Nella rassegna stampa di oggi:
1) 15/09/2008 10:48 - Papa: il “sorriso di Maria” indica a chi soffre le ragioni della speranza - Benedetto XVI conclude il suo viaggio in Francia celebrando a Lourdes la messa per i malati. La sofferenza “rompe gli equilibri” umani, sopportarla è molto difficile ed a volte arriva a far perdere il senso del valore della vita. Ma la grazia viene a sostegno, da Maria viene la certezza che Gesù è vicino a chi è nel dolore e la forza “di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio”.
2) Dio e/o Cesare - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 15 settembre 2008 - La laicità non è in contraddizione, anzi è frutto della fede
3) 15 settembre 2008 - Il cantico francese del prof. Ratzinger, di Giuliano Ferrara, dal Foglio.it
4) Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui... - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it
5) Fuggire gli idoli per cercare Dio, Osservatore Romano 14 settembre 2008
6) Grazie Oriana, da cristiano dico che sull'islam avevi ragione. Il mio sincero omaggio a due anni dalla morte, di Magdi Cristiano Allam
7) Mangalore (AsiaNews) – Venti chiese cristiane sono state vandalizzate a Mangalore, Udupi, Chikmalagur, e in altri distretti nello stato del Karnataka (India sud-ovest). Fra esse anche la cappella di un monastero di clarisse a Milagres. I cristiani accusano la polizia di non agire per prevenire gli attacchi dei radicali indù e ieri si sono scontrati con le forze dell’ordine.
8) La nuova laicità di Benedetto XVI e Sarkozy - Romeo Astorri - IlSussidiario.net
15/09/2008 10:48 - Papa: il “sorriso di Maria” indica a chi soffre le ragioni della speranza - Benedetto XVI conclude il suo viaggio in Francia celebrando a Lourdes la messa per i malati. La sofferenza “rompe gli equilibri” umani, sopportarla è molto difficile ed a volte arriva a far perdere il senso del valore della vita. Ma la grazia viene a sostegno, da Maria viene la certezza che Gesù è vicino a chi è nel dolore e la forza “di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio”.
Lourdes (AsiaNews) – La dignità del malato, la speranza che non abbandona, come riflesso del “sorriso di Maria”, la capacità di accettare il dolore e di conservare il senso del valore della vita, sapendo che si ha sempre comunque accanto Gesù, il valore della solidarietà. E’ dedicata a coloro che sono i protagonisti dei pellegrinaggi a Lourdes, i sei milioni di persone che vi si recano ogni anno, la messa per i malati con la quale, nel giorno dedicato alla Beata Vergine Addolorata, si conclude oggi la visita di Benedetto XVI in Francia. Al termine della celebrazione, infatti, il Papa riparte per Roma. Un viaggio che ha in bilancio una risposta della gente che ha sorpreso giornali e televisioni, costringendo i media laici d’oltralpe ad interrogarsi sui perché di un’attenzione imprevista.
Anche oggi, sulla grande spianata di Lourdes, ci sono decine di migliaia di persone. In primo luogo i malati ed i loro accompagnatori. A loro il Papa parla del “sorriso di Maria”. In esso, dice “si riflette la nostra dignità di figli di Dio, una dignità che non abbandona mai chi è malato. Quel sorriso, vero riflesso della tenerezza di Dio, è la sorgente di una speranza invincibile. Lo sappiamo purtroppo: la sofferenza prolungata rompe gli equilibri meglio consolidati di una vita, scuote le più ferme certezze della fiducia e giunge a volte a far addirittura disperare del senso e del valore della vita”. “La sofferenza è sempre una straniera”, aggiunge poco dopo. “La sua presenza non è mai addomesticabile. Per questo è difficile sopportarla, e più difficile ancora – come hanno fatto certi grandi testimoni della santità di Cristo – accoglierla come parte integrante della propria vocazione, o accettare, secondo l’espressione di Bernadette, di ‘tutto soffrire in silenzio per piacere a Gesù’”
Nella vita “vi sono combattimenti che l’uomo non può sostenere da solo, senza l’aiuto della grazia divina. Quando la parola non sa più trovare espressioni adeguate, s’afferma il bisogno di una presenza amorevole”. E’ allora che si cerca la vicinanza di parenti ed amici ed anche di “coloro che ci sono intimi per il legame della fede. Chi potrebbe esserci più intimo di Cristo e della sua santa Madre, l’Immacolata? Più di chiunque altro, essi sono capaci di comprenderci e di cogliere la durezza del combattimento ingaggiato contro il male e la sofferenza”. “Nel sorriso della Vergine si trova misteriosamente nascosta la forza per proseguire il combattimento contro la malattia e in favore della vita. Presso di lei si trova ugualmente la grazia di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio”.
Nel sorriso di Maria, “percepiamo che la nostra unica ricchezza è l’amore che Dio ha per noi e che passa attraverso il cuore di colei che è diventata nostra Madre” ed esso “è una sorgente di acqua viva”, della quale è “umile segno” la sorgente che la Vergine stessa indicò a Bernadette. “Dal suo cuore di credente e di madre sgorga un’acqua viva che purifica e guarisce. Immergendosi nelle piscine di Lourdes, quanti sono coloro che hanno scoperto e sperimentato la dolce maternità della Vergine Maria, attaccandosi a lei per meglio attaccarsi al Signore!”. Che “dispensa la sua salvezza attraverso i Sacramenti e, in modo speciale, alle persone che soffrono di malattie o che sono portatrici di un handicap, attraverso la grazia dell’Unzione degli infermi”. Sacramento che, dopo aver pronunciato l’omelia, il Papa ha impartito ad un gruppo di malati. “La grazia propria del Sacramento – ha spiegato - consiste nell’accogliere in sé Cristo medico. Cristo tuttavia non è medico alla maniera del mondo. Per guarirci, egli non resta fuori della sofferenza che si sperimenta; la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattia, per sopportarla e viverla con lui. La presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento che il dolore provoca. L’uomo non porta più da solo la sua prova ma, in quanto membro sofferente di Cristo, viene conformato a Lui che si offre al Padre, e in Lui partecipa al parto della nuova creazione”.
L’ultimo pensiero del Papa è per quanti, a Lourdes, sono accanto ai malati. “Il servizio di carità che voi rendete – dice loro - è un servizio mariano. Maria vi affida il suo sorriso, affinché diventiate voi stessi, nella fedeltà al Figlio suo, sorgenti di acqua viva. Quello che voi fate, lo fate a nome della Chiesa, di cui Maria è l’immagine più pura. Possiate voi portare il suo sorriso a tutti!”. (FP)
Dio e/o Cesare - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 15 settembre 2008 - La laicità non è in contraddizione, anzi è frutto della fede«Mi sembra evidente oggi che laicità di per sé non è in contraddizione con la fede. Direi anzi che è un frutto della fede, perché la fede cristiana era, fin dall’inizio, una religione universale dunque non identificabile con uno Stato, presente in tutti gli Stati e diversa in ogni Stato. Per i cristiani è sempre stato chiaro che la religione e la fede non sono politiche, ma un’altra sfera della vita umana… La politica, lo Stato non è una religione ma una realtà profana con una missione specifica… e devono essere aperte l’una all’altra. In tal senso direi, oggi, per i Francesi, e non solo per i Francesi, per noi cristiani in questo mondo secolarizzato di oggi, è importante vivere con gioia la libertà della nostra fede, vivere la bellezza della fede e rendere visibile nel mondo di oggi che è bello conoscere Dio, Dio con un volto umano in Gesù Cristo… Mostrare dunque la possibilità dell’essere credente oggi, e la necessità che nella società di oggi vi siano uomini che conoscono Dio e possono dunque vivere secondo i valori che ci ha dato e contribuire alla presenza dei valori che sono fondamentali per l’edificazione e la sopravvivenza dei nostri Stati e delle nostre società» [Benedetto XVI, Intervista ai giornalisti, 12 settembre 2008].
Sul problema delle relazioni tra sfera politica e sfera religiosa, oggi in crescendo positivamente anche in Italia, Cristo stesso aveva già offerto il criterio di fondo in base al quale trovare una giusta soluzione, come sui rapporti tra Stato e Chiesa. Lo fece quando, rispondendo ad una domanda che gli era stata posta, affermò: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17). “La Chiesa in Francia - ha constatato Benedetto XVI durante la cerimonia di benvenuto all’Eliseo - gode attualmente di un regime di libertà. La diffidenza del passato si è trasformata poco a poco in un dialogo sereno e positivo, che si consolida sempre più. (…). Lei ha del resto utilizzato, Signor Presidente, l’espressione di “laicità positiva” per qualificare questa comprensione più aperta. In questo momento storico in cui le culture si incrociano tra loro sempre più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della laicità è divenuta necessaria. E’ fondamentale infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società”.
“E’ legittimo per la democrazia e rispettoso della laicità - il benvenuto del presidente Sarkozy - dialogare con le religioni. Queste, e in particolare la religione cristiana, con la quale condividiamo una lunga storia, sono patrimonio di riflessione e di pensiero, non solo su Dio, ma anche sull’uomo, sulla società e persino su quella preoccupazione, oggi centrale, che è la natura e la tutela dell’ambiente. Sarebbe una follia privarcene, sarebbe semplicemente un errore contro la natura e contro il pensiero. E’ per questo che faccio appello ancora una volta a una laicità positiva. Una laicità che rispetti, una laicità che riunisca, una laicità che dialoghi. E non una laicità che escluda e che denunci”.
Nella consegna ai Vescovi francesi il Papa, dopo aver chiesto di trovare una strada nuova per interpretare e vivere nel quotidiano i valori fondamentali sui quali si è costruita la Nazione, ha detto: “Il vostro Presidente ne ha evocato la possibilità per cui in Francia, attraverso questo percorso, i presupposti socio politici dell’antica diffidenza o persino le ostilità svaniscono a poco a poco”. Da parte sua, ha continuato Benedetto XVI, “La Chiesa non rivendica per sé il posto dello Stato. Essa non vuole sostituirglisi. E’ infatti una società basata su convinzioni, che si sente responsabile dell’insieme e non può limitarsi a se stessa. Essa parla con libertà e dialoga con altrettanta libertà nel desiderio di giungere alla edificazione della liberà comune. Grazie ad una sana collaborazione tra Comunità politica e la Chiesa, realizzata nella consapevolezza e nel rispetto dell’indipendenza e dell’autonomia di ciascuna nel proprio campo, si rende all’uomo un servizio che mira al suo pieno sviluppo personale e sociale”. Forse dopo la caduta del comunismo sta cadendo anche il laicismo.
15 settembre 2008 - Il cantico francese del prof. Ratzinger, di Giuliano Ferrara, dal Foglio.it
Secondo il Papa, che ha tenuto venerdì un discorso bello e profondo nella patria del razionalismo filosofico moderno, parlando alla cultura francese riunita al Club dei bernardini, i benedettini di San Bernardo di Clairvaux, l’universalità è un tratto che appartiene sia a Dio sia alla ragione umana aperta verso il mistero o il trascendente.
Attenzione. Sono parole che pesano, che hanno un senso non accademico, che non sono destinate agli addetti ai lavori soltanto, ai filosofi e ai dotti. Sono atti programmatici di un papato giovanpaolino e benedettino che segna il passaggio tra due secoli in cui la modernità è diventata un problema in ogni campo storico ed esistenziale, e l’alleanza tra fede e ragione è indicata come la soluzione. E’ noto che il Papa, programma parecchio ambizioso ma inevitabile, vuole convertire e riconvertire l’Europa scristianizzata, ma intende farlo riconoscendo le impronte decisive del suo secolarismo laico, rileggendo insieme al popolo e alle classi dirigenti il vero significato del patrimonio europeo e occidentale di cultura e di spiritualità, e perfino (e forse principalmente) il suo immenso tesoro scientifico. Fa parte di questo gioco teologico-politico l’idea indiscutibile che il progresso della libertà umana e dei diritti della persona sia figlio anch’esso del cristianesimo. Il palcoscenico francese è quello, dal punto di vista di un illuminismo cristiano, che si presta meglio alla bisogna.
E’ dunque universale, universalmente valido, l’operare di Dio, creatore e attore della storia tramite l’Incarnazione e il Logos. Chi ha fede, chi si sente figlio di Dio in Cristo Gesù, deve rendere ragione di questa sua speranza, come è detto nella Prima Lettera di San Pietro. Il che è possibile, appunto, perché la ragione non è solo ragione particolare, che dà conto di questo o quell’esperimento, di questo o quel fatto storico individuale, ma è ragione universalmente valida, ragione che conosce e sa valutare anche il limite proprio, il confine della sua stessa capacità di conoscere, appunto il mistero.
Per questo motivo, per il fatto che tra il divino e l’intelletto umano vale una analogia nel segno della verità e del bene, due concetti e criteri anche etici che stanno e cadono insieme, la laicità secolare, cioè il nostro mondo della libertà individuale e del pluralismo dei valori, del relativismo, deve essere aperta al significato e al senso pubblico del sacro. E’ poi questa la laicità positiva o matura di cui ha parlato con lungimiranza Nicolas Sarkozy nel suo discorso lateranense, che ha aperto la via a questo viaggio e alla solenne “liturgia filosofica” di ieri.
Il secolarismo laico non deve mai trasformarsi in una religione o in una caricatura della religione. Per esempio: il giurista moderno può cercare una misura di giustizia fondata su procedure conformi alla legge positiva, a loro volta basate su convenzioni umane mobili, ma non deve cancellare il significato di diritto naturale innato contenuto nei principi non negoziabili. Per esempio: lo scienziato ha da essere libero nella ricerca, curioso, aperto a sviluppi imprevedibili, ma non deve considerarsi un “creatore deiforme” e non può pretendere di decidere scientificamente e proceduralmente della differenza tra bene e male. Per esempio: il politico democratico-liberale occidentale deve fondare le sue scelte sul consenso possibile, ma non può credere e far credere che la verità sia quel che stabilisce una maggioranza provvisoria.
“Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi”: questa è dunque la logica e ammonitoria conclusione del discorso pronunciato ieri da Benedetto XVI, il secondo grande discorso teologico-politico dopo Ratisbona.
I discorsi di questo Papa sono semplificabili in formule chiare a tutti e che tutti richiamano alla responsabilità di pensare (o di assistere per lo meno allo spettacolo del pensiero distogliendosi dalla noiosa ripetizione dell’intrattenimento quotidiano). Tuttavia i testi di Benedetto XVI, come quelli del cardinale Ratzinger prima di lui, sono cesello teologico di qualità, spartito gregoriano in prosa, e procedono sempre in modo sorprendente, generoso, stringente e divagante insieme, letterariamente brillante proprio nel senso dell’unione di quell’amor di Dio e di quell’amore per le lettere richiamato ieri sulla scorta dell’opera del compianto monaco bernardino Jean Leclercq.
(Legare le lettere a Dio e Dio alle lettere è un progetto di cui, in fondo, la cultura francese non si è mai liberata, malgrado la finale e provvisoria vittoria di Montaigne su Pascal).
Per arrivare al formulario o alla manualistica dell’antirelativismo, che genera spesso tanti equivoci e tante pappagallesche imitazioni, il Papa fa un giro lungo e argenteo, partendo dal monachesimo occidentale, dalla sua ricerca di Dio come “ciò che permane per sempre”, come il “definitivo”, quel quaerere Deum che si risolve in dedizione alla Parola e alle parole, interpretazione della Scrittura e delle scritture in una comunione spirituale che è il contrario dell’arbitrio culturale individuale, è salmistica, è musica, è lotta per il bel canto angelico contro il rischio della “dissimilitudine”. Sono concetti gioiosi e lucenti che ci arrivano dal mondo antico e poi medievale, quei mondi che il modernismo banale vorrebbe obliterare e raschiare via dalla storia dello spirito umano in un superamento secolare definitivo e irreversibile.
Nel discorso è specialmente notevole quel tratto che ho provato a chiamare di liturgia filosofica. Questo Papa insiste infatti nel tenere dei discorsi che hanno una caratteristica unica: sono in parte omelie, in parte lezioni magistrali, in parte manifesti culturali e politici, cioè filosofici, sulle grandi questioni del tempo, e specie quelle incandescenti. Come in una testarda insistenza dopo Regensburg e le aggressioni subite per aver osato la verità, il Papa descriveva ieri nuovamente la dialettica rabbinica e poi quella cristiana della parola, la vittoria con San Paolo dello spirito sulla lettera, dell’allegoria e della lettura di comunione della Bibbia sul nudo testo della Scrittura. La Parola scritturale non è mai un dettato di Dio, ragion per cui, ed è una conseguenza importante per la nostra cultura e il nostro modo di vita, il cristianesimo non è propriamente una religione del libro. Noi interpretiamo e facciamo esegesi e teologia della Parola, ecco il deposito insieme culturale e di fede comunitaria dove abbiamo trovato l’antidoto al letteralismo fondamentalista. Ecco la nostra libertà dello spirito. E chi vuol intendere, intenda.
A un certo punto il Papa dice: “Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione”. La libertà dello spirito è sempre in tensione con un legame “d’intelletto e d’amore”, dice Benedetto XVI con formula delicata e stilnovista, e senza quel legame, negato dagli esiti nullisti e libertari dell’approdo moderno, la libertà si distrugge. A occhio e croce, sembrerebbe non avere tutti i torti.
Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui... - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it
domenica 14 settembre 2008
...questo oggi non è meno necessario che nei tempi passati
«Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo (Collège des Bernardins edificato dai figli di san Bernardo di Clairvaux) è in qualche modo emblematico. E’ infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione… Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: “quaerere Deum”, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa (la vita che è “veramente” vita, la grande speranza). Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo ‘escatologico’. Ma ciò non è da intendersi in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale; dietro le cose provvisorie (le speranze più piccole e più grandi che mantengono in cammino) cercavano il definitivo (la grande speranza che può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere). “Quaerere Deum”: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca al buio assoluto. Dio stesso (non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme) aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla (là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge). Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq: nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (…). Il desiderio di Dio include l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una “dominici servitii schola”. Il monastero serve alla “eruditio”, alla formazione e all’erudizione dell’uomo- una formazione con l’obiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola. Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che apre la via alla ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, è una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa colpisce il cuore di ciascun singolo (At 2,37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per Dio. Ma così ci rende attenti anche gli uni gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede…
Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbì esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale (…). I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione praticata dal giudaismo, doveva sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17). Il mondo greco romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita (l’essere che rimanda all’Essere tutto in atto non è solo il dato originario, naturale; il fatto storico avvenuto ma anche il faciendum, il farsi futuro che tra loro non si smentiscono: questa la metafisica dinamica dell’essere). Dio lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione (…).
E’ questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo passato? Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalle migrazioni di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto?(…)
“Quaerere Deum” – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio (il senso del vivere,le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e percepire così Gesù Cristo come luce che illumina la storia ed aiuta a trovare il da farsi verso il futuro), sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura» [Benedetto XVI, Le origini della Teologia Occidentale e le radici della Cultura Europea, 12 settembre 2008].
La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa
Dal libro autobiografico La mia vita si coglie la provvidenzialità del percorso teologico di Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, in rapporto alla nuova evangelizzazione di fronte alle forze impulsive da cui è animata l’era contemporanea: la convinzione che la direttrice di fondo della storia non sia né solo l’essere dato originariamente, naturalmente, né solo il fatto accaduto storicamente né solo il dover essere cioè il progresso e che perciò il bene venga sempre e solo dal futuro. Questo taglio ideologico della modernità ha provocato, spesso in modo inconsapevole, un altro taglio altrettanto ideologico dell’antimodernità che il Concilio Vaticano II ha purificato. Ratzinger, con tanti altri, sottolinea l’urgenza di un e… e… tra dato naturale, fatto storico e da farsi: “Sarà tassativo compito della teologia accogliere questo appello, acciuffare questa possibilità. Individuando così i punti morti e colmando le lacune dei periodi passati” (Introduzione al cristianesimo, p. 36). Lo sviluppo della conoscenza è sempre un avvenimento in continuità dinamica fra dato originale, fatto storico e da farsi perché Dio continua a lavorare, a creare nella e sulla storia degli uomini. E questo è avvenuto anche durante il Concilio Vaticano II soprattutto a proposito della Costituzione sulla Parola di Dio, uno dei testi più significativi che non è ancora entrato e non ha ancora plasmato la coscienza ecclesiale. Cosi lo documenta Ratzinger in La mia vita: “Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner ed io, benché ci trovassimo d’accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo in due pianeti diversi. Anch’egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell’esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie. La sua teologia – malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni – era totalmente caratterizzata dalla tradizione scolastica suareziana e dalla nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica in cui, alla fine, la Scrittura e i Padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io al contrario, proprio per la mia formazione ero segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico (…). Ora era chiaro che lo schema di Rahner sulla Costituzione sulla parola di Dio non poteva essere accolto, ma anche il testo ufficiale andò incontro alla bocciatura con una esigua differenza di voti. Si doveva quindi procedere al rifacimento del testo. Dopo complesse discussioni, solo nell’ultima fase dei lavori conciliari si poté arrivare all’approvazione della Costituzione sulla Parola di Dio, uno dei testi di spicco del Concilio, che peraltro non è stato ancora recepito appieno (…). Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare” (pp. 92-93). Ci si sta preparando perché al Sinodo di ottobre possa accadere l’avvenimento della conoscenza delle reali affermazioni del Dei Verbum, e dalla seconda, dopo quella di Ratisbona, Lectio magistralis di Benedetto XVI nella capitale dell’Illuminismo è venuto un grande contributo.
La Parola di Dio introduce noi stessi nell’avvenimento del colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui, con una conoscenza tutta avvenimento cioè che giunge alle origini. E qui Benedetto XVI ricorda la nascita della grande musica occidentale.
Cantare in corrispondenza alla grandezza e alla bellezza della Parola di Dio
I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il “Gloria”, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il “Sanctus”, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclerq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni”.
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: “Davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore” (138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere esposti al criterio supremo: di pregare e cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine”. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (Confessioni VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non lo rispecchia più e diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. E’ certamente drastico se Bernardo per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso (mi sembra di sentire mons. Giussani!). Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e dal cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.
Ignorare le Scritture è non conoscere Cristo ma senza partire dall’incontro con la Persona di Gesù Cristo non si apprende a capire la Bibbia come unità
Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende più di un millennio in cui i singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad una unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo Antico Testamento. Vale tanto di più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Chi osserva questo processo – certamente non lineare, spesso drammatico e tuttavia progresso – a partire da Gesù Cristo può riconoscere che nell’insieme c’è una direzione, che l’Antico e il Nuovo Testamento sono intimamente collegati tra loro. Certo, l’ermeneutica cristologia, che in Gesù Cristo vede la chiave del tutto e, partendo da Lui, apprende a capire la Bibbia come unità, presuppone una scelta di fede e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questa scelta di fede ha dalla sua la ragione – una ragione storica – e permette di vedere l’intima unità della Scrittura e di capire così in modo nuovo anche i singoli tratti di strada, senza togliere loro la propria originalità. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio (immediato). Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Lettera gesta docet – quid credas allegoria …”(Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, 1). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologia e pneumatica.
La Scrittura è cresciuta nel e dal soggetto vivo del popolo di Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento, la Chiesa, e vive in esso
La Scrittura ha bisogno dell’interpretazione per essere Parola di Dio, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene in continuità vissuta: in essa le parole della Bibbia sono sempre presenza di Dio che parla. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola che crea la storia in continuità dinamica. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per la Scrittura il rapporto con il soggetto “popolo di Dio” è vitale. Da una parte, questo libro – la Scrittura – è il criterio che viene da Dio e la forza che indica la strada al popolo, ma, dall’altra parte, la Scrittura vive solo in questo popolo, che nella Scrittura trascende se stesso e così – nella profondità definitiva in virtù della Parola fatta carne – diventa appunto popolo di Dio. Il popolo di Dio la Chiesa – è il soggetto vivo della Scrittura; in esso le parole della Bibbia sono sempre presenza. Naturalmente si richiede che questo popolo riceva se stesso da Dio, ultimamente dal Cristo incarnato e da Lui si lasci guidare. Per questo il “Catechismo della Chiesa Cattolica” con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità. Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non si identifica, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umana la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.
“La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6)
Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita”. E ancora: “Dove c’è lo Spirito…c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore del Risorto ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che con il dono del suo Spirito ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e dal fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.
L’“ora” (Parola di Dio) col “labora” (il lavorare degli uomini come espressione della somiglianza con Dio e partecipazione all’operare di Dio nella creazione continua del mondo)
Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Gesù supera questa separazione classista effettuando l’emancipazione dei semplici e rivendicando anche per loro la facoltà di essere, nel vero senso della parola, “filosofi”, vale a dire, capaci di comprendere ciò che è proprio e peculiare dell’uomo altrettanto bene quanto lo comprendono i dotti, anzi meglio dei dotti. Ma circa il lavoro assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro è parte costitutiva del monachesimo cristiano. Benedetto parla esplicitamente del lavoro (cap. 48). I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata nel giudaismo, dovevano sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17). Il mondo greco – romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero ed unico Dio, è anche Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita e quindi non c’è solo l’essere dato, naturale, non c’è solo il fatto storico accaduto ma anche il farsi. Dio lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha la facoltà e può partecipare all’operare continuo di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola per tutti, una cultura del lavoro per tutti, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.
La fede non appartiene ad una consuetudine culturale, diversa a seconda dei popoli, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti
L’atteggiamento di fondo dei monaci era il mettersi alla ricerca di Dio, da parte di ogni monaco, “filosofo” nel vero senso della parola cioè capace di comprendere ciò che è proprio e peculiare dell’uomo: guardare oltre le cose penultime, le piccole e grandi speranze e mettersi alla ricerca di quelle ultime, vere, della grande speranza. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale ogni monaco sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderlo nel vissuto fraterno di comunione, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in sé già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge ad ogni uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medioevale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3,15) (Logos deve diventare apo-logia cioè presentazione, la Parola deve diventare risposta). Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della l,oro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia di Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa e Roma tutte accoglieva nel Pantheon, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti. Il cristianesimo si qualifica pertanto come “religione vera”, a differenza delle religioni pagane ormai prive di verità agli occhi della stessa razionalità precristiana e realizza rispetto ad esse una grande opera di “demitizzazione”, un vero illuminismo cristiano.
La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire a tutti i popoli: Egli si è mostrato e adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano consiste in un fatto nel quale c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi.
Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “ad extra” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca- si trova nel discorso di san Paolo all’Aereopago. L’Areopago non era una specie di Accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. E’ proprio questa l’accusa contro Paolo: “sembra essere un annunziatore di divinità straniere” At 17,18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annunzio” (At 17,23). Paolo non annuncia dèi ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto – Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come sottolinea Paolo nella Lettera ai Romani (1,21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto penato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra – non un dio qualsiasi, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme – noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano consiste in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. “Verbum caro factum est” (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di aree ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dei era nascosto e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. “Quarere Deum” – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio cioè il senso, l’origine e la destinazione di ogni vita, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.
Fuggire gli idoli per cercare Dio, Osservatore Romano 14 settembre 2008
Cosa è importante nella vita di ogni essere umano? Che cosa, di conseguenza, mettiamo al primo posto nel nostro cuore? Questa è la domanda che Benedetto XVI ha ripetutamente posto durante la sua visita a Parigi: celebrando nella grandiosa Esplanade des Invalides, mentre sullo sfondo ondeggiava al vento la bandiera francese al culmine del Grand Palais, davanti a una folla impressionante e festosa di fedeli, tra i quali molti giovani che avevano vissuto una lunga veglia notturna; ma anche incontrando il mondo della cultura nel Collège des Bernardins, e durante i vespri a Notre-Dame. E la risposta dell'uomo che dal 1992 siede tra gli "immortali" dell'Institut de France - dove eccezionalmente gli è stata dedicata una lapide sormontata dallo stemma papale - è stata tanto semplice quanto esigente: l'unica realtà che conti, in definitiva, è la ricerca di Dio, cioè un itinerario che esige dalla ragione umana di fuggire gli idoli.
Idoli che mettiamo al posto dell'unico vero Dio quando ci rifugiamo nel passato o nel futuro sfuggendo alla realtà della vita presente, quando nel nostro cuore diamo il primo posto alla cupidigia o alla sete di avere, di potere, o persino di sapere, mentre la felicità richiede di rientrare in noi stessi e riflettere, perché - ha sottolineato il Papa, ripetendo un concetto fondamentale della tradizione cristiana autentica a lui molto caro - Dio non chiede mai il sacrificio della ragione e "mai la ragione entra in contraddizione reale con la fede". Come Benedetto XVI ha mostrato nel discorso, tra i più belli e importanti del suo pontificato, che ha pronunciato al Collège des Bernardins, ragionando sulle radici della cultura europea.
E ancora una volta il Papa ha sorpreso perché ha parlato sì del rapporto tra fede e ragione, ma centrando il suo discorso sul monachesimo occidentale e sulla cultura monastica, studiata e valorizzata dal grande studioso benedettino Jean Leclercq, il cui nome è tornato più volte sulle labbra del Papa. Proprio i monaci medievali hanno infatti assicurato la sopravvivenza della cultura antica finalizzata alla ricerca di Dio: quel quaerere Deum che, oltre il provvisorio, vuole raggiungere l'unica realtà essenziale e definitiva, inconoscibile e allo stesso tempo rivelata. Attraverso il confronto con la Scrittura, la cui lettura nel monachesimo, come già nella tradizione rabbinica, coinvolge l'intero essere umano - cioè tutto lo spirito e tutto il corpo - e che come Parola di Dio trasmessa da labbra umane ha bisogno di essere interpretata, non sopportando quindi né letture di tipo fondamentalista né soggettivismi arbitrari.
La tradizione monastica occidentale non è tuttavia caratterizzata soltanto da questa cultura della parola, bensì - ancora una volta in continuità con la tradizione ebraica - anche da una cultura del lavoro fondata su una teologia della creazione estranea al mondo pagano. Come infatti recita la sintesi benedettina dell'ora et labora, un apporto senza il quale lo sviluppo del continente europeo e la sua concezione del mondo sarebbero impensabili. Così il quaerere Deum, il "cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui", resta oggi necessario: una cultura che restringesse "nell'ambito soggettivo, come non scientifica" la questione di Dio sarebbe infatti "la capitolazione della ragione", mentre "ciò che ha fondato la cultura dell'Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo resta oggi ancora il fondamento di ogni cultura autentica". Proprio perché cercare Dio risponde alla ricerca più profonda, anche inconsapevole, dell'animo umano.
g. m. v.
(©L'Osservatore Romano - 14 settembre 2008)
Grazie Oriana, da cristiano dico che sull'islam avevi ragione. Il mio sincero omaggio a due anni dalla morte
L’errore in cui incorsi fu di immaginare che l’islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all’impegno dei musulmani moderati. Mi sono arreso di fronte all’evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici
Nel ricordare per la prima volta da cristiano Oriana Fallaci, a due anni dalla sua morte, prendo atto con onestà e realismo che la sua libertà di pensiero, dote che anche i suoi più acerrimi nemici le riconoscono, è stata pari alla verità della realtà descritta, fatto che invece viene negato o contestato dai più. Io stesso mi sentivo contrariato quando scriveva: “L’islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. E' incompatibile col concetto di civiltà”. Eppure, all’indomani della mia conversione al cristianesimo lo scorso 22 marzo, ho scritto: “Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale”.
L’errore in cui incorsi fu di immaginare che l’islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all’impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all’evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Invece l’errore in cui incorse Oriana fu quello di non scindere la dimensione della religione da quella delle persone. Dalla netta e totale condanna dell’islam in quanto religione, dedusse la condanna implacabile e inappellabile dei musulmani in quanto persone. Si tratta di un passaggio arbitrario perché le persone non sono mai la trasposizione automatica e acritica della religione, bensì la sintesi della complessità del rispettivo percorso individuale, familiare, comunitario, nazionale, educativo, economico, culturale, politico; così come le persone non sono dei cloni che formano meccanicamente un blocco monolitico.
Cari amici,
Sono stati i fatti a imporsi e a dar ragione ad Oriana. All’indomani della sua morte il 15 settembre 2006, scrissi sul Corriere della Sera:
“Per quelle coincidenze apparentemente fortuite ma che racchiudono chissà come un segno del destino, la morte di Oriana ha coinciso con l' esplodere della nuova «guerra santa» islamica scatenata contro il Papa. Quasi una tragica testimonianza della veridicità della denuncia, sonora e inappellabile, dell' incompatibilità di questo islam e di questi musulmani con la civiltà e l' umanità dell' Occidente. Che Oriana aveva assunto come fede e missione da diffondere ovunque nel mondo nell' ultima fase della sua esistenza terrena profondamente segnata dal trauma dell' 11 settembre, vissuto in prima persona dalla sua abitazione newyorkese. E che nel giorno dell' addio si conferma come un dato di fatto con cui, piaccia o meno, tutti noi dobbiamo fare i conti. E' come se una misteriosa giustizia trascendentale, lei che si professava atea di cultura cristiana, avesse voluto premiarla con un' onorificenza indelebile, riscattando in extremis il suo messaggio dalla pesante cappa di diffamazione e condanna sotto cui giaceva, per presentarcelo in una luce a tal punto fulgida, da disarmare e mettere fuori gioco tutti i suoi critici e oppositori. Perché oggi più che mai possiamo toccare con mano la realtà dell' Eurabia, contro cui si era lungamente spesa Oriana, ovvero di un' Europa a tal punto infiltrata e soggiogata dagli interessi e dall' avanzata degli estremisti islamici, da non essere più in grado di risollevarsi, di reagire, di affermare i propri valori e la propria identità collettiva. Perché oggi più che mai appare con grande evidenza la fragilità, per non dire l' inconsistenza, del mito dell' islam e dei musulmani «moderati», una realtà che evapora e si dissolve nel momento in cui i «duri e puri» suonano la chiamata alle armi per combattere il nemico dell' islam di turno, ora tocca a Benedetto XVI, compattando un fronte che nel suo apparente monolitismo non lascia spazio alcuno alla distinzione tra le posizioni degli uni e degli altri, legittimando la condanna indiscriminata dell' insieme dell' islam e dei musulmani”.
In un successivo ricordo di Oriana pubblicato da Magazine del Corriere della Sera, lo iniziai rammentando il rapporto di amicizia e di affetto che ci accomunò nel 2003:
“Davvero, quando avrò (bene o male) concluso questo lavoretto, la primissima copia sarà per te. Più ti leggo, più ci penso, più concludo che sei l’unico su cui dall’alto dei cieli o meglio dai gironi dell’inferno potrò contare. (Bada che t’infliggo una grossa responsabilità)”. Era l’ottobre 2003. Da New York Oriana mi riservava parole affettuosissime mentre era tutta intenta a scrivere “La forza della ragione”. Un’amicizia che lei aveva intensamente ricercato, chiamandomi di persona a casa, intrattenendomi per ore al telefono, facendosi scrupolo di non creare problemi a mia moglie, chiedendomi con grande attenzione notizie sui miei figli. Un rapporto intenso alla cui base c’era un’enorme stima che lei aveva deciso di manifestare apertamente.
Il 24 settembre 2003, il giorno in cui sul Corriere comparve una mia inchiesta dal titolo “I soldi delle moschee per i fanatici di Allah”, Oriana mi scrisse di proprio pugno un messaggio in inglese che mi fece pervenire via fax: “L’ho letto e ti ho amato. Ti ho anche odiato perché, Dio mio, era esattamente quello che (senza le tue informazioni) stavo scrivendo. Mi sono sentita un po’ derubata. Ma poi ho detto: meglio così. Non importa. Meglio così. E ora ti dico vai avanti. Senza lasciare che loro ti intimidiscano (lo faranno). Al contempo, per favore, fai attenzione. Fai quel che faccio io, ovvero quello che mia madre mi ha sempre detto: (in italiano) devi avere gli occhi nel culo. Credimi. So di che cosa sto parlando. Da due anni vivo quell’incubo. (in italiano) A tal punto che quando vado dall’oculista mi esamina la cornea dalle parti basse. Inoltre ho ricevuto i tuoi libri. Ieri. Grazie anche per quelli. E per le dediche affettuose. Non posso leggerli ora. Sto lavorando sodo con una scadenza mortale. Non ho nemmeno il tempo per respirare. (ammesso che avessi tempi i miei polmoni ormai sono andati). Ma lo farò certamente non appena l’incubo sarà finito. Nel frattempo ti mando la mia benedizione. Puoi accettare la benedizione di un’atea? Dovresti. Secondo me è la benedizione migliore. E non dire mai, mai, mai che ti ho adottato. Potrebbe causarti molto male. Molto. Tanto affetto da quella che io chiamo la Vecchia Signora”.
Nell’articolo di apertura del Magazine svelai come Oriana avesse pensato di scrivere un libro-intervista insieme a me, in cui io avrei dovuto intervistarla, e come invece il progetto naufragò:
“La Oriana-Cassandra l’ho conosciuta prima nella sua casa di campagna tra le colline del Chianti, che si identifica da lontano per il tricolore esposto sul balconcino della sua stanza, da lei voluto dopo aver saputo della gloriosa morte di Fabrizio Quattrocchi che, nell’attimo in cui i terroristi islamici si apprestavano a infliggergli il colpo di grazia, tentò di rimuovere la benda agli occhi dicendo: “Ora vi faccio vedere come muore un italiano”. Poi con Oriana ci siamo rivisti nella sua abitazione milanese in via Statuto, a due passi dalla sede del Corriere della Sera in via Solferino. Era l’inverno del 2004. Aveva deciso tutto lei. Comunicandolo al direttore Stefano Folli. Che mi aveva rigirato la sua richiesta: intervistare Oriana per un libro che avrebbe dovuto affrontare con maggiore dialettica il tema cruciale dell’islam e del terrorismo islamico. Una scelta che indubbiamente mi lusingava. Ma che presto mi creò un’angoscia incontenibile, mi fece scoprire una dimensione nascosta nella personalità di Oriana e si concluse con la fine di un idillio.
Mi colpì la sua tremenda solitudine. Che contrastava in modo flagrante con la sua straordinaria fama e crescente popolarità. Provavo per lei grande tenerezza. Le portavo del tè, dei biscotti e dell’acqua naturale. Lei ingeriva soltanto liquidi. Si preparava da sola una minestrina nella cucina attigua alla sua stanza, dove dormiva e scriveva. Era ridotta a ossa e pelle. Ma aveva una lucidità eccezionale e una vitalità irrefrenabile. Preparavo le domande per iscritto. Oriana le leggeva. Registravo le sue risposte. Andammo avanti per giorni. Registrai per ore ed ore. Passai nottate a sbobbinare l’intervista perché lei aveva fretta di leggere tutto e di rimettere mano sull’insieme. Un giorno arrivò la sorpresa: Oriana, falciandomi con uno sguardo gelido, mi disse che non andava affatto bene, che le mie domande erano aggressive, che la punteggiatura nelle sue risposte non era stata rispettata. Prese in mano tutto, rilesse tutto, ma non era per niente convinta. C’era qualcosa di fondo che non corrispondeva alla sua attesa. Mi chiese di avere i nastri della registrazione e mi fece giurare che avrei cancellato qualsiasi traccia della nostra intervista dal mio computer. Feci tutto ciò che mi chiese. Il nostro rapporto finì così. Successivamente uscì il suo saggio “Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci”. Presi atto del fatto che lei non ammetteva la dialettica, che le sue parole non potevano essere confutate, che le sue tesi dovevano apparire in modo inequivoco e ispirare delle certezze assolute”.
In conclusione tributavo un sonoro omaggio ad Oriana:
“Ebbene dobbiamo riconoscere che Oriana ha avuto l’onestà intellettuale e il coraggio umano di affrontare di petto la radice del male del nostro secolo, l’ideologia dell’odio in seno all’estremismo islamico, con l’etica professionale e la passione della scrittrice che non si tira indietro di fronte ai mostri sacri, che non esita a infrangere i tabù del perbenismo ideologico, offrendocelo con un linguaggio d’eccellenza, coinvolgente, pungente, irriverente, messianico. Oriana ha svolto un ruolo straordinario nel contribuire a formare un sentimento di riscossa civile e di orgoglio nazionale nell’era della guerra globale del terrorismo islamico, dell’ideologismo nichilista all’insegna dell’anti-americanismo e dell’anti-ebraismo, del pacifismo militante, pregiudiziale, egoistico e perfino violento. Come Cassandra, Oriana ha assunto il ruolo dell’avanguardia rivoluzionaria che sprona le masse a ribellarsi alle forze del male, a prendere nelle proprie mani il proprio destino, ammonendo dalle tragiche conseguenze di un eventuale cedimento. Come Cassandra ha avvertito l’Occidente che l’enorme cavallo di legno dell’estremismo islamico, ovvero l’insieme della rete delle moschee dove si predica l’odio, le scuole coraniche, gli enti finanziari islamici, sono un artificio per conquistarlo dall’interno. Come Cassandra, le parole di Oriana sono cadute nel vuoto. Né ha avuto esito migliore la sua predicazione contro l’aborto e la sperimentazione genetica, individuati come sintomi della crisi dei valori e della società occidentale. Nella consapevolezza che se l’Occidente non si riconcilia con la propria tradizione cristiana, di cui lei era orgogliosa pur professandosi atea, non riuscirà mai a riscattarsi dal nichilismo etico e a sconfiggere la minaccia dell’estremismo islamico. Sono due facce della medaglia della sfida epocale in cui Oriana si è spesa con generosità fino all’ultimo dei suoi giorni”.
Grazie carissima Oriana. Ti amo ricordare come la donna dal corpo gracile e dall’anima solida, che ti lasciavi accarezzare, stringere la mano e baciare sulle guance. Mentre tu eri sempre in pensiero e i tuoi occhi vagavano a 360 gradi, io percepivo la tua profonda solitudine. Mentre tu eri sempre vigile a tutto ciò che potevi captare dalla lettura dei giornali o dalle conversazioni telefoniche con i pochi “eletti” da te selezionati, io percepivo il tuo desiderio profondo di un contatto autentico con le persone in carne ed ossa. Ti ho voluto sinceramente bene ed ora te ne voglio ancor di più. Ti stimavo tanto ed ora ti stimo al punto da ritenere un dovere civile valorizzare il tuo pensiero e difendere la tua memoria. Vivrai sempre nel mio cuore e nella mia mente. Io non ti dimenticherò mai.
Magdi Cristiano Allam
15/09/2008 11:56
INDIA
Karnataka: 20 chiese attaccate, i cristiani accusano la polizia di inerzia
di Nirmala Carvalho
Giovani fondamentalisti indù attaccano anche un convento di clausura. La polizia sapeva in precedenza degli attacchi e non ha fatto nulla. I radicali indù promettono nuove violenze anche in altri Stati della confederazione.
Mangalore (AsiaNews) – Venti chiese cristiane sono state vandalizzate a Mangalore, Udupi, Chikmalagur, e in altri distretti nello stato del Karnataka (India sud-ovest). Fra esse anche la cappella di un monastero di clarisse a Milagres. I cristiani accusano la polizia di non agire per prevenire gli attacchi dei radicali indù e ieri si sono scontrati con le forze dell’ordine.
Ieri la polizia ha decretato il coprifuoco e il divieto di radunarsi dopo essersi scontrata con una folla di cristiani furibondi per gli attacchi, e una grossa manifestazione di indù fondamentalisti. Nonostante ciò, stamane, manifestanti indù hanno distrutto l’interno della chiesa di san Sebastiano a Permannur, distruggendo finestre e mobili. I cristiani hanno manifestato contro la polizia, che è intervenuta facendo decine di arresti.
Ieri mattina gruppi del Sangh Parivar, l’organizzazione-ombrello che raccoglie molte associazioni paramilitari indù hanno attaccato chiese cattoliche, protestanti, sale del regno dei Testimoni di Geova e sedi di alcune sette evangeliche. L’attacco in diversi distretti e in diverse locazioni sembra essere programmato.
Un gruppo di giovani dell’Rss (Rashtriya Swayamsevak Sangh) è entrato nella cappella dell’Adorazione del monastero di Milagres e hanno cominciato a distruggere tutto quanto hanno trovato davanti. Il monastero è retto dalle suore clarisse di clausura. In un attimo essi hanno dissacrato il tabernacolo e l’eucarestia, l’ostensorio, un crocifisso, le lampade del Santissimo, i vasi attorno all’altare, alcune statue di santi. Secondo testimoni oculari, i giovani avevano bastoni e grosse pietre. Alcuni fedeli lì presenti hanno cercato di fermarli, ma sono stati picchiati e sono ora ricoverati all’ospedale. Attacchi simili si sono verificati a Belthangady, Kodaikal,Chikmangalore, Udupi, Koloor, Chickmangalore, Kundapur, Karkal, Koppa, Balehanoor e Moodbidri.
N Sateesh Kumar, soprintendente della polizia di Mangalore ha ammesso che essi sapevano di possibili attacchi contro obbiettivi cristiani da parte di organizzazioni radicali indù, ma non hanno agito per prevenirli. Il cancelliere della diocesi di Mangalore, p. Henry Sequeira, ha commentato: “Se la polizia sapeva e non ha fatto nulla per fermare gli attacchi, allora per noi non c’è speranza”.
Proprio questa frustrazione ha portato molti cristiani ieri a manifestare pubblicamente la loro sfiducia nella polizia (v. foto). E sebbene vi fosse il coprifuoco, si sono radunati attorno ai luoghi colpiti, lanciando pietre ai poliziotti che cercavano di disperdere i raduni.
A Milagres si sono radunati centinaia di cristiani per difendere le loro chiese. Alcuni fedeli - fra cui una suora - che cercavano di raggiungere la chiesa per partecipare alla messa domenicale serale, sono stati picchiati dalla polizia. Per disperdere la folla di cristiani la polizia ha anche usato gas lacrimogeni.
Le forze dell’ordine hanno arrestato 5 giovani del gruppo fondamentalista Bajrang Dal, responsabili dell’assalto al convento delle carmelitane. Mahendra Kumar, uno dei responsabili dell’organizzazione militante giovanile indù, ha detto che i giovani non hanno attaccato alcuna chiesa cattolica, ma solo sedi della setta evangelica New Life. Egli ha anche dichiarato che sono in programma ulteriori attacchi.
La nuova ondata di violenze contro cristiani, ha preso spunto dall’uccisione in Orissa di un leader radicale indù ad opera di guerriglieri maoisti. La Sangh Parivar accusa invece i cristiani dell’uccisione e vuole cacciare i cristiani dall’India, fermando quelle che loro chiamano “le conversioni forzate di indù al cristianesimo”. Dall’Orissa le violenze si sono allargate al Madya Pradesh, al Chhattisghar e al Karnataka.
L’All India Christian Council, che raccoglie tutte le associazioni cristiane, ha diramato un appello in cui si dice “timoroso di nuovi attacchi anche a Delhi e in altri stati governati dal partito del Congress”. Molti osservatori sospettano che tutti gli attacchi hanno anche una valenza politica: il Bjp (Bharatiya Janata Party), partito dell’opposizione, difende infatti le campagne anticristiane del Sangh Parivar.
La nuova laicità di Benedetto XVI e Sarkozy - Romeo Astorri - IlSussidiario.net
lunedì 15 settembre 2008
La visita di Benedetto XVI in Francia ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica un tema, quello dei rapporti tra Chiesa e Stato, e più in generale tra religioni e Stato, oggetto da qualche anno di molte e accese discussioni. Credo innanzitutto che vada sottolineato il luogo dove il tema è stato trattato. In Francia è in vigore una legge di separazione che, dalla sua approvazione nel 1905, è stata considerata un modello per gli altri paesi europei e nella sua Costituzione, all’articolo 1, si qualifica lo Stato come laico (una qualificazione che, oltre che nella Costituzione francese, è presente solo in quella turca). Si tratta di due questioni diverse, sulla prima delle quali, la separazione, si è forse oggi arrivati ad un primo punto fermo, mentre, sul secondo, la laicità, almeno a mio avviso, siamo ancora all’inizio di una riflessione che permetta di delinearne una modalità di attuazione coerente con il carattere multiculturale e multireligioso della democrazia contemporanea.
Benedetto XVI ha chiaramente affermato che «la chiesa francese gode attualmente di un regime di libertà e che la diffidenza del passato si è trasformata poco a poco in un dialogo sereno e positivo che si consolida sempre più», ribadendo con forza l’accettazione da parte della chiesa del modello separatista francese.
La presenza del principio della separazione degli ordini della Chiesa e dello Stato, del resto già presente anche nella Costituzione italiana, si è affermata sempre più chiaramente, come mostrano molte delle costituzioni dei nuovi Stati democratici europei che proclamano di essere separatisti. E il modello separatista, che aveva avuto nella storia concretizzazioni diverse, al punto che si parlava di separatismo francese, di separatismo statunitense e persino di separatismo sovietico, continua ad assumere nel suo adeguarsi a situazioni storico-politiche differenti, forme sempre nuove.
Più complessa si presenta invece la questione della laicità. Il termine laicità definisce un principio che sta alla base dei comportamenti dello Stato a tutela della libertà religiosa dei cittadini, come la non ingerenza nelle questioni religiose, la neutralità di fronte alle varie posizioni presenti nella società. In definitiva lo Stato non deve assumere atteggiamenti che, in una società nella quale sono presenti una pluralità di convinzioni filosofiche e religiose, possano violare il diritto di libertà religiosa dei cittadini stessi o il principio di uguaglianza tra cittadini di religione diversa.
Credo che nei discorsi di Benedetto XVI e del presidente Sarkozy si ponga l’attenzione sulla necessità di rivedere non la nozione, ma il concreto dispiegarsi delle fattispecie nelle quali essa si articola, liberando la laicità dal suo legame con la cultura del liberalismo europeo del secolo XIX. Nel suo discorso di saluto il presidente francese ha fatto appello ad «una laicità positiva. Una laicità che rispetti, una laicità che riunisca, una laicità che dialoghi. E non una laicità che escluda e che denunci», mentre il papa ha sottolineato come sia fondamentale «insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso… e… prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società».
Non si tratta di rivendicare il riconoscimento della primogenitura di una qualsiasi convinzione filosofica o religiosa, come se da essa e in essa unicamente potessero trovare un fondamento le risposte alle problematiche che, sempre il presidente Sarkozy, definisce come tipiche di un’epoca «in cui il dubbio e il ripiegamento su se stessi pongono le nostre democrazie davanti alla sfida di rispondere ai problemi del nostro tempo, la laicità positiva offre alle nostre coscienze la possibilità di scambiare opinioni, al di là delle credenze e dei riti, sul senso che noi vogliamo dare alla nostra esistenza, la ricerca di senso».
Il problema della laicità non può presentarsi oggi come il tentativo di rimanere fedeli a parametri ottocenteschi che porterebbero a ipostatizzare il rapporto tra stato e religioni, sulla base di modelli non più proponibili, perché sembrano avere origine non dal rispetto della libertà religiosa, ma piuttosto dal presupposto tipico di quel periodo che la religione sia un fatto privato, tanto da far dire ad un grande giurista tedesco che il separatismo, da lui considerato l’ideale espressione dello stato liberale laico, era quel modello dove l’appartenenza o la non appartenenza ad una religione non interferiva mai, dalla nascita sino alla morte, nei rapporti di un cittadino con lo stato.
Come ha notato con molta sincerità lo stesso Sarkozy, oggi siamo in presenza di una situazione drammaticamente diversa, «poiché fino a trent'anni fa nessuno dei nostri predecessori avrebbe potuto immaginare e neppure sospettare le questioni che noi oggi dobbiamo affrontare. E, mi creda, Santità, che per un leader politico è una pesante responsabilità dissodare questo nuovo campo della conoscenza, della democrazia e del dibattito».
Se la laicità ottocentesca era collegata prevalentemente con questioni che, perlopiù, concernevano direttamente la libertà di culto, oggi la complessità e l’indeterminatezza del religioso hanno allargato enormemente la sfera delle interferenze del religioso stesso (o delle convinzioni filosofiche cui un individuo può aderire) con la società. Accanto a questo, a richiedere questo ripensamento sta anche il ruolo pubblico sempre più forte assunto dalle religioni e, forse in senso negativo, la finalità identitaria che sembrano assumere le convinzioni personali nelle scelte della vita di ogni giorno (Benedetto XVI ha parlato, a proposito dei giovani, dei limiti di un comunitarismo religioso condizionante).
La laicità positiva, o più semplicemente la laicità, comporta che lo Stato si debba misurare con il contesto sociale odierno, assumendo il dialogo con le religioni e con la loro alterità, come risorsa piuttosto che come anomalia da correggere o addirittura da cancellare.
1) 15/09/2008 10:48 - Papa: il “sorriso di Maria” indica a chi soffre le ragioni della speranza - Benedetto XVI conclude il suo viaggio in Francia celebrando a Lourdes la messa per i malati. La sofferenza “rompe gli equilibri” umani, sopportarla è molto difficile ed a volte arriva a far perdere il senso del valore della vita. Ma la grazia viene a sostegno, da Maria viene la certezza che Gesù è vicino a chi è nel dolore e la forza “di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio”.
2) Dio e/o Cesare - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 15 settembre 2008 - La laicità non è in contraddizione, anzi è frutto della fede
3) 15 settembre 2008 - Il cantico francese del prof. Ratzinger, di Giuliano Ferrara, dal Foglio.it
4) Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui... - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it
5) Fuggire gli idoli per cercare Dio, Osservatore Romano 14 settembre 2008
6) Grazie Oriana, da cristiano dico che sull'islam avevi ragione. Il mio sincero omaggio a due anni dalla morte, di Magdi Cristiano Allam
7) Mangalore (AsiaNews) – Venti chiese cristiane sono state vandalizzate a Mangalore, Udupi, Chikmalagur, e in altri distretti nello stato del Karnataka (India sud-ovest). Fra esse anche la cappella di un monastero di clarisse a Milagres. I cristiani accusano la polizia di non agire per prevenire gli attacchi dei radicali indù e ieri si sono scontrati con le forze dell’ordine.
8) La nuova laicità di Benedetto XVI e Sarkozy - Romeo Astorri - IlSussidiario.net
15/09/2008 10:48 - Papa: il “sorriso di Maria” indica a chi soffre le ragioni della speranza - Benedetto XVI conclude il suo viaggio in Francia celebrando a Lourdes la messa per i malati. La sofferenza “rompe gli equilibri” umani, sopportarla è molto difficile ed a volte arriva a far perdere il senso del valore della vita. Ma la grazia viene a sostegno, da Maria viene la certezza che Gesù è vicino a chi è nel dolore e la forza “di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio”.
Lourdes (AsiaNews) – La dignità del malato, la speranza che non abbandona, come riflesso del “sorriso di Maria”, la capacità di accettare il dolore e di conservare il senso del valore della vita, sapendo che si ha sempre comunque accanto Gesù, il valore della solidarietà. E’ dedicata a coloro che sono i protagonisti dei pellegrinaggi a Lourdes, i sei milioni di persone che vi si recano ogni anno, la messa per i malati con la quale, nel giorno dedicato alla Beata Vergine Addolorata, si conclude oggi la visita di Benedetto XVI in Francia. Al termine della celebrazione, infatti, il Papa riparte per Roma. Un viaggio che ha in bilancio una risposta della gente che ha sorpreso giornali e televisioni, costringendo i media laici d’oltralpe ad interrogarsi sui perché di un’attenzione imprevista.
Anche oggi, sulla grande spianata di Lourdes, ci sono decine di migliaia di persone. In primo luogo i malati ed i loro accompagnatori. A loro il Papa parla del “sorriso di Maria”. In esso, dice “si riflette la nostra dignità di figli di Dio, una dignità che non abbandona mai chi è malato. Quel sorriso, vero riflesso della tenerezza di Dio, è la sorgente di una speranza invincibile. Lo sappiamo purtroppo: la sofferenza prolungata rompe gli equilibri meglio consolidati di una vita, scuote le più ferme certezze della fiducia e giunge a volte a far addirittura disperare del senso e del valore della vita”. “La sofferenza è sempre una straniera”, aggiunge poco dopo. “La sua presenza non è mai addomesticabile. Per questo è difficile sopportarla, e più difficile ancora – come hanno fatto certi grandi testimoni della santità di Cristo – accoglierla come parte integrante della propria vocazione, o accettare, secondo l’espressione di Bernadette, di ‘tutto soffrire in silenzio per piacere a Gesù’”
Nella vita “vi sono combattimenti che l’uomo non può sostenere da solo, senza l’aiuto della grazia divina. Quando la parola non sa più trovare espressioni adeguate, s’afferma il bisogno di una presenza amorevole”. E’ allora che si cerca la vicinanza di parenti ed amici ed anche di “coloro che ci sono intimi per il legame della fede. Chi potrebbe esserci più intimo di Cristo e della sua santa Madre, l’Immacolata? Più di chiunque altro, essi sono capaci di comprenderci e di cogliere la durezza del combattimento ingaggiato contro il male e la sofferenza”. “Nel sorriso della Vergine si trova misteriosamente nascosta la forza per proseguire il combattimento contro la malattia e in favore della vita. Presso di lei si trova ugualmente la grazia di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio”.
Nel sorriso di Maria, “percepiamo che la nostra unica ricchezza è l’amore che Dio ha per noi e che passa attraverso il cuore di colei che è diventata nostra Madre” ed esso “è una sorgente di acqua viva”, della quale è “umile segno” la sorgente che la Vergine stessa indicò a Bernadette. “Dal suo cuore di credente e di madre sgorga un’acqua viva che purifica e guarisce. Immergendosi nelle piscine di Lourdes, quanti sono coloro che hanno scoperto e sperimentato la dolce maternità della Vergine Maria, attaccandosi a lei per meglio attaccarsi al Signore!”. Che “dispensa la sua salvezza attraverso i Sacramenti e, in modo speciale, alle persone che soffrono di malattie o che sono portatrici di un handicap, attraverso la grazia dell’Unzione degli infermi”. Sacramento che, dopo aver pronunciato l’omelia, il Papa ha impartito ad un gruppo di malati. “La grazia propria del Sacramento – ha spiegato - consiste nell’accogliere in sé Cristo medico. Cristo tuttavia non è medico alla maniera del mondo. Per guarirci, egli non resta fuori della sofferenza che si sperimenta; la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattia, per sopportarla e viverla con lui. La presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento che il dolore provoca. L’uomo non porta più da solo la sua prova ma, in quanto membro sofferente di Cristo, viene conformato a Lui che si offre al Padre, e in Lui partecipa al parto della nuova creazione”.
L’ultimo pensiero del Papa è per quanti, a Lourdes, sono accanto ai malati. “Il servizio di carità che voi rendete – dice loro - è un servizio mariano. Maria vi affida il suo sorriso, affinché diventiate voi stessi, nella fedeltà al Figlio suo, sorgenti di acqua viva. Quello che voi fate, lo fate a nome della Chiesa, di cui Maria è l’immagine più pura. Possiate voi portare il suo sorriso a tutti!”. (FP)
Dio e/o Cesare - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 15 settembre 2008 - La laicità non è in contraddizione, anzi è frutto della fede«Mi sembra evidente oggi che laicità di per sé non è in contraddizione con la fede. Direi anzi che è un frutto della fede, perché la fede cristiana era, fin dall’inizio, una religione universale dunque non identificabile con uno Stato, presente in tutti gli Stati e diversa in ogni Stato. Per i cristiani è sempre stato chiaro che la religione e la fede non sono politiche, ma un’altra sfera della vita umana… La politica, lo Stato non è una religione ma una realtà profana con una missione specifica… e devono essere aperte l’una all’altra. In tal senso direi, oggi, per i Francesi, e non solo per i Francesi, per noi cristiani in questo mondo secolarizzato di oggi, è importante vivere con gioia la libertà della nostra fede, vivere la bellezza della fede e rendere visibile nel mondo di oggi che è bello conoscere Dio, Dio con un volto umano in Gesù Cristo… Mostrare dunque la possibilità dell’essere credente oggi, e la necessità che nella società di oggi vi siano uomini che conoscono Dio e possono dunque vivere secondo i valori che ci ha dato e contribuire alla presenza dei valori che sono fondamentali per l’edificazione e la sopravvivenza dei nostri Stati e delle nostre società» [Benedetto XVI, Intervista ai giornalisti, 12 settembre 2008].
Sul problema delle relazioni tra sfera politica e sfera religiosa, oggi in crescendo positivamente anche in Italia, Cristo stesso aveva già offerto il criterio di fondo in base al quale trovare una giusta soluzione, come sui rapporti tra Stato e Chiesa. Lo fece quando, rispondendo ad una domanda che gli era stata posta, affermò: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17). “La Chiesa in Francia - ha constatato Benedetto XVI durante la cerimonia di benvenuto all’Eliseo - gode attualmente di un regime di libertà. La diffidenza del passato si è trasformata poco a poco in un dialogo sereno e positivo, che si consolida sempre più. (…). Lei ha del resto utilizzato, Signor Presidente, l’espressione di “laicità positiva” per qualificare questa comprensione più aperta. In questo momento storico in cui le culture si incrociano tra loro sempre più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della laicità è divenuta necessaria. E’ fondamentale infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società”.
“E’ legittimo per la democrazia e rispettoso della laicità - il benvenuto del presidente Sarkozy - dialogare con le religioni. Queste, e in particolare la religione cristiana, con la quale condividiamo una lunga storia, sono patrimonio di riflessione e di pensiero, non solo su Dio, ma anche sull’uomo, sulla società e persino su quella preoccupazione, oggi centrale, che è la natura e la tutela dell’ambiente. Sarebbe una follia privarcene, sarebbe semplicemente un errore contro la natura e contro il pensiero. E’ per questo che faccio appello ancora una volta a una laicità positiva. Una laicità che rispetti, una laicità che riunisca, una laicità che dialoghi. E non una laicità che escluda e che denunci”.
Nella consegna ai Vescovi francesi il Papa, dopo aver chiesto di trovare una strada nuova per interpretare e vivere nel quotidiano i valori fondamentali sui quali si è costruita la Nazione, ha detto: “Il vostro Presidente ne ha evocato la possibilità per cui in Francia, attraverso questo percorso, i presupposti socio politici dell’antica diffidenza o persino le ostilità svaniscono a poco a poco”. Da parte sua, ha continuato Benedetto XVI, “La Chiesa non rivendica per sé il posto dello Stato. Essa non vuole sostituirglisi. E’ infatti una società basata su convinzioni, che si sente responsabile dell’insieme e non può limitarsi a se stessa. Essa parla con libertà e dialoga con altrettanta libertà nel desiderio di giungere alla edificazione della liberà comune. Grazie ad una sana collaborazione tra Comunità politica e la Chiesa, realizzata nella consapevolezza e nel rispetto dell’indipendenza e dell’autonomia di ciascuna nel proprio campo, si rende all’uomo un servizio che mira al suo pieno sviluppo personale e sociale”. Forse dopo la caduta del comunismo sta cadendo anche il laicismo.
15 settembre 2008 - Il cantico francese del prof. Ratzinger, di Giuliano Ferrara, dal Foglio.it
Secondo il Papa, che ha tenuto venerdì un discorso bello e profondo nella patria del razionalismo filosofico moderno, parlando alla cultura francese riunita al Club dei bernardini, i benedettini di San Bernardo di Clairvaux, l’universalità è un tratto che appartiene sia a Dio sia alla ragione umana aperta verso il mistero o il trascendente.
Attenzione. Sono parole che pesano, che hanno un senso non accademico, che non sono destinate agli addetti ai lavori soltanto, ai filosofi e ai dotti. Sono atti programmatici di un papato giovanpaolino e benedettino che segna il passaggio tra due secoli in cui la modernità è diventata un problema in ogni campo storico ed esistenziale, e l’alleanza tra fede e ragione è indicata come la soluzione. E’ noto che il Papa, programma parecchio ambizioso ma inevitabile, vuole convertire e riconvertire l’Europa scristianizzata, ma intende farlo riconoscendo le impronte decisive del suo secolarismo laico, rileggendo insieme al popolo e alle classi dirigenti il vero significato del patrimonio europeo e occidentale di cultura e di spiritualità, e perfino (e forse principalmente) il suo immenso tesoro scientifico. Fa parte di questo gioco teologico-politico l’idea indiscutibile che il progresso della libertà umana e dei diritti della persona sia figlio anch’esso del cristianesimo. Il palcoscenico francese è quello, dal punto di vista di un illuminismo cristiano, che si presta meglio alla bisogna.
E’ dunque universale, universalmente valido, l’operare di Dio, creatore e attore della storia tramite l’Incarnazione e il Logos. Chi ha fede, chi si sente figlio di Dio in Cristo Gesù, deve rendere ragione di questa sua speranza, come è detto nella Prima Lettera di San Pietro. Il che è possibile, appunto, perché la ragione non è solo ragione particolare, che dà conto di questo o quell’esperimento, di questo o quel fatto storico individuale, ma è ragione universalmente valida, ragione che conosce e sa valutare anche il limite proprio, il confine della sua stessa capacità di conoscere, appunto il mistero.
Per questo motivo, per il fatto che tra il divino e l’intelletto umano vale una analogia nel segno della verità e del bene, due concetti e criteri anche etici che stanno e cadono insieme, la laicità secolare, cioè il nostro mondo della libertà individuale e del pluralismo dei valori, del relativismo, deve essere aperta al significato e al senso pubblico del sacro. E’ poi questa la laicità positiva o matura di cui ha parlato con lungimiranza Nicolas Sarkozy nel suo discorso lateranense, che ha aperto la via a questo viaggio e alla solenne “liturgia filosofica” di ieri.
Il secolarismo laico non deve mai trasformarsi in una religione o in una caricatura della religione. Per esempio: il giurista moderno può cercare una misura di giustizia fondata su procedure conformi alla legge positiva, a loro volta basate su convenzioni umane mobili, ma non deve cancellare il significato di diritto naturale innato contenuto nei principi non negoziabili. Per esempio: lo scienziato ha da essere libero nella ricerca, curioso, aperto a sviluppi imprevedibili, ma non deve considerarsi un “creatore deiforme” e non può pretendere di decidere scientificamente e proceduralmente della differenza tra bene e male. Per esempio: il politico democratico-liberale occidentale deve fondare le sue scelte sul consenso possibile, ma non può credere e far credere che la verità sia quel che stabilisce una maggioranza provvisoria.
“Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi”: questa è dunque la logica e ammonitoria conclusione del discorso pronunciato ieri da Benedetto XVI, il secondo grande discorso teologico-politico dopo Ratisbona.
I discorsi di questo Papa sono semplificabili in formule chiare a tutti e che tutti richiamano alla responsabilità di pensare (o di assistere per lo meno allo spettacolo del pensiero distogliendosi dalla noiosa ripetizione dell’intrattenimento quotidiano). Tuttavia i testi di Benedetto XVI, come quelli del cardinale Ratzinger prima di lui, sono cesello teologico di qualità, spartito gregoriano in prosa, e procedono sempre in modo sorprendente, generoso, stringente e divagante insieme, letterariamente brillante proprio nel senso dell’unione di quell’amor di Dio e di quell’amore per le lettere richiamato ieri sulla scorta dell’opera del compianto monaco bernardino Jean Leclercq.
(Legare le lettere a Dio e Dio alle lettere è un progetto di cui, in fondo, la cultura francese non si è mai liberata, malgrado la finale e provvisoria vittoria di Montaigne su Pascal).
Per arrivare al formulario o alla manualistica dell’antirelativismo, che genera spesso tanti equivoci e tante pappagallesche imitazioni, il Papa fa un giro lungo e argenteo, partendo dal monachesimo occidentale, dalla sua ricerca di Dio come “ciò che permane per sempre”, come il “definitivo”, quel quaerere Deum che si risolve in dedizione alla Parola e alle parole, interpretazione della Scrittura e delle scritture in una comunione spirituale che è il contrario dell’arbitrio culturale individuale, è salmistica, è musica, è lotta per il bel canto angelico contro il rischio della “dissimilitudine”. Sono concetti gioiosi e lucenti che ci arrivano dal mondo antico e poi medievale, quei mondi che il modernismo banale vorrebbe obliterare e raschiare via dalla storia dello spirito umano in un superamento secolare definitivo e irreversibile.
Nel discorso è specialmente notevole quel tratto che ho provato a chiamare di liturgia filosofica. Questo Papa insiste infatti nel tenere dei discorsi che hanno una caratteristica unica: sono in parte omelie, in parte lezioni magistrali, in parte manifesti culturali e politici, cioè filosofici, sulle grandi questioni del tempo, e specie quelle incandescenti. Come in una testarda insistenza dopo Regensburg e le aggressioni subite per aver osato la verità, il Papa descriveva ieri nuovamente la dialettica rabbinica e poi quella cristiana della parola, la vittoria con San Paolo dello spirito sulla lettera, dell’allegoria e della lettura di comunione della Bibbia sul nudo testo della Scrittura. La Parola scritturale non è mai un dettato di Dio, ragion per cui, ed è una conseguenza importante per la nostra cultura e il nostro modo di vita, il cristianesimo non è propriamente una religione del libro. Noi interpretiamo e facciamo esegesi e teologia della Parola, ecco il deposito insieme culturale e di fede comunitaria dove abbiamo trovato l’antidoto al letteralismo fondamentalista. Ecco la nostra libertà dello spirito. E chi vuol intendere, intenda.
A un certo punto il Papa dice: “Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione”. La libertà dello spirito è sempre in tensione con un legame “d’intelletto e d’amore”, dice Benedetto XVI con formula delicata e stilnovista, e senza quel legame, negato dagli esiti nullisti e libertari dell’approdo moderno, la libertà si distrugge. A occhio e croce, sembrerebbe non avere tutti i torti.
Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui... - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it
domenica 14 settembre 2008
...questo oggi non è meno necessario che nei tempi passati
«Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo (Collège des Bernardins edificato dai figli di san Bernardo di Clairvaux) è in qualche modo emblematico. E’ infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione… Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: “quaerere Deum”, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa (la vita che è “veramente” vita, la grande speranza). Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo ‘escatologico’. Ma ciò non è da intendersi in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale; dietro le cose provvisorie (le speranze più piccole e più grandi che mantengono in cammino) cercavano il definitivo (la grande speranza che può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere). “Quaerere Deum”: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca al buio assoluto. Dio stesso (non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme) aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla (là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge). Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq: nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (…). Il desiderio di Dio include l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una “dominici servitii schola”. Il monastero serve alla “eruditio”, alla formazione e all’erudizione dell’uomo- una formazione con l’obiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola. Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che apre la via alla ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, è una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa colpisce il cuore di ciascun singolo (At 2,37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per Dio. Ma così ci rende attenti anche gli uni gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede…
Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbì esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale (…). I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione praticata dal giudaismo, doveva sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17). Il mondo greco romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita (l’essere che rimanda all’Essere tutto in atto non è solo il dato originario, naturale; il fatto storico avvenuto ma anche il faciendum, il farsi futuro che tra loro non si smentiscono: questa la metafisica dinamica dell’essere). Dio lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione (…).
E’ questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo passato? Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalle migrazioni di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto?(…)
“Quaerere Deum” – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio (il senso del vivere,le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e percepire così Gesù Cristo come luce che illumina la storia ed aiuta a trovare il da farsi verso il futuro), sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura» [Benedetto XVI, Le origini della Teologia Occidentale e le radici della Cultura Europea, 12 settembre 2008].
La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa
Dal libro autobiografico La mia vita si coglie la provvidenzialità del percorso teologico di Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, in rapporto alla nuova evangelizzazione di fronte alle forze impulsive da cui è animata l’era contemporanea: la convinzione che la direttrice di fondo della storia non sia né solo l’essere dato originariamente, naturalmente, né solo il fatto accaduto storicamente né solo il dover essere cioè il progresso e che perciò il bene venga sempre e solo dal futuro. Questo taglio ideologico della modernità ha provocato, spesso in modo inconsapevole, un altro taglio altrettanto ideologico dell’antimodernità che il Concilio Vaticano II ha purificato. Ratzinger, con tanti altri, sottolinea l’urgenza di un e… e… tra dato naturale, fatto storico e da farsi: “Sarà tassativo compito della teologia accogliere questo appello, acciuffare questa possibilità. Individuando così i punti morti e colmando le lacune dei periodi passati” (Introduzione al cristianesimo, p. 36). Lo sviluppo della conoscenza è sempre un avvenimento in continuità dinamica fra dato originale, fatto storico e da farsi perché Dio continua a lavorare, a creare nella e sulla storia degli uomini. E questo è avvenuto anche durante il Concilio Vaticano II soprattutto a proposito della Costituzione sulla Parola di Dio, uno dei testi più significativi che non è ancora entrato e non ha ancora plasmato la coscienza ecclesiale. Cosi lo documenta Ratzinger in La mia vita: “Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner ed io, benché ci trovassimo d’accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo in due pianeti diversi. Anch’egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell’esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie. La sua teologia – malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni – era totalmente caratterizzata dalla tradizione scolastica suareziana e dalla nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica in cui, alla fine, la Scrittura e i Padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io al contrario, proprio per la mia formazione ero segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico (…). Ora era chiaro che lo schema di Rahner sulla Costituzione sulla parola di Dio non poteva essere accolto, ma anche il testo ufficiale andò incontro alla bocciatura con una esigua differenza di voti. Si doveva quindi procedere al rifacimento del testo. Dopo complesse discussioni, solo nell’ultima fase dei lavori conciliari si poté arrivare all’approvazione della Costituzione sulla Parola di Dio, uno dei testi di spicco del Concilio, che peraltro non è stato ancora recepito appieno (…). Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare” (pp. 92-93). Ci si sta preparando perché al Sinodo di ottobre possa accadere l’avvenimento della conoscenza delle reali affermazioni del Dei Verbum, e dalla seconda, dopo quella di Ratisbona, Lectio magistralis di Benedetto XVI nella capitale dell’Illuminismo è venuto un grande contributo.
La Parola di Dio introduce noi stessi nell’avvenimento del colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui, con una conoscenza tutta avvenimento cioè che giunge alle origini. E qui Benedetto XVI ricorda la nascita della grande musica occidentale.
Cantare in corrispondenza alla grandezza e alla bellezza della Parola di Dio
I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il “Gloria”, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il “Sanctus”, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclerq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni”.
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: “Davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore” (138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere esposti al criterio supremo: di pregare e cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine”. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (Confessioni VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non lo rispecchia più e diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. E’ certamente drastico se Bernardo per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso (mi sembra di sentire mons. Giussani!). Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e dal cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.
Ignorare le Scritture è non conoscere Cristo ma senza partire dall’incontro con la Persona di Gesù Cristo non si apprende a capire la Bibbia come unità
Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende più di un millennio in cui i singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad una unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo Antico Testamento. Vale tanto di più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Chi osserva questo processo – certamente non lineare, spesso drammatico e tuttavia progresso – a partire da Gesù Cristo può riconoscere che nell’insieme c’è una direzione, che l’Antico e il Nuovo Testamento sono intimamente collegati tra loro. Certo, l’ermeneutica cristologia, che in Gesù Cristo vede la chiave del tutto e, partendo da Lui, apprende a capire la Bibbia come unità, presuppone una scelta di fede e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questa scelta di fede ha dalla sua la ragione – una ragione storica – e permette di vedere l’intima unità della Scrittura e di capire così in modo nuovo anche i singoli tratti di strada, senza togliere loro la propria originalità. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio (immediato). Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Lettera gesta docet – quid credas allegoria …”(Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, 1). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologia e pneumatica.
La Scrittura è cresciuta nel e dal soggetto vivo del popolo di Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento, la Chiesa, e vive in esso
La Scrittura ha bisogno dell’interpretazione per essere Parola di Dio, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene in continuità vissuta: in essa le parole della Bibbia sono sempre presenza di Dio che parla. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola che crea la storia in continuità dinamica. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per la Scrittura il rapporto con il soggetto “popolo di Dio” è vitale. Da una parte, questo libro – la Scrittura – è il criterio che viene da Dio e la forza che indica la strada al popolo, ma, dall’altra parte, la Scrittura vive solo in questo popolo, che nella Scrittura trascende se stesso e così – nella profondità definitiva in virtù della Parola fatta carne – diventa appunto popolo di Dio. Il popolo di Dio la Chiesa – è il soggetto vivo della Scrittura; in esso le parole della Bibbia sono sempre presenza. Naturalmente si richiede che questo popolo riceva se stesso da Dio, ultimamente dal Cristo incarnato e da Lui si lasci guidare. Per questo il “Catechismo della Chiesa Cattolica” con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità. Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non si identifica, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umana la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.
“La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6)
Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita”. E ancora: “Dove c’è lo Spirito…c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore del Risorto ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che con il dono del suo Spirito ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e dal fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.
L’“ora” (Parola di Dio) col “labora” (il lavorare degli uomini come espressione della somiglianza con Dio e partecipazione all’operare di Dio nella creazione continua del mondo)
Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Gesù supera questa separazione classista effettuando l’emancipazione dei semplici e rivendicando anche per loro la facoltà di essere, nel vero senso della parola, “filosofi”, vale a dire, capaci di comprendere ciò che è proprio e peculiare dell’uomo altrettanto bene quanto lo comprendono i dotti, anzi meglio dei dotti. Ma circa il lavoro assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro è parte costitutiva del monachesimo cristiano. Benedetto parla esplicitamente del lavoro (cap. 48). I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata nel giudaismo, dovevano sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17). Il mondo greco – romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero ed unico Dio, è anche Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita e quindi non c’è solo l’essere dato, naturale, non c’è solo il fatto storico accaduto ma anche il farsi. Dio lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha la facoltà e può partecipare all’operare continuo di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola per tutti, una cultura del lavoro per tutti, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.
La fede non appartiene ad una consuetudine culturale, diversa a seconda dei popoli, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti
L’atteggiamento di fondo dei monaci era il mettersi alla ricerca di Dio, da parte di ogni monaco, “filosofo” nel vero senso della parola cioè capace di comprendere ciò che è proprio e peculiare dell’uomo: guardare oltre le cose penultime, le piccole e grandi speranze e mettersi alla ricerca di quelle ultime, vere, della grande speranza. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale ogni monaco sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderlo nel vissuto fraterno di comunione, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in sé già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge ad ogni uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medioevale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3,15) (Logos deve diventare apo-logia cioè presentazione, la Parola deve diventare risposta). Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della l,oro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia di Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa e Roma tutte accoglieva nel Pantheon, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti. Il cristianesimo si qualifica pertanto come “religione vera”, a differenza delle religioni pagane ormai prive di verità agli occhi della stessa razionalità precristiana e realizza rispetto ad esse una grande opera di “demitizzazione”, un vero illuminismo cristiano.
La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire a tutti i popoli: Egli si è mostrato e adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano consiste in un fatto nel quale c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi.
Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “ad extra” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca- si trova nel discorso di san Paolo all’Aereopago. L’Areopago non era una specie di Accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. E’ proprio questa l’accusa contro Paolo: “sembra essere un annunziatore di divinità straniere” At 17,18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annunzio” (At 17,23). Paolo non annuncia dèi ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto – Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come sottolinea Paolo nella Lettera ai Romani (1,21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto penato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra – non un dio qualsiasi, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme – noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano consiste in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. “Verbum caro factum est” (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di aree ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dei era nascosto e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. “Quarere Deum” – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio cioè il senso, l’origine e la destinazione di ogni vita, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.
Fuggire gli idoli per cercare Dio, Osservatore Romano 14 settembre 2008
Cosa è importante nella vita di ogni essere umano? Che cosa, di conseguenza, mettiamo al primo posto nel nostro cuore? Questa è la domanda che Benedetto XVI ha ripetutamente posto durante la sua visita a Parigi: celebrando nella grandiosa Esplanade des Invalides, mentre sullo sfondo ondeggiava al vento la bandiera francese al culmine del Grand Palais, davanti a una folla impressionante e festosa di fedeli, tra i quali molti giovani che avevano vissuto una lunga veglia notturna; ma anche incontrando il mondo della cultura nel Collège des Bernardins, e durante i vespri a Notre-Dame. E la risposta dell'uomo che dal 1992 siede tra gli "immortali" dell'Institut de France - dove eccezionalmente gli è stata dedicata una lapide sormontata dallo stemma papale - è stata tanto semplice quanto esigente: l'unica realtà che conti, in definitiva, è la ricerca di Dio, cioè un itinerario che esige dalla ragione umana di fuggire gli idoli.
Idoli che mettiamo al posto dell'unico vero Dio quando ci rifugiamo nel passato o nel futuro sfuggendo alla realtà della vita presente, quando nel nostro cuore diamo il primo posto alla cupidigia o alla sete di avere, di potere, o persino di sapere, mentre la felicità richiede di rientrare in noi stessi e riflettere, perché - ha sottolineato il Papa, ripetendo un concetto fondamentale della tradizione cristiana autentica a lui molto caro - Dio non chiede mai il sacrificio della ragione e "mai la ragione entra in contraddizione reale con la fede". Come Benedetto XVI ha mostrato nel discorso, tra i più belli e importanti del suo pontificato, che ha pronunciato al Collège des Bernardins, ragionando sulle radici della cultura europea.
E ancora una volta il Papa ha sorpreso perché ha parlato sì del rapporto tra fede e ragione, ma centrando il suo discorso sul monachesimo occidentale e sulla cultura monastica, studiata e valorizzata dal grande studioso benedettino Jean Leclercq, il cui nome è tornato più volte sulle labbra del Papa. Proprio i monaci medievali hanno infatti assicurato la sopravvivenza della cultura antica finalizzata alla ricerca di Dio: quel quaerere Deum che, oltre il provvisorio, vuole raggiungere l'unica realtà essenziale e definitiva, inconoscibile e allo stesso tempo rivelata. Attraverso il confronto con la Scrittura, la cui lettura nel monachesimo, come già nella tradizione rabbinica, coinvolge l'intero essere umano - cioè tutto lo spirito e tutto il corpo - e che come Parola di Dio trasmessa da labbra umane ha bisogno di essere interpretata, non sopportando quindi né letture di tipo fondamentalista né soggettivismi arbitrari.
La tradizione monastica occidentale non è tuttavia caratterizzata soltanto da questa cultura della parola, bensì - ancora una volta in continuità con la tradizione ebraica - anche da una cultura del lavoro fondata su una teologia della creazione estranea al mondo pagano. Come infatti recita la sintesi benedettina dell'ora et labora, un apporto senza il quale lo sviluppo del continente europeo e la sua concezione del mondo sarebbero impensabili. Così il quaerere Deum, il "cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui", resta oggi necessario: una cultura che restringesse "nell'ambito soggettivo, come non scientifica" la questione di Dio sarebbe infatti "la capitolazione della ragione", mentre "ciò che ha fondato la cultura dell'Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo resta oggi ancora il fondamento di ogni cultura autentica". Proprio perché cercare Dio risponde alla ricerca più profonda, anche inconsapevole, dell'animo umano.
g. m. v.
(©L'Osservatore Romano - 14 settembre 2008)
Grazie Oriana, da cristiano dico che sull'islam avevi ragione. Il mio sincero omaggio a due anni dalla morte
L’errore in cui incorsi fu di immaginare che l’islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all’impegno dei musulmani moderati. Mi sono arreso di fronte all’evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici
Nel ricordare per la prima volta da cristiano Oriana Fallaci, a due anni dalla sua morte, prendo atto con onestà e realismo che la sua libertà di pensiero, dote che anche i suoi più acerrimi nemici le riconoscono, è stata pari alla verità della realtà descritta, fatto che invece viene negato o contestato dai più. Io stesso mi sentivo contrariato quando scriveva: “L’islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. E' incompatibile col concetto di civiltà”. Eppure, all’indomani della mia conversione al cristianesimo lo scorso 22 marzo, ho scritto: “Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale”.
L’errore in cui incorsi fu di immaginare che l’islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all’impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all’evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Invece l’errore in cui incorse Oriana fu quello di non scindere la dimensione della religione da quella delle persone. Dalla netta e totale condanna dell’islam in quanto religione, dedusse la condanna implacabile e inappellabile dei musulmani in quanto persone. Si tratta di un passaggio arbitrario perché le persone non sono mai la trasposizione automatica e acritica della religione, bensì la sintesi della complessità del rispettivo percorso individuale, familiare, comunitario, nazionale, educativo, economico, culturale, politico; così come le persone non sono dei cloni che formano meccanicamente un blocco monolitico.
Cari amici,
Sono stati i fatti a imporsi e a dar ragione ad Oriana. All’indomani della sua morte il 15 settembre 2006, scrissi sul Corriere della Sera:
“Per quelle coincidenze apparentemente fortuite ma che racchiudono chissà come un segno del destino, la morte di Oriana ha coinciso con l' esplodere della nuova «guerra santa» islamica scatenata contro il Papa. Quasi una tragica testimonianza della veridicità della denuncia, sonora e inappellabile, dell' incompatibilità di questo islam e di questi musulmani con la civiltà e l' umanità dell' Occidente. Che Oriana aveva assunto come fede e missione da diffondere ovunque nel mondo nell' ultima fase della sua esistenza terrena profondamente segnata dal trauma dell' 11 settembre, vissuto in prima persona dalla sua abitazione newyorkese. E che nel giorno dell' addio si conferma come un dato di fatto con cui, piaccia o meno, tutti noi dobbiamo fare i conti. E' come se una misteriosa giustizia trascendentale, lei che si professava atea di cultura cristiana, avesse voluto premiarla con un' onorificenza indelebile, riscattando in extremis il suo messaggio dalla pesante cappa di diffamazione e condanna sotto cui giaceva, per presentarcelo in una luce a tal punto fulgida, da disarmare e mettere fuori gioco tutti i suoi critici e oppositori. Perché oggi più che mai possiamo toccare con mano la realtà dell' Eurabia, contro cui si era lungamente spesa Oriana, ovvero di un' Europa a tal punto infiltrata e soggiogata dagli interessi e dall' avanzata degli estremisti islamici, da non essere più in grado di risollevarsi, di reagire, di affermare i propri valori e la propria identità collettiva. Perché oggi più che mai appare con grande evidenza la fragilità, per non dire l' inconsistenza, del mito dell' islam e dei musulmani «moderati», una realtà che evapora e si dissolve nel momento in cui i «duri e puri» suonano la chiamata alle armi per combattere il nemico dell' islam di turno, ora tocca a Benedetto XVI, compattando un fronte che nel suo apparente monolitismo non lascia spazio alcuno alla distinzione tra le posizioni degli uni e degli altri, legittimando la condanna indiscriminata dell' insieme dell' islam e dei musulmani”.
In un successivo ricordo di Oriana pubblicato da Magazine del Corriere della Sera, lo iniziai rammentando il rapporto di amicizia e di affetto che ci accomunò nel 2003:
“Davvero, quando avrò (bene o male) concluso questo lavoretto, la primissima copia sarà per te. Più ti leggo, più ci penso, più concludo che sei l’unico su cui dall’alto dei cieli o meglio dai gironi dell’inferno potrò contare. (Bada che t’infliggo una grossa responsabilità)”. Era l’ottobre 2003. Da New York Oriana mi riservava parole affettuosissime mentre era tutta intenta a scrivere “La forza della ragione”. Un’amicizia che lei aveva intensamente ricercato, chiamandomi di persona a casa, intrattenendomi per ore al telefono, facendosi scrupolo di non creare problemi a mia moglie, chiedendomi con grande attenzione notizie sui miei figli. Un rapporto intenso alla cui base c’era un’enorme stima che lei aveva deciso di manifestare apertamente.
Il 24 settembre 2003, il giorno in cui sul Corriere comparve una mia inchiesta dal titolo “I soldi delle moschee per i fanatici di Allah”, Oriana mi scrisse di proprio pugno un messaggio in inglese che mi fece pervenire via fax: “L’ho letto e ti ho amato. Ti ho anche odiato perché, Dio mio, era esattamente quello che (senza le tue informazioni) stavo scrivendo. Mi sono sentita un po’ derubata. Ma poi ho detto: meglio così. Non importa. Meglio così. E ora ti dico vai avanti. Senza lasciare che loro ti intimidiscano (lo faranno). Al contempo, per favore, fai attenzione. Fai quel che faccio io, ovvero quello che mia madre mi ha sempre detto: (in italiano) devi avere gli occhi nel culo. Credimi. So di che cosa sto parlando. Da due anni vivo quell’incubo. (in italiano) A tal punto che quando vado dall’oculista mi esamina la cornea dalle parti basse. Inoltre ho ricevuto i tuoi libri. Ieri. Grazie anche per quelli. E per le dediche affettuose. Non posso leggerli ora. Sto lavorando sodo con una scadenza mortale. Non ho nemmeno il tempo per respirare. (ammesso che avessi tempi i miei polmoni ormai sono andati). Ma lo farò certamente non appena l’incubo sarà finito. Nel frattempo ti mando la mia benedizione. Puoi accettare la benedizione di un’atea? Dovresti. Secondo me è la benedizione migliore. E non dire mai, mai, mai che ti ho adottato. Potrebbe causarti molto male. Molto. Tanto affetto da quella che io chiamo la Vecchia Signora”.
Nell’articolo di apertura del Magazine svelai come Oriana avesse pensato di scrivere un libro-intervista insieme a me, in cui io avrei dovuto intervistarla, e come invece il progetto naufragò:
“La Oriana-Cassandra l’ho conosciuta prima nella sua casa di campagna tra le colline del Chianti, che si identifica da lontano per il tricolore esposto sul balconcino della sua stanza, da lei voluto dopo aver saputo della gloriosa morte di Fabrizio Quattrocchi che, nell’attimo in cui i terroristi islamici si apprestavano a infliggergli il colpo di grazia, tentò di rimuovere la benda agli occhi dicendo: “Ora vi faccio vedere come muore un italiano”. Poi con Oriana ci siamo rivisti nella sua abitazione milanese in via Statuto, a due passi dalla sede del Corriere della Sera in via Solferino. Era l’inverno del 2004. Aveva deciso tutto lei. Comunicandolo al direttore Stefano Folli. Che mi aveva rigirato la sua richiesta: intervistare Oriana per un libro che avrebbe dovuto affrontare con maggiore dialettica il tema cruciale dell’islam e del terrorismo islamico. Una scelta che indubbiamente mi lusingava. Ma che presto mi creò un’angoscia incontenibile, mi fece scoprire una dimensione nascosta nella personalità di Oriana e si concluse con la fine di un idillio.
Mi colpì la sua tremenda solitudine. Che contrastava in modo flagrante con la sua straordinaria fama e crescente popolarità. Provavo per lei grande tenerezza. Le portavo del tè, dei biscotti e dell’acqua naturale. Lei ingeriva soltanto liquidi. Si preparava da sola una minestrina nella cucina attigua alla sua stanza, dove dormiva e scriveva. Era ridotta a ossa e pelle. Ma aveva una lucidità eccezionale e una vitalità irrefrenabile. Preparavo le domande per iscritto. Oriana le leggeva. Registravo le sue risposte. Andammo avanti per giorni. Registrai per ore ed ore. Passai nottate a sbobbinare l’intervista perché lei aveva fretta di leggere tutto e di rimettere mano sull’insieme. Un giorno arrivò la sorpresa: Oriana, falciandomi con uno sguardo gelido, mi disse che non andava affatto bene, che le mie domande erano aggressive, che la punteggiatura nelle sue risposte non era stata rispettata. Prese in mano tutto, rilesse tutto, ma non era per niente convinta. C’era qualcosa di fondo che non corrispondeva alla sua attesa. Mi chiese di avere i nastri della registrazione e mi fece giurare che avrei cancellato qualsiasi traccia della nostra intervista dal mio computer. Feci tutto ciò che mi chiese. Il nostro rapporto finì così. Successivamente uscì il suo saggio “Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci”. Presi atto del fatto che lei non ammetteva la dialettica, che le sue parole non potevano essere confutate, che le sue tesi dovevano apparire in modo inequivoco e ispirare delle certezze assolute”.
In conclusione tributavo un sonoro omaggio ad Oriana:
“Ebbene dobbiamo riconoscere che Oriana ha avuto l’onestà intellettuale e il coraggio umano di affrontare di petto la radice del male del nostro secolo, l’ideologia dell’odio in seno all’estremismo islamico, con l’etica professionale e la passione della scrittrice che non si tira indietro di fronte ai mostri sacri, che non esita a infrangere i tabù del perbenismo ideologico, offrendocelo con un linguaggio d’eccellenza, coinvolgente, pungente, irriverente, messianico. Oriana ha svolto un ruolo straordinario nel contribuire a formare un sentimento di riscossa civile e di orgoglio nazionale nell’era della guerra globale del terrorismo islamico, dell’ideologismo nichilista all’insegna dell’anti-americanismo e dell’anti-ebraismo, del pacifismo militante, pregiudiziale, egoistico e perfino violento. Come Cassandra, Oriana ha assunto il ruolo dell’avanguardia rivoluzionaria che sprona le masse a ribellarsi alle forze del male, a prendere nelle proprie mani il proprio destino, ammonendo dalle tragiche conseguenze di un eventuale cedimento. Come Cassandra ha avvertito l’Occidente che l’enorme cavallo di legno dell’estremismo islamico, ovvero l’insieme della rete delle moschee dove si predica l’odio, le scuole coraniche, gli enti finanziari islamici, sono un artificio per conquistarlo dall’interno. Come Cassandra, le parole di Oriana sono cadute nel vuoto. Né ha avuto esito migliore la sua predicazione contro l’aborto e la sperimentazione genetica, individuati come sintomi della crisi dei valori e della società occidentale. Nella consapevolezza che se l’Occidente non si riconcilia con la propria tradizione cristiana, di cui lei era orgogliosa pur professandosi atea, non riuscirà mai a riscattarsi dal nichilismo etico e a sconfiggere la minaccia dell’estremismo islamico. Sono due facce della medaglia della sfida epocale in cui Oriana si è spesa con generosità fino all’ultimo dei suoi giorni”.
Grazie carissima Oriana. Ti amo ricordare come la donna dal corpo gracile e dall’anima solida, che ti lasciavi accarezzare, stringere la mano e baciare sulle guance. Mentre tu eri sempre in pensiero e i tuoi occhi vagavano a 360 gradi, io percepivo la tua profonda solitudine. Mentre tu eri sempre vigile a tutto ciò che potevi captare dalla lettura dei giornali o dalle conversazioni telefoniche con i pochi “eletti” da te selezionati, io percepivo il tuo desiderio profondo di un contatto autentico con le persone in carne ed ossa. Ti ho voluto sinceramente bene ed ora te ne voglio ancor di più. Ti stimavo tanto ed ora ti stimo al punto da ritenere un dovere civile valorizzare il tuo pensiero e difendere la tua memoria. Vivrai sempre nel mio cuore e nella mia mente. Io non ti dimenticherò mai.
Magdi Cristiano Allam
15/09/2008 11:56
INDIA
Karnataka: 20 chiese attaccate, i cristiani accusano la polizia di inerzia
di Nirmala Carvalho
Giovani fondamentalisti indù attaccano anche un convento di clausura. La polizia sapeva in precedenza degli attacchi e non ha fatto nulla. I radicali indù promettono nuove violenze anche in altri Stati della confederazione.
Mangalore (AsiaNews) – Venti chiese cristiane sono state vandalizzate a Mangalore, Udupi, Chikmalagur, e in altri distretti nello stato del Karnataka (India sud-ovest). Fra esse anche la cappella di un monastero di clarisse a Milagres. I cristiani accusano la polizia di non agire per prevenire gli attacchi dei radicali indù e ieri si sono scontrati con le forze dell’ordine.
Ieri la polizia ha decretato il coprifuoco e il divieto di radunarsi dopo essersi scontrata con una folla di cristiani furibondi per gli attacchi, e una grossa manifestazione di indù fondamentalisti. Nonostante ciò, stamane, manifestanti indù hanno distrutto l’interno della chiesa di san Sebastiano a Permannur, distruggendo finestre e mobili. I cristiani hanno manifestato contro la polizia, che è intervenuta facendo decine di arresti.
Ieri mattina gruppi del Sangh Parivar, l’organizzazione-ombrello che raccoglie molte associazioni paramilitari indù hanno attaccato chiese cattoliche, protestanti, sale del regno dei Testimoni di Geova e sedi di alcune sette evangeliche. L’attacco in diversi distretti e in diverse locazioni sembra essere programmato.
Un gruppo di giovani dell’Rss (Rashtriya Swayamsevak Sangh) è entrato nella cappella dell’Adorazione del monastero di Milagres e hanno cominciato a distruggere tutto quanto hanno trovato davanti. Il monastero è retto dalle suore clarisse di clausura. In un attimo essi hanno dissacrato il tabernacolo e l’eucarestia, l’ostensorio, un crocifisso, le lampade del Santissimo, i vasi attorno all’altare, alcune statue di santi. Secondo testimoni oculari, i giovani avevano bastoni e grosse pietre. Alcuni fedeli lì presenti hanno cercato di fermarli, ma sono stati picchiati e sono ora ricoverati all’ospedale. Attacchi simili si sono verificati a Belthangady, Kodaikal,Chikmangalore, Udupi, Koloor, Chickmangalore, Kundapur, Karkal, Koppa, Balehanoor e Moodbidri.
N Sateesh Kumar, soprintendente della polizia di Mangalore ha ammesso che essi sapevano di possibili attacchi contro obbiettivi cristiani da parte di organizzazioni radicali indù, ma non hanno agito per prevenirli. Il cancelliere della diocesi di Mangalore, p. Henry Sequeira, ha commentato: “Se la polizia sapeva e non ha fatto nulla per fermare gli attacchi, allora per noi non c’è speranza”.
Proprio questa frustrazione ha portato molti cristiani ieri a manifestare pubblicamente la loro sfiducia nella polizia (v. foto). E sebbene vi fosse il coprifuoco, si sono radunati attorno ai luoghi colpiti, lanciando pietre ai poliziotti che cercavano di disperdere i raduni.
A Milagres si sono radunati centinaia di cristiani per difendere le loro chiese. Alcuni fedeli - fra cui una suora - che cercavano di raggiungere la chiesa per partecipare alla messa domenicale serale, sono stati picchiati dalla polizia. Per disperdere la folla di cristiani la polizia ha anche usato gas lacrimogeni.
Le forze dell’ordine hanno arrestato 5 giovani del gruppo fondamentalista Bajrang Dal, responsabili dell’assalto al convento delle carmelitane. Mahendra Kumar, uno dei responsabili dell’organizzazione militante giovanile indù, ha detto che i giovani non hanno attaccato alcuna chiesa cattolica, ma solo sedi della setta evangelica New Life. Egli ha anche dichiarato che sono in programma ulteriori attacchi.
La nuova ondata di violenze contro cristiani, ha preso spunto dall’uccisione in Orissa di un leader radicale indù ad opera di guerriglieri maoisti. La Sangh Parivar accusa invece i cristiani dell’uccisione e vuole cacciare i cristiani dall’India, fermando quelle che loro chiamano “le conversioni forzate di indù al cristianesimo”. Dall’Orissa le violenze si sono allargate al Madya Pradesh, al Chhattisghar e al Karnataka.
L’All India Christian Council, che raccoglie tutte le associazioni cristiane, ha diramato un appello in cui si dice “timoroso di nuovi attacchi anche a Delhi e in altri stati governati dal partito del Congress”. Molti osservatori sospettano che tutti gli attacchi hanno anche una valenza politica: il Bjp (Bharatiya Janata Party), partito dell’opposizione, difende infatti le campagne anticristiane del Sangh Parivar.
La nuova laicità di Benedetto XVI e Sarkozy - Romeo Astorri - IlSussidiario.net
lunedì 15 settembre 2008
La visita di Benedetto XVI in Francia ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica un tema, quello dei rapporti tra Chiesa e Stato, e più in generale tra religioni e Stato, oggetto da qualche anno di molte e accese discussioni. Credo innanzitutto che vada sottolineato il luogo dove il tema è stato trattato. In Francia è in vigore una legge di separazione che, dalla sua approvazione nel 1905, è stata considerata un modello per gli altri paesi europei e nella sua Costituzione, all’articolo 1, si qualifica lo Stato come laico (una qualificazione che, oltre che nella Costituzione francese, è presente solo in quella turca). Si tratta di due questioni diverse, sulla prima delle quali, la separazione, si è forse oggi arrivati ad un primo punto fermo, mentre, sul secondo, la laicità, almeno a mio avviso, siamo ancora all’inizio di una riflessione che permetta di delinearne una modalità di attuazione coerente con il carattere multiculturale e multireligioso della democrazia contemporanea.
Benedetto XVI ha chiaramente affermato che «la chiesa francese gode attualmente di un regime di libertà e che la diffidenza del passato si è trasformata poco a poco in un dialogo sereno e positivo che si consolida sempre più», ribadendo con forza l’accettazione da parte della chiesa del modello separatista francese.
La presenza del principio della separazione degli ordini della Chiesa e dello Stato, del resto già presente anche nella Costituzione italiana, si è affermata sempre più chiaramente, come mostrano molte delle costituzioni dei nuovi Stati democratici europei che proclamano di essere separatisti. E il modello separatista, che aveva avuto nella storia concretizzazioni diverse, al punto che si parlava di separatismo francese, di separatismo statunitense e persino di separatismo sovietico, continua ad assumere nel suo adeguarsi a situazioni storico-politiche differenti, forme sempre nuove.
Più complessa si presenta invece la questione della laicità. Il termine laicità definisce un principio che sta alla base dei comportamenti dello Stato a tutela della libertà religiosa dei cittadini, come la non ingerenza nelle questioni religiose, la neutralità di fronte alle varie posizioni presenti nella società. In definitiva lo Stato non deve assumere atteggiamenti che, in una società nella quale sono presenti una pluralità di convinzioni filosofiche e religiose, possano violare il diritto di libertà religiosa dei cittadini stessi o il principio di uguaglianza tra cittadini di religione diversa.
Credo che nei discorsi di Benedetto XVI e del presidente Sarkozy si ponga l’attenzione sulla necessità di rivedere non la nozione, ma il concreto dispiegarsi delle fattispecie nelle quali essa si articola, liberando la laicità dal suo legame con la cultura del liberalismo europeo del secolo XIX. Nel suo discorso di saluto il presidente francese ha fatto appello ad «una laicità positiva. Una laicità che rispetti, una laicità che riunisca, una laicità che dialoghi. E non una laicità che escluda e che denunci», mentre il papa ha sottolineato come sia fondamentale «insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso… e… prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società».
Non si tratta di rivendicare il riconoscimento della primogenitura di una qualsiasi convinzione filosofica o religiosa, come se da essa e in essa unicamente potessero trovare un fondamento le risposte alle problematiche che, sempre il presidente Sarkozy, definisce come tipiche di un’epoca «in cui il dubbio e il ripiegamento su se stessi pongono le nostre democrazie davanti alla sfida di rispondere ai problemi del nostro tempo, la laicità positiva offre alle nostre coscienze la possibilità di scambiare opinioni, al di là delle credenze e dei riti, sul senso che noi vogliamo dare alla nostra esistenza, la ricerca di senso».
Il problema della laicità non può presentarsi oggi come il tentativo di rimanere fedeli a parametri ottocenteschi che porterebbero a ipostatizzare il rapporto tra stato e religioni, sulla base di modelli non più proponibili, perché sembrano avere origine non dal rispetto della libertà religiosa, ma piuttosto dal presupposto tipico di quel periodo che la religione sia un fatto privato, tanto da far dire ad un grande giurista tedesco che il separatismo, da lui considerato l’ideale espressione dello stato liberale laico, era quel modello dove l’appartenenza o la non appartenenza ad una religione non interferiva mai, dalla nascita sino alla morte, nei rapporti di un cittadino con lo stato.
Come ha notato con molta sincerità lo stesso Sarkozy, oggi siamo in presenza di una situazione drammaticamente diversa, «poiché fino a trent'anni fa nessuno dei nostri predecessori avrebbe potuto immaginare e neppure sospettare le questioni che noi oggi dobbiamo affrontare. E, mi creda, Santità, che per un leader politico è una pesante responsabilità dissodare questo nuovo campo della conoscenza, della democrazia e del dibattito».
Se la laicità ottocentesca era collegata prevalentemente con questioni che, perlopiù, concernevano direttamente la libertà di culto, oggi la complessità e l’indeterminatezza del religioso hanno allargato enormemente la sfera delle interferenze del religioso stesso (o delle convinzioni filosofiche cui un individuo può aderire) con la società. Accanto a questo, a richiedere questo ripensamento sta anche il ruolo pubblico sempre più forte assunto dalle religioni e, forse in senso negativo, la finalità identitaria che sembrano assumere le convinzioni personali nelle scelte della vita di ogni giorno (Benedetto XVI ha parlato, a proposito dei giovani, dei limiti di un comunitarismo religioso condizionante).
La laicità positiva, o più semplicemente la laicità, comporta che lo Stato si debba misurare con il contesto sociale odierno, assumendo il dialogo con le religioni e con la loro alterità, come risorsa piuttosto che come anomalia da correggere o addirittura da cancellare.