Nella rassegna stampa di oggi:
1) CELEBRAZIONE EUCARISTICA SUL SAGRATO DEL SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DI BONARIA - OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – E’ necessaria una nuova generazione di politici - Domenica, 7 settembre 2008
2) La ''morte cerebrale''? Non è altro che una comoda finzione... - Quei dubbi sulla morte censurati da 40 anni - È giusto dichiarare una persona morta in base a una legge che ha lo scopo di favorire i trapianti? Un quesito spesso ignorato dalla stampa…
3) PERFINO IL GUSTO DEL PARMIGIANO, DEL PROSCIUTTO E DELLO CHAMPAGNE VIENE DAL CATTOLICESIMO…, di Antonio Socci, da “Libero” 7 settembre 2008
4) Gheddafi non stringe la mano a Condoleeza Rice e l'Occidente si sottomette al suo arbitrio per brama di petrolio e denaro, di Magdi Cristiano Allam
5) 08/09/2008 10:19, INDIA, Suore di Madre Teresa ancora sotto inchiesta per “sequestro di bambini”. Bruciata una chiesa
6) Rischio e libertà nella Pubblica Amministrazione, di Roberto Albonetti, IlSussidiario.net, lunedì 8 settembre 2008
7) Un Fatto irriducibile a ogni moralismo, di Costantino Esposito, Ilsussidiario.ne, lunedì 8 settembre 2008
8) 8 settembre 2008, Che tipi strani, gli americani votano sulla vita, di Giuliano Ferrara, dal Foglio.it
9) ELEMENTARI. Q UANDO TORNARE INDIETRO NON È UN DELITTO - Un maestro per classe? - Sì, se questo aiuta a crescere, DAVIDE RONDONI, Avvenire, 7 settembre 2008
10) Care Br, rileggetevi Manzoni, MARIO SOLDATI DAVANTI AGLI ANNI DI PIOMBO
CELEBRAZIONE EUCARISTICA SUL SAGRATO DEL SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DI BONARIA - OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – E’ necessaria una nuova generazione di politici - Domenica, 7 settembre 2008
Cari fratelli e sorelle!
Lo spettacolo più bello che un popolo può offrire è senz’altro quello della propria fede. In questo momento io tocco con mano una commovente manifestazione della fede che vi anima, e di questo voglio esprimervi subito la mia ammirazione. Ho accolto volentieri l’invito a venire nella vostra bellissima Isola in occasione del centenario della proclamazione della Madonna di Bonaria quale vostra Principale Patrona. Oggi, insieme alla visione della natura stupenda che ci circonda, voi mi offrite quella della fervida devozione che nutrite verso la Vergine Santissima. Grazie per questa bella testimonianza!
Vi saluto tutti con grande affetto, incominciando dall’Arcivescovo di Cagliari, Monsignor Giuseppe Mani, Presidente della Conferenza Episcopale sarda, che ringrazio per le bellissime parole pronunciate all’inizio della santa Messa anche a nome degli altri Vescovi, ai quali va il mio cordiale pensiero, e dell’intera comunità ecclesiale che vive in Sardegna. Grazie soprattutto per l’impegno con cui avete voluto preparare questa mia visita pastorale. E vedo che effettivamente tutto è stato preparato in modo perfetto. Saluto le Autorità civili ed in particolare il Sindaco, che mi rivolgerà il saluto suo e della Città. Saluto le altre Autorità presenti e ad esse esprimo la mia riconoscenza per la collaborazione generosamente offerta all’organizzazione della mia visita qui in Sardegna. Desidero quindi salutare i sacerdoti, in maniera speciale la Comunità dei Padri Mercedari, i diaconi, i religiosi e le religiose, i responsabili delle associazioni e dei movimenti ecclesiali, i giovani e tutti i fedeli, con un ricordo cordiale per gli anziani centenari, che ho potuto salutare entrando in chiesa, e quanti sono uniti a noi spiritualmente o attraverso la radio e la televisione. In modo del tutto speciale, saluto gli ammalati e i sofferenti, con un particolare pensiero per i più piccoli.
Siamo nel Giorno del Signore, la Domenica, ma – data la particolare circostanza – la liturgia della Parola ci ha proposto letture proprie delle celebrazioni dedicate alla Beata Vergine. Si tratta, in particolare, dei testi previsti per la festa della Natività di Maria, che da secoli è fissata all’8 settembre, data in cui a Gerusalemme fu consacrata la basilica costruita sopra la casa di sant’Anna, madre della Madonna. Sono letture che in effetti contengono sempre il riferimento al mistero della nascita. Anzitutto, nella prima lettura, l’oracolo stupendo del profeta Michea su Betlemme, in cui si annuncia la nascita del Messia. Questi, ci dice l’oracolo, sarà discendente del re Davide, betlemmita come Lui, ma la sua figura eccederà i limiti dell’umano: “le sue origini” – dice – “sono dall’antichità”, si perdono nei tempi più lontani, sconfinano nell’eterno; la sua grandezza giungerà “fino agli estremi confini della terra” e tali saranno anche i confini della pace (cfr Mic 5,1-4a). L’avvento di questo “Consacrato del Signore”, che segnerà l’inizio della liberazione del popolo, viene definito dal profeta con un’espressione enigmatica: “quando colei che deve partorire partorirà” (Mic 5,2). Così, la liturgia – che è scuola privilegiata delle fede – ci insegna a riconoscere nella nascita di Maria un diretto collegamento con quella del Messia, Figlio di Davide.
Il Vangelo, una pagina dell’apostolo Matteo, ci ha proposto proprio il racconto della nascita di Gesù. L’Evangelista, però, lo fa precedere dal resoconto della genealogia, che egli colloca all’inizio del suo Vangelo come un prologo. Pure qui il ruolo di Maria nella storia della salvezza risalta in tutta la sua evidenza: l’essere di Maria è totalmente relativo a Cristo, in particolare alla sua incarnazione. “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo” (Mt 1,16). Salta all’occhio la discontinuità che vi è nello schema della genealogia: non si legge “generò”, ma “Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo”. Proprio in questo si coglie la bellezza del disegno di Dio, che rispettando l’umano lo feconda dall’interno, facendo sbocciare dall’umile Vergine di Nazaret il frutto più bello della sua opera creatrice e redentrice. L’Evangelista pone poi sulla scena la figura di Giuseppe, il suo dramma interiore, la sua fede robusta e la sua esemplare rettitudine. Dietro i suoi pensieri e le sue deliberazioni c’è l’amore per Dio e la ferma volontà di obbedirgli. Ma come non sentire che il turbamento e quindi la preghiera e la decisione di Giuseppe sono mossi, al tempo stesso, dalla stima e dall’amore per la sua promessa sposa? La bellezza di Dio e quella di Maria sono, nel cuore di Giuseppe, inseparabili; egli sa che tra di esse non può esservi contraddizione; cerca in Dio la risposta e la trova nella luce della Parola e dello Spirito Santo: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23; cfr Is 7,14).
Possiamo così, ancora una volta, contemplare il posto che Maria occupa nel disegno salvifico di Dio, quel “disegno” che ritroviamo nella seconda lettura, tratta dalla Lettera ai Romani. Qui l’apostolo Paolo esprime in due versetti di singolare densità la sintesi di ciò che è l’esistenza umana da un punto di vista meta-storico: una parabola di salvezza che parte da Dio e a Lui nuovamente giunge; una parabola interamente mossa e governata dal suo amore. Si tratta di un disegno salvifico tutto permeato dalla libertà divina, che attende tuttavia dalla libertà umana un contributo fondamentale: la corrispondenza della creatura all’amore del Creatore. Ed è qui, in questo spazio dell’umana libertà, che percepiamo la presenza della Vergine Maria, senza che venga mai esplicitamente nominata: Ella infatti è, in Cristo, primizia e modello di “coloro che amano Dio” (Rm 8,28). Nella predestinazione di Gesù è inscritta la predestinazione di Maria, come pure quella di ogni persona umana. Nell’“eccomi” del Figlio trova eco fedele l’“eccomi” della Madre (cfr Eb 10,6), come anche l’“eccomi” di tutti i figli adottivi nel Figlio, di tutti noi appunto.
Cari amici di Cagliari e della Sardegna, anche il vostro popolo, grazie alla fede in Cristo e mediante la spirituale maternità di Maria e della Chiesa, è stato chiamato ad inserirsi nella spirituale “genealogia” del Vangelo. In Sardegna il cristianesimo è arrivato non con le spade dei conquistatori o per imposizione straniera, ma è germogliato dal sangue dei martiri che qui hanno donato la loro vita come atto di amore verso Dio e verso gli uomini. È nelle vostre miniere che risuonò per la prima volta la Buona Novella portata dal Papa Ponziano e dal presbitero Ippolito e da tanti fratelli condannati ad metalla per la loro fede in Cristo. Così anche Saturnino, Gavino, Proto e Gianuario, Simplicio, Lussorio, Efisio, Antioco sono stati testimoni della totale dedizione a Cristo come vero Dio e Signore. La testimonianza del martirio conquistò un animo fiero come quello dei Sardi, istintivamente refrattario a tutto ciò che veniva dal mare. Dall’esempio dei martiri prese vigore il vescovo Lucifero di Cagliari, che difese l’ortodossia contro l’arianesimo e si oppose, insieme ad Eusebio di Vercelli, anch’egli cagliaritano, alla condanna di Atanasio nel Concilio di Milano del 335, e per questo ambedue, Lucifero ed Eusebio, vennero condannati all’esilio, un esilio molto duro. La Sardegna non è mai stata terra di eresie; il suo popolo ha sempre manifestato filiale fedeltà a Cristo e alla Sede di Pietro. Sì, cari amici, nel susseguirsi delle invasioni e delle dominazioni, la fede in Cristo è rimasta nell’anima delle vostre popolazioni come elemento costitutivo della vostra stessa identità sarda.
Dopo i martiri, nel V secolo, arrivarono dall’Africa romana numerosi Vescovi che, non avendo aderito all’eresia ariana, dovettero subire l’esilio. Venendo nell’isola, essi portarono con sé la ricchezza della loro fede. Furono oltre cento Vescovi che, sotto la guida di Fulgenzio di Ruspe, fondarono monasteri e intensificarono l’evangelizzazione. Insieme alle reliquie gloriose di Agostino, portarono la ricchezza della loro tradizione liturgica e spirituale, di cui voi conservate ancora le tracce. Così la fede si è sempre più radicata nel cuore dei fedeli fino a diventare cultura e produrre frutti di santità. Ignazio da Láconi, Nicola da Gésturi sono i santi in cui la Sardegna si riconosce. La martire Antonia Mesina, la contemplativa Gabriella Sagheddu e la suora della carità Giuseppina Nicóli sono l’espressione di una gioventù capace di perseguire grandi ideali. Questa fede semplice e coraggiosa, continua a vivere nelle vostre comunità, nelle vostre famiglie, dove si respira il profumo evangelico delle virtù proprie della vostra terra: la fedeltà, la dignità, la riservatezza, la sobrietà, il senso del dovere.
E poi, ovviamente, l’amore per la Madonna. Siamo infatti qui, oggi, a commemorare un grande atto di fede, che i vostri padri compirono affidando la propria vita alla Madre di Cristo, quando la scelsero come Patrona massima dell’Isola. Non potevano sapere allora che il Novecento sarebbe stato un secolo molto difficile, ma certamente fu proprio in questa consacrazione a Maria che trovarono in seguito la forza per affrontare le difficoltà sopravvenute, specialmente con le due guerre mondiali. Non poteva essere che così. La vostra Isola, cari amici della Sardegna, non poteva avere altra protettrice che la Madonna. Lei è la Mamma, la Figlia e la Sposa per eccellenza: “Sa Mama, Fiza, Isposa de su Segnore”, come amate cantare. La Mamma che ama, protegge, consiglia, consola, dà la vita, perché la vita nasca e perduri. La Figlia che onora la sua famiglia, sempre attenta alle necessità dei fratelli e delle sorelle, sollecita nel rendere la sua casa bella e accogliente. La Sposa capace di amore fedele e paziente, di sacrificio e di speranza. A Maria in Sardegna sono dedicate ben 350 chiese e santuari. Un popolo di madri si rispecchia nell’umile ragazza di Nazaret, che col suo “sì” ha permesso al Verbo di diventare carne.
So bene che Maria è nel vostro cuore. Dopo cent’anni vogliamo quest’oggi ringraziarLa per la sua protezione e rinnovarLe la nostra fiducia, riconoscendo in Lei la “Stella della nuova evangelizzazione”, alla cui scuola imparare come recare Cristo Salvatore agli uomini e alle donne contemporanei. Maria vi aiuti a portare Cristo alle famiglie, piccole chiese domestiche e cellule della società, oggi più che mai bisognose di fiducia e di sostegno sia sul piano spirituale che su quello sociale. Vi aiuti a trovare le opportune strategie pastorali per far sì che Cristo sia incontrato dai giovani, portatori per loro natura di nuovo slancio, ma spesso vittime del nichilismo diffuso, assetati di verità e di ideali proprio quando sembrano negarli. Vi renda capaci di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica, che necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile. In tutti questi aspetti dell’impegno cristiano potete sempre contare sulla guida e sul sostegno della Vergine Santa. Affidiamoci pertanto alla sua materna intercessione.
Maria è porto, rifugio e protezione per il popolo sardo, che ha in sé la forza della quercia. Passano le tempeste e questa quercia resiste; infuriano gli incendi ed essa nuovamente germoglia; sopravviene la siccità ed essa vince ancora. Rinnoviamo dunque con gioia la nostra consacrazione ad una Madre tanto premurosa. Le generazioni dei Sardi, ne sono certo, continueranno a salire al Santuario di Bonaria per invocare la protezione della Vergine. Mai resterà deluso chi si affida a Nostra Signora di Bonaria, Madre misericordiosa e potente. Maria, Regina della Pace e Stella della speranza, intercedi per noi. Amen!
La ''morte cerebrale''? Non è altro che una comoda finzione... - Quei dubbi sulla morte censurati da 40 anni - È giusto dichiarare una persona morta in base a una legge che ha lo scopo di favorire i trapianti? Un quesito spesso ignorato dalla stampa…
di Stefano Lorenzetto
A me pare che il vero scandalo sia questo: c’è voluto un quotidiano straniero (L’Osservatore Romano), diretto da un docente universitario di filologia patristica prestato al giornalismo (Giovanni Maria Vian), per porre con forza l’interrogativo che da 40 anni viene censurato dagli organi d’informazione italiani: è giusto dichiarare morta una persona in base a una convenzione di legge che ha il solo scopo di favorire i trapianti d’organo? Perciò dobbiamo essere grati a Lucetta Scaraffia, componente del Comitato nazionale di bioetica, che s’è assunta questa scomoda incombenza sulla prima pagina del foglio vaticano e ora deve sopportare il peso delle critiche e degli insulti.
Avrebbe potuto esprimere la sua posizione impopolare dalle pagine del Corriere della Sera, al quale pure collabora insieme col marito Ernesto Galli della Loggia. Non è un caso se ha deciso invece di affidarla al giornale del Papa. Questo Papa. Perché, come ha ricordato lei stessa nell’articolo, fu proprio l’allora cardinale Joseph Ratzinger, in una relazione sulle minacce alla vita umana tenuta durante il concistoro straordinario del 1991, a dire: «Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma “irreversibile”, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo o serviranno, anch’essi, alla sperimentazione medica». Il futuro pontefice li chiamò, in quell’occasione, «cadaveri caldi».
Temo d’essere stato l’involontario catalizzatore dell’articolo sul giornale della Santa Sede. Giusto una settimana fa ho partecipato con l’autrice e con il professor Edoardo Boncinelli a un dibattito di Cortina Incontra che verteva proprio su questo tema, Tra la vita e la morte. La professoressa Scaraffia ha parlato soprattutto dell’aborto. Io mi sono permesso di scandalizzare l’attento uditorio ampezzano con alcune provocazioni sulla morte cerebrale. La consonanza d’opinioni, fra lei e me, alla fine m’è sembrata totale. Il padre di mio padre fu dichiarato morto quando il suo cuore si fermò, l’alito non appannò più uno specchio, il corpo cominciò a perdere tepore e a irrigidirsi. Ma nel 1968 la Harvard medical school concepì un nuovo criterio: si è morti quando muore il cervello. Del resto bisognava pur dare copertura giuridica a un chirurgo sudafricano, Christian Barnard, che qualche mese prima aveva eseguito il primo trapianto di cuore.
Purtroppo tutti gli organi, a eccezione delle cornee, hanno questo di brutto: per poter essere trapiantati vanno tolti dal corpo del «donatore» mentre il cuore di questi batte, il sangue circola, la pelle è rosea e calda, i reni secernono urina, un’eventuale gravidanza prosegue, tanto da rendere necessaria la somministrazione di farmaci curarizzanti per impedire spiacevoli reazioni quando il chirurgo affonda il bisturi. Vi paiono cadaveri, questi? Sì, assicurano i trapiantisti. No, stabilisce una legge dello Stato: infatti «per cadavere si intende: “Il corpo umano rimasto privo delle funzioni cardiorespiratoria e cerebrale”» (circolare del ministero della Sanità 24 giugno 1993, n. 24).
Prima contraddizione. Chiesi al professor Vittorio Staudacher, pioniere della chirurgia, come mai ai parenti delle vittime venisse taciuto che il «cadavere» del loro caro tale non era, visto che la funzione cardiorespiratoria è conservata. Mi rispose (aveva ormai 90 anni e non operava più): «Perché è terribile. Per non impressionare la gente. Sembrerebbe il saccheggio di un vivente». Collimava con quanto dichiarato sette anni prima dall’allora presidente dell’Associazione internazionale di bioetica, Peter Singer, assertore del principio per cui è da considerarsi persona solo chi è cosciente: «La gente ha abbastanza buon senso da capire che i “morti cerebrali” non sono veramente morti. La morte cerebrale non è altro che una comoda finzione. Fu proposta e accettata perché rendeva possibile il procacciamento di organi». Molteplici studi convergono sul fatto che solo il 10 per cento delle funzioni encefaliche è stato sinora esplorato. Più ottimista, il professor Enzo Soresi, autore de Il cervello anarchico (Utet), di recente mi ha detto: «Sul piano anatomico e biologico sappiamo intorno al 70 per cento. Ma sulla coscienza? Qui si apre il mondo».
Allora come fa la scienza a dichiarare morto, cessato, finito un mondo di cui per sua stessa ammissione conosce poco per non dire nulla? Seconda contraddizione. Vogliamo parlare delle modalità di accertamento della morte cerebrale? Nel 1975 la legge fissava in 12 ore il periodo d’osservazione obbligatorio prima che il collegio medico potesse autorizzare l’espianto degli organi. Nel 1993 il presidente Oscar Luigi Scalfaro dimezzò i tempi: 6 ore. Dopodiché, se l’elettroencefalogramma risulta «piatto», si procede all’espianto. Un decreto del ministero della Sanità autorizza persino il personale tecnico a eseguire questo esame decisivo. Perché tanta fretta che mal si concilia con la tutela dell’individuo e dei suoi familiari? Terza contraddizione.
Il 1° aprile 1999 è entrata in vigore la legge n. 91 che impone al cittadino di «dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi». La mancata dichiarazione «è considerata quale assenso alla donazione». È passato cioè il principio del silenzio-assenso che fa di ciascun (ignaro) cittadino un donatore, salvo esplicita opposizione. Ma in che modo va espressa tale contrarietà? Il ministro della Salute era tenuto a emanare, entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge, un decreto che lo determinasse. Sono passati quasi 10 anni, si sono succeduti sei ministri, ma quel decreto non s’è mai visto. In compenso si sono visti un illegale tesserino blu inventato da Rosy Bindi; moduli prestampati con i quali Asl e ospedali inducono i cittadini a barrare il «sì» o il «no»; tessere sanitarie regionali che comprendono una sezione per la manifestazione di volontà all’espianto-trapianto; persino tessere comunali di donazione diffuse con la carta d’identità.
Insomma, il Far West. A chi giova questa zona d’ombra se tutto deve avvenire alla luce del sole? Quarta contraddizione. Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro nazionale trapianti, sostiene che in 40 anni i criteri di accertamento della morte cerebrale «non sono mai stati messi in discussione dalla comunità scientifica e vengono applicati in tutti i Paesi scientificamente avanzati». Ma non in Giappone. È da considerarsi un Paese scientificamente arretrato, il Giappone?
Quinta contraddizione. «I dubbi ci sono sempre stati», concede, bontà sua, Nanni Costa, «ma solo da parte di frange minoritarie, che fanno critiche di carattere non scientifico». Cito un nome fra i tanti: il professor Nicola Dioguardi, emerito di medicina interna dell’Università di Milano, ha pubblicamente condannato il concetto di morte cerebrale. È da considerarsi un critico ascientifico, l’illustre professor Dioguardi? Sesta contraddizione. La verità è che una potentissima lobby da 40 anni ha tolto a queste frange minoritarie persino il diritto di parola. La professoressa Lucetta Scaraffia gliel’ha restituito sul giornale del Papa. Un pulpito qualificato, direi, per una predica sulla vita e sulla morte. Basta volerla ascoltare senza pregiudizi.
Il Giornale n. 211 del 2008-09-04
Morte: quando? - (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'intervento della dottoressa Chiara Mantovani, Presidente dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI) di Ferrara e Presidente di Scienza & Vita di Ferrara.
ROMA, lunedì, 8 settembre 2008
* * *
Lucetta Scaraffia, dalle pagine dell’Osservatore Romano, riapre una questione che periodicamente solleva discussioni e perplessità: la dichiarazione di morte di una persona umana.
L’argomento è terribile ed affascinante: conosco persone che, tanti anni fa, si iscrissero ad una associazione di donatori d’organo spinte dal solo terrore di essere sepolti vivi. Meglio star certi di finire nella cassa senza rischi di svegliarsi. Il che non è propriamente una dimostrazione di fiducia nella perizia medica, ma ha una sua giustificazione emotiva.
Non sarà forse inutile ripetere alcune piccole considerazioni, tenendo presente sia gli aspetti tecnico-scientifici che quelli etici; non affrontando quelli medico-legali, per il solo motivo che essi sono regolati dalla legislazione, sulla quale attualmente non c’è modo di agire: questo è dunque un aspetto ininfluente non sulla prassi, ma certamente sulla comprensione del problema.
Però resta vero, e anzi assolutamente notabile, che la legislazione si avvale, per esprimersi, di basi di competenza che le sono estranee: ecco il ruolo della scienza medica supportata dal corredo tecnico sufficiente a fornire basi oggettive. Così come è doveroso rimarcare che la nostra legislazione prevede i protocolli più aderenti alle notizie scientifiche certe di cui disponiamo, diversamente da quanto accade in altri Stati europei o nordamericani.
E diciamo subito una verità tanto sgradevole quanto evidente: prima o poi bisogna consegnare il corpo morto ad un seppellitore. Oggi anche ad un inceneritore, a causa del poco spazio disponibile per i cimiteri nelle aree urbane e ancor più il disagio psicologico del pensiero della decomposizione. Non si tratta di cinismo, ma solo di realismo.
Per cominciare è indispensabile fare chiarezza sui termini usati: leggo affermazioni tanto inesatte al punto da fraintendere la realtà.
Morte cerebrale: è una espressione errata, dannosa, fuorviante. Troppo usata, purtroppo, come sinonimo di “morte encefalica”, che invece è tutta un’altra questione. Per dare un’idea, anche se grossolana: come se affermassimo che dormire profondamente è come essere morto.
Invece, con “morte encefalica” si intende il silenzio elettrico (l’assenza totale, ripetutamente registrata, di ogni attività nella corteccia cerebrale, nel ponte e nel bulbo: tutto l’encefalo!) di ogni struttura deputata a generare e coordinare qualsiasi altra attività del corpo.
Anche solo da questa generica definizione chiunque può capire che se uno che sembra morto, perché magari non risponde alle parole e ai suoni intorno a lui, ma invece respira da solo e il suo cuore batte autonomamente, evidentemente non è davvero morto! Succede che una parte dell’encefalo sia rovinata, ma non tutto: ciò che regola cuore e polmoni funziona! Non entriamo qui nel delicato argomento di come si voglia considerare la vita di questa ipotetica (ma poi mica tanto!) persona: sofferente, non dignitosa, inutile, insopportabile (per gli altri). Queste sono valutazioni diverse dalla semplice constatazione che la vita non ha abbandonato quel corpo.
Come stabiliamo la morte? Rilevando la cessazione delle funzioni che conosciamo necessarie alla vita: respirazione e circolazione. Chiaramente deve essere una cessazione, non una temporanea e breve interruzione; ma sappiamo anche che un quarto d’ora nell’adulto, mezzoretta nel bambino, senza respirare e/o battere del cuore (e le due cose sono strettamente collegate) causano la morte. In pratica: senza ossigeno (procurato nei polmoni) distribuito in tutto il corpo dalla pompa-cuore, il cervello (tutto il cervello!!!) si danneggia e non funziona più, ovvero non è in grado di assolvere alla sua funzione di struttura di coordinamento e di input per tutte le funzioni vitali. E’ un meraviglioso meccanismo autoregolamentato: l’encefalo fa da centralina elettrica, la circolazione porta l’ossigeno dai polmoni alla periferia, anche alla centralina stessa. Interrompere a qualsiasi livello queste funzioni integrate è mettere la macchina corporea fuori uso. Se vediamo qualcuno gravemente traumatizzato, trapassato da pallottole, esanime, senza respirazione, intuiamo la sua morte; ma il motivo vero, in ultima analisi, è sempre riconducibile all’impossibilità di assicurare ossigeno e acqua ai tessuti!
Non sembri, questa elementare descrizione dei meccanismi fisici, dettata da indifferenza verso i sempre presenti significati metafisici: ma è troppa la confusione attualmente presente per tralasciare il lato più concreto.
Coma (depassé, profondo: aggettivi ancora usati ma inesatti) stato vegetativo (permanente o persistente che dir si voglia: in ogni modo si dice impropriamente), non sono equivalenti della morte encefalica: ovvero dello stato in cui, per quel che ne sappiamo finora, la capacità di provvedere ai processi vitali (appunto quelli che consentono la vita) è venuta meno.
E con chiarezza si può affermare che oggi in Italia la legge consente l’espianto di organi solo in caso di morte accertata con criteri neurologici che definiscano un quadro di morte encefalica e non cerebrale.
Per dirla bene: l’elettroencefalogramma piatto NON è ancora morte encefalica, non si espiantano organi se i centri profondi bulbari danno ancora segno di attività elettrica.
In altri luoghi del mondo può succedere: ci giungono notizie che un metodo per giustiziare i condannati in Cina sia l’espianto in vivo, ma fortunatamente non siamo in Cina (almeno finora).
Qualcuno può riferire di una certa “fretta” nel cercare di ottenere il permesso dei parenti (in Italia ancora vincolante): e qui si apre la voragine di un corretto rapporto e comunicazione dei medici nei confronti dei pazienti e delle loro famiglie. C’è poi il grande dramma psicologico di vedere qualcuno che amiamo sottoposto a ciò che sembra una cura medica (circolazione e ventilazione forzate per mantenere quel necessario apporto di ossigeno): bisognerebbe spiegare bene che sono solo i tempi richiesti proprio per quell’accertamento rigoroso dei criteri di morte encefalica; bisognerebbe riuscire a far intendere che è proprio un meccanismo di sicurezza per accorgersi se ci si è sbagliati, se una registrazione si è interrotta dando risultati falsati. E’ durissimo vedere e sentir parlare di “cadavere a cuore battente”, perché siamo tradizionalmente legati all’immagine del cuore come centro della vita, ma è indispensabile fare uno sforzo chiarificatore per togliere, per quanto è possibile, l’illusione di vita.
Certamente nessuna legge riesce ad impedire l’abuso: e la consapevolezza di questo dovrebbe sempre accompagnare il legislatore, inducendolo ad una prudenza e ad una umiltà che consentano sempre l’aggiornamento sulla base di eventuali nuove scoperte tecnico-scientifiche.
Leggo nell’articolo di Lucetta Scaraffia cui facevo riferimento all’inizio:
Come ha fatto notare Peter Singer, che si muove su posizioni opposte a quelle cattoliche: "Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie".
Mi sia consentito replicare sommessamente a Singer che il problema non è “cattolico”: i teologi cattolici esprimono posizioni coerenti con la teologia partendo dai dati di ragione forniti da altre discipline. E ciò che stride è proprio che in realtà il comportamento consigliato dai teologi morali di fede cattolica è coerente con le coordinate espresse finora: il paziente anencefalico dovrebbe essere (e in Italia lo è!) monitorato per tutta quella parte di encefalo che ha e solo al raggiungimento del silenzio elettrico è dichiarato morto! Si applica proprio in questo caso-limite tutta la prudenza invocata prima: se bastasse solo un EEG, visto che non c’è niente da controllare (il bimbo anencefalico ha solo piccole parti di cervello, spesso non la corteccia) sarebbe dichiarato morto subito. Invece si va oltre, si aspetta che ogni più piccolo segnale sia cessato, e si aspetta che sia cessato per un tempo doppio rispetto all’adulto perché conosciamo la maggiore resistenza del tessuto nervoso del neonato all’anossia.
Se si ragionasse nei termini di “assenza di coscienza” (senza corteccia cerebrale non c’è coscienza) si darebbe ragione al signor Singer, il quale, dal canto suo, non ha neppure bisogno dell’EEG per dichiarare un essere umano una non-persona: per lui fino a quando non si hanno capacità di parola e relazione, non si ha dignità umana! Se si ragionasse nei termini di vita degna-non degna, si potrebbero accelerare i tempi di morte di pazienti senza corteccia funzionante (senza capacità di relazione), ma con il cuore che batte da solo e con i polmoni che scambiano anidride carbonica con ossigeno.
Invece la testardaggine tutta cristiana di appoggiarsi al dato reale ci protegge fino in fondo. Quando sussiste segno di vita, è vita. Bella, brutta, gradevole o puzzolente, è vita.
Ma nell’articolo uscito il 3 settembre, si riportava anche un’altra affermazione francamente sorprendente:
Facendo il punto sulla questione, Becchi scrive che “l’errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica”, mentre il nodo dei trapianti “non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte”, ma attraverso l’elaborazione di “criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili”.
Forse fraintendo, me lo auguro, ma qui c’è un invito a prescindere dai fatti. Che cosa può appoggiare legittimamente il giudizio se non la conoscenza del fatto, nella misura che è possibile alla ragione e all’esperienza? Quando la morte si accertava con lo specchietto (se si appannava, si era vivi; se no, si era sepolti. E per giunta senza aspettare troppo tempo, per via della puzza) si commettevano delitti contro l’etica o contro la buona pratica clinica? E poi la verità su cui appoggiare il giudizio dovrebbe scaturire dall’accordo su ciò che è giusto? Mettiamo ai voti i criteri di accertamento della morte?
Il problema etico è di (apparente) semplice soluzione: si dispone con rispetto del cadavere, si tratta con rispetto il vivente. Mi pare superfluo soffermarmi sulla differenza tra “disporre” e “trattare”.
La natura di cosa, ancorché nobile, del corpo morto attiene alla sostanza cadaverica; la natura di persona del corpo vivente attiene alla sostanza di essere. L’una e l’altra vedono nei loro confronti applicata l’etica quando ricevono un trattamento adeguato alla rispettiva natura.
Il problema giuridico è più complesso perché si tratta di tradurre in pratica norme valide per ogni situazione. E in un panorama etico e sociale diviso, anzi, frammentato, come il moderno, questa è operazione sempre più complessa. Ma se anche la legislazione si allontana dalla concretezza del dato conosciuto e onestamente riconosciuto, e se cade nel tranello della concertazione, allora non so immaginare quale possibilità possa avere l’etica di trovare un fondamento comune.
PERFINO IL GUSTO DEL PARMIGIANO, DEL PROSCIUTTO E DELLO CHAMPAGNE VIENE DAL CATTOLICESIMO…, di Antonio Socci, da “Libero” 7 settembre 2008
Con una modesta proposta per la scuola, il nostro Paese potrebbe tornare ad avere un futuro. Quale proposta? Scoprire Gesù Cristo. Sarebbe la Rivoluzione. Che significa……
Elena Donazzan. Ricordatevi questo nome. Potrebbe diventare la nostra Sarah Palin. Non arriva dal bianco Alaska, ma dal Veneto bianco. Oggi è assessore regionale e chi la conosce sa che stoffa, che preparazione e che piglio ha. Pure l’aspetto, alquanto piacevole, e la giovane età ne fanno un personaggio. Rodato in quel vivaio di passioni politiche che è Alleanza Nazionale. Dunque la Donazzan è entrata nell’occhio del ciclone per questa sua proposta: rendere obbligatorio l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole della sua Regione. Dovrebbe essere un’ovvietà se non fossimo un Paese sciocco e smarrito.
Fortini, Cacciari e Benigni
Franco Fortini, critico letterario e poeta di estrema sinistra fu il mio professore (più amato) all’università. Un giorno di febbraio arriva in aula e comincia a leggere ad alta voce un magnifico poema. Alla fine chiese se qualcuno sapeva cosa aveva letto. Era il “Mercoledì delle Ceneri” di T.S.Eliot. In effetti quel giorno si celebrava tale ricorrenza liturgica. Fortini ne chiese il significato. La gran parte non lo sapeva. Lui cominciò una filippica. In sintesi disse: “voi siete in una facoltà di lettere a studiare l’arte, la letteratura, la filosofia, la storia e domani probabilmente andrete nelle scuole a insegnare. Ebbene, non potrete capire mai niente di tutto questo e neanche del paese dove vivete e di questa città (Siena), senza conoscere perfettamente il contenuto della fede cattolica e quello che ha significato”.
Parola di un grande professore ebreo e marxista. Più o meno le stesse cose mi “gridò”, qualche anno dopo, in una intervista per “Il Sabato”, Massimo Cacciari, indignato dalla crassa ignoranza del cattolicesimo che aveva riscontrato, anche lui, nei suoi studenti. E’ prevedibile che contro la Donazzan ora l’intellighentsia progressista alzerà gli scudi: è la stessa intellighentsia che nei mesi scorsi si è spellata le mani, nelle piazze d’Italia, per applaudire le letture dantesche di Roberto Benigni. Ebbene la Divina Commedia è un compendio perfetto di teologia cattolica e non si capisce neanche una terzina senza conoscere il cattolicesimo.
Il cielo stellato del Gius
Sostanzialmente eliminata dagli studi scolastici dagli anni Settanta in poi, la Commedia oggi è stata riscoperta da coloro che l’avevano abolita. Meglio tardi che mai. Ma intanto abbiamo derubato i giovani della Bellezza (quella che contiene il Vero e il Bene) e dobbiamo correre ai ripari almeno da questa generazione in poi. I giovani soprattutto hanno bisogno della Bellezza come del pane, la poesia è la loro casa. Noi li abbiamo derubati e sfrattati dalla nostra storia. E ora si trovano stranieri in questa terra italiana ed europea. Apolidi della vita, erranti nel deserto che avanza. E spesso si vendicano del Nulla in cui li fanno vivere con la violenza.
Il più grande educatore del nostro tempo, don Luigi Giussani iniziò le sue “lezioni di religione” al liceo Berchet di Milano, nel 1954, leggendo Leopardi. Pensate un po’: il poeta “ateo e materialista” era indicato da Giussani come colui che più e meglio di chiunque coglie l’essenziale della vita, la nostra natura desiderante, le domande struggenti che vibrano nelle vene dei giovani e letteralmente ci fanno uomini: chi siamo, che senso ha la vita, perché “tutto passa e quasi orma non lascia”, che senso ha il cielo stellato, dov’è la Bellezza le cui scintille si riflettono sul volto di ogni donna…Gesù Cristo è venuto e ha detto di essere lui la risposta a queste domande.
Giussani non faceva “propaganda cattolica”. No: insegnava a ragionare, a decifrare la condizione umana e a valutare le risposte. Come sa bene chi lo ebbe come professore, lui letteralmente insegnava la libertà, cioè l’uso della ragione che è la cosa più preziosa. Ma è quello che il cattolicesimo ha fatto per secoli con i popoli europei. Tanto è vero che proprio da questi popoli è sbocciata quella straordinaria capacità di indagine e di conoscenza dell’universo che – tradottasi in scienza e tecnologia – ha letteralmente civilizzato il mondo.
La rivoluzione
Lo spiega benissimo il sociologo americano Rodney Stark nel libro “La vittoria della Ragione”. Sottotitolo: “Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza” (Lindau). E anche Thomas E. Woods in “Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale” (Cantagalli). Dobbiamo ai monaci medievali tutto: perfino il parmigiano, il prosciutto e lo champagne. “Educatori economici” dell’Europa li definì lo storico (laico) Henri Pirenne. E i diritti dell’uomo e il diritto internazionale non sono nati nella teologica “Scuola di Salamanca” ? Perfino Bertrand Russel, nel suo libro più anticristiano, riconosce: “La libertà che vige nei paesi in cui la civiltà ha origine europea (cioè la sola libertà esistente nel mondo, nda) si può storicamente far risalire al conflitto fra Chiesa e Stato nel medioevo”.
Infatti, si può capire la Costituzione italiana senza le nozioni cattolicissime di “persona”, corpi intermedi e sussidiarietà? Il comunista (cattolico) Franco Rodano spiegò che perfino la bellezza della campagna umbra (e toscana) si deve al cattolicesimo e specialmente alla Riforma tridentina. Evitiamo – per favore – il solito piagnisteo laico su questa proposta veneta. Perché la Donazzan ha dalla sua anche il meglio della cultura laica. Innanzitutto Kant in quale era convinto che “il Vangelo fosse la fonte da cui è scaturita la nostra cultura”. Poi il “papa laico” Benedetto Croce: “Il Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo”.
Laici cioè cristiani
Un altro grande intellettuale laico, Federico Chabod, nella “Storia dell’idea d’Europa”, scrive: “Non possiamo non essere cristiani, anche se non seguiamo più le pratiche di culto, perché il Cristianesimo ha modellato il nostro modo di sentire e di pensare in guisa incancellabile; e la diversità profonda che c’è fra noi e gli Antichi, fra il nostro modo di sentire la vita e quello di un contemporaneo di Pericle e di Augusto, è proprio dovuta a questo gran fatto, il maggior fatto senza dubbio della storia universale, cioè il verbo cristiano. Anche i cosiddetti ‘liberi pensatori’, anche gli ‘anticlericali’ non possono sfuggire a questa sorte comune dello spirito europeo”.
Il simbolo del laicismo italiano, Gaetano Salvemini raccontò un giorno di essersi trovato in una stagione della vita come “sperduto nel buio” e dice di aver trovato una “guida e mi sono trovato bene a lasciarmene guidare. E questa guida è stato Gesù Cristo che ha lasciato il più perfetto codice morale che l’umanità abbia mai conosciuto. Io non so se Gesù Cristo sia stato davvero figlio di Dio o no. Su problemi di questo genere sono cieco nato. Ma sulla necessità di seguire la moralità insegnata da Gesù Cristo non ho nessun dubbio”.
Guardate un bambino
Infine, per guardare all’estero, Richard Rorty (simbolo del neopragmatismo americano): “se si guarda a un bambino come a un essere umano, nonostante la mancanza di elementari relazioni sociali e culturali, questo è dovuto soltanto all’influenza della tradizione ebraico-cristiana e alla sua specifica concezione di persona umana”.
E Karl Loewith: “Il mondo storico in cui si è potuto formare il ‘pregiudizio’ che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la ‘dignità’ e il ‘destino’ di essere uomo, non è originariamente il mondo, oggi in riflusso, della semplice umanità, avente le sue origini nell’ ‘uomo universale’ e anche ‘terribile’ del Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo”.
Elena Donazzan ha colto nel segno. E non va lasciata sola: una nuova scuola produce un’Italia nuova.
Antonio Socci
Gheddafi non stringe la mano a Condoleeza Rice e l'Occidente si sottomette al suo arbitrio per brama di petrolio e denaro, di Magdi Cristiano Allam
Mi domando come possano gli Stati Uniti fidarsi di un uomo che, considerando come nemici o comunque differenti gli esseri umani (qualora Gheddafi nutrisse in realtà una discriminazione sessuale nei confronti delle donne), rifiuta di stringere la mano al proprio ministro degli Esteri
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici
Non so quanti di voi abbiano visto le immagini del recente incontro a Tripoli tra il leader libico Gheddafi e il segretario di Stato americano Condoleeza Rice. Mi ha colpito il fatto che Gheddafi, che si vanta di essere schierato dalla parte dell’emancipazione femminile al punto che ostenta la scelta di essere protetto da guardie del corpo donne, non abbia stretto la mano alla Rice, limitandosi a osservarla con un cenno del capo. Lei, imbarazzata, giunta a un metro di distanza, ha proseguito a sinistra per prendere posto sul divano all’interno della caserma militare dove, nella notte tra il 15 e il 16 aprile del 1986, morì una figlioletta adottiva di Gheddafi nell’ambito di un raid aereo deciso dall’allora presidente americano Reagan in rappresaglia all’attentato alla discoteca La Belle a Berlino perpetrato dai servizi segreti libici.
Ebbene, proprio quell’anno, a seguito dell’incontro svoltosi a Casablanca tra l’allora monarca marocchino Hassan II e il premier israeliano Shimon Peres, Gheddafi decise di non stringere la mano al re Hassan in un successivo incontro tenutosi ad Algeri tra i leader dei cinque paesi membri dell’Unione del Maghreb Arabo. In extremis, per evitare il fallimento del vertice, Gheddafi indossò dei guanti bianchi in modo tale che non ci potesse comunque essere un contatto corporeo diretto con chi, a suo avviso, aveva tradito la causa araba.
Ebbene mi domando come possano gli Stati Uniti fidarsi di un uomo che, considerando come nemici o comunque differenti gli esseri umani (qualora Gheddafi nutrisse in realtà una discriminazione sessuale nei confronti delle donne), rifiuta di stringere la mano al proprio ministro degli Esteri. Tenendo oltretutto presente che è l’unico caso nell’insieme del Medio Oriente, dato che perfino il rigoroso monarca wahhabita saudita Abdallah, sovrano di un Paese oscurantista dove le donne sono costrette a mostrarsi interamente velate, ha stretto la mano alla Rice accogliendolo nel proprio palazzo reale a capo scoperto.
Cari amici, che cosa non si fa per denaro! Pensate che gli Stati Uniti hanno rinviato di anni la conclusione del contenzioso con la Libia fintantoché Gheddafi non ha accettato di versare 10 milioni di dollari come indennizzo per ciascuna delle 270 vittime americane dell’attentato terroristico al Boeing della Pan Am del dicembre 1988. Una richiesta che ha fatto irritare il figlio del leader libico, Seif Al Islam, denunciando “l’avidità” degli Stati Uniti! E pur di avere questi soldi l’amministrazione Bush ha accettato di corrispondere a Gheddafi un indennizzo per la quarantina di vittime del raid aereo su Tripoli e Bengazi del 1986, mettendo così sullo stesso piano l’attentato terroristico, che è in sé un atto illegale, con la rappresaglia militare per colpire il terrorismo, che è in sé un atto legittimo. Come meravigliarsi se Gheddafi, percependo gli Stati Uniti come un’entità pronta a vendersi per denaro, non si senta poi autorizzato a umiliarla negandole quel segno di amicizia che s’incarna nella stretta di mano?
In questo contesto non c’è da meravigliarsi che gli Stati Uniti abbiano valutato addirittura positivamente la stipula di un patto di non aggressione tra l’Italia e la Libia, che ci vieta di impiegare le basi americane e della Nato dislocate sul territorio italiano per azioni militari contro la Libia. In un contesto di normalità, dove dovrebbero prevalere l’interesse generale dell’Alleanza Atlantica e la sicurezza nazionale italiana, né noi né gli americani avremmo mai acconsentito a questo cedimento. Un simile accordo sarebbe stato plausibile soltanto con un interlocutore credibile al punto tale da diventare un alleato, sulla base della condivisione di valori, regole e ideali. Ma non è affatto questo il caso di Gheddafi che resta un dittatore repressivo e sanguinario, infido e inaffidabile. Ne riparleremo assai presto, con i nuovi massicci arrivi di clandestini in partenza dalle coste libiche, il rifiuto libico di indennizzare i 20 mila italiani espulsi nel 1970 e le migliaia di imprenditori che vantano oltre 300 milioni di crediti dalla Libia e altre “sorprese” che non sarebbero delle novità per uno dei personaggi più pazzi e cinici della nostra storia contemporanea.
Cari amici, vi saluto con il convincimento che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo della conoscenza oggettiva e della comunicazione responsabile, della sacralità della vita e della dignità della persona, dei diritti e doveri e della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse collettivo, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi e ogni bene.
Magdi Cristiano Allam
08/09/2008 10:19, INDIA, Suore di Madre Teresa ancora sotto inchiesta per “sequestro di bambini”. Bruciata una chiesa
I 4 bambini che le suore portavano a curare nel loro istituto, sono in custodia della polizia ferroviaria. La campagna dei fondamentalisti indù si diffonde anche nel Madya Pradesh dove giovani fedeli sono stati picchiati e una chiesa è stata incendiata.
New Delhi (AsiaNews) – Non si sblocca la situazione dei 4 bambini posti sotto custodia della polizia, che secondo alcuni radicali indù sarebbero stati “sequestrati e convertiti” da 4 suore di Madre Teresa. Il fatto è un segno ulteriore della campagna che i fondamentalisti indù hanno lanciato contro i cristiani. Ieri una chiesa anglicana è stata bruciata nel Madya Pradesh.
Lo scorso 5 settembre - anniversario della morte di Madre Teresa di Calcutta - quattro suore di Madre Teresa sono state aggredite da una ventina di attivisti del Bajrang Dal alla stazione ferroviaria di Durgh (Chhattisghar). I radicali indù le hanno costrette con la forza a scendere dal treno, consegnandole agli agenti di polizia mentre inneggiavano slogan anti-cristiani.
I fondamentalisti indù hanno accusano le suore – Sr. Mamta, la superiora, Sr. Ignacio, Sr. Josephina e Sr Laborius – di “sequestro e conversione forzata” di quattro bambini, di età compresa fra uno e due anni, che le religiose stavano portando dalla loro casa di Raipur al centro Charity Shishu Bhava, a Bhopal. Le suore avevano documenti che attestano la loro responsabilità verso i piccoli bisognosi di cure. Nell’attesa di verificare tutti i documenti, le suore hanno passato in prigione la notte fra il 5 e il 6 settembre.
Stamane Sr Mamta ha dichiarato ad AsiaNews che “i bambini sono ancora nell’ospedale governativo, mentre la polizia sta investigando sull’autenticità dei documenti”. Un ufficiale della polizia del distretto di Durg (Chhattisghar) ha detto che “il caso è sotto la responsabilità della polizia ferroviaria”.
“Tutti i nostri documenti sono validi – continua sr Mamta – ma siamo davvero impotenti: la polizia impiegherà tanto tempo per verificarli. Da parte nostra abbiamo esposto una prima denuncia. Ma queste procedure andranno per le lunghe e la nostra preoccupazione è che in questo modo non avremo tempo per dedicarci ai moribondi e agli altri bambini che hanno bisogno di noi”.
Intanto continua la campagna contro i cristiani e le pretese conversioni forzate o “pagate”. Dall’Orissa – teatro in queste settimane di un vero e proprio pogrom – la furia dei radicali indù sta spargendosi in altre regioni.
Ieri mattina una chiesa anglicana a Ratlam (Madya Pradesh) è stata distrutta dalle fiamme, la costruzione, antica di 86 anni e dedicata all’apostolo Bartolomeo, era tutta in legno ed è bruciata in poco tempo. I fedeli sospettano che gli autori siano gruppi radicali del Bajrang Dal (Bd, la stessa organizzazione che ha accusato le suore di Madre Teresa). Il Bd nega le accuse, attribuendo l’incendio a un corto circuito.
Da tempo la comunità di Ratlam è nel mirino dei fondamentalisti con l’accusa di esercitare conversioni forzate.
Il pastore Jose Mathew ha dichiarato che il 15 agosto gruppi del Vhp (Vishwa Hindu Parishad) e del Bd hanno attaccato un incontro di giovani, picchiando molti di loro, compreso un pastore, Satya, sua moglie e alcuni membri della ong World Vision. (NC)
Rischio e libertà nella Pubblica Amministrazione, di Roberto Albonetti, IlSussidiario.net, lunedì 8 settembre 2008
Oggi si parla molto di riforma della pubblica amministrazione, di new public management, di incrementi di efficienza e di efficacia. È una riforma possibile: non occorre essere i migliori amministratori del mondo né trovare una miniera d’oro per finanziare le richieste sempre crescenti di servizi di qualità. Si può fare molto, a risorse invariate e con il capitale umano di cui già disponiamo, come sembra voler dire il Ministro Brunetta con l’iniziativa “Non solo fannulloni”, che mira a scovare e condividere le migliori pratiche amministrative nazionali. Serve però il coraggio di buttare l’occhio fuori dal “palazzo” per scoprire quello che i cittadini e i corpi intermedi inventano e costruiscono per rispondere ai propri problemi. Serve la volontà di sostenere e favorire la società. Serve, in una parola, uno spirito di vera sussidiarietà.
L’ideale di una burocrazia perfettamente oliata, asettica e spersonalizzata è lontano anni luce da questa visione: occorre sapere rischiare e scommettere sulla libertà delle persone. Rischio e libertà fanno di una pubblica amministrazione una amministrazione sussidiaria. E rischi quando ti sposti dagli obiettivi ai risultati, scommetti sulle persone, lasci che siano loro a decidere dove andare, anche in direzioni totalmente diverse da quelle che avevi previsto. Allora sei costretto a riconoscere che i risultati non sono garantiti, perché non dipendono solo dall’azione amministrativa, ma dalla libertà delle persone che, sia dentro che fuori dall’amministrazione, si confrontano con una realtà complessa e mutevole.
Passa da qui la capacità della PA di innovare, ad esempio proponendo nuove modalità di finanziamento o di aggregazione delle risorse. Come sta accadendo in Lombardia con la dote, che ha completamente ribaltato i rapporti tra l’ente pubblico e gli stakeholder nel campo dell’istruzione, della formazione e del lavoro. Con la dote, infatti, le risorse seguono la persona, che è libera di scegliere l’offerta che più la soddisfa all’interno di una rete di operatori pubblici e privati accreditati, che competono per proporre servizi personalizzati. La Regione detta le regole, controlla il sistema e valuta i risultati, senza pretendere di gestire tutto in prima persona. Il fallimento del welfare state non è dunque la fine di tutto: può essere l’occasione di un nuovo protagonismo civile e sociale.
Cosa può facilitare questo processo in atto? Sicuramente il federalismo fiscale. In Italia lo Stato attua una gigantesca azione redistributiva tra Regioni, ma con grandi sprechi e senza diminuire le diseguaglianze tra le aree del Paese. Il punto di partenza per realizzare il federalismo è il superamento delle attuali modalità di trasferimento di risorse dallo Stato agli enti locali: è urgente approdare a un sistema che non faccia più riferimento alla "spesa storica", ossia al trasferimento di quanto speso negli anni precedenti, ma ai "costi standard", con l’individuazione dell'ottimale di costo per le diverse funzioni. Prendiamo il caso dell’istruzione, oggi finanziata centralmente dallo Stato attraverso il pagamento del costo del personale e delle spese di funzionamento degli istituti: anche così le disparità sul territorio nazionale sono rilevanti da tutti i punti di vista. Il finanziamento a costo standard permetterebbe invece di valutare realmente “quanto costa uno studente”, modificando di conseguenza i trasferimenti alle Regioni e superando anche l’inefficienza di tutti quei casi in cui l’educazione di un ragazzo viene pagata due volte, come per chi si iscrive a una scuola paritaria o per chi sceglie un corso di formazione professionale.
Il federalismo fiscale non è l’unico intervento necessario – occorre rivedere le modalità di reclutamento e gestione del personale, bisogna scommettere sul merito e sulla valutazione (dei risultati e non delle procedure), e investire decisamente sulla leva della formazione – e non è la panacea di ogni male, ma, se attuato con intelligenza, può diventare il volano per una efficace riforma della scuola e di tutta la pubblica amministrazione.
Un Fatto irriducibile a ogni moralismo, di Costantino Esposito, Ilsussidiario.ne, lunedì 8 settembre 2008
Come spesso succede nei suoi interventi, anche in quello apparso su la Repubblica del 5 settembre con il titolo «La Chiesa e i precetti dei teocon», Ezio Mauro riesce ad arrivare al fondo del problema. Qual è il posto, e più ancora il senso, della religione «nel discorso pubblico e nel fatto politico»? Nel momento stesso in cui sembrerebbe che essa sia tornata in grande stile al centro del dibattito culturale e politico di tutte le società secolarizzate del mondo, bisogna chiedersi – cercando di non farsi prendere dal prevedibile gioco di ruolo della politica italiana, aggiungeremmo noi – di che cosa si è trattato veramente. Secondo Mauro in Italia si è trattato del trionfo di un cristianesimo che da un certo punto in poi (più o meno «negli anni di potere del Cardinal Ruini») non è stato più concepito - e di conseguenza non è stato più proposto - come un «fatto», ma si è ridotto sempre di più a una «precettistica» morale e ai principi della «dottrina sociale» da far valere come valori di riferimento di un’intera nazione e della stessa legislazione dello Stato laico. In tal modo il cattolicesimo sembra aver riconquistato il campo perduto in passato in una società sempre più secolarizzata, ma in realtà rimpicciolendo ideologicamente la sua proposta a strumento di egemonia politica.
Ma questa massiccia riconquista etico-politica della società mostrerebbe ora le sue profonde crepe. Nella presa di distanza del portavoce della Sala stampa vaticana da un editoriale di Lucetta Scaraffia sull’Osservatore Romano a proposito di un tema “estremo” come quello della morte cerebrale (che non sarebbe più il termine ultimo della vita del corpo), e nella riaffermazione da parte delle competenti autorità della Santa Sede che dopo la morte cerebrale accertata va considerato morto anche il corpo, tanto da esser prevista e addirittura raccomandata come atto di carità cristiana la donazione degli organi – in tutto questo Mauro vede il segno evidente che comincia a sciogliersi l’abbraccio mortale tra l’etica cattolica e la cultura di una destra politica in cerca di sostegni morali. Un abbraccio, a detta di Mauro, che risulterebbe dannoso soprattutto per la Chiesa, perché la ridurrebbe ad essere un semplice strumento del potere, non più «una religione delle persone», ma una «religione civile».
La domanda che dunque ne nasce è: ma il cristianesimo può mai essere ridotto a regole morali, senza perdere la sua natura, cioè quella di essere un «avvenimento»? Sembrerebbe quasi di sentire l’eco di quelle provocazioni che continua a lanciare Benedetto XVI, come quando nell’Enciclica “Deus caritas est” scrive che «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona [in maiuscolo!], che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
Mauro richiama a questo proposito la «profezia» di don Giussani, il quale (in anni di predominio assoluto del “cattolicesimo democratico” dentro e fuori la Chiesa, aggiungeremmo noi) aveva parlato di una «prevalenza dell’etica rispetto all’ontologia», cioè dell’enfasi posta sui comportamenti virtuosi rispetto al fatto nuovo di Cristo.
Ma è appunto la natura di questo “fatto”, cioè la portata reale di questa “ontologia” che viene prima di ogni ideologia e si smarca rispetto a tutti le versioni del moralismo ciò che bisogna capire. E non per retrocedere dall’analisi culturale e politica nel campo privato della meditazione spirituale, ma al contrario proprio per comprendere di più i fattori in gioco nella situazione culturale e politica odierna.
E qui Mauro, dopo aver colto il nocciolo della questione, sembra farselo scivolare di mano, leggendo a sua volta con le categorie della strategia politica il fenomeno “irriducibile” del cristianesimo. Negli ultimi anni la Chiesa avrebbe preteso di essere la coscienza morale dell’Italia e di esprimere con le norme che valgono solo per i credenti un ordine della natura umana non riconosciuto da chi non crede, finendo in preda a un potere politico sostanzialmente pagano. Al suo posto, pare di capire, si dovrebbe tornare a concepire il cristianesimo e la Chiesa come un avvenimento pastorale e spirituale, che porta certamente il suo contributo allo sviluppo della società, ma a patto di rinunciare alla sua pretesa di essere la risposta al bisogno degli uomini. Questa sarebbe un’insopportabile presunzione di verità, che di fatto è alternativa alla concezione delle democrazie moderne, secondo cui nel campo pubblico possono esserci solo verità relative, senza poter riconoscere (se non privatamente, s’intende) niente di oggettivamente vero.
Il discorso naturalmente potrebbe essere rovesciato, ricordando (come hanno fatto anche pensatori laici come Habermas) che l’unità del corpo sociale non solo non esclude, ma esige e anzi nasce dal riferimento a un ordine “indisponibile” all’arbitrio, come è quello della persona umana nei suoi bisogni concreti. E si potrebbe anche ricordare (con Böckenförde) che lo Stato moderno è segnato da questa strana situazione, di doversi reggere su principi che esso stesso non può fondare.
Forse però vale più la pena chiedersi cos’è che interessa veramente in questa disputa. Se la posta in gioco è il ribaltamento di un’immagine culturale o di un posizionamento politico, tutta la battaglia contro il ruinismo, i teo-con e la riduzione del cristianesimo a messaggio etico viene fatta in nome di un altro moralismo, di segno opposto. In tal caso si tratterebbe solo di cambiare i valori (al posto della tutela della vita e della famiglia, il perseguimento della pace e la costruzione del dialogo interculturale), ma la sostanza resterebbe non toccata.
E la sostanza è la vita irriducibile della persona umana, dell’“io”, una realtà che – bisogna riconoscerlo – senza l’avvenimento del cristianesimo (cioè di una Persona) e l’esperienza della Chiesa nel corso dei secoli sarebbe ridotta letteralmente a nulla, tanto è forte il tentativo di ogni potere di impadronirsene per omologarla. Ma questa non è solo una gloriosa eredità del cattolicesimo italiano: è piuttosto un grande compito che va ripreso dalle radici, e che nessuno può dare più per scontato. Questo faceva dire a don Giussani che la responsabilità o meglio la passione dominante per i cristiani è l’educazione, cioè la comunicazione di un’esperienza di umanità cambiata, che arriva a mutare anche il senso della politica, ad esempio facendo sì che essa non venga concepita più come l’orizzonte ultimo della vita degli uomini e della società.
Mi sembra dunque che il vero problema oggi non sia se i cattolici debbano o non debbano proporre i loro valori nella società (in una convivenza democratica penso che questo sia un dato e un diritto ormai acquisito), ma se essi si riaccorgano da dove nascono quei valori. Una strategia ecclesiastico-democratica non è capace di arginare la deriva moralistica che copre un cinismo sempre più diffuso e una gravissima perdita del gusto di vivere. Se il punto è un avvenimento, lasciamo che accada.
8 settembre 2008, Che tipi strani, gli americani votano sulla vita, di Giuliano Ferrara, dal Foglio.it
Chissà perché in America il primo confronto tra i candidati alla Casa Bianca è stato affidato alle cure di un pastore evangelico, il capo della Saddleback Church, per parlare di come si crede, di come si prega, di come si vive e convive con il proprio Dio e con quello degli altri nel fuoco di una campagna presidenziale. Chissà perché il pezzo forte dell’intervista “parrocchiale” a Obama e McCain si è rivelato nella differenza delle loro risposte sulla vita umana. “Parte dal concepimento”, ha detto McCain. “E’ una risposta che va al di là delle mie competenze”, ha risposto Obama. Chissà perché la Convenzione democratica di Denver al termine dei lavori riuniva le migliaia di delegati in assorta preghiera. Tutti laici devoti?
Chissà perché la candidatura a vicepresidente di una madre antiabortista venuta dall’Alaska è esplosa come una bomba atomica e ha impresso una svolta antropologica e culturale decisiva all’andamento della campagna. Chissà perché Obama ha detto che non vorrebbe punire con un bambino le sue figlie, in caso di “errore”, e invece Sarah Palin esibiva come un glorioso e allegro trofeo della vita il piccolo Trig, sindrome di Down, tra i pochi sopravvissuti di un popolo umano in via di estinzione abortiva in tutto il mondo. Chissà perché tutti riconoscono che la posta in gioco segreta delle elezioni, quella ghiotta e insieme altamente drammatica, è la futura nomina di due giudici della Corte Suprema a rimpiazzo di uscite ormai improcrastinabili per ragioni di salute e di età. E tutti noi sappiamo che, insieme alla libertà civile, il compito della Corte Suprema potrebbe tornare ad essere quello di difendere la vita (“life, liberty and the pursuit of happiness”, com’è scritto nella Dichiarazione di Indipendenza).
Può essere che la questione della vita umana sia al di sopra delle competenze della democrazia americana ancora per qualche tempo, e in quel caso sarà eletto Obama, e un cambiamento in favore della vita e del buonumore sarà, non certo impossibile, ma più difficile. Può essere che invece le cose vadano diversamente. E allora è probabile che la questione aperta nel 1973 dalla sentenza Roe vs. Wade, il carattere di diritto personale e privato dell’aborto, venga rimessa in discussione. Sarà un momento decisivo, e bisognerà prepararsi. Se non si riuscisse a impostare in un modo nuovo la questione dell’aborto, prendendo atto del fatto che per quel crimine contro un altro e contro se stessi non c’è punizione legale possibile, ma che va combattuto con la più estrema radicalità e deve essere sottratto all’indifferenza morale che lo circonda, può succedere che ci si ritrovi di fronte a un nuovo abisso.
Ma c’è qualcosa di ancora più importante. Ricominciare a pensare liberamente. Finirla di credere, o fingere di credere, che le questioni di etica pubblica, di considerazione politica dell’esistenza umana moderna come problema, dipendano da una forzatura clericale verso l’autonomia della società secolare. Gli Ezio Mauro e i Giulio Giorello che passano il tempo, lodevolmente e autorevolmente, a stanare i teocon dovunque si nascondano, e qualunque cosa voglia dire questa buffa espressione, e sono così svelti a castigare o blandire i cardinali, a seconda del loro orientamento più o meno “ruiniano”, potrebbero fermarsi, tirare il fiato, e riflettere: in America non c’è un Concordato, c’è una ferrea separazione tra stato e chiese, eppure in questo modello civile appena esaltato dallo stesso Benedetto XVI la questione del significato e della verità del vivere ha una incredibile fortuna, gode di un’altissima considerazione, è sempre e da sempre al centro delle campagne elettorali accanto all’economia, alla politica estera, alla sicurezza nazionale. Invece di continuare a ripetere la solfa palloccolosa dei teocon e dell’interferenza della chiesa nella vita pubblica, sarebbe bene che chi pensa e ama la vita civile ricominciasse a porsi la questione riconoscendo che è un passaggio decisivo del mondo liberale e laico, e che la dissociazione di libertà e vita è lo sconquasso dei tempi moderni, non un complotto culturale della curia romana e dei suoi reggicoda reazionari.
ELEMENTARI. Q UANDO TORNARE INDIETRO NON È UN DELITTO - Un maestro per classe? - Sì, se questo aiuta a crescere, DAVIDE RONDONI, Avvenire, 7 settembre 2008
I l dibattito sulle faccende della scuola riguarda tutti. Non è solo vicenda da specialisti, poiché la vita della scuola, come genitori, alunni o anche solo come cittadini ci riguarda tutti.
Inutile scandalizzarsi, stupido spaventarsi quando vediamo scene di degrado giovanile se poi non ci si interessa della scuola. E non solo per criticare, che è lo sport inutile di uomini inutili. Lo stiamo vedendo in fenomeni anche tremendi: la colpa di distrazione sulla scuola dei padri sta ricadendo sui figli.
Anche chi come il sottoscritto non ha titoli particolari per entrare nell’attuale dibattito sul ritorno della figura del maestro unico – o docente prevalente, come suggeriscono alcuni che pure se ne intendono – capisce bene che sotto si agita una questione importante. Si chiama: la questione del riferimento autoritativo. Ieri il professor Bertagna ricordava su queste colonne da un lato l’impossibilità di riproporre il modello anni ’ 50-’ 60 del maestro solitario e dall’altro i dati che confermano un abbassamento dell’apprendimento a causa dell’introduzione dei cosiddetti moduli a tre docenti. Chi difende la figura del maestro unico rischia a volte di difendere una specie di autorità intesa come ' totem'. Come se per il fatto stesso di essere l’unica presente in classe quella figura potesse offrire ai nostri figli un’autorità certa nella scoperta della vita e nel suo studio. La posizione di autorità non è garanzia di autorevolezza. Così come la eventuale struttura tripartita o plurale della figura insegnante non è di per sé maggior garanzia di ampiezza. Però, poiché le idee si devono tradurre in certi casi in organizzazione e modelli, è chiaro che la presenza di un maestro unico o prevalente offre alle famiglie e ai ragazzini un metodo educativo in cui si favorisce il riconoscimento e il confronto con una autorevolezza. Chi non desidera questo modello finisce forse – magari senza volerlo – per confondere l’esperienza dell’autorevolezza e sostituirla con la dialettica. Per i primi il mondo si conosce meglio seguendo i passi di una guida che ti apre, con una sua ipotesi di lettura, l’orizzonte davanti agli occhi, che poi tu valuterai. Per gli altri l’educazione non è introduzione alla realtà e quindi non serve seguire un’autorità, ma il reale si ottiene grazie alla elaborazione di più punti di vista. Il problema non è quale sia più affascinante tra queste due visioni: si tratta di capire quale è più naturale, quale favorisce meglio il raggiungimento dello scopo della scuola che è insegnare ed educare. È dunque normale, fatale, direi pure salutare che la polemica esista e costringa tutti a rendersi conto. I dati sull’apprendimento danno ragione a chi vuole il maestro unico o prevalente. E dunque si vada su questa strada, aiutando il maestro con la possibilità di coordinare la presenza in classe di colleghi esperti su determinati ambiti; la religione, ma anche le lingue... Sperando, anzi facendo di tutto anche in termini di premiazione e stigmatizzazione, perché il maestro sia adeguato al suo mestiere, e ami la libertà e la crescita dei nostri figli. Si faccia tutti quel che ci è possibile perché i nostri figli incontrino una buona scuola.
Autorevole, cioè formatrice e educatrice di uomini liberi.
Care Br, rileggetevi Manzoni, MARIO SOLDATI DAVANTI AGLI ANNI DI PIOMBO
di Mario Soldati
La voce grigia del terrorista, che parlava al telefono per comunicare l’atroce notizia alla famiglia Moro, tremava di contenuta, delirante ebbrezza: era la voce di uno che conosceva finalmente il potere supremo, finalmente lo gustava. Macché sovvertire, destabilizzare. La voluttà del potere supremo bastava a tutto, si rivelava vero scopo di tutto. Che cos’era, in quel momento, il potere supremo, se non la consapevole, inebriante, atrocemente sublime libertà di operare il male?
E che cos’è la misura esatta del male se non la misura, egualmente esatta, del bene? In quel momento l’uomo dalla voce grigia era felice, sentiva di sfiorare una grande verità in cui non credeva più, forse dal tempo della sua infanzia.
Gli ultimi decenni hanno visto non tanto il crollo della borghesia quanto, nella borghesia e ancora più nella piccola borghesia, la scomparsa della religione, di una religione. Benedetto Croce, presago e allarmato di come andavano le cose, confessò per tempo in alcuni scritti la propria fede: che ovviamente riguardava la sostanza, lo spirito sempre nuovo e sempre vivo del cristianesimo, non i simboli, non i riti, non la lettera.
Certo, già prima e molto prima, esistevano i non reggimentali fedeli di quella religione che per brevità chiamiamo ' laica' forse in attesa di un termine più appropriato, esistevano coloro che senza credere, e anche senza credere di credere, si comportavano come se credessero, quasi li guidasse un segreto sensus Christi. Ma erano, eravamo relativamente pochi. Molti, i più attivi, si erano dichiarati « atei » , e avevano sostituito all’antica religione una nuova religione: al cristianesimo, il comunismo: alla fede in una giustizia ultraterrena, la fede nel progresso e nel paradiso in terra promesso da Marx.
Crollò, attraverso la progressiva conoscenza dell’esperimento sovietico, prima per qualcuno, poi a poco a poco per molti, e infine per tutti quanti, quella fede in un comunismo trascendente: purtroppo, crollò contemporaneamente, almeno da noi, un’altra illusione: che il boom industriale- tecnologicoconsumistico potesse continuare senza che noi subissimo un trauma.
Ma non fu la classe operaia quella che più soffri del trauma. La classe operaia, anche se soltanto le madri e forse le mogli andavano ancora a messa, adottò a sua volta, più o meno coscientemente, la fede laica. Furono i borghesi, i piccoli borghesi intellettuali, i piccoli tecnici o tecnologi, i piccoli filosofi o sociologi, furono loro a accusare il colpo: loro, i più ambiziosi, i più avidi di potere, i più impazienti di una rinascita che ormai si erano abituati a ritenere prossima: loro, i più illusi, e adesso i più delusi. I quali dicevano e dicono a se stessi: ormai sappiamo che i preti hanno torto da sempre, non abbiamo più fede in Dio, e questo va bene; ormai sappiamo che Marx ha ragione per sempre, noi abbiamo ancora tutta la nostra fede nel progresso, e anche questo va bene: ma, intanto, le cose per noi vanno male, malissimo, e purtroppo non c’è speranza che vadano meglio prima della fine della nostra vita!
Mentre intorno a noi molti lavorano, guadagnano, godono di un certo benessere, lusso, potere, noi e i nostri compagni, i nostri amici, tutti quelli come noi odiati, emarginati, isolati proprio per il nostro ostinato, smanioso, precipitoso, generoso sogno di giustizia, noi che cosa possiamo fare?
Rispondere con l’odio all’odio, intanto: questo possono fare. Ma la loro impazienza è, in fondo, soltanto la pigrizia di chi si pone ideali troppo alti e troppo lontani per essere scusato se non li raggiunge, e per non faticare a compiere i piccoli passi successivi che sarebbero necessari a ogni profondo rivolgimento culturale e politico.
Sono, così, precipitati in uno smarrimento della ragione, affannati da un disordine del cuore, devastati da un’angoscia esistenziale: hanno perso la strada della vita, neanche il bene sanno più dove sia.
Tutti loro - parlo dei terroristi italiani, naturalmente, e parlo soprattutto dei loro capi che sappiamo persone istruite hanno letto l’ultima pagina dei Promessi sposi, e forse la ricordano benissimo, anche se nel sarcasmo. Ma nessuno di loro ha ormai il sospetto che quella pagina ( « i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione... » ) è simbolica oltre le idee del Manzoni medesimo, è valida indipendentemente da qualunque dogma religioso, insomma coincide con quel sensus Christi che dicevamo. Possiamo, del resto, prenderla anche alla lettera. Con santa malizia il Manzoni parla di «una vita migliore» e non dice che necessariamente questa vita migliore sia soltanto ultraterrena. Ma proprio questa verità umile e immediata è lontanissima dal cuore dei terroristi.
1) CELEBRAZIONE EUCARISTICA SUL SAGRATO DEL SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DI BONARIA - OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – E’ necessaria una nuova generazione di politici - Domenica, 7 settembre 2008
2) La ''morte cerebrale''? Non è altro che una comoda finzione... - Quei dubbi sulla morte censurati da 40 anni - È giusto dichiarare una persona morta in base a una legge che ha lo scopo di favorire i trapianti? Un quesito spesso ignorato dalla stampa…
3) PERFINO IL GUSTO DEL PARMIGIANO, DEL PROSCIUTTO E DELLO CHAMPAGNE VIENE DAL CATTOLICESIMO…, di Antonio Socci, da “Libero” 7 settembre 2008
4) Gheddafi non stringe la mano a Condoleeza Rice e l'Occidente si sottomette al suo arbitrio per brama di petrolio e denaro, di Magdi Cristiano Allam
5) 08/09/2008 10:19, INDIA, Suore di Madre Teresa ancora sotto inchiesta per “sequestro di bambini”. Bruciata una chiesa
6) Rischio e libertà nella Pubblica Amministrazione, di Roberto Albonetti, IlSussidiario.net, lunedì 8 settembre 2008
7) Un Fatto irriducibile a ogni moralismo, di Costantino Esposito, Ilsussidiario.ne, lunedì 8 settembre 2008
8) 8 settembre 2008, Che tipi strani, gli americani votano sulla vita, di Giuliano Ferrara, dal Foglio.it
9) ELEMENTARI. Q UANDO TORNARE INDIETRO NON È UN DELITTO - Un maestro per classe? - Sì, se questo aiuta a crescere, DAVIDE RONDONI, Avvenire, 7 settembre 2008
10) Care Br, rileggetevi Manzoni, MARIO SOLDATI DAVANTI AGLI ANNI DI PIOMBO
CELEBRAZIONE EUCARISTICA SUL SAGRATO DEL SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DI BONARIA - OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – E’ necessaria una nuova generazione di politici - Domenica, 7 settembre 2008
Cari fratelli e sorelle!
Lo spettacolo più bello che un popolo può offrire è senz’altro quello della propria fede. In questo momento io tocco con mano una commovente manifestazione della fede che vi anima, e di questo voglio esprimervi subito la mia ammirazione. Ho accolto volentieri l’invito a venire nella vostra bellissima Isola in occasione del centenario della proclamazione della Madonna di Bonaria quale vostra Principale Patrona. Oggi, insieme alla visione della natura stupenda che ci circonda, voi mi offrite quella della fervida devozione che nutrite verso la Vergine Santissima. Grazie per questa bella testimonianza!
Vi saluto tutti con grande affetto, incominciando dall’Arcivescovo di Cagliari, Monsignor Giuseppe Mani, Presidente della Conferenza Episcopale sarda, che ringrazio per le bellissime parole pronunciate all’inizio della santa Messa anche a nome degli altri Vescovi, ai quali va il mio cordiale pensiero, e dell’intera comunità ecclesiale che vive in Sardegna. Grazie soprattutto per l’impegno con cui avete voluto preparare questa mia visita pastorale. E vedo che effettivamente tutto è stato preparato in modo perfetto. Saluto le Autorità civili ed in particolare il Sindaco, che mi rivolgerà il saluto suo e della Città. Saluto le altre Autorità presenti e ad esse esprimo la mia riconoscenza per la collaborazione generosamente offerta all’organizzazione della mia visita qui in Sardegna. Desidero quindi salutare i sacerdoti, in maniera speciale la Comunità dei Padri Mercedari, i diaconi, i religiosi e le religiose, i responsabili delle associazioni e dei movimenti ecclesiali, i giovani e tutti i fedeli, con un ricordo cordiale per gli anziani centenari, che ho potuto salutare entrando in chiesa, e quanti sono uniti a noi spiritualmente o attraverso la radio e la televisione. In modo del tutto speciale, saluto gli ammalati e i sofferenti, con un particolare pensiero per i più piccoli.
Siamo nel Giorno del Signore, la Domenica, ma – data la particolare circostanza – la liturgia della Parola ci ha proposto letture proprie delle celebrazioni dedicate alla Beata Vergine. Si tratta, in particolare, dei testi previsti per la festa della Natività di Maria, che da secoli è fissata all’8 settembre, data in cui a Gerusalemme fu consacrata la basilica costruita sopra la casa di sant’Anna, madre della Madonna. Sono letture che in effetti contengono sempre il riferimento al mistero della nascita. Anzitutto, nella prima lettura, l’oracolo stupendo del profeta Michea su Betlemme, in cui si annuncia la nascita del Messia. Questi, ci dice l’oracolo, sarà discendente del re Davide, betlemmita come Lui, ma la sua figura eccederà i limiti dell’umano: “le sue origini” – dice – “sono dall’antichità”, si perdono nei tempi più lontani, sconfinano nell’eterno; la sua grandezza giungerà “fino agli estremi confini della terra” e tali saranno anche i confini della pace (cfr Mic 5,1-4a). L’avvento di questo “Consacrato del Signore”, che segnerà l’inizio della liberazione del popolo, viene definito dal profeta con un’espressione enigmatica: “quando colei che deve partorire partorirà” (Mic 5,2). Così, la liturgia – che è scuola privilegiata delle fede – ci insegna a riconoscere nella nascita di Maria un diretto collegamento con quella del Messia, Figlio di Davide.
Il Vangelo, una pagina dell’apostolo Matteo, ci ha proposto proprio il racconto della nascita di Gesù. L’Evangelista, però, lo fa precedere dal resoconto della genealogia, che egli colloca all’inizio del suo Vangelo come un prologo. Pure qui il ruolo di Maria nella storia della salvezza risalta in tutta la sua evidenza: l’essere di Maria è totalmente relativo a Cristo, in particolare alla sua incarnazione. “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo” (Mt 1,16). Salta all’occhio la discontinuità che vi è nello schema della genealogia: non si legge “generò”, ma “Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo”. Proprio in questo si coglie la bellezza del disegno di Dio, che rispettando l’umano lo feconda dall’interno, facendo sbocciare dall’umile Vergine di Nazaret il frutto più bello della sua opera creatrice e redentrice. L’Evangelista pone poi sulla scena la figura di Giuseppe, il suo dramma interiore, la sua fede robusta e la sua esemplare rettitudine. Dietro i suoi pensieri e le sue deliberazioni c’è l’amore per Dio e la ferma volontà di obbedirgli. Ma come non sentire che il turbamento e quindi la preghiera e la decisione di Giuseppe sono mossi, al tempo stesso, dalla stima e dall’amore per la sua promessa sposa? La bellezza di Dio e quella di Maria sono, nel cuore di Giuseppe, inseparabili; egli sa che tra di esse non può esservi contraddizione; cerca in Dio la risposta e la trova nella luce della Parola e dello Spirito Santo: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23; cfr Is 7,14).
Possiamo così, ancora una volta, contemplare il posto che Maria occupa nel disegno salvifico di Dio, quel “disegno” che ritroviamo nella seconda lettura, tratta dalla Lettera ai Romani. Qui l’apostolo Paolo esprime in due versetti di singolare densità la sintesi di ciò che è l’esistenza umana da un punto di vista meta-storico: una parabola di salvezza che parte da Dio e a Lui nuovamente giunge; una parabola interamente mossa e governata dal suo amore. Si tratta di un disegno salvifico tutto permeato dalla libertà divina, che attende tuttavia dalla libertà umana un contributo fondamentale: la corrispondenza della creatura all’amore del Creatore. Ed è qui, in questo spazio dell’umana libertà, che percepiamo la presenza della Vergine Maria, senza che venga mai esplicitamente nominata: Ella infatti è, in Cristo, primizia e modello di “coloro che amano Dio” (Rm 8,28). Nella predestinazione di Gesù è inscritta la predestinazione di Maria, come pure quella di ogni persona umana. Nell’“eccomi” del Figlio trova eco fedele l’“eccomi” della Madre (cfr Eb 10,6), come anche l’“eccomi” di tutti i figli adottivi nel Figlio, di tutti noi appunto.
Cari amici di Cagliari e della Sardegna, anche il vostro popolo, grazie alla fede in Cristo e mediante la spirituale maternità di Maria e della Chiesa, è stato chiamato ad inserirsi nella spirituale “genealogia” del Vangelo. In Sardegna il cristianesimo è arrivato non con le spade dei conquistatori o per imposizione straniera, ma è germogliato dal sangue dei martiri che qui hanno donato la loro vita come atto di amore verso Dio e verso gli uomini. È nelle vostre miniere che risuonò per la prima volta la Buona Novella portata dal Papa Ponziano e dal presbitero Ippolito e da tanti fratelli condannati ad metalla per la loro fede in Cristo. Così anche Saturnino, Gavino, Proto e Gianuario, Simplicio, Lussorio, Efisio, Antioco sono stati testimoni della totale dedizione a Cristo come vero Dio e Signore. La testimonianza del martirio conquistò un animo fiero come quello dei Sardi, istintivamente refrattario a tutto ciò che veniva dal mare. Dall’esempio dei martiri prese vigore il vescovo Lucifero di Cagliari, che difese l’ortodossia contro l’arianesimo e si oppose, insieme ad Eusebio di Vercelli, anch’egli cagliaritano, alla condanna di Atanasio nel Concilio di Milano del 335, e per questo ambedue, Lucifero ed Eusebio, vennero condannati all’esilio, un esilio molto duro. La Sardegna non è mai stata terra di eresie; il suo popolo ha sempre manifestato filiale fedeltà a Cristo e alla Sede di Pietro. Sì, cari amici, nel susseguirsi delle invasioni e delle dominazioni, la fede in Cristo è rimasta nell’anima delle vostre popolazioni come elemento costitutivo della vostra stessa identità sarda.
Dopo i martiri, nel V secolo, arrivarono dall’Africa romana numerosi Vescovi che, non avendo aderito all’eresia ariana, dovettero subire l’esilio. Venendo nell’isola, essi portarono con sé la ricchezza della loro fede. Furono oltre cento Vescovi che, sotto la guida di Fulgenzio di Ruspe, fondarono monasteri e intensificarono l’evangelizzazione. Insieme alle reliquie gloriose di Agostino, portarono la ricchezza della loro tradizione liturgica e spirituale, di cui voi conservate ancora le tracce. Così la fede si è sempre più radicata nel cuore dei fedeli fino a diventare cultura e produrre frutti di santità. Ignazio da Láconi, Nicola da Gésturi sono i santi in cui la Sardegna si riconosce. La martire Antonia Mesina, la contemplativa Gabriella Sagheddu e la suora della carità Giuseppina Nicóli sono l’espressione di una gioventù capace di perseguire grandi ideali. Questa fede semplice e coraggiosa, continua a vivere nelle vostre comunità, nelle vostre famiglie, dove si respira il profumo evangelico delle virtù proprie della vostra terra: la fedeltà, la dignità, la riservatezza, la sobrietà, il senso del dovere.
E poi, ovviamente, l’amore per la Madonna. Siamo infatti qui, oggi, a commemorare un grande atto di fede, che i vostri padri compirono affidando la propria vita alla Madre di Cristo, quando la scelsero come Patrona massima dell’Isola. Non potevano sapere allora che il Novecento sarebbe stato un secolo molto difficile, ma certamente fu proprio in questa consacrazione a Maria che trovarono in seguito la forza per affrontare le difficoltà sopravvenute, specialmente con le due guerre mondiali. Non poteva essere che così. La vostra Isola, cari amici della Sardegna, non poteva avere altra protettrice che la Madonna. Lei è la Mamma, la Figlia e la Sposa per eccellenza: “Sa Mama, Fiza, Isposa de su Segnore”, come amate cantare. La Mamma che ama, protegge, consiglia, consola, dà la vita, perché la vita nasca e perduri. La Figlia che onora la sua famiglia, sempre attenta alle necessità dei fratelli e delle sorelle, sollecita nel rendere la sua casa bella e accogliente. La Sposa capace di amore fedele e paziente, di sacrificio e di speranza. A Maria in Sardegna sono dedicate ben 350 chiese e santuari. Un popolo di madri si rispecchia nell’umile ragazza di Nazaret, che col suo “sì” ha permesso al Verbo di diventare carne.
So bene che Maria è nel vostro cuore. Dopo cent’anni vogliamo quest’oggi ringraziarLa per la sua protezione e rinnovarLe la nostra fiducia, riconoscendo in Lei la “Stella della nuova evangelizzazione”, alla cui scuola imparare come recare Cristo Salvatore agli uomini e alle donne contemporanei. Maria vi aiuti a portare Cristo alle famiglie, piccole chiese domestiche e cellule della società, oggi più che mai bisognose di fiducia e di sostegno sia sul piano spirituale che su quello sociale. Vi aiuti a trovare le opportune strategie pastorali per far sì che Cristo sia incontrato dai giovani, portatori per loro natura di nuovo slancio, ma spesso vittime del nichilismo diffuso, assetati di verità e di ideali proprio quando sembrano negarli. Vi renda capaci di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica, che necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile. In tutti questi aspetti dell’impegno cristiano potete sempre contare sulla guida e sul sostegno della Vergine Santa. Affidiamoci pertanto alla sua materna intercessione.
Maria è porto, rifugio e protezione per il popolo sardo, che ha in sé la forza della quercia. Passano le tempeste e questa quercia resiste; infuriano gli incendi ed essa nuovamente germoglia; sopravviene la siccità ed essa vince ancora. Rinnoviamo dunque con gioia la nostra consacrazione ad una Madre tanto premurosa. Le generazioni dei Sardi, ne sono certo, continueranno a salire al Santuario di Bonaria per invocare la protezione della Vergine. Mai resterà deluso chi si affida a Nostra Signora di Bonaria, Madre misericordiosa e potente. Maria, Regina della Pace e Stella della speranza, intercedi per noi. Amen!
La ''morte cerebrale''? Non è altro che una comoda finzione... - Quei dubbi sulla morte censurati da 40 anni - È giusto dichiarare una persona morta in base a una legge che ha lo scopo di favorire i trapianti? Un quesito spesso ignorato dalla stampa…
di Stefano Lorenzetto
A me pare che il vero scandalo sia questo: c’è voluto un quotidiano straniero (L’Osservatore Romano), diretto da un docente universitario di filologia patristica prestato al giornalismo (Giovanni Maria Vian), per porre con forza l’interrogativo che da 40 anni viene censurato dagli organi d’informazione italiani: è giusto dichiarare morta una persona in base a una convenzione di legge che ha il solo scopo di favorire i trapianti d’organo? Perciò dobbiamo essere grati a Lucetta Scaraffia, componente del Comitato nazionale di bioetica, che s’è assunta questa scomoda incombenza sulla prima pagina del foglio vaticano e ora deve sopportare il peso delle critiche e degli insulti.
Avrebbe potuto esprimere la sua posizione impopolare dalle pagine del Corriere della Sera, al quale pure collabora insieme col marito Ernesto Galli della Loggia. Non è un caso se ha deciso invece di affidarla al giornale del Papa. Questo Papa. Perché, come ha ricordato lei stessa nell’articolo, fu proprio l’allora cardinale Joseph Ratzinger, in una relazione sulle minacce alla vita umana tenuta durante il concistoro straordinario del 1991, a dire: «Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma “irreversibile”, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo o serviranno, anch’essi, alla sperimentazione medica». Il futuro pontefice li chiamò, in quell’occasione, «cadaveri caldi».
Temo d’essere stato l’involontario catalizzatore dell’articolo sul giornale della Santa Sede. Giusto una settimana fa ho partecipato con l’autrice e con il professor Edoardo Boncinelli a un dibattito di Cortina Incontra che verteva proprio su questo tema, Tra la vita e la morte. La professoressa Scaraffia ha parlato soprattutto dell’aborto. Io mi sono permesso di scandalizzare l’attento uditorio ampezzano con alcune provocazioni sulla morte cerebrale. La consonanza d’opinioni, fra lei e me, alla fine m’è sembrata totale. Il padre di mio padre fu dichiarato morto quando il suo cuore si fermò, l’alito non appannò più uno specchio, il corpo cominciò a perdere tepore e a irrigidirsi. Ma nel 1968 la Harvard medical school concepì un nuovo criterio: si è morti quando muore il cervello. Del resto bisognava pur dare copertura giuridica a un chirurgo sudafricano, Christian Barnard, che qualche mese prima aveva eseguito il primo trapianto di cuore.
Purtroppo tutti gli organi, a eccezione delle cornee, hanno questo di brutto: per poter essere trapiantati vanno tolti dal corpo del «donatore» mentre il cuore di questi batte, il sangue circola, la pelle è rosea e calda, i reni secernono urina, un’eventuale gravidanza prosegue, tanto da rendere necessaria la somministrazione di farmaci curarizzanti per impedire spiacevoli reazioni quando il chirurgo affonda il bisturi. Vi paiono cadaveri, questi? Sì, assicurano i trapiantisti. No, stabilisce una legge dello Stato: infatti «per cadavere si intende: “Il corpo umano rimasto privo delle funzioni cardiorespiratoria e cerebrale”» (circolare del ministero della Sanità 24 giugno 1993, n. 24).
Prima contraddizione. Chiesi al professor Vittorio Staudacher, pioniere della chirurgia, come mai ai parenti delle vittime venisse taciuto che il «cadavere» del loro caro tale non era, visto che la funzione cardiorespiratoria è conservata. Mi rispose (aveva ormai 90 anni e non operava più): «Perché è terribile. Per non impressionare la gente. Sembrerebbe il saccheggio di un vivente». Collimava con quanto dichiarato sette anni prima dall’allora presidente dell’Associazione internazionale di bioetica, Peter Singer, assertore del principio per cui è da considerarsi persona solo chi è cosciente: «La gente ha abbastanza buon senso da capire che i “morti cerebrali” non sono veramente morti. La morte cerebrale non è altro che una comoda finzione. Fu proposta e accettata perché rendeva possibile il procacciamento di organi». Molteplici studi convergono sul fatto che solo il 10 per cento delle funzioni encefaliche è stato sinora esplorato. Più ottimista, il professor Enzo Soresi, autore de Il cervello anarchico (Utet), di recente mi ha detto: «Sul piano anatomico e biologico sappiamo intorno al 70 per cento. Ma sulla coscienza? Qui si apre il mondo».
Allora come fa la scienza a dichiarare morto, cessato, finito un mondo di cui per sua stessa ammissione conosce poco per non dire nulla? Seconda contraddizione. Vogliamo parlare delle modalità di accertamento della morte cerebrale? Nel 1975 la legge fissava in 12 ore il periodo d’osservazione obbligatorio prima che il collegio medico potesse autorizzare l’espianto degli organi. Nel 1993 il presidente Oscar Luigi Scalfaro dimezzò i tempi: 6 ore. Dopodiché, se l’elettroencefalogramma risulta «piatto», si procede all’espianto. Un decreto del ministero della Sanità autorizza persino il personale tecnico a eseguire questo esame decisivo. Perché tanta fretta che mal si concilia con la tutela dell’individuo e dei suoi familiari? Terza contraddizione.
Il 1° aprile 1999 è entrata in vigore la legge n. 91 che impone al cittadino di «dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi». La mancata dichiarazione «è considerata quale assenso alla donazione». È passato cioè il principio del silenzio-assenso che fa di ciascun (ignaro) cittadino un donatore, salvo esplicita opposizione. Ma in che modo va espressa tale contrarietà? Il ministro della Salute era tenuto a emanare, entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge, un decreto che lo determinasse. Sono passati quasi 10 anni, si sono succeduti sei ministri, ma quel decreto non s’è mai visto. In compenso si sono visti un illegale tesserino blu inventato da Rosy Bindi; moduli prestampati con i quali Asl e ospedali inducono i cittadini a barrare il «sì» o il «no»; tessere sanitarie regionali che comprendono una sezione per la manifestazione di volontà all’espianto-trapianto; persino tessere comunali di donazione diffuse con la carta d’identità.
Insomma, il Far West. A chi giova questa zona d’ombra se tutto deve avvenire alla luce del sole? Quarta contraddizione. Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro nazionale trapianti, sostiene che in 40 anni i criteri di accertamento della morte cerebrale «non sono mai stati messi in discussione dalla comunità scientifica e vengono applicati in tutti i Paesi scientificamente avanzati». Ma non in Giappone. È da considerarsi un Paese scientificamente arretrato, il Giappone?
Quinta contraddizione. «I dubbi ci sono sempre stati», concede, bontà sua, Nanni Costa, «ma solo da parte di frange minoritarie, che fanno critiche di carattere non scientifico». Cito un nome fra i tanti: il professor Nicola Dioguardi, emerito di medicina interna dell’Università di Milano, ha pubblicamente condannato il concetto di morte cerebrale. È da considerarsi un critico ascientifico, l’illustre professor Dioguardi? Sesta contraddizione. La verità è che una potentissima lobby da 40 anni ha tolto a queste frange minoritarie persino il diritto di parola. La professoressa Lucetta Scaraffia gliel’ha restituito sul giornale del Papa. Un pulpito qualificato, direi, per una predica sulla vita e sulla morte. Basta volerla ascoltare senza pregiudizi.
Il Giornale n. 211 del 2008-09-04
Morte: quando? - (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'intervento della dottoressa Chiara Mantovani, Presidente dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI) di Ferrara e Presidente di Scienza & Vita di Ferrara.
ROMA, lunedì, 8 settembre 2008
* * *
Lucetta Scaraffia, dalle pagine dell’Osservatore Romano, riapre una questione che periodicamente solleva discussioni e perplessità: la dichiarazione di morte di una persona umana.
L’argomento è terribile ed affascinante: conosco persone che, tanti anni fa, si iscrissero ad una associazione di donatori d’organo spinte dal solo terrore di essere sepolti vivi. Meglio star certi di finire nella cassa senza rischi di svegliarsi. Il che non è propriamente una dimostrazione di fiducia nella perizia medica, ma ha una sua giustificazione emotiva.
Non sarà forse inutile ripetere alcune piccole considerazioni, tenendo presente sia gli aspetti tecnico-scientifici che quelli etici; non affrontando quelli medico-legali, per il solo motivo che essi sono regolati dalla legislazione, sulla quale attualmente non c’è modo di agire: questo è dunque un aspetto ininfluente non sulla prassi, ma certamente sulla comprensione del problema.
Però resta vero, e anzi assolutamente notabile, che la legislazione si avvale, per esprimersi, di basi di competenza che le sono estranee: ecco il ruolo della scienza medica supportata dal corredo tecnico sufficiente a fornire basi oggettive. Così come è doveroso rimarcare che la nostra legislazione prevede i protocolli più aderenti alle notizie scientifiche certe di cui disponiamo, diversamente da quanto accade in altri Stati europei o nordamericani.
E diciamo subito una verità tanto sgradevole quanto evidente: prima o poi bisogna consegnare il corpo morto ad un seppellitore. Oggi anche ad un inceneritore, a causa del poco spazio disponibile per i cimiteri nelle aree urbane e ancor più il disagio psicologico del pensiero della decomposizione. Non si tratta di cinismo, ma solo di realismo.
Per cominciare è indispensabile fare chiarezza sui termini usati: leggo affermazioni tanto inesatte al punto da fraintendere la realtà.
Morte cerebrale: è una espressione errata, dannosa, fuorviante. Troppo usata, purtroppo, come sinonimo di “morte encefalica”, che invece è tutta un’altra questione. Per dare un’idea, anche se grossolana: come se affermassimo che dormire profondamente è come essere morto.
Invece, con “morte encefalica” si intende il silenzio elettrico (l’assenza totale, ripetutamente registrata, di ogni attività nella corteccia cerebrale, nel ponte e nel bulbo: tutto l’encefalo!) di ogni struttura deputata a generare e coordinare qualsiasi altra attività del corpo.
Anche solo da questa generica definizione chiunque può capire che se uno che sembra morto, perché magari non risponde alle parole e ai suoni intorno a lui, ma invece respira da solo e il suo cuore batte autonomamente, evidentemente non è davvero morto! Succede che una parte dell’encefalo sia rovinata, ma non tutto: ciò che regola cuore e polmoni funziona! Non entriamo qui nel delicato argomento di come si voglia considerare la vita di questa ipotetica (ma poi mica tanto!) persona: sofferente, non dignitosa, inutile, insopportabile (per gli altri). Queste sono valutazioni diverse dalla semplice constatazione che la vita non ha abbandonato quel corpo.
Come stabiliamo la morte? Rilevando la cessazione delle funzioni che conosciamo necessarie alla vita: respirazione e circolazione. Chiaramente deve essere una cessazione, non una temporanea e breve interruzione; ma sappiamo anche che un quarto d’ora nell’adulto, mezzoretta nel bambino, senza respirare e/o battere del cuore (e le due cose sono strettamente collegate) causano la morte. In pratica: senza ossigeno (procurato nei polmoni) distribuito in tutto il corpo dalla pompa-cuore, il cervello (tutto il cervello!!!) si danneggia e non funziona più, ovvero non è in grado di assolvere alla sua funzione di struttura di coordinamento e di input per tutte le funzioni vitali. E’ un meraviglioso meccanismo autoregolamentato: l’encefalo fa da centralina elettrica, la circolazione porta l’ossigeno dai polmoni alla periferia, anche alla centralina stessa. Interrompere a qualsiasi livello queste funzioni integrate è mettere la macchina corporea fuori uso. Se vediamo qualcuno gravemente traumatizzato, trapassato da pallottole, esanime, senza respirazione, intuiamo la sua morte; ma il motivo vero, in ultima analisi, è sempre riconducibile all’impossibilità di assicurare ossigeno e acqua ai tessuti!
Non sembri, questa elementare descrizione dei meccanismi fisici, dettata da indifferenza verso i sempre presenti significati metafisici: ma è troppa la confusione attualmente presente per tralasciare il lato più concreto.
Coma (depassé, profondo: aggettivi ancora usati ma inesatti) stato vegetativo (permanente o persistente che dir si voglia: in ogni modo si dice impropriamente), non sono equivalenti della morte encefalica: ovvero dello stato in cui, per quel che ne sappiamo finora, la capacità di provvedere ai processi vitali (appunto quelli che consentono la vita) è venuta meno.
E con chiarezza si può affermare che oggi in Italia la legge consente l’espianto di organi solo in caso di morte accertata con criteri neurologici che definiscano un quadro di morte encefalica e non cerebrale.
Per dirla bene: l’elettroencefalogramma piatto NON è ancora morte encefalica, non si espiantano organi se i centri profondi bulbari danno ancora segno di attività elettrica.
In altri luoghi del mondo può succedere: ci giungono notizie che un metodo per giustiziare i condannati in Cina sia l’espianto in vivo, ma fortunatamente non siamo in Cina (almeno finora).
Qualcuno può riferire di una certa “fretta” nel cercare di ottenere il permesso dei parenti (in Italia ancora vincolante): e qui si apre la voragine di un corretto rapporto e comunicazione dei medici nei confronti dei pazienti e delle loro famiglie. C’è poi il grande dramma psicologico di vedere qualcuno che amiamo sottoposto a ciò che sembra una cura medica (circolazione e ventilazione forzate per mantenere quel necessario apporto di ossigeno): bisognerebbe spiegare bene che sono solo i tempi richiesti proprio per quell’accertamento rigoroso dei criteri di morte encefalica; bisognerebbe riuscire a far intendere che è proprio un meccanismo di sicurezza per accorgersi se ci si è sbagliati, se una registrazione si è interrotta dando risultati falsati. E’ durissimo vedere e sentir parlare di “cadavere a cuore battente”, perché siamo tradizionalmente legati all’immagine del cuore come centro della vita, ma è indispensabile fare uno sforzo chiarificatore per togliere, per quanto è possibile, l’illusione di vita.
Certamente nessuna legge riesce ad impedire l’abuso: e la consapevolezza di questo dovrebbe sempre accompagnare il legislatore, inducendolo ad una prudenza e ad una umiltà che consentano sempre l’aggiornamento sulla base di eventuali nuove scoperte tecnico-scientifiche.
Leggo nell’articolo di Lucetta Scaraffia cui facevo riferimento all’inizio:
Come ha fatto notare Peter Singer, che si muove su posizioni opposte a quelle cattoliche: "Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie".
Mi sia consentito replicare sommessamente a Singer che il problema non è “cattolico”: i teologi cattolici esprimono posizioni coerenti con la teologia partendo dai dati di ragione forniti da altre discipline. E ciò che stride è proprio che in realtà il comportamento consigliato dai teologi morali di fede cattolica è coerente con le coordinate espresse finora: il paziente anencefalico dovrebbe essere (e in Italia lo è!) monitorato per tutta quella parte di encefalo che ha e solo al raggiungimento del silenzio elettrico è dichiarato morto! Si applica proprio in questo caso-limite tutta la prudenza invocata prima: se bastasse solo un EEG, visto che non c’è niente da controllare (il bimbo anencefalico ha solo piccole parti di cervello, spesso non la corteccia) sarebbe dichiarato morto subito. Invece si va oltre, si aspetta che ogni più piccolo segnale sia cessato, e si aspetta che sia cessato per un tempo doppio rispetto all’adulto perché conosciamo la maggiore resistenza del tessuto nervoso del neonato all’anossia.
Se si ragionasse nei termini di “assenza di coscienza” (senza corteccia cerebrale non c’è coscienza) si darebbe ragione al signor Singer, il quale, dal canto suo, non ha neppure bisogno dell’EEG per dichiarare un essere umano una non-persona: per lui fino a quando non si hanno capacità di parola e relazione, non si ha dignità umana! Se si ragionasse nei termini di vita degna-non degna, si potrebbero accelerare i tempi di morte di pazienti senza corteccia funzionante (senza capacità di relazione), ma con il cuore che batte da solo e con i polmoni che scambiano anidride carbonica con ossigeno.
Invece la testardaggine tutta cristiana di appoggiarsi al dato reale ci protegge fino in fondo. Quando sussiste segno di vita, è vita. Bella, brutta, gradevole o puzzolente, è vita.
Ma nell’articolo uscito il 3 settembre, si riportava anche un’altra affermazione francamente sorprendente:
Facendo il punto sulla questione, Becchi scrive che “l’errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica”, mentre il nodo dei trapianti “non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte”, ma attraverso l’elaborazione di “criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili”.
Forse fraintendo, me lo auguro, ma qui c’è un invito a prescindere dai fatti. Che cosa può appoggiare legittimamente il giudizio se non la conoscenza del fatto, nella misura che è possibile alla ragione e all’esperienza? Quando la morte si accertava con lo specchietto (se si appannava, si era vivi; se no, si era sepolti. E per giunta senza aspettare troppo tempo, per via della puzza) si commettevano delitti contro l’etica o contro la buona pratica clinica? E poi la verità su cui appoggiare il giudizio dovrebbe scaturire dall’accordo su ciò che è giusto? Mettiamo ai voti i criteri di accertamento della morte?
Il problema etico è di (apparente) semplice soluzione: si dispone con rispetto del cadavere, si tratta con rispetto il vivente. Mi pare superfluo soffermarmi sulla differenza tra “disporre” e “trattare”.
La natura di cosa, ancorché nobile, del corpo morto attiene alla sostanza cadaverica; la natura di persona del corpo vivente attiene alla sostanza di essere. L’una e l’altra vedono nei loro confronti applicata l’etica quando ricevono un trattamento adeguato alla rispettiva natura.
Il problema giuridico è più complesso perché si tratta di tradurre in pratica norme valide per ogni situazione. E in un panorama etico e sociale diviso, anzi, frammentato, come il moderno, questa è operazione sempre più complessa. Ma se anche la legislazione si allontana dalla concretezza del dato conosciuto e onestamente riconosciuto, e se cade nel tranello della concertazione, allora non so immaginare quale possibilità possa avere l’etica di trovare un fondamento comune.
PERFINO IL GUSTO DEL PARMIGIANO, DEL PROSCIUTTO E DELLO CHAMPAGNE VIENE DAL CATTOLICESIMO…, di Antonio Socci, da “Libero” 7 settembre 2008
Con una modesta proposta per la scuola, il nostro Paese potrebbe tornare ad avere un futuro. Quale proposta? Scoprire Gesù Cristo. Sarebbe la Rivoluzione. Che significa……
Elena Donazzan. Ricordatevi questo nome. Potrebbe diventare la nostra Sarah Palin. Non arriva dal bianco Alaska, ma dal Veneto bianco. Oggi è assessore regionale e chi la conosce sa che stoffa, che preparazione e che piglio ha. Pure l’aspetto, alquanto piacevole, e la giovane età ne fanno un personaggio. Rodato in quel vivaio di passioni politiche che è Alleanza Nazionale. Dunque la Donazzan è entrata nell’occhio del ciclone per questa sua proposta: rendere obbligatorio l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole della sua Regione. Dovrebbe essere un’ovvietà se non fossimo un Paese sciocco e smarrito.
Fortini, Cacciari e Benigni
Franco Fortini, critico letterario e poeta di estrema sinistra fu il mio professore (più amato) all’università. Un giorno di febbraio arriva in aula e comincia a leggere ad alta voce un magnifico poema. Alla fine chiese se qualcuno sapeva cosa aveva letto. Era il “Mercoledì delle Ceneri” di T.S.Eliot. In effetti quel giorno si celebrava tale ricorrenza liturgica. Fortini ne chiese il significato. La gran parte non lo sapeva. Lui cominciò una filippica. In sintesi disse: “voi siete in una facoltà di lettere a studiare l’arte, la letteratura, la filosofia, la storia e domani probabilmente andrete nelle scuole a insegnare. Ebbene, non potrete capire mai niente di tutto questo e neanche del paese dove vivete e di questa città (Siena), senza conoscere perfettamente il contenuto della fede cattolica e quello che ha significato”.
Parola di un grande professore ebreo e marxista. Più o meno le stesse cose mi “gridò”, qualche anno dopo, in una intervista per “Il Sabato”, Massimo Cacciari, indignato dalla crassa ignoranza del cattolicesimo che aveva riscontrato, anche lui, nei suoi studenti. E’ prevedibile che contro la Donazzan ora l’intellighentsia progressista alzerà gli scudi: è la stessa intellighentsia che nei mesi scorsi si è spellata le mani, nelle piazze d’Italia, per applaudire le letture dantesche di Roberto Benigni. Ebbene la Divina Commedia è un compendio perfetto di teologia cattolica e non si capisce neanche una terzina senza conoscere il cattolicesimo.
Il cielo stellato del Gius
Sostanzialmente eliminata dagli studi scolastici dagli anni Settanta in poi, la Commedia oggi è stata riscoperta da coloro che l’avevano abolita. Meglio tardi che mai. Ma intanto abbiamo derubato i giovani della Bellezza (quella che contiene il Vero e il Bene) e dobbiamo correre ai ripari almeno da questa generazione in poi. I giovani soprattutto hanno bisogno della Bellezza come del pane, la poesia è la loro casa. Noi li abbiamo derubati e sfrattati dalla nostra storia. E ora si trovano stranieri in questa terra italiana ed europea. Apolidi della vita, erranti nel deserto che avanza. E spesso si vendicano del Nulla in cui li fanno vivere con la violenza.
Il più grande educatore del nostro tempo, don Luigi Giussani iniziò le sue “lezioni di religione” al liceo Berchet di Milano, nel 1954, leggendo Leopardi. Pensate un po’: il poeta “ateo e materialista” era indicato da Giussani come colui che più e meglio di chiunque coglie l’essenziale della vita, la nostra natura desiderante, le domande struggenti che vibrano nelle vene dei giovani e letteralmente ci fanno uomini: chi siamo, che senso ha la vita, perché “tutto passa e quasi orma non lascia”, che senso ha il cielo stellato, dov’è la Bellezza le cui scintille si riflettono sul volto di ogni donna…Gesù Cristo è venuto e ha detto di essere lui la risposta a queste domande.
Giussani non faceva “propaganda cattolica”. No: insegnava a ragionare, a decifrare la condizione umana e a valutare le risposte. Come sa bene chi lo ebbe come professore, lui letteralmente insegnava la libertà, cioè l’uso della ragione che è la cosa più preziosa. Ma è quello che il cattolicesimo ha fatto per secoli con i popoli europei. Tanto è vero che proprio da questi popoli è sbocciata quella straordinaria capacità di indagine e di conoscenza dell’universo che – tradottasi in scienza e tecnologia – ha letteralmente civilizzato il mondo.
La rivoluzione
Lo spiega benissimo il sociologo americano Rodney Stark nel libro “La vittoria della Ragione”. Sottotitolo: “Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza” (Lindau). E anche Thomas E. Woods in “Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale” (Cantagalli). Dobbiamo ai monaci medievali tutto: perfino il parmigiano, il prosciutto e lo champagne. “Educatori economici” dell’Europa li definì lo storico (laico) Henri Pirenne. E i diritti dell’uomo e il diritto internazionale non sono nati nella teologica “Scuola di Salamanca” ? Perfino Bertrand Russel, nel suo libro più anticristiano, riconosce: “La libertà che vige nei paesi in cui la civiltà ha origine europea (cioè la sola libertà esistente nel mondo, nda) si può storicamente far risalire al conflitto fra Chiesa e Stato nel medioevo”.
Infatti, si può capire la Costituzione italiana senza le nozioni cattolicissime di “persona”, corpi intermedi e sussidiarietà? Il comunista (cattolico) Franco Rodano spiegò che perfino la bellezza della campagna umbra (e toscana) si deve al cattolicesimo e specialmente alla Riforma tridentina. Evitiamo – per favore – il solito piagnisteo laico su questa proposta veneta. Perché la Donazzan ha dalla sua anche il meglio della cultura laica. Innanzitutto Kant in quale era convinto che “il Vangelo fosse la fonte da cui è scaturita la nostra cultura”. Poi il “papa laico” Benedetto Croce: “Il Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo”.
Laici cioè cristiani
Un altro grande intellettuale laico, Federico Chabod, nella “Storia dell’idea d’Europa”, scrive: “Non possiamo non essere cristiani, anche se non seguiamo più le pratiche di culto, perché il Cristianesimo ha modellato il nostro modo di sentire e di pensare in guisa incancellabile; e la diversità profonda che c’è fra noi e gli Antichi, fra il nostro modo di sentire la vita e quello di un contemporaneo di Pericle e di Augusto, è proprio dovuta a questo gran fatto, il maggior fatto senza dubbio della storia universale, cioè il verbo cristiano. Anche i cosiddetti ‘liberi pensatori’, anche gli ‘anticlericali’ non possono sfuggire a questa sorte comune dello spirito europeo”.
Il simbolo del laicismo italiano, Gaetano Salvemini raccontò un giorno di essersi trovato in una stagione della vita come “sperduto nel buio” e dice di aver trovato una “guida e mi sono trovato bene a lasciarmene guidare. E questa guida è stato Gesù Cristo che ha lasciato il più perfetto codice morale che l’umanità abbia mai conosciuto. Io non so se Gesù Cristo sia stato davvero figlio di Dio o no. Su problemi di questo genere sono cieco nato. Ma sulla necessità di seguire la moralità insegnata da Gesù Cristo non ho nessun dubbio”.
Guardate un bambino
Infine, per guardare all’estero, Richard Rorty (simbolo del neopragmatismo americano): “se si guarda a un bambino come a un essere umano, nonostante la mancanza di elementari relazioni sociali e culturali, questo è dovuto soltanto all’influenza della tradizione ebraico-cristiana e alla sua specifica concezione di persona umana”.
E Karl Loewith: “Il mondo storico in cui si è potuto formare il ‘pregiudizio’ che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la ‘dignità’ e il ‘destino’ di essere uomo, non è originariamente il mondo, oggi in riflusso, della semplice umanità, avente le sue origini nell’ ‘uomo universale’ e anche ‘terribile’ del Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo”.
Elena Donazzan ha colto nel segno. E non va lasciata sola: una nuova scuola produce un’Italia nuova.
Antonio Socci
Gheddafi non stringe la mano a Condoleeza Rice e l'Occidente si sottomette al suo arbitrio per brama di petrolio e denaro, di Magdi Cristiano Allam
Mi domando come possano gli Stati Uniti fidarsi di un uomo che, considerando come nemici o comunque differenti gli esseri umani (qualora Gheddafi nutrisse in realtà una discriminazione sessuale nei confronti delle donne), rifiuta di stringere la mano al proprio ministro degli Esteri
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici
Non so quanti di voi abbiano visto le immagini del recente incontro a Tripoli tra il leader libico Gheddafi e il segretario di Stato americano Condoleeza Rice. Mi ha colpito il fatto che Gheddafi, che si vanta di essere schierato dalla parte dell’emancipazione femminile al punto che ostenta la scelta di essere protetto da guardie del corpo donne, non abbia stretto la mano alla Rice, limitandosi a osservarla con un cenno del capo. Lei, imbarazzata, giunta a un metro di distanza, ha proseguito a sinistra per prendere posto sul divano all’interno della caserma militare dove, nella notte tra il 15 e il 16 aprile del 1986, morì una figlioletta adottiva di Gheddafi nell’ambito di un raid aereo deciso dall’allora presidente americano Reagan in rappresaglia all’attentato alla discoteca La Belle a Berlino perpetrato dai servizi segreti libici.
Ebbene, proprio quell’anno, a seguito dell’incontro svoltosi a Casablanca tra l’allora monarca marocchino Hassan II e il premier israeliano Shimon Peres, Gheddafi decise di non stringere la mano al re Hassan in un successivo incontro tenutosi ad Algeri tra i leader dei cinque paesi membri dell’Unione del Maghreb Arabo. In extremis, per evitare il fallimento del vertice, Gheddafi indossò dei guanti bianchi in modo tale che non ci potesse comunque essere un contatto corporeo diretto con chi, a suo avviso, aveva tradito la causa araba.
Ebbene mi domando come possano gli Stati Uniti fidarsi di un uomo che, considerando come nemici o comunque differenti gli esseri umani (qualora Gheddafi nutrisse in realtà una discriminazione sessuale nei confronti delle donne), rifiuta di stringere la mano al proprio ministro degli Esteri. Tenendo oltretutto presente che è l’unico caso nell’insieme del Medio Oriente, dato che perfino il rigoroso monarca wahhabita saudita Abdallah, sovrano di un Paese oscurantista dove le donne sono costrette a mostrarsi interamente velate, ha stretto la mano alla Rice accogliendolo nel proprio palazzo reale a capo scoperto.
Cari amici, che cosa non si fa per denaro! Pensate che gli Stati Uniti hanno rinviato di anni la conclusione del contenzioso con la Libia fintantoché Gheddafi non ha accettato di versare 10 milioni di dollari come indennizzo per ciascuna delle 270 vittime americane dell’attentato terroristico al Boeing della Pan Am del dicembre 1988. Una richiesta che ha fatto irritare il figlio del leader libico, Seif Al Islam, denunciando “l’avidità” degli Stati Uniti! E pur di avere questi soldi l’amministrazione Bush ha accettato di corrispondere a Gheddafi un indennizzo per la quarantina di vittime del raid aereo su Tripoli e Bengazi del 1986, mettendo così sullo stesso piano l’attentato terroristico, che è in sé un atto illegale, con la rappresaglia militare per colpire il terrorismo, che è in sé un atto legittimo. Come meravigliarsi se Gheddafi, percependo gli Stati Uniti come un’entità pronta a vendersi per denaro, non si senta poi autorizzato a umiliarla negandole quel segno di amicizia che s’incarna nella stretta di mano?
In questo contesto non c’è da meravigliarsi che gli Stati Uniti abbiano valutato addirittura positivamente la stipula di un patto di non aggressione tra l’Italia e la Libia, che ci vieta di impiegare le basi americane e della Nato dislocate sul territorio italiano per azioni militari contro la Libia. In un contesto di normalità, dove dovrebbero prevalere l’interesse generale dell’Alleanza Atlantica e la sicurezza nazionale italiana, né noi né gli americani avremmo mai acconsentito a questo cedimento. Un simile accordo sarebbe stato plausibile soltanto con un interlocutore credibile al punto tale da diventare un alleato, sulla base della condivisione di valori, regole e ideali. Ma non è affatto questo il caso di Gheddafi che resta un dittatore repressivo e sanguinario, infido e inaffidabile. Ne riparleremo assai presto, con i nuovi massicci arrivi di clandestini in partenza dalle coste libiche, il rifiuto libico di indennizzare i 20 mila italiani espulsi nel 1970 e le migliaia di imprenditori che vantano oltre 300 milioni di crediti dalla Libia e altre “sorprese” che non sarebbero delle novità per uno dei personaggi più pazzi e cinici della nostra storia contemporanea.
Cari amici, vi saluto con il convincimento che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo della conoscenza oggettiva e della comunicazione responsabile, della sacralità della vita e della dignità della persona, dei diritti e doveri e della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse collettivo, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi e ogni bene.
Magdi Cristiano Allam
08/09/2008 10:19, INDIA, Suore di Madre Teresa ancora sotto inchiesta per “sequestro di bambini”. Bruciata una chiesa
I 4 bambini che le suore portavano a curare nel loro istituto, sono in custodia della polizia ferroviaria. La campagna dei fondamentalisti indù si diffonde anche nel Madya Pradesh dove giovani fedeli sono stati picchiati e una chiesa è stata incendiata.
New Delhi (AsiaNews) – Non si sblocca la situazione dei 4 bambini posti sotto custodia della polizia, che secondo alcuni radicali indù sarebbero stati “sequestrati e convertiti” da 4 suore di Madre Teresa. Il fatto è un segno ulteriore della campagna che i fondamentalisti indù hanno lanciato contro i cristiani. Ieri una chiesa anglicana è stata bruciata nel Madya Pradesh.
Lo scorso 5 settembre - anniversario della morte di Madre Teresa di Calcutta - quattro suore di Madre Teresa sono state aggredite da una ventina di attivisti del Bajrang Dal alla stazione ferroviaria di Durgh (Chhattisghar). I radicali indù le hanno costrette con la forza a scendere dal treno, consegnandole agli agenti di polizia mentre inneggiavano slogan anti-cristiani.
I fondamentalisti indù hanno accusano le suore – Sr. Mamta, la superiora, Sr. Ignacio, Sr. Josephina e Sr Laborius – di “sequestro e conversione forzata” di quattro bambini, di età compresa fra uno e due anni, che le religiose stavano portando dalla loro casa di Raipur al centro Charity Shishu Bhava, a Bhopal. Le suore avevano documenti che attestano la loro responsabilità verso i piccoli bisognosi di cure. Nell’attesa di verificare tutti i documenti, le suore hanno passato in prigione la notte fra il 5 e il 6 settembre.
Stamane Sr Mamta ha dichiarato ad AsiaNews che “i bambini sono ancora nell’ospedale governativo, mentre la polizia sta investigando sull’autenticità dei documenti”. Un ufficiale della polizia del distretto di Durg (Chhattisghar) ha detto che “il caso è sotto la responsabilità della polizia ferroviaria”.
“Tutti i nostri documenti sono validi – continua sr Mamta – ma siamo davvero impotenti: la polizia impiegherà tanto tempo per verificarli. Da parte nostra abbiamo esposto una prima denuncia. Ma queste procedure andranno per le lunghe e la nostra preoccupazione è che in questo modo non avremo tempo per dedicarci ai moribondi e agli altri bambini che hanno bisogno di noi”.
Intanto continua la campagna contro i cristiani e le pretese conversioni forzate o “pagate”. Dall’Orissa – teatro in queste settimane di un vero e proprio pogrom – la furia dei radicali indù sta spargendosi in altre regioni.
Ieri mattina una chiesa anglicana a Ratlam (Madya Pradesh) è stata distrutta dalle fiamme, la costruzione, antica di 86 anni e dedicata all’apostolo Bartolomeo, era tutta in legno ed è bruciata in poco tempo. I fedeli sospettano che gli autori siano gruppi radicali del Bajrang Dal (Bd, la stessa organizzazione che ha accusato le suore di Madre Teresa). Il Bd nega le accuse, attribuendo l’incendio a un corto circuito.
Da tempo la comunità di Ratlam è nel mirino dei fondamentalisti con l’accusa di esercitare conversioni forzate.
Il pastore Jose Mathew ha dichiarato che il 15 agosto gruppi del Vhp (Vishwa Hindu Parishad) e del Bd hanno attaccato un incontro di giovani, picchiando molti di loro, compreso un pastore, Satya, sua moglie e alcuni membri della ong World Vision. (NC)
Rischio e libertà nella Pubblica Amministrazione, di Roberto Albonetti, IlSussidiario.net, lunedì 8 settembre 2008
Oggi si parla molto di riforma della pubblica amministrazione, di new public management, di incrementi di efficienza e di efficacia. È una riforma possibile: non occorre essere i migliori amministratori del mondo né trovare una miniera d’oro per finanziare le richieste sempre crescenti di servizi di qualità. Si può fare molto, a risorse invariate e con il capitale umano di cui già disponiamo, come sembra voler dire il Ministro Brunetta con l’iniziativa “Non solo fannulloni”, che mira a scovare e condividere le migliori pratiche amministrative nazionali. Serve però il coraggio di buttare l’occhio fuori dal “palazzo” per scoprire quello che i cittadini e i corpi intermedi inventano e costruiscono per rispondere ai propri problemi. Serve la volontà di sostenere e favorire la società. Serve, in una parola, uno spirito di vera sussidiarietà.
L’ideale di una burocrazia perfettamente oliata, asettica e spersonalizzata è lontano anni luce da questa visione: occorre sapere rischiare e scommettere sulla libertà delle persone. Rischio e libertà fanno di una pubblica amministrazione una amministrazione sussidiaria. E rischi quando ti sposti dagli obiettivi ai risultati, scommetti sulle persone, lasci che siano loro a decidere dove andare, anche in direzioni totalmente diverse da quelle che avevi previsto. Allora sei costretto a riconoscere che i risultati non sono garantiti, perché non dipendono solo dall’azione amministrativa, ma dalla libertà delle persone che, sia dentro che fuori dall’amministrazione, si confrontano con una realtà complessa e mutevole.
Passa da qui la capacità della PA di innovare, ad esempio proponendo nuove modalità di finanziamento o di aggregazione delle risorse. Come sta accadendo in Lombardia con la dote, che ha completamente ribaltato i rapporti tra l’ente pubblico e gli stakeholder nel campo dell’istruzione, della formazione e del lavoro. Con la dote, infatti, le risorse seguono la persona, che è libera di scegliere l’offerta che più la soddisfa all’interno di una rete di operatori pubblici e privati accreditati, che competono per proporre servizi personalizzati. La Regione detta le regole, controlla il sistema e valuta i risultati, senza pretendere di gestire tutto in prima persona. Il fallimento del welfare state non è dunque la fine di tutto: può essere l’occasione di un nuovo protagonismo civile e sociale.
Cosa può facilitare questo processo in atto? Sicuramente il federalismo fiscale. In Italia lo Stato attua una gigantesca azione redistributiva tra Regioni, ma con grandi sprechi e senza diminuire le diseguaglianze tra le aree del Paese. Il punto di partenza per realizzare il federalismo è il superamento delle attuali modalità di trasferimento di risorse dallo Stato agli enti locali: è urgente approdare a un sistema che non faccia più riferimento alla "spesa storica", ossia al trasferimento di quanto speso negli anni precedenti, ma ai "costi standard", con l’individuazione dell'ottimale di costo per le diverse funzioni. Prendiamo il caso dell’istruzione, oggi finanziata centralmente dallo Stato attraverso il pagamento del costo del personale e delle spese di funzionamento degli istituti: anche così le disparità sul territorio nazionale sono rilevanti da tutti i punti di vista. Il finanziamento a costo standard permetterebbe invece di valutare realmente “quanto costa uno studente”, modificando di conseguenza i trasferimenti alle Regioni e superando anche l’inefficienza di tutti quei casi in cui l’educazione di un ragazzo viene pagata due volte, come per chi si iscrive a una scuola paritaria o per chi sceglie un corso di formazione professionale.
Il federalismo fiscale non è l’unico intervento necessario – occorre rivedere le modalità di reclutamento e gestione del personale, bisogna scommettere sul merito e sulla valutazione (dei risultati e non delle procedure), e investire decisamente sulla leva della formazione – e non è la panacea di ogni male, ma, se attuato con intelligenza, può diventare il volano per una efficace riforma della scuola e di tutta la pubblica amministrazione.
Un Fatto irriducibile a ogni moralismo, di Costantino Esposito, Ilsussidiario.ne, lunedì 8 settembre 2008
Come spesso succede nei suoi interventi, anche in quello apparso su la Repubblica del 5 settembre con il titolo «La Chiesa e i precetti dei teocon», Ezio Mauro riesce ad arrivare al fondo del problema. Qual è il posto, e più ancora il senso, della religione «nel discorso pubblico e nel fatto politico»? Nel momento stesso in cui sembrerebbe che essa sia tornata in grande stile al centro del dibattito culturale e politico di tutte le società secolarizzate del mondo, bisogna chiedersi – cercando di non farsi prendere dal prevedibile gioco di ruolo della politica italiana, aggiungeremmo noi – di che cosa si è trattato veramente. Secondo Mauro in Italia si è trattato del trionfo di un cristianesimo che da un certo punto in poi (più o meno «negli anni di potere del Cardinal Ruini») non è stato più concepito - e di conseguenza non è stato più proposto - come un «fatto», ma si è ridotto sempre di più a una «precettistica» morale e ai principi della «dottrina sociale» da far valere come valori di riferimento di un’intera nazione e della stessa legislazione dello Stato laico. In tal modo il cattolicesimo sembra aver riconquistato il campo perduto in passato in una società sempre più secolarizzata, ma in realtà rimpicciolendo ideologicamente la sua proposta a strumento di egemonia politica.
Ma questa massiccia riconquista etico-politica della società mostrerebbe ora le sue profonde crepe. Nella presa di distanza del portavoce della Sala stampa vaticana da un editoriale di Lucetta Scaraffia sull’Osservatore Romano a proposito di un tema “estremo” come quello della morte cerebrale (che non sarebbe più il termine ultimo della vita del corpo), e nella riaffermazione da parte delle competenti autorità della Santa Sede che dopo la morte cerebrale accertata va considerato morto anche il corpo, tanto da esser prevista e addirittura raccomandata come atto di carità cristiana la donazione degli organi – in tutto questo Mauro vede il segno evidente che comincia a sciogliersi l’abbraccio mortale tra l’etica cattolica e la cultura di una destra politica in cerca di sostegni morali. Un abbraccio, a detta di Mauro, che risulterebbe dannoso soprattutto per la Chiesa, perché la ridurrebbe ad essere un semplice strumento del potere, non più «una religione delle persone», ma una «religione civile».
La domanda che dunque ne nasce è: ma il cristianesimo può mai essere ridotto a regole morali, senza perdere la sua natura, cioè quella di essere un «avvenimento»? Sembrerebbe quasi di sentire l’eco di quelle provocazioni che continua a lanciare Benedetto XVI, come quando nell’Enciclica “Deus caritas est” scrive che «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona [in maiuscolo!], che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
Mauro richiama a questo proposito la «profezia» di don Giussani, il quale (in anni di predominio assoluto del “cattolicesimo democratico” dentro e fuori la Chiesa, aggiungeremmo noi) aveva parlato di una «prevalenza dell’etica rispetto all’ontologia», cioè dell’enfasi posta sui comportamenti virtuosi rispetto al fatto nuovo di Cristo.
Ma è appunto la natura di questo “fatto”, cioè la portata reale di questa “ontologia” che viene prima di ogni ideologia e si smarca rispetto a tutti le versioni del moralismo ciò che bisogna capire. E non per retrocedere dall’analisi culturale e politica nel campo privato della meditazione spirituale, ma al contrario proprio per comprendere di più i fattori in gioco nella situazione culturale e politica odierna.
E qui Mauro, dopo aver colto il nocciolo della questione, sembra farselo scivolare di mano, leggendo a sua volta con le categorie della strategia politica il fenomeno “irriducibile” del cristianesimo. Negli ultimi anni la Chiesa avrebbe preteso di essere la coscienza morale dell’Italia e di esprimere con le norme che valgono solo per i credenti un ordine della natura umana non riconosciuto da chi non crede, finendo in preda a un potere politico sostanzialmente pagano. Al suo posto, pare di capire, si dovrebbe tornare a concepire il cristianesimo e la Chiesa come un avvenimento pastorale e spirituale, che porta certamente il suo contributo allo sviluppo della società, ma a patto di rinunciare alla sua pretesa di essere la risposta al bisogno degli uomini. Questa sarebbe un’insopportabile presunzione di verità, che di fatto è alternativa alla concezione delle democrazie moderne, secondo cui nel campo pubblico possono esserci solo verità relative, senza poter riconoscere (se non privatamente, s’intende) niente di oggettivamente vero.
Il discorso naturalmente potrebbe essere rovesciato, ricordando (come hanno fatto anche pensatori laici come Habermas) che l’unità del corpo sociale non solo non esclude, ma esige e anzi nasce dal riferimento a un ordine “indisponibile” all’arbitrio, come è quello della persona umana nei suoi bisogni concreti. E si potrebbe anche ricordare (con Böckenförde) che lo Stato moderno è segnato da questa strana situazione, di doversi reggere su principi che esso stesso non può fondare.
Forse però vale più la pena chiedersi cos’è che interessa veramente in questa disputa. Se la posta in gioco è il ribaltamento di un’immagine culturale o di un posizionamento politico, tutta la battaglia contro il ruinismo, i teo-con e la riduzione del cristianesimo a messaggio etico viene fatta in nome di un altro moralismo, di segno opposto. In tal caso si tratterebbe solo di cambiare i valori (al posto della tutela della vita e della famiglia, il perseguimento della pace e la costruzione del dialogo interculturale), ma la sostanza resterebbe non toccata.
E la sostanza è la vita irriducibile della persona umana, dell’“io”, una realtà che – bisogna riconoscerlo – senza l’avvenimento del cristianesimo (cioè di una Persona) e l’esperienza della Chiesa nel corso dei secoli sarebbe ridotta letteralmente a nulla, tanto è forte il tentativo di ogni potere di impadronirsene per omologarla. Ma questa non è solo una gloriosa eredità del cattolicesimo italiano: è piuttosto un grande compito che va ripreso dalle radici, e che nessuno può dare più per scontato. Questo faceva dire a don Giussani che la responsabilità o meglio la passione dominante per i cristiani è l’educazione, cioè la comunicazione di un’esperienza di umanità cambiata, che arriva a mutare anche il senso della politica, ad esempio facendo sì che essa non venga concepita più come l’orizzonte ultimo della vita degli uomini e della società.
Mi sembra dunque che il vero problema oggi non sia se i cattolici debbano o non debbano proporre i loro valori nella società (in una convivenza democratica penso che questo sia un dato e un diritto ormai acquisito), ma se essi si riaccorgano da dove nascono quei valori. Una strategia ecclesiastico-democratica non è capace di arginare la deriva moralistica che copre un cinismo sempre più diffuso e una gravissima perdita del gusto di vivere. Se il punto è un avvenimento, lasciamo che accada.
8 settembre 2008, Che tipi strani, gli americani votano sulla vita, di Giuliano Ferrara, dal Foglio.it
Chissà perché in America il primo confronto tra i candidati alla Casa Bianca è stato affidato alle cure di un pastore evangelico, il capo della Saddleback Church, per parlare di come si crede, di come si prega, di come si vive e convive con il proprio Dio e con quello degli altri nel fuoco di una campagna presidenziale. Chissà perché il pezzo forte dell’intervista “parrocchiale” a Obama e McCain si è rivelato nella differenza delle loro risposte sulla vita umana. “Parte dal concepimento”, ha detto McCain. “E’ una risposta che va al di là delle mie competenze”, ha risposto Obama. Chissà perché la Convenzione democratica di Denver al termine dei lavori riuniva le migliaia di delegati in assorta preghiera. Tutti laici devoti?
Chissà perché la candidatura a vicepresidente di una madre antiabortista venuta dall’Alaska è esplosa come una bomba atomica e ha impresso una svolta antropologica e culturale decisiva all’andamento della campagna. Chissà perché Obama ha detto che non vorrebbe punire con un bambino le sue figlie, in caso di “errore”, e invece Sarah Palin esibiva come un glorioso e allegro trofeo della vita il piccolo Trig, sindrome di Down, tra i pochi sopravvissuti di un popolo umano in via di estinzione abortiva in tutto il mondo. Chissà perché tutti riconoscono che la posta in gioco segreta delle elezioni, quella ghiotta e insieme altamente drammatica, è la futura nomina di due giudici della Corte Suprema a rimpiazzo di uscite ormai improcrastinabili per ragioni di salute e di età. E tutti noi sappiamo che, insieme alla libertà civile, il compito della Corte Suprema potrebbe tornare ad essere quello di difendere la vita (“life, liberty and the pursuit of happiness”, com’è scritto nella Dichiarazione di Indipendenza).
Può essere che la questione della vita umana sia al di sopra delle competenze della democrazia americana ancora per qualche tempo, e in quel caso sarà eletto Obama, e un cambiamento in favore della vita e del buonumore sarà, non certo impossibile, ma più difficile. Può essere che invece le cose vadano diversamente. E allora è probabile che la questione aperta nel 1973 dalla sentenza Roe vs. Wade, il carattere di diritto personale e privato dell’aborto, venga rimessa in discussione. Sarà un momento decisivo, e bisognerà prepararsi. Se non si riuscisse a impostare in un modo nuovo la questione dell’aborto, prendendo atto del fatto che per quel crimine contro un altro e contro se stessi non c’è punizione legale possibile, ma che va combattuto con la più estrema radicalità e deve essere sottratto all’indifferenza morale che lo circonda, può succedere che ci si ritrovi di fronte a un nuovo abisso.
Ma c’è qualcosa di ancora più importante. Ricominciare a pensare liberamente. Finirla di credere, o fingere di credere, che le questioni di etica pubblica, di considerazione politica dell’esistenza umana moderna come problema, dipendano da una forzatura clericale verso l’autonomia della società secolare. Gli Ezio Mauro e i Giulio Giorello che passano il tempo, lodevolmente e autorevolmente, a stanare i teocon dovunque si nascondano, e qualunque cosa voglia dire questa buffa espressione, e sono così svelti a castigare o blandire i cardinali, a seconda del loro orientamento più o meno “ruiniano”, potrebbero fermarsi, tirare il fiato, e riflettere: in America non c’è un Concordato, c’è una ferrea separazione tra stato e chiese, eppure in questo modello civile appena esaltato dallo stesso Benedetto XVI la questione del significato e della verità del vivere ha una incredibile fortuna, gode di un’altissima considerazione, è sempre e da sempre al centro delle campagne elettorali accanto all’economia, alla politica estera, alla sicurezza nazionale. Invece di continuare a ripetere la solfa palloccolosa dei teocon e dell’interferenza della chiesa nella vita pubblica, sarebbe bene che chi pensa e ama la vita civile ricominciasse a porsi la questione riconoscendo che è un passaggio decisivo del mondo liberale e laico, e che la dissociazione di libertà e vita è lo sconquasso dei tempi moderni, non un complotto culturale della curia romana e dei suoi reggicoda reazionari.
ELEMENTARI. Q UANDO TORNARE INDIETRO NON È UN DELITTO - Un maestro per classe? - Sì, se questo aiuta a crescere, DAVIDE RONDONI, Avvenire, 7 settembre 2008
I l dibattito sulle faccende della scuola riguarda tutti. Non è solo vicenda da specialisti, poiché la vita della scuola, come genitori, alunni o anche solo come cittadini ci riguarda tutti.
Inutile scandalizzarsi, stupido spaventarsi quando vediamo scene di degrado giovanile se poi non ci si interessa della scuola. E non solo per criticare, che è lo sport inutile di uomini inutili. Lo stiamo vedendo in fenomeni anche tremendi: la colpa di distrazione sulla scuola dei padri sta ricadendo sui figli.
Anche chi come il sottoscritto non ha titoli particolari per entrare nell’attuale dibattito sul ritorno della figura del maestro unico – o docente prevalente, come suggeriscono alcuni che pure se ne intendono – capisce bene che sotto si agita una questione importante. Si chiama: la questione del riferimento autoritativo. Ieri il professor Bertagna ricordava su queste colonne da un lato l’impossibilità di riproporre il modello anni ’ 50-’ 60 del maestro solitario e dall’altro i dati che confermano un abbassamento dell’apprendimento a causa dell’introduzione dei cosiddetti moduli a tre docenti. Chi difende la figura del maestro unico rischia a volte di difendere una specie di autorità intesa come ' totem'. Come se per il fatto stesso di essere l’unica presente in classe quella figura potesse offrire ai nostri figli un’autorità certa nella scoperta della vita e nel suo studio. La posizione di autorità non è garanzia di autorevolezza. Così come la eventuale struttura tripartita o plurale della figura insegnante non è di per sé maggior garanzia di ampiezza. Però, poiché le idee si devono tradurre in certi casi in organizzazione e modelli, è chiaro che la presenza di un maestro unico o prevalente offre alle famiglie e ai ragazzini un metodo educativo in cui si favorisce il riconoscimento e il confronto con una autorevolezza. Chi non desidera questo modello finisce forse – magari senza volerlo – per confondere l’esperienza dell’autorevolezza e sostituirla con la dialettica. Per i primi il mondo si conosce meglio seguendo i passi di una guida che ti apre, con una sua ipotesi di lettura, l’orizzonte davanti agli occhi, che poi tu valuterai. Per gli altri l’educazione non è introduzione alla realtà e quindi non serve seguire un’autorità, ma il reale si ottiene grazie alla elaborazione di più punti di vista. Il problema non è quale sia più affascinante tra queste due visioni: si tratta di capire quale è più naturale, quale favorisce meglio il raggiungimento dello scopo della scuola che è insegnare ed educare. È dunque normale, fatale, direi pure salutare che la polemica esista e costringa tutti a rendersi conto. I dati sull’apprendimento danno ragione a chi vuole il maestro unico o prevalente. E dunque si vada su questa strada, aiutando il maestro con la possibilità di coordinare la presenza in classe di colleghi esperti su determinati ambiti; la religione, ma anche le lingue... Sperando, anzi facendo di tutto anche in termini di premiazione e stigmatizzazione, perché il maestro sia adeguato al suo mestiere, e ami la libertà e la crescita dei nostri figli. Si faccia tutti quel che ci è possibile perché i nostri figli incontrino una buona scuola.
Autorevole, cioè formatrice e educatrice di uomini liberi.
Care Br, rileggetevi Manzoni, MARIO SOLDATI DAVANTI AGLI ANNI DI PIOMBO
di Mario Soldati
La voce grigia del terrorista, che parlava al telefono per comunicare l’atroce notizia alla famiglia Moro, tremava di contenuta, delirante ebbrezza: era la voce di uno che conosceva finalmente il potere supremo, finalmente lo gustava. Macché sovvertire, destabilizzare. La voluttà del potere supremo bastava a tutto, si rivelava vero scopo di tutto. Che cos’era, in quel momento, il potere supremo, se non la consapevole, inebriante, atrocemente sublime libertà di operare il male?
E che cos’è la misura esatta del male se non la misura, egualmente esatta, del bene? In quel momento l’uomo dalla voce grigia era felice, sentiva di sfiorare una grande verità in cui non credeva più, forse dal tempo della sua infanzia.
Gli ultimi decenni hanno visto non tanto il crollo della borghesia quanto, nella borghesia e ancora più nella piccola borghesia, la scomparsa della religione, di una religione. Benedetto Croce, presago e allarmato di come andavano le cose, confessò per tempo in alcuni scritti la propria fede: che ovviamente riguardava la sostanza, lo spirito sempre nuovo e sempre vivo del cristianesimo, non i simboli, non i riti, non la lettera.
Certo, già prima e molto prima, esistevano i non reggimentali fedeli di quella religione che per brevità chiamiamo ' laica' forse in attesa di un termine più appropriato, esistevano coloro che senza credere, e anche senza credere di credere, si comportavano come se credessero, quasi li guidasse un segreto sensus Christi. Ma erano, eravamo relativamente pochi. Molti, i più attivi, si erano dichiarati « atei » , e avevano sostituito all’antica religione una nuova religione: al cristianesimo, il comunismo: alla fede in una giustizia ultraterrena, la fede nel progresso e nel paradiso in terra promesso da Marx.
Crollò, attraverso la progressiva conoscenza dell’esperimento sovietico, prima per qualcuno, poi a poco a poco per molti, e infine per tutti quanti, quella fede in un comunismo trascendente: purtroppo, crollò contemporaneamente, almeno da noi, un’altra illusione: che il boom industriale- tecnologicoconsumistico potesse continuare senza che noi subissimo un trauma.
Ma non fu la classe operaia quella che più soffri del trauma. La classe operaia, anche se soltanto le madri e forse le mogli andavano ancora a messa, adottò a sua volta, più o meno coscientemente, la fede laica. Furono i borghesi, i piccoli borghesi intellettuali, i piccoli tecnici o tecnologi, i piccoli filosofi o sociologi, furono loro a accusare il colpo: loro, i più ambiziosi, i più avidi di potere, i più impazienti di una rinascita che ormai si erano abituati a ritenere prossima: loro, i più illusi, e adesso i più delusi. I quali dicevano e dicono a se stessi: ormai sappiamo che i preti hanno torto da sempre, non abbiamo più fede in Dio, e questo va bene; ormai sappiamo che Marx ha ragione per sempre, noi abbiamo ancora tutta la nostra fede nel progresso, e anche questo va bene: ma, intanto, le cose per noi vanno male, malissimo, e purtroppo non c’è speranza che vadano meglio prima della fine della nostra vita!
Mentre intorno a noi molti lavorano, guadagnano, godono di un certo benessere, lusso, potere, noi e i nostri compagni, i nostri amici, tutti quelli come noi odiati, emarginati, isolati proprio per il nostro ostinato, smanioso, precipitoso, generoso sogno di giustizia, noi che cosa possiamo fare?
Rispondere con l’odio all’odio, intanto: questo possono fare. Ma la loro impazienza è, in fondo, soltanto la pigrizia di chi si pone ideali troppo alti e troppo lontani per essere scusato se non li raggiunge, e per non faticare a compiere i piccoli passi successivi che sarebbero necessari a ogni profondo rivolgimento culturale e politico.
Sono, così, precipitati in uno smarrimento della ragione, affannati da un disordine del cuore, devastati da un’angoscia esistenziale: hanno perso la strada della vita, neanche il bene sanno più dove sia.
Tutti loro - parlo dei terroristi italiani, naturalmente, e parlo soprattutto dei loro capi che sappiamo persone istruite hanno letto l’ultima pagina dei Promessi sposi, e forse la ricordano benissimo, anche se nel sarcasmo. Ma nessuno di loro ha ormai il sospetto che quella pagina ( « i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione... » ) è simbolica oltre le idee del Manzoni medesimo, è valida indipendentemente da qualunque dogma religioso, insomma coincide con quel sensus Christi che dicevamo. Possiamo, del resto, prenderla anche alla lettera. Con santa malizia il Manzoni parla di «una vita migliore» e non dice che necessariamente questa vita migliore sia soltanto ultraterrena. Ma proprio questa verità umile e immediata è lontanissima dal cuore dei terroristi.