi parte di un tutto; significa derubarlo di ciò in cui crede, che gli appartiene, che gli è stato tramandato come patrimonio, che è la sua forza unificante. Un patrimonio ideale che, nella pluralità delle forme ma nell’unità fondamentale del pensare e del sentire, permette di percepirsi«famiglia». Per questo motivo, intaccare direttamente i valori spirituali e morali di una comunità e di un Paese, è attaccare la sua integrità e fare cattiva storia. Ma anche la diffusione di falsi miti, l’esaltazione dell’avere, la propaganda dell’apparenza e del facile successo – in una parola, della menzogna – aggredisce la base valoriale di un popolo, lo svilisce nel suo sentire, e lo indebolisce nella sua capacità di futuro. Tutto viene confinato nell’angusto perimetro del presente: l’antico motto – «panem et circenses»– è noto come strategia per svuotare la mente e l’anima. Oggi, nello scenario occidentale, al posto di questo criterio – che ha un evidente costo economico – si potrebbe sostituire un altro motto,«fa tutto quello che vuoi». Inteso in senso assoluto e individualistico, esso disgrega l’anima popolare e il senso di appartenenza ad una identità che crea comunione fra gli uomini e permette la comunità di vita. La storia che manifesta l’eclisse dello spirito va contro l’uomo, diventa«anti-storia». Le luci e le ombre sono sempre intrecciate nel fluire del tempo, ma è necessario giudicare la storia. È necessario un criterio di giudizio per poter discernere i filoni luminosi da quelli oscuri, le linee evolutive e quelle che, invece, segnano retrocessioni anche gravi in ambiti vitali.
La convinzione che la direttrice di fondo della storia sia il progresso, e che perciò il bene venga sempre e solo dal futuro, è un pregiudizio diffuso e coltivato. Ma per smascherare il pregiudizio è necessario il giudizio con la sua libertà e il suo coraggio; soprattutto con la sua verità. Il criterio di giudizio non può essere che la verità dell’uomo, il bene autentico suo e della società: questo – il bene – è alla sua radice di natura spirituale ed etica, cioè«culturale».
3. Una Chiesa di popolo
Il Signore Gesù ha istituito la Chiesa sui Dodici: la nostra fede si fonda, in ultimo, sulla loro esperienza di Cristo. Con Lui hanno condiviso fatica e riposo, fame e sete, successi e rifiuti; hanno ascoltato la sua parola all’aperto delle strade e dei monti, come nell’intimità del cenacolo; sul suo volto hanno fissato gli sguardi a volte fieri e a volte spauriti, alla ricerca dei suoi sentimenti, nel desiderio di scoprire il suo mistero interiore. A loro Egli ha lasciato il suo testamento e dall’alto della croce ha svelato il vero volto di Dio – amore misericordioso – e il vero volto dell’uomo creato per amore e per amare. Al Padre ha elevato la sua accorata preghiera nella sera infinita e dolente del Cenacolo: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). È questa la natura della Chiesa e la prima, necessaria strada dell’evangelizzazione: l’unità dei fratelli che nasce dalla comunione con Cristo. Con il mistero dell’Incarnazione, il Figlio di Dio compie la redenzione e immette nella vita umana la vita divina, svelando che Dio – l’unico che veramente rispetta la libertà dell’uomo – copre l’intero orizzonte dell’esistenza con la verità esigente dell’amore e con l’amore caldo della verità. Ricorda che tutta la creazione porta l’impronta del Logos: «E Dio vide che era cosa buona» (Gn 1,10). La realtà lascia trasparire la luce del bene come il suo ordito più vero, il suo destino e – quando la realtà è tenebrosa – come nostalgia o angosciata invocazione. Il Signore Gesù è la pienezza di questa luce divina che illumina il mondo, lo riscatta dalle ombre, lo apre alla speranza: grazie a Cristo crocifisso, anche il dolore innocente trova un senso.
Alla Chiesa – Corpo mistico – Gesù affida il suo vangelo, parola di vita eterna, e le vie della grazia, i sacramenti. Al magistero dei Successori dei Dodici, stretti attorno al Successore di Pietro, affida l’autenticità della fede che sale dalle origini, gli apostoli. Chi incontra Cristo, il Crocifisso glorioso, scopre il cuore di Dio: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). In questa sovrabbondanza d’amore, si racchiude il senso della redenzione e il significato della storia umana. È una «aletheia», una verità che si disvela nel vangelo, ma non è una sorta di gnosi, di conoscenza misterica per pochi iniziati. È bensì la conseguenza di un incontro decisivo che cambia la vita del credente. È il frutto di un’amicizia personale con Cristo, un’amicizia che si rinnova ogni giorno; credere non significa aderire ad una dottrina, ma vivere riferiti a Lui che ci dona il suo amore e il suo pensiero: «Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1 Cor 2,16). Quando l’apostolo Pietro – a Gesù che chiede «Volete andarvene anche voi?» – risponde a nome di tutti «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,67-68) non indica solo una nuova dottrina insegnata con autorità (cfr. Mc 1,27), ma dice che quella verità che illumina e salva è Lui stesso, il Signore, è la sua persona concreta. Con Lui essi vivono, di Lui sperimentano la compagnia, per Lui lasciano padre, madre, figli e campi (cfr. Mt 19,29). Dentro questa esperienza essi trovano se stessi, il loro presente e il futuro, il tempo e l’eternità. Con Lui, nella luce della sua parola e della sua presenza, scoprono il senso vero dello stare insieme come Chiesa e come società. Scoprono un modo nuovo di vedere le cose, la vita, gli altri, il mondo, i valori. Per questo fanno storia sia come singoli che come gruppo, come popolo di credenti.
Gli Atti degli Apostoli testimoniano questo modo diverso di essere nel mondo, di fare storia, una storia più umana perché fatta con Cristo. Un modo che, ad esempio, è rispettoso dell’autorità dell’imperatore, ma nella verità: solo a Dio va il culto e l’adorazione. Un modo che ha al centro la persona nella sua corporeità e nella sua trascendenza spirituale, che mai può essere ridotta a strumento poiché immagine e somiglianza di Dio, redenta dal sangue di Cristo. Il vangelo non è per pochi iniziati, ma per tutti; così la Chiesa non è per delle élite ma Chiesa di popolo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). La sua cattolicità è la sua universalità.
4. Sale e luce della storia
«Voi siete il sale della terra [...] voi siete la luce del mondo» (Mt 5, 13-14). Le parole di Gesù sono chiare e non ammettono sofismi: per annunciare il Vangelo, è necessario che i cristiani siano dentro al mondo pur senza assimilarsi al mondo (cfr. Gv 17-14).
Il vero, unico sale della storia è Cristo: egli solo preserva dalla corruzione della morte e restituisce all’universo il sapore delle origini, il gusto del pane appena uscito dalle mani del Creatore. Gesù non esorta i discepoli perché«siano»sale e luce, ma dichiara che essi«sono»sale e luce. È dunque un dato di fatto che egli indica: dice non ciò che ha fatto per loro, ma ciò che ha fatto di loro.
4.1 L’immagine del sale indica la via della«discesa», del nascondimento, della condivisione quotidiana, paziente e fiduciosa, della vita della gente. In una parola suggerisce l’incarnazione nel mondo. Le innumerevoli parrocchie in Italia, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i diaconi permanenti, i gruppi, le associazioni e i movimenti, i moltissimi laici che – singolarmente o organizzati – sono presenti con la testimonianza e la fantasia della carità, dell’evangelizzazione e della catechesi, le scuole cattoliche, gli ospedali, le molteplici iniziative di incontro, di annuncio, di preghiera, di educazione e di assistenza ai bisognosi non esprimono forse la realtà del sale di cui parla Gesù? Non sono forse segni permanenti di una prossimità capillare e quotidiana al popolo, che quindi si sente un popolo che è Chiesa? Non sono forse espressione di una storia che nasce e si alimenta del pensiero di Cristo?
Non è la voglia di mondano protagonismo che muove la Chiesa fin dalle sue origini, ma il bisogno del cuore: l’amore a Cristo, all’uomo, al mondo nel quale la Chiesa è fatta carne. Cercare di vivere secondo il Vangelo, secondo la visione della vita e del mondo che ha ricevuto, crea una storia che – come il sale – vive nella storia umana, s’intreccia con essa e la contagia elevandola ad una pienezza altrimenti irraggiungibile: «Se Dio non esiste, tutto è permesso», scrive Fëodor Dostoevskij [1821-1881] nei Fratelli Karamazov ([7]).
4.2 Ma l’immagine del sale deve essere completata da quella della luce: la luce dona alle cose il loro volto. Nel buio tutto è indistinto, regna la confusione, si perde la strada. La luce suggerisce dunque la visibilità della presenza cristiana: se non c’è visibilità senza conoscere e condividere la vita concreta degli uomini, non c’è neppure condivisione senza una qualche visibilità personale e comunitaria che sia risposta e profezia. Le opere della Chiesa, che ho sopra ricordato, sono il segno dell’essere sale per un verso e luce per un altro.
Oggi, come in altri periodi della storia, si vuole che la Chiesa rimanga in chiesa. Il culto e la carità sono apprezzati anche dalla mentalità laicista: in fondo – si pensa – la preghiera non fa male a nessuno e la carità fa bene a tutti. In altri termini, si vorrebbe negare la dimensione pubblica della fede concedendone la possibilità nel privato. A tutti si riconosce come sacra la libertà di coscienza, ma dai cattolici a volte si pretende che essi prescindano dalla fede che forma la loro coscienza.
I credenti sono luce tenendo alta la verità del vangelo, l’annuncio di Gesù, la grande speranza come ricorda il Santo Padre Benedetto XVI ([8]). Se i mali di oggi derivano dal rifiuto di Cristo, la missione della Chiesa è quella di essere ancor più missionaria ricordando da un lato l’apostolo Paolo – «Guai a me se non predicassi il Vangelo» (1 Cor 9,16) – e dall’altro l’assicurazione di Gesù: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Il Santo Padre, in una intervista alla televisione tedesca, diceva che è necessario «[...] rendere visibile il Dio col volto umano di Gesù Cristo – poiché quando vediamo Gesù vediamo Dio – offrendo così agli uomini l’accesso a quelle fonti senza le quali la morale si isterilisce e perde i suoi riferimenti» ([9]). È urgente che attraverso la testimonianza e l’annuncio emerga «quel grande che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia al mondo. Il cristianesimo è infatti aperto a tutto ciò che di giusto, vero e puro vi è nelle culture e nelle civiltà, a ciò che allieta, consola e fortifica la nostra esistenza» ([10]).
4.3 Oggi, però, il popolo di Dio è chiamato a partecipare alla storia umana anche con la difesa della ragione. Può sembrare singolare che la fede difenda la ragione, ma – come già ho detto – Cristo salva l’uomo nella sua interezza. Il relativismo, che il Papa richiama come un tarlo della società e della storia occidentale, richiede la luce della ragione intesa come la facoltà del vero. Affermare l’efficacia della ragione non è«totalmente altro»dall’annuncio evangelico; non significa diminuire il vangelo per impicciarsi di argomenti di competenza altrui. È intrinsecamente connesso: fede e ragione si richiamano a vicenda, sono implicati reciprocamente nell’unità della persona, «ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione» ([11]).
Si potrebbe pensare che nell’epoca del pluralismo culturale sia arrogante giudicare gli eventi della storia con la verità del vangelo, che sia un atteggiamento di intellettuale fondamentalismo. Ci si chiede se la verità morale, legata ad una scelta religiosa, possa ispirare l’ordinamento civile valido per tutti. È una questione giusta e delicata. Se è gravemente ingiusto tradurre in termini di ordinamento pubblico certe scelte etico-religiose, è scorretto ridurre ogni posizione assunta dai credenti a scelta«confessionale», e quindi totalmente individuale e privata. Certi valori – come nel campo della vita umana e della famiglia, della concezione della persona, della libertà e dello Stato – anche se sono illuminati dalla fede, sono anzitutto bagaglio della buona ragione. Cicerone scrive: «Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione. Essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano ai doveri; i suoi divieti trattengono dall’errore» ([12]).
Nel Messaggio per la 40° Giornata Mondiale della Pace (1 gennaio 2008), il Santo Padre ha ricordato anche i sessant’anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU, e ha scritto: «I diritti enunciati nella Carta sono espressione ed esplicitazione della legge naturale, iscritta nel cuore dell’essere umano e a lui manifestata dalla ragione ([13]) [...]. La norma giuridica [...] ha come criterio la norma morale basata sulla natura delle cose. La ragione umana, peraltro, è capace di discernerla, almeno nelle sue esigenze fondamentali, risalendo così alla Ragione creatrice di Dio ([14]) [...]. Pur con perplessità e incertezze, [l’uomo] può giungere a scoprire, almeno nelle sue linee essenziali, questa legge morale comune che, al di là delle differenze culturali, permette agli essere umani di capirsi tra loro circa gli aspetti più importanti del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto» ([15]) 1-1-2008). Anche l’enciclica Veritatis splendor afferma che «l’uomo può riconoscere il bene e il male grazie a quel discernimento del bene e del male che egli stesso opera mediante la sua ragione» ([16]).
5. Custodia e memoria
La Chiesa fa storia e, come sale e lievito, partecipa alla costruzione della storia universale. La Chiesa custodisce, infatti, la memoria della storia dell’uomo fin dalle origini: la memoria della sua creazione, della sua dignità e della sua caduta. La memoria della sua redenzione in Cristo. È da questa memoria che essa guarda la storia vedendola sempre come storia di salvezza. Per questo la visione che ne ha il cristianesimo non è solo«orizzontale», ma anche«verticale»: a scrivere la storia non sono solo gli uomini. Con loro scrive anche Dio: con l’incarnazione, Dio è entrato nel tempo e da nessun luogo è ormai«assente». Anche là dove vince il male, Cristo è presente e porta la croce con gli uomini; la porta e le dona un senso di eternità e di vita. La storia da allora è attraversata da una promessa che è anche una presenza: Dio salva gli uomini rispettandone la libertà ma non cessando di amarli. Il tempo non è un eterno ritorno del medesimo, ma una linea aperta che, pur tra errori e incertezze, cammina verso il suo compimento di felicità e di vita. Questa visione di speranza e di fiducia è propria della Chiesa, ma è a disposizione non solo dei credenti, lo è anche del mondo.
Sull’esempio di Maria, la Chiesa come madre custodisce nel cuore la storia dei suoi figli e dell’umanità. È una memoria viva che cresce con la testimonianza degli apostoli consacrata dai martiri: la Tradizione non è altro, infatti, che l’impegno della Chiesa di tramandare intatto il mistero di Cristo e del suo pensiero: «E lui (lo Spirito Santo) vi insegnerà ogni cosa, e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26).
Nella luce di questa memoria – dove fede e ragione si incontrano in modo virtuoso – il popolo di Dio affronta la vita e il mondo; crea opere, pone giudizi, plasma rapporti e gruppi; ispira mentalità e motiva valori, guarda al futuro con fiducia, convinto che tutto si compirà nell’evidenza della luce. Appunto, crea storia. Nessuno è escluso, né persone, né cose, né culture: lo dice il cammino dell’Europa se guardato con occhi sereni. A partire da questa memoria custodita e amata, lo storia ruota attorno alla concezione dell’uomo, che nel cristianesimo giunge alla sua pienezza e che sta alla base dell’umanesimo europeo. Si può giustamente rilevare che ciò non ha impedito errori e orrori in Europa; ma, a ben pensare, se ciò è accaduto non è stato perché sia stata troppo cristiana, ma perché lo è stata troppo poco.
La Chiesa dice al mondo – in particolare oggi all’Europa – che il passato non può essere impunemente negato in nome dell’economia, della tecnologia o dello scientismo. Ricorda che il ruolo del passato ha rilievo ed ha un valore imprescindibile per l’oggi, pena lo sfaldamento dell’identità di una nazione o di un continente. Pena lo smarrimento personale e collettivo di un popolo che non sa più chi sia e dove vada. Invita tutti a riprendere il bandolo del proprio passato con i suoi grandi tratti distintivi per potersi pensare di nuovo come un intero, e così progettare il futuro affrontando senza paure o complessi, a viso alto, le sfide della modernità; senza rincorrere i«vicini di casa»considerati sempre e comunque migliori, più avanzati, più moderni di noi. La Chiesa ricorda al secolarismo e al laicismo che pretendere di costruire la storia senza Dio è costruirla contro l’uomo. Ricorda al nostro vecchio e amato continente che il resto del mondo guarda con sospetto questa pretesa, la sente come una presunzione innaturale e pericolosa, intuisce che racchiude in sé il germe del disfacimento spirituale e morale, dell’oscuramento dell’anima, che non riguarda solo gli individui, ma i popoli, la loro stessa possibilità di esistere.
Porto, a conclusione di queste considerazioni, due testimonianze: di un convertito al cattoli­ce­si­mo, Thomas Eliot [1888-1965], e di un ebreo neo-hegeliano, Karl Löwith [1897-1973].
«La forza dominante nella creazione di una cultura comune tra i popoli, ciascuno dei quali abbia una cultura distinta, è la religione. Vi prego, a questo punto, di non compiere un errore anticipando quel che intendo dire. Questa non è una conversazione religiosa, né mi dispongo a convertire alcuno. Mi limito a constatare un fatto. Non mi interesso molto della comunione dei cristiani credenti ai giorni nostri; parlo della comune tradizione cristiana che ha fatto l’Europa quella che è, e dei comuni elementi culturali che questa cristianità ha portato con sé [...]. Un singolo europeo può non credere che la fede cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice e fa, scaturirà dalla parte della cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato. Solamente una cultura cristiana avrebbe potuto produrre un Voltaire e un Nietzsche. Non credo che la cultura dell’Europa potrebbe sopravvivere alla sparizione completa della fede cristiana [...]. Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura» ([17]).
«Il mondo storico – scrive Karl Löwith – in cui si è potuto formare il pregiudizio che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la dignità e il destino di essere uomo, non è originariamente il mondo [...] del Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo. L’immagine che sola fa dell’homo del mondo europeo un uomo, è sostanzialmente determinata dall’idea che il cristiano ha di sé, quale immagine di Dio [...]. Questo riferimento storico [...] risulta indirettamente chiaro, per il fatto che soltanto con l’affievolirsi del cristianesimo è divenuta problematica anche l’umanità» ([18]).
Tornando all’Europa, sta qui la radice dell’umanesimo del quale è in debito con tutti. Un umanesimo non nominalistico ma integrale, concreto e fondato in modo trascendente. «Non tutti gli umanesimi, infatti, sono equivalenti sotto il profilo morale – diceva Benedetto XVI ai vescovi sloveni in visita ad limina –. Non mi riferisco qui agli aspetti religiosi, mi limito a quelli etico-sociali. A seconda della visione di uomo che si adotta, infatti, si hanno conseguenze diverse per la convivenza civile. Se, per esempio, si concepisce l’uomo, secondo una tendenza oggi diffusa, in modo individualistico, come giustificare lo sforzo per la costruzione di una comunità giusta e solidale?» ([19]).
Concludiamo con le parole di Gesù: non «[...] si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa, e gli otri van perduti. Ma si mette vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano» (Mt 9,17). Il vangelo è entrato nella storia come carne e sangue, come vita; e la carica rivoluzionaria del vangelo non è un messianismo ideologico e utopico, né una riforma stanca e impossibile, potremmo dire un semplice e tiepido aggiustamento. La vera rivoluzione del vangelo è Cristo in noi: da qui nasce e continuamente si purifica e si alimenta l’autentica riforma. Qui sta la«riforma»prima ed essenziale, il«rinnovamento»dell’uomo, cioè la conversione del cuore. La fede immette nel credente l’amore di Cristo e questo amore ne fa una creatura nuova, capace di pensiero e di vita nuova. Capace di partecipare alla storia umana con qualcosa di proprio e di importante da dire per il bene di tutti nel segno della gratuità, e quindi dell’amore. Capace di partecipare alla vita politica nel segno della democrazia e della verità.
Angelo card. Bagnasco
+ Arcivescovo di Genova
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
Rimini, domenica 24 agosto 2008

([1]) Cfr. Josef Pieper, Che cosa significa filosofare, trad. it., a cura di Franco Bosio,Patron, Bologna 1971; cfr. anche «Siccome non è “puro” spirito, l’uomo non riesce a vivere esclusivamente al cospetto della realtà universale, vis-à-vis de l’univers; non può dimorare solo “sotto le stelle”, ha bisogno di un tetto sopra la testa» (Idem, Verità delle cose. Un’indagine sull’antropologia del Medioevo, 1966, trad. it., Massimo, Milano 1981, pp. 117-123).
([2]) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n. 1.
([3]) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 2.
([4]) Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptor hominis, del 4 marzo 1978, n. 13.
([5]) Ibid., n. 14.
([6]) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 76.
([7]) Non è in virtù di una legge di natura che l’amore è stato coltivato dagli uomini, ma solo perché essi hanno creduto nella loro immortalità: se, quindi, nell’uomo cade la fede nella propria immortalità, «[…] subito si inaridirà in lui non solo l’amore, ma anche qualsiasi forza vitale capace di perpetuare la vita nel mondo [e] allora non ci sarà più niente di immorale, tutto sarà permesso, perfino l’antropofagia» (Fëodor Michajlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov, trad. it., 3a ed., Rizzoli, Milano 2005, p. 95): è il celebre paradosso passato alla storia nella semplificazione dell’enun­cia­to «Se Dio è morto, tutto è permesso» (ndr).
([8]) Cfr. Benedetto XVI, Enciclica Spe salvi, del 30 novembre 2007, n. 27.
([9]) Idem, Intervista alle televisioni tedesche Bayerischer Rundfunk, Zweites Deutsches Fernsehen, Deutsche Welle e alla Radio Vaticana in preparazione del viaggio apostolico in Baviera del settembre 2006, del 5-8-2006.
([10]) Id., Discorso al Convegno Ecclesiale di Verona, del 19 ottobre 2006.
([11]) Id., Enciclica Spe salvi, n. 23.
([12]) Platone, La Repubblica, II, 22, 33.
([13]) Benedetto XVI, Messaggio per la 40° Giornata Mondiale della Pace (1 gennaio 2008), n. 4.
([14]) Ibid., n. 12.
([15]) Ibid., n. 13.
([16]) Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, del 6 agosto 1993, n. 44.
([17]) Thomas Stearns Eliot, Appunti per una definizione della cultura, in Opere, trad. it., Bompiani, Milano 2003, pp. 638-639.
([18]) Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche, trad. it., Einaudi, Torino 1994, p. 482.
([19]) Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Slovenia in visita ad limina, del 24 gennaio 2008.


Bisogna contrastare la cristianofobia
Mario Mauro, vicepresidente del Parlamento Europeo, ha introdotto nel salone D7 l’incontro “Protezione e diritto di libertà religiosa” con un dettagliato elenco di uccisioni e rapimenti di cristiani e religiosi degli ultimi giorni. Ovvio il riferimento ai recenti fatti dell’Orissa che ancora una volta mostrano come la persecuzione per causa religiosa sia un fatto di fronte al quale è necessario prendere posizione.
“È ardito esortare i cristiani ad essere ‘protagonisti’” - esordisce monsignor Dominique Mamberti, segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede - “ infatti nella mentalità comune è protagonista solo chi raggiunge il successo, ma don Giussani aveva capito che, in realtà, solo l’uomo religioso, cioè consapevole del suo legame con Dio, è veramente protagonista”.
Riportiamo quasi integralmente l'intervento di mons Mamberti tenuto a Rimini venerdì 29 agosto...



di mons. Dominique Mamberti

Tutti sappiamo che, proprio in questi giorni, sono scoppiate gravi violenze contro le comunità cristiane nello Stato indiano dell'Orissa, in seguito al deplorevole assassinio di un leader indù. Alcune persone sono state uccise, diverse altre sono state ferite; vari centri di culto, proprietà della Chiesa e abitazioni private sono stati distrutti. Per questo motivo, mercoledì scorso il Santo Padre ha condannato con fermezza ogni attacco alla vita umana - la cui sacralità esige il rispetto di tutti - e ha voluto esprimere spirituale vicinanza e solidarietà ai fratelli e alle sorelle nella fede indiani, così duramente provati.
Il tema della libertà religiosa è dunque di grande attualità. Anche per questo, ho ascoltato con attenzione le parole del Vice-Presidente del Parlamento Europeo, Mario Mauro, promotore di una Risoluzione che ha avuto vasta risonanza, "sui gravi episodi che mettono a repentaglio l'esistenza delle comunità cristiane e di altre comunità religiose". Tale documento passa in rassegna numerose violazioni e gravi violenze contro i Cristiani e i membri di altre religioni, proponendosi non tanto di essere esaustivo, quanto piuttosto di lanciare un messaggio politico ai responsabili di tali efferati episodi e alle stesse istituzioni europee, non sempre immuni da una sorta di pregiudizio antireligioso e, in particolare, anticristiano. La Risoluzione, infatti, oltre a menzionare problemi, situazioni ed episodi, chiede al Consiglio e alla Commissione di prestare particolare attenzione alla situazione delle comunità religiose, comprese quelle cristiane, nel momento dell'elaborazione e implementazione dei suoi programmi di cooperazione e di aiuto allo sviluppo di Paesi dove dette comunità sono minacciate. La Risoluzione, pertanto, è diventata un utile punto di riferimento, nella doverosa vigilanza del rispetto della libertà religiosa.
Ovviamente tutti sappiamo - e l'onorevole Mauro è fra i primi ad avvertirlo - che le sfide alla libertà religiosa non si trovano solo fuori dal "giardino" della nostra "casa occidentale", nonostante una delle sue "strutture portanti" sia proprio la libertà, intesa come bisogno fondamentale della persona. L'odierna cultura occidentale rischia, però, di contrapporre la libertà alla verità e alla giustizia. La libertà, invece, ha bisogno di un fondamento che le permetta di svilupparsi, senza mettere a rischio la dignità umana e la coesione sociale. Tale fondamento non può che essere trascendente, perché soltanto esso è così "alto" da consentire alla libertà di espandersi al massimo e, contemporaneamente, così "saldo" da poterla orientare e qualificare in qualunque circostanza. Solo la fede nell'Assoluto trascendente è garanzia dai falsi assoluti terreni. Laddove Dio è considerato una grandezza secondaria, che si può temporaneamente o stabilmente mettere da parte, in nome di cose più importanti, allora falliscono proprio queste presunte cose più importanti. Lo dimostra l'esito tragico di tutte le ideologie politiche, anche di segno opposto.
Alla luce di quanto ho osservato, è facile comprendere che l'impegno in favore della libertà religiosa, in qualche modo, soggiace a quasi tutte le pratiche quotidianamente trattate dalla Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, che ho l'onore di presiedere. Si potrebbe aggiungere che la Santa Sede se ne occupa da sempre, anche se ovviamente in modalità e in direzioni diverse, in forza del legame strettissimo che intercorre fra la sua natura e missione e, appunto, la libertà religiosa.
La natura religiosa della Santa Sede e la sua vocazione universale fanno sì che la sua diplomazia non determini le proprie priorità sulla base d'interessi economici o politici e che non abbia ambizioni geo-politiche. Le priorità "strategiche" della diplomazia pontificia sono, anzitutto, l'assicurazione di condizioni favorevoli all'esercizio della missione propria della Chiesa cattolica in quanto tale, ma anche alla vita di fede dei suoi membri e, quindi, al libero esercizio dei loro diritti umani e delle loro libertà fondamentali.
Nella riflessione della Chiesa - e qui penso, anzitutto, ai documenti più recenti e autorevoli, come la Dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano ii - la libertà religiosa è un diritto soggettivo insopprimibile, inalienabile e inviolabile, con una dimensione privata e un'altra pubblica; una individuale, un'altra collettiva e una anche istituzionale.
In tale prospettiva, mi preme segnalare l'errore in cui incorrono quanti, oggi, interpretano la libertà religiosa come libertà dalla religione. Essi, infatti, presuppongono che la religione sia un pericolo o un nemico, piuttosto che un'esigenza insopprimibile di ogni persona, in ogni luogo e in ogni tempo; più profondamente, negano la dimensione trascendente della persona. Senza dire che, per difendere la libertà, ne esprimono in realtà una concezione riduttiva, perché la intendono solo come esenzione da coercizioni esterne, vere o presunte, ma non come possibilità di aderire al vero e al bene e di agire di conseguenza.
Nell'ambito delle Nazioni Unite, il tema della libertà religiosa è affrontato ogni anno, in modo specifico, a New York e a Ginevra. A New York, nel Terzo Comitato dell'Assemblea Generale, la Santa Sede partecipa ai negoziati sulla risoluzione concernente tale argomento e pronuncia sempre un intervento.
Anche a Ginevra si discute regolarmente sulla libertà religiosa, durante le sessioni del Consiglio dei Diritti Umani. In tali circostanze, la Santa Sede è solita prendere la parola sui temi della libertà, dell'intolleranza religiosa e della diffamazione delle religioni. Inoltre, segue il tema nell'ambito dei negoziati informali sulle Risoluzioni che verranno adottate dal Consiglio.
Per quanto riguarda il sistema onusiano, è oggetto di particolare attenzione anche la relazione annuale sul rispetto della libertà religiosa nel mondo. Il Rapporteur ha visitato due volte la Santa Sede, per approfondire vari temi afferenti al suo mandato.
Sia nell'ambito delle Nazioni Unite che in quello dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), come si dirà più avanti, la Santa Sede non si stanca di sottolineare che il fondamento del diritto alla libertà religiosa si trova nella pari dignità di tutte le persone umane. Di conseguenza, per promuovere tale dignità in modo integrale, si deve combattere con efficacia, tanto la cosiddetta cristianofobia, come l'islamofobia e l'antisemitismo.
L'espressione "cristianofobia" è stata introdotta per la prima volta nel 2003, in una Risoluzione del Terzo Comitato della 58 Assemblea Generale dell'Onu. In tale circostanza, il termine venne associato all'islamofobia e all'antisemitismo e, da allora, è comparso in vari Documenti Onu e di altri Organismi internazionali, senza tuttavia essere mai stato definito. Tutto considerato, mi pare che esso consista in un insieme di comportamenti, raggruppabili in tre ambiti: l'erronea educazione, o addirittura la disinformazione sui Cristiani e sulla loro religione (specie attraverso i media); l'intolleranza e la discriminazione subita dai cittadini cristiani, segnatamente a causa della legislazione o di provvedimenti amministrativi, rispetto a quanti professano altre religioni, oppure non ne seguono alcuna; le violenze e la persecuzione.
Come si vede, la discriminazione e l'intolleranza verso i Cristiani rappresentano problematiche di speciale rilievo, a livello umano, politico e sociale, oltre che religioso. Esse vanno affrontate con la stessa determinazione con cui si combattono l'antisemitismo e l'islamofobia, se si vuole porre rimedio a ciascuna di tali questioni, che purtroppo restano di grande attualità. Per quanto riguarda la Chiesa Cattolica, basterà ricordare che, nel 2007, i missionari uccisi sono stati ventuno.
In Iraq si calcola che, prima del 2003, i cittadini cristiani fossero approssimativamente un milione. Adesso, circa la metà di loro ha lasciato il Paese, rifugiandosi soprattutto in Siria e in Giordania. I fattori delle aggressioni sono molteplici: economici, ma anche specificamente religiosi, ossia violenze inflitte a motivo della fede. Di qui, la necessità di porre fine a esse e di assicurare un aiuto umanitario ai Cristiani rifugiatisi nei territori limitrofi, nonché a coloro che, invece, sono sfollati all'interno del Paese. Inoltre, occorrerebbe normalizzare lo status di quanti si trovano in vari Stati europei, quali immigrati irregolari.
In numerosi altri Paesi, poi, i Cristiani sono vittime di pregiudizi, di stereotipi e d'intolleranze, magari di carattere culturale.
A fronte di tale situazione, ben si comprende che l'efficacia dell'azione internazionale dipenda, in buona misura, dalla sua credibilità e, pertanto, anche dal suo carattere "inclusivo". In altre parole, sarebbe paradossale omettere di adottare misure concrete per garantire ai Cristiani di godere della libertà religiosa senza alcuna forma di discriminazione, oppure creare una sorta di gerarchia fra le intolleranze, proprio mentre si cerca di eliminare la discriminazione e l'intolleranza. D'altro canto, sarebbe pure sbagliato che le comunità religiose strumentalizzassero qualsiasi misura legale o amministrativa nei loro confronti, tacciando di discriminazione ogni legittimo rilievo mosso in merito alle loro attività.
Nell'ambito delle Nazioni Unite, le Delegazioni della Santa Sede cercano inoltre di focalizzare il dibattito sul valore e sulla portata della libertà religiosa in se stessa, per evitare che sia considerata esclusivamente in rapporto ad altri diritti e quasi come se fosse un ostacolo, anziché una garanzia per il loro esercizio. Il problema è che, talvolta, si spacciano semplici pretese come veri diritti, oppure si assolutizzano alcuni diritti negandone altri o, almeno, stabilendo delle priorità arbitrarie tra i diritti e ostacolando il pieno esercizio di alcuni di essi.
Infine, la Santa Sede non manca di seguire con attenzione le iniziative promosse nell'Onu, ma anche in altre Organizzazioni internazionali, per dare impulso al dialogo interculturale e interreligioso. Come ha ricordato il 7 gennaio scorso Benedetto XVI al Corpo diplomatico, "per esser vero, questo dialogo deve essere chiaro, evitando relativismi e sincretismi, animato da un sincero rispetto per gli altri e da uno spirito di riconciliazione e di fraternità". Il dialogo interreligioso, pertanto, non serve a "livellare" le religioni, o per lo meno a "sfumarne" le differenze e, di conseguenza, a porre fine alla loro incompatibilità e alla loro pretesa di verità. Nemmeno "consiste nell'aiutarsi reciprocamente, per esempio, a divenire migliori Cristiani, Ebrei, Musulmani, Induisti o Buddisti. Questa sarebbe la più completa assenza di convinzioni, in cui - magari con il pretesto di convalidare ciò che ciascuno ha di meglio - non prenderemmo sul serio né noi né gli altri e rinunceremmo definitivamente alla verità" (J. Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Cinisello Balsamo 2000, p. 73). Tale dialogo, piuttosto, può favorire la collaborazione delle religioni su temi di comune interesse, come la dignità della persona umana e la costruzione della pace; incoraggia il rispetto profondo per la fede dell'altro e la disponibilità a cercare, in ciò che s'incontra come estraneo, la verità che può aiutare ogni persona a progredire. In nessun caso, però, può avvenire nella rinuncia alla verità; anzi, è possibile solo mediante il suo approfondimento. Il relativismo, infatti, non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo. La rinuncia alla verità e alla convinzione non innalza l'uomo e neppure lo avvicina agli altri. Inoltre, dette iniziative internazionali debbono essere consapevoli che la religione ha caratteristiche specifiche, che vanno rispettate.
Per quanto riguarda le Organizzazioni internazionali di carattere regionale, va ricordato che la Santa Sede è membro a pieno titolo dell'Osce. Per merito della Santa Sede, infatti, l'Atto Finale di Helsinki annovera espressamente la libertà religiosa fra i diritti umani che gli Stati firmatari si sono impegnati a rispettare, per assicurare pace e sicurezza ai propri cittadini. La Santa Sede è sempre stata un punto di riferimento sull'argomento, anche perché si è presentata come portatrice di interessi religiosi generali e non soltanto confessionali cattolici.
Nello sviluppo del processo di Helsinki, in merito alla libertà religiosa ci si è mossi lungo una duplice linea. Nei primi anni, ci si è sforzati di ottenere il riconoscimento del contenuto di tale diritto e ciò è stato raggiunto, in modo soddisfacente, con il documento conclusivo della Riunione di Vienna del 1989. Negli ultimi anni, invece, si è sottolineato, anzitutto, che il tema della libertà religiosa non può essere incorporato dentro quello della tolleranza. Se, infatti, questa fosse il supremo valore umano e civile, allora ogni convinzione autenticamente veritativa, che escluda le altre, sarebbe intolleranza. Per giunta, se ogni convinzione fosse altrettanto buona di un'altra, si finirebbe per essere tolleranti anche nei confronti di aberrazioni. Portando all'estremo quest'aporia, Engelhardt è giunto a denunciare il seguente paradosso: "Se non si riesce a dimostrare l'immoralità di certe linee di condotta, allora l'assistenza sanitaria fornita da Albert Schweitzer e quella prestata nei campi di concentramento nazisti saranno ugualmente difendibili (...) il comportamento degli individui moralmente repellenti sarà giustificabile o ingiustificabile, né più né meno di quello dei santi" (H. T. Engelhardt, Manuale di bioetica, Milano 1999, p. 22).
La dignità dell'uomo si fonda sulla sua capacità di verità. Assolutizzare la tolleranza è, invece, ritirarsi davanti a tale dignità. Assolutizzare la tolleranza, infatti, signi***** trasformarla in valore supremo, ma ciò inevitabilmente mette la verità in secondo piano e la relativizza. La rinuncia alla verità, a sua volta, consegna l'uomo al calcolo del più forte, dell'utile o dell'immediato, privando la persona della sua grandezza.
Alla luce di tale convinzione, la Santa Sede ha inoltre ottenuto che, nell'ambito del cosiddetto "programma sulla tolleranza" dell'Osce, non ci si occupi esclusivamente dei pur gravi fenomeni di antisemitismo e di discriminazione contro i Musulmani, ma anche dei parimenti inaccettabili episodi di intolleranza contro i Cristiani. La Santa Sede è stata poi l'artefice dell'istituzione di un Rappresentante Speciale del Presidente in esercizio dell'Osce, con il compito di monitorare e riferire circa gli episodi di razzismo e di discriminazione, con un "focus" particolare su quelli contro i Cristiani e i membri delle altre religioni. In seguito, ci si è adoperati perché, in alcune Conferenze internazionali promosse dall'Osce, il tema in parola fosse affrontato in modo specifico durante le sessioni di lavoro, creando così un precedente importante, a livello multilaterale.
Per restare nell'ambito internazionale regionale, è noto l'apporto dato dalla Santa Sede affinché il cosiddetto Trattato di Lisbona, firmato nel dicembre scorso, contenesse l'attuale art. 2, 28. Senza entrare nel merito di questo Trattato, perché non è questa la sede per valutarlo, segnalo che detta disposizione afferma che l'Unione rispetta e non pregiudica lo statuto di cui le Chiese e le comunità religiose godono nelle legislazioni nazionali degli Stati membri. Questa garanzia si appoggia sul principio di sussidiarietà, caro alla dottrina sociale della Chiesa, e prende atto del fatto che, in Europa, la configurazione dei rapporti tra lo Stato, le Chiese e le comunità religiose è assai variegata: basti pensare alla diversità della situazione in Grecia, in Francia, in Inghilterra o in Polonia! Inoltre, l'articolo impegna l'Unione europea a mantenere un dialogo aperto, trasparente e regolare con le confessioni religiose, fondato sul riconoscimento della loro identità e del loro contributo specifico. Tale dialogo è necessario, tra l'altro, per rispettare i principi di un autentico pluralismo e per costruire una vera democrazia. Del resto, non fu Alexis de Tocqueville (La democrazia in America, i, 9) a sottolineare "che il dispotismo non ha bisogno della religione, la libertà e la democrazia sì"?
Per quanto concerne l'azione della Santa Sede in Europa, credo poi opportuno segnalare che, in spirito costruttivo, essa fa fronte a due gravi attacchi alla libertà religiosa: il distacco della religione dalla ragione, che relega la prima esclusivamente nel mondo dei sentimenti, e la separazione della religione dalla vita pubblica.
Per quanto riguarda il primo profilo, va ribadito con forza che non è possibile eliminare la questione della verità dalla religione: ciò, proprio per rispettare la dignità umana, sulla quale è fondata la stessa libertà religiosa. Essa, del resto, come ogni libertà non è mai fine a se stessa ma orientata alla verità e l'uomo non può rassegnarsi a restare, per ciò che è essenziale, un "cieco nato". L'ordinamento intrinseco della libertà alla verità e la verità della libertà oggi trovano un decisivo terreno di veri***** nella libertà di conversione, intesa come aspetto della libertà religiosa. Se si vuole vivere in modo responsabile, infatti, non ci si può sottrarre all'obbligo di cercare la verità su Dio, quale fine ultimo dell'uomo. Il diritto alla libertà religiosa, pertanto, presuppone il dovere di cercare la verità su Dio con una volontà esente da coazioni e con una ragione immune da pregiudizi.
Anche la libertà religiosa esige, allora, discernimento: sia fra le forme di religione, per identificare quelle che rispondono pienamente alla sete di verità di ogni persona, sia all'interno stesso della religione, in direzione della sua autentica identità e realizzazione. Per ogni credente e per la religione, ciò rappresenta una sfida. In particolare, postula che le religioni "provvedano di senso" la vita, nel contesto di una società secolarizzata, e non si riducano a semplici agenzie di solidarietà sociale. Solov'ëv attribuisce all'Anticristo un libro, La via aperta alla pace e al benessere del mondo, che ha come contenuto essenziale l'adorazione del benessere e della pianificazione razionale. La religione certamente non può non svolgere una funzione sociale. Tuttavia, ciò avviene, anzitutto, tenendo vivo il senso di Dio e della trascendenza. La solidarietà, l'accoglienza e i valori civili sono cioè fattori essenziali, che la religione da sempre promuove, proprio perché vive del senso di Dio. Riferendosi alla Chiesa cattolica, Benedetto XVI ha scritto nella Deus caritas est (28): "La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile (...) Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare".
D'altra parte, una sana laicità comporta la distinzione tra religione e politica, tra Chiesa e Stato, senza che ciò renda Dio un'ipotesi privata, o escluda la religione e la comunità ecclesiale dalla vita pubblica, precisamente a motivo della dimensione sociale della fede. Fra l'altro, il criterio di uguaglianza civile non è rispettato, laddove ai credenti s'impone l'onere aggiuntivo di argomentare etsi Deus non daretur: mentre le ragioni teiste non potrebbero essere invocate pubblicamente, lo potrebbero gli argomenti razionalisti e secolari.
Non dobbiamo nasconderci che, nell'odierna società globalizzata, il contatto con le "differenze" può creare un'incomunicabilità di fondo e la tentazione di imporre lo spazio pubblico come "neutrale". Tuttavia, se si vuole estendere al massimo la libertà di tutti senza recidere i legami che consentono di essere non soltanto più vicini, ma soprattutto più uniti, occorre riconoscersi pubblicamente in un codice etico comune. Ma perché ciò avvenga pienamente, è indispensabile riconoscere la dimensione pubblica della libertà religiosa. Questa libertà, infatti, è portatrice di valori etici capaci di fecondare la democrazia e di fare cultura.
La libertà religiosa possiede un'intrinseca dimensione pubblica, perché ciò che crede non è da nascondere, ma, invece, da partecipare. Qualsiasi tradizione religiosa solida esige l'esibizione della propria identità; non vuole, cioè, restare nascosta o essere mimetizzata. E il volto migliore della laicità sa accogliere e tutelare il patrimonio di spiritualità e di umanesimo presente nelle varie religioni, respingendo quanto in esse dovesse essere in contrasto con la dignità umana. Del resto, i valori che appartengono alle autentiche convinzioni di fede non sono estranei a quelli che la natura conserva e la ragione raggiunge: pertanto, sono condivisibili con tutti.
Questa concezione della laicità, poi, non può che facilitare un incontro pacifico con tante culture non europee, oggi presenti in questo continente, per le quali la religione è essenzialmente un fatto pubblico. D'altra parte, il rispetto della libertà religiosa deve essere reciproco. Pertanto, in Europa va garantito alle minoranze non cristiane, come fuori dell'Europa dovrebbe esserlo alle minoranze cristiane.
Concludendo le riflessioni sull'odierna attività internazionale della Santa Sede a tutela della libertà religiosa, è quasi superfluo precisare che esistono anche altri aspetti sui quali ci si potrebbe soffermare. Tuttavia, il contesto specifico di questo incontro mi ha suggerito di accennare soltanto a quei profili più vicini e, quindi, di maggiore interesse per voi.
Nella mia doppia veste di vescovo e di diplomatico, desidero terminare con un incoraggiamento. L'esito dell'impegno politico e diplomatico in favore della libertà religiosa è legato, in buona misura, a una cultura che promuova la libertà autentica e la verità. Il vigore di questi valori, a sua volta, dipende dalla passione individuale e sociale per essi. Pertanto, se volete la libertà religiosa di tutti, accettate in prima persona il rischio della libertà e siate testimoni della verità!
La libertà religiosa aiuta l'esercizio del credo religioso di ogni persona. Tuttavia la fede cristiana dona una libertà più profonda di quella semplicemente religiosa. Ubi fides, ibi libertas diceva sant'Ambrogio (Epistulae, 65, 5). E, quasi a commento, don Giussani ci ha insegnato che è la libertà l'idea forte dell'uomo cristiano. Cristo si rivela come il compimento della nostra libertà. Egli, però, non si svela prima che noi ci decidiamo liberamente per Lui. Cristo, cioè, non ci risparmia la fatica della libertà: d'altronde, come ha scritto Péguy (Il Mistero dei santi innocenti, in I Misteri, Milano 1997, p. 321): "Che cosa sarebbe una salvezza che non fosse libera?". Allora consegnatevi senza riserve a Cristo e diventerete più uomini! Affidatevi a lui e aiuterete anche gli altri a vivere in libertà!
L'Osservatore Romano - 30 agosto 2008


Cielle cancella la rivoluzione. La sinistra ringrazia, Renato Farina, Libero, 31 agosto 2008
http://www.clonline.org/articoli/ita/rfLib310808.pdf


Ma nessuna galera può avvilire il cuore, di Davide Rondoni, Avvenire, 31 agosto 2008
Senza patria, ma costruttori di case.
Bernard Scholz, neopresidente della Compagnia delle Opere, racconta del suo percorso di fede in Comunione e Liberazione. Nell’incontro finale del Meeting fa sua la frase che don Giussani riportò da un incontro con Giovanni Paolo II nei primi anni Ottanta: « Voi siete senza patria » . Il Meeting finisce. Eugenia Roccella racconta dell’intervento che Pasolini doveva fare al Congresso Radicale del ’ 75.
Quell’intervento lo scrittore non lo fece, perché fu ucciso in quei giorni. Fu letto dal padre della Roccella. In quell’intervento Pasolini chiedeva di riprendere un’autenticità che Eugenia Roccella vede presente fra i padiglioni del Meeting. I ragazzi preparano i muletti e cominciano a darsi da fare per lo smontaggio. Si chiude la più grande manifestazione culturale d’Europa. Il prossimo Meeting sarà dedicato alla conoscenza. Che, se è vera, è sempre come un evento.
Poiché senza seguire l’evento della realtà la conoscenza, in ogni campo, può divenire violenza. I ragazzi con i muletti ci danno dentro. Calano le pareti. Il lavoro è molto. Da domani di più. Ci sono troppi uomini senza casa, o con patrie fasulle. Al Meeting si è visto quest’anno che nessuna galera, di sbarre o di ideologie, può avvilire e cancellare del tutto la libertà umana e il desiderio del cuore. È una proposta che può suonare strana per la mentalità corrente.
Perché questa proposta viva occorrono uomini senza patria, cioè irriducibili da ogni tipo di potere, ma costruttori di case.
Primissimo piano
di Davide Rondoni


«Noi, i senza patria che abitano il Vangelo» - il libro del Gius - Scholz: essere apolidi ci fa essere a casa ovunque La commozione della Roccella: «Aveva ragione lui, solo se l’io diventa noi l’incontro con Dio è reale», Avvenire, 31 agosto 2008
DAL NOSTRO INVIATO A RIMINI PAOLO VIANA
L’ unità di misura dell’affetto del Mee­ting è da sempre la lunghezza del­l’applauso. Nel caso di Eugenia Roc­cella no. E non perché i diecimila dell’audito­rium non si siano spellati le mani al termine dell’incontro finale della kermesse, dedicato al libro di don Giussani 'Uomini senza patria'. Ma per il silenzio. Che è stato ancora più lun­go, teso, commosso, nell’istante in cui gli oc­chi del sottosegretario al welfare si velavano di lacrime. Neanche una parola, nemmeno un bisbiglio mentre lassù, tutta sola di fianco al­la presidente del Meeting Emilia Guarnieri, la ex femminista, la radicale di un tempo, la bam­bina cresciuta in una famiglia laicista raccon­tava quel suo incontro con Dio, il ritorno a ca­sa in un momento drammatico, il ricordo del­la comunione «autorizzata» dal padre e quel ritrovarsi a pregare con la sensazione di aver sempre mantenuto un rapporto con il Signo­re, magari «presuntuoso», a tu per tu, «come don Camillo». «Voi ciellini parlate di incontro e di esperienza, ecco, questo è stato il mio mo­do di fare quest’incontro e quest’esperienza. Poi ho dovuto faticare - ha raccontato quasi in lacrime - per tirare fuori il nucleo della mia fe­de e farla accettare a me stessa. Ancora oggi fa­tico a pregare con gli altri, anche se ha ragio­ne Giussani a sostenere che solo se l’io diven­ta noi questo incontro diventa reale, perché si­gnifica riconoscere la sua presenza nell’altro e solo così riconoscerla in se stessi».
È iniziato così l’ultimo appuntamento del Meeting di Rimini, toccando le corde della fe­de incontrata («mi sento molto a casa», ha ammesso l’esponente di governo) e rileg­gendo i discorsi di Giussani nel 1982-1983 con gli occhi di una laica che vive il Meeting da an­ni «dopo aver combattuto - ha commentato - altre battaglie che voi vedete con diffidenza ma su cui varrebbe la pena di confrontarci, perché non è vero tutto quello che si dice sul pensiero femminista, avreste delle sorprese». L’intervento del sottosegretario si è concen­trato sulla lettura 'bioetica' del pensiero di don Giussani. Dalle digressioni sul codice lin­guistico di Comunione e Liberazione, la Roc­cella è partita dall’analisi linguistica - «Il vo­stro fondatore del movimento non usa qua­si mai la parola vita e la sostituisce con il ter­mine 'umano' che indica la difesa della vita, e ne dà anche il motivo: difendiamo la vita perché essa ha un significato. Non dare ma cercare il senso della vita, e Giussani questo senso lo situa in Cristo» - per approdare a un parallelismo ardito: «Negli scritti di Giussani odo un’eco pasoliniana. Pochi giorni prima di essere ucciso, Pasolini scrisse ai radicali di es­sere fedeli a se stessi, al proprio approccio al­la realtà, diversi e pronti a dare scandalo, mai assimilabili. Analogamente, voi non avete pa­tria, Giussani vi invitava a restare fedeli a voi stessi e a non cristallizzarvi in un’ortodossia, perché sostituisca al concetto dell’ortodossia quello dell’obbedienza, che sottintende la li­bertà: si è obbedienti solo se si è liberi».
Non meno appassionata la testimonianza di Bernhard Scholz, il nuovo presidente della Compagnia delle Opere che negli anni Ot­tanta partecipava alle riunioni in cui Giussa- ni teneva i discorsi raccolti nel nuovo libro del­la Rizzoli. Consulente di multinazionali e pic­cole imprese, Scholz ha narrato il clima in cui sono maturati quegli scritti e anche il proprio clima personale, l’inquietudine maturata dal­la lettura di Weber, la ricerca di un senso e la risposta di Giussani: «Mettere al centro se stes­si, la persona che si è. La cosa più seria del mondo, ci diceva, sei tu perché tutto il resto vie­ne fuori da lì. Il tuo 'io' è irriducibile e non ce ne sarà un altro per l’eternità. Mentre la so­cietà cerca di annegare l’affezione a sé, uno diventa cristiano ed entra in Comunione e Li­berazione proprio per questa affezione».
Nel racconto del leader della Cdo tornano in­quietudini e sfide che negli anni Ottanta han­no caratterizzato il movimento di don Gius­sani, da Solidarnosc alla campagna per il re­ferendum sull’aborto, fino all’incontro con Giovanni Paolo II e alla scoperta di essere «sen­za patria». Ecco cosa significa per Scholz: «Es­sere senza patria vuole dire che la consisten­za nostra e del reale è Cristo. Per questo don Giussani non metteva mai al centro questo o quel progetto ma la costruzione del soggetto. Voleva che fossimo soggetti, cioè persone li­bere. Questo accenno sulla libertà non ci ha portati fuori dal mondo ma dentro tutti i meandri della vita. Essere senza patria ci dà la possibilità di creare case ovunque e di essere a casa dovunque». E quest’esperienza regala una sensazione che il manager tedesco de­scrive così: «Uno stupore infinito, che uno vor­rebbe rimanesse vivo in ogni momento».


«Il tesoro del Meeting? Abbraccio di diversità» - Vittadini: il nostro respiro sempre più mondiale. Avvenire, 31 agosto 2008
DAL NOSTRO INVIATO A RIMINI PAOLO VIANA
I l popolo del Meeting è ' differente' e non solo perché è sempre più in­ternazionale. E insieme al Meeting in questi anni è cambiata Comunione e Liberazione: lo spiega Giorgio Vitta­dini, presidente della fondazione per la sussidiarietà. Citando Paolo VI.
Vittadini, il bilancio finale è un must del Meeting anche perché serve ai gior­nali per ' quotare' Comunione e Libe­razione. Quest’anno a Rimini c’era più politica, più economia o più Chiesa?
C’era più popolo. Ho visto più popolo che veniva al Meeting per incontrare quelli che per i giornali sono ' nessu­no'. Non per Avvenire, certo, che ci ha seguito con attenzione e che ha capito che quegli uomini e quelle donne, con le loro storie, sono invece i veri prota­gonisti della nostra società. Gente che ha sconfitto la malattia, la solitudine, la prigionia, e l’ha fatto ponendosi per­sonalmente le domande che stanno ve­ramente a cuore ad ogni uomo. Mi sem­bra che il patrimonio del Meeting sia questa entità etnica sui generis, come diceva Paolo VI, fatta di uomini e don­ne differenti perché dimostrano che si può stare al mondo oggi senza separa­re ragione ed esperienza, fede e vita, interesse e desiderio, mentre il mondo vorrebbe insegnare loro il contrario. Questa eccezionalità fa incontrare a Ri­mini persone di fedi diverse, di regioni diverse, di esperienze diverse.
Un Meeting più internazionale signi­fica un movimento più internaziona­le?
È così. Comunione e Liberazione sta raggiungendo la maturità. Il carisma di Giussani non è un fenomeno che si di­spiega solo intorno al Berchet, dov’è nato. Il ciellino non è solo italiano, da tempo. Il ciellino è kazako, è brasiliano, è ugandese…
… e spagnolo come Carron, o tedesco come Scholz. Nessun senso di ' impo­verimento' in un movimento che per decenni ha parlato brianzolo?
Ma no. Qui non si parla di un partito o di un’azienda, ma di carisma. Comu­nione e Liberazione non è mai stata brianzola, e neanche italiana, e quindi non può neanche essere esportata, semplicemente perché è ' loro', cioè degli spagnoli e dei tedeschi, dei kazaki come degli italiani, originalmente, co­me tutti i grandi carismi ecclesiali. Co­me il carisma francescano, come quel­lo gesuita. Un Sem Terra non deve in­culturarsi italiano per vivere la nostra esperienza. Piuttosto, questa ' interna­zionalizzazione' è stimolata dalla con­sapevolezza che immergendoci profondamente nelle Chiese particola­ri riscopriamo l’universalità del cari­sma.
Un’immersione sempre più profonda, a giudicare dall’affetto che il popolo del Meeting tributa ai vescovi e ai car­dinali che vengono a Rimini. Come de­scrive questo sentimento?
Senza un rapporto con la gerarchia non possiamo vivere un rapporto con Dio, prima o poi arriveremmo a perderci. La mia esperienza non può essere cristia­na e universale senza questo rapporto, rischierebbe il soggettivismo, mentre il rapporto con la gerarchia la rende ve­ra: come un padre, un vescovo non è mai estraneo alla formazione dell’e­sperienza di una persona. Il cardinale Bagnasco ha ricevuto molti applausi dal Meeting, perché per noi è un padre.
Anche monsignor Pezzi ( l’arcivescovo di Mosca che proviene dalla fraternità di San Carlo Borromeo; ndr) è stato molto applaudito e lui è un fratello maggiore che è diventato padre. Siamo abituati ad avere dei fratelli maggiori che diventano dei padri e ai quali obbediamo.
In questo Meeting c’è stata meno politica del solito?
C’è stato meno gossip.
Abbiamo privilegiato i contenuti, riunendo in­torno a un tavolo destra e sinistra per discutere di federalismo fiscale e riforma della scuola, la­voro e giustizia, infra­strutture e carceri… le pare poco? Questa scelta ha fatto bene anche ai nostri ospiti: sono venuti qui per cer­care qualcosa che li trasformasse e so­no usciti colpiti dalle esperienze di Vicky o i ragazzi della mostra ' Vigilan­do redimere'. Gente come Modiano, Passera, Profumo, Conti vengono ogni anno per farsi colpire dalla ' stranezza' cristiana. Sono laici veri, capaci di por­si delle domande. Uno come Cominel­li non ha trovato la fede eppure non cessa di osservarci senza pregiudizi. C’è poi chi, come Tremonti, ci colpisce per­ché fa qualcosa per l’Italia nella dire­zione del bene comune. Non solo è il padre del cinque per mille, ma sostie­ne le cose che pensiamo: la sua critica al mercatismo e allo statalismo e la di­fesa dell’economia sociale di mercato è anche la nostra linea, come dimostra il modello lombardo.
Cosa dà il Meeting a chi lo visita?
Non crediamo che tutto il buono sia al Meeting e che fuori ci sia solo secola­rismo e relativismo, ma riteniamo che il nostro e­sempio e ancor più quel­lo dei ' protagonisti' sia contagioso. Mi rendo conto che può sembrare una goccia nel mare, ma Giussani, nel 1968, a chi lo prendeva in giro per­ché perdeva tempo con noi mentre la rivoluzio­ne prometteva di cam­biare il mondo, rispon­deva che ciò che cambia il mondo è ciò che cam­bia il cuore dell’uomo. Noi cerchiamo di cambiare il nostro cuore, insieme agli altri, dialogando, confrontandoci, offrendo il nostro in­contro con Cristo.
Quest’apertura vale anche nei con­fronti degli altri movimenti cattolici?
Chiunque viva l’esperienza cristiana come un criterio di giudizio giunge a questo approdo, che porta ad aprirsi, non a chiudersi, e i primi destinatari di questo modo di essere sono i fratelli nella fede. Quest’anno al Meeting c’e­rano Oliviero delle Acli e Costalli del­l’Mcl, Marino delle cooperative.
Ergo, non vi si può più accusare di ' in­tegralismo'?
Premesso che l’accusa di integralismo derivava dal nostro semplice credere che Cristo c’entri con tutto, ne abbia­mo fatta di strada. Con la fine della Dc il mondo cattolico ha recuperato la re­sponsabilità comune verso un’unità che non era più garantita dalla politi­ca. E noi abbiamo incontrato nuovi a­mici. Per me, ad esempio, l’incontro con Camadini è stato importante. Par­lare di Paolo VI, portare al Meeting la mostra su Tovini è stato come riallac­ciarci alle nostre radici comuni.
«Meno gossip. Quest’anno abbiamo privilegiato i contenuti, riunendo intorno a un tavolo persone anche di diversa estrazione culturale Esperienze forti. Una scelta che ha fatto bene a tutti»



Il compito dei cattolici nella società di oggi - Intervento dell'arcivescovo Rino Fisichella al Meeting di Rimin, Osservatore Romano del 31 agosto
Rimini, 30. "Noi non stiamo nelle sacrestie, siamo nel mondo. Noi siamo nel mondo, nessuno potrà chiuderci la bocca. Se non parliamo noi non ci sarà nessuno che avrà parole di speranza per questo uomo sperduto di oggi": con queste parole sul ruolo dei cattolici nella società attuale, monsignor Rino Fisichella, rettore dell'Università Lateranense e presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha suscitato calorosi applausi nel corso del suo intervento da parte dei presenti a Rimini, venerdì 29 alla penultima giornata dell'annuale Meeting di Comunione e liberazione.

Monsignor Fisichella, riferendosi ai sanguinosi attacchi ai cattolici nell'Orissa in India, ha dichiarato che "come nei primi tempi della Chiesa, i martiri sono ancora oggi. Quattordici persone, se non trenta, sono state uccise solo perché portano il santo nome cristiano".
L'arcivescovo ha quindi parlato del rapporto tra scienza e fede: "La Chiesa - ha dichiarato - non potrà mai essere nemica della scienza e non lo è mai stata in passato", è nemica piuttosto delle pseudo-scienze e della pretesa della scienza di dire l'ultima parola sull'uomo. Monsignor Fisichella, riferendosi al conflitto che può sorgere tra scienza e fede, ha voluto ribadire che "da noi non ci si può aspettare una parola di morte; da noi ci si può aspettare soltanto una parola di vita. Se noi per un attimo dimenticassimo questo l'uomo di oggi sarebbe disperato, cioè senza speranza. Noi non possiamo permettercelo". "Quando si toccano i principi fondamentali del vivere - ha continuato monsignor Fisichella - del dare senso alla vita, quando si toccano i fondamenti dell'esistenza, dobbiamo dare all'uomo di oggi delle certezze, non dei dubbi, perché si tratta di vivere fondandosi sulla roccia che è Cristo".
Riferendosi al ruolo della Chiesa cattolica nella società di oggi, monsignor Fisichella ha voluto sottolineare che un ruolo pubblico per la Chiesa non è "ingerenza" ma capacità di dire parole di vita e speranza. "Ci sono una serie di situazioni - ha sottolineato il rettore - che sono state riferite al cosiddetto "testamento biologico" ma possono esserci altre espressioni che fanno emergere più il senso della vita anziché la morte".
Nei riguardi del rapporto tra Chiesa e Stato circa le questioni etiche e biologiche, monsignor Fisichella ha sottolineato che "nel momento in cui nella società si pongono problemi nuovi ed emergono situazioni prima sconosciute perché la scienza fa passi da gigante, è evidente che lo Stato sia chiamato ad assumersi la responsabilità di dare una risposta". Tuttavia, per monsignor Fisichella, "la Chiesa conosce l'uomo, è esperta in umanità; per questo sa che cosa c'è nel cuore dell'uomo, sa quali sono le domande che si agitano nell'essere umano. Sono le domande di sempre. Da dove vengo? Dove vado? Perché il dolore? Perché la sofferenza? Perché la malattia? Queste sono le domande dell'uomo. Dell'uomo antico, dell'uomo del medioevo, dell'uomo moderno, dell'uomo post-moderno, quando arriverà".
Riferendosi ai recenti, sanguinosi episodi di persecuzione contro i cristiani nello Stato indiano dell'Orissa, monsignor Fisichella ha lanciato un appello in difesa dei "nostri fratelli che vivono in una regione lontana dalla nostra, ma ci appartengono. Nel momento in cui si infierisce su di loro, si infierisce su di noi, perché noi siamo solo un corpo, questa è la realtà della Chiesa".
"La Chiesa - ha poi proseguito - nel corso dei suoi duemila anni è ancora oggi protagonista nella vita delle persone. Perché, a differenza di tante forze che sono presenti nel mondo la Chiesa vive di un incontro interpersonale con ciascuno. Se non fossimo credibili, allora il mondo non ci insulterebbe, perché penserebbe che siamo dei suoi. Proprio perché siamo credibili, proprio perché siamo capaci di dare dei martiri, proprio perché siamo capaci ancora oggi, ininterrottamente, di riportare quella Parola di vita, proprio per questo il mondo non ci vuole. Anzi, ci vuole come dei numeri. A tutto questo diciamo no, diciamo che siamo persone, e persona, per sua stessa identità semantica significa relazione. Questo termine è stato trasformato nel corso dei secoli cristiani alla luce del concetto di Dio che è Trinità; siccome i cristiani dovevano parlare di Dio come persona e come una persona che ama e che è in relazione ed è Padre e Figlio e Spirito, allora questa relazionalità viene data a ciascuno di noi".
Monsignor Fisichella ha quindi ricordato che "la Chiesa nella sua realtà è nel mondo ma non è del mondo, perché Gesù ci ha detto questo; ma noi partecipiamo completamente di quello che è la realtà del mondo di oggi. Noi siamo come un fermento che alimenta la pasta, ecco perché dobbiamo essere presenti, ecco perché nessuno potrà rinchiuderci".
Monsignor Fisichella nel concludere il suo intervento al Meeting di Rimini 2008 ha ricordato le parole di John Henry Newman in una delle pagine della Apologia pro vita sua quando scrive: "Io non permetterò mai che quell'evento, che ha dato senso alla mia vita, possa essere considerato come un reperto archeologico; è vero, è vissuto più di venti secoli fa ma la sua parola è una parola per oggi, la sua persona vale per oggi, il suo messaggio di amore vale per oggi".
(©L'Osservatore Romano - 31 agosto 2008)