lunedì 29 settembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) L’Europa non sia complice di chi nega la libertà religiosa - Mario Mauro - lunedì 29 settembre 2008 – IlSussidiario.net
2) SOCIETÀ LIQUIDA/ Legami familiari e culturali: l'unica “rete” a darci un senso di identità - Eugenia Scabini – IlSussidiario.net - lunedì 29 settembre 2008
3) DNA/ La vita dell'uomo ebbe origine da un unico evento nella storia - Marco Pierotti - lunedì 29 settembre 2008 – IlSussidiario.net
4) VALORI/ Quella speranza utopica di Magris e Rusconi - Redazione - lunedì 29 settembre 2008 – IlSussidiario.net
5) Il ricordo di Paul Newman, “gli occhi blu” del cinema - Redazione - domenica 28 settembre 2008, IlSussidiario.net

L’Europa non sia complice di chi nega la libertà religiosa - Mario Mauro - lunedì 29 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Oggi a Marsiglia Unione europea e India si incontreranno per definire il futuro del proprio rapporto strategico-politico. L’Europa riafferma il suo supporto per il rafforzamento delle relazioni strategiche tra le due più vaste entità democratiche del mondo, che sono chiamate a raggiungere risultati concreti sotto l’aspetto economico, politico, della sicurezza, della non proliferazione nucleare e sotto altri aspetti di mutuo interesse come la promozione della diversità culturale. Grazie ad una Risoluzione del Parlamento europeo, il tema della difesa dei cristiani e della qualità della democrazia indiana entra con forza nei lavori del summit.
C’è ancora grande preoccupazione per la situazione delle minoranze cristiane, in particolar modo nello stato dell’Orissa, e per l’impatto che le leggi anti-conversione diffuse in diversi Stati dell’India possono avere sulla libertà religiosa, anche considerando il fatto che non c’è stato effettivo intervento della polizia durante gli attacchi che hanno portato all’uccisione di almeno 37 cristiani e che i leader di Vishwa Hindu Parishad hanno dichiarato che la violenza non cesserà fino a quando l’Orissa non sarà totalmente liberata dai cristiani. La Risoluzione chiede che le “autorità indiane mettano fine ad ogni violenza contro le comunità cristiane e permettano loro di professare la loro fede liberamente”.
Il summit Ue-India deve diventare l’occasione per esprimere la nostra condanna per i recenti attacchi contro i cristiani in Orissa e nel Distretto di Kandhamal in particolare, e per pretendere di garantire immediata assistenza e supporto alle vittime, includendo in ciò le compensazioni alla Chiesa per i danni inflitti alle sue proprietà e agli individui, le cui proprietà private hanno subito simili danni, e che venga permesso a tutte le persone costrette a fuggire dai propri villaggi durante gli attacchi di tornare liberi a casa propria. È molto urgente che tutti i responsabili delle violenze, compresi i membri della polizia vengano velocemente condannati. Tutto questo non deve essere una proposta delle tante, ma una vera e propria pretesa nei confronti del Governo indiano. Deve essere l’argomento prioritario, sul quale discutere senza se e senza ma. Non possiamo più tollerare fatti come quelli accaduti poco più di una settimana fa, quando Iswar Digal e Purinder Pradhan sono stati uccisi e tagliati a pezzi. O come la vicenda di Padre Samuel Francis, 50 anni, che è stato ritrovato morto lunedì mattina, con mani e piedi legati nella cappella dell’ashram in cui viveva, nel villaggio di Chota Rampur.
Durante il dibattito in Aula di mercoledì 24 settembre a Bruxelles ho contrastato con forza le sconcertanti premesse al Summit Ue-India poste dal Commissario alle relazioni istituzionali, la svedese Margot Wallstrom e dal Ministro francese per le politiche europee Jean Pierre Jouyet, intervenuto per conto della presidenza francese del Consiglio. Ho fatto notare che la differenza fra la Risoluzione del Parlamento e le loro introduzioni risulta essere il fatto che, come spesso capita a titubanti istituzioni sovranazionali, non hanno trovato il coraggio di parlare dei massacri di questi giorni, di condannare con forza il venir meno della libertà religiosa in India. Un segnale molto grave, che mi ha fatto pensare che ci saremmo introdotti al vertice che comincia oggi senza avere il coraggio di affrontare la questione centrale: una vera amicizia tra Unione Europea e India passa attraverso il richiamo alla dignità della persona.
Ma per quale motivo dobbiamo avere a cuore la libertà religiosa in tutto il mondo? Per quale motivo una civiltà come la nostra non può permettere che vengano uccise persone in nome del loro credo religioso? E soprattutto per quale motivo il tema della libertà religiosa deve costituire addirittura, come diceva Giovanni Paolo II, “la cartina di tornasole per il rispetto di tutte le altre libertà”?
Perché la libertà religiosa non è una libertà come le altre, sulla libertà religiosa si fonda la qualità di una democrazia. Proprio nell’Aula del Parlamento europeo l’ex Presidente indiano, lo scienziato Abdul Kalam, qualche tempo fa, ci ha raccontato come ha imparato, in una scuola cristiana, non solo l’amore per la conoscenza ma anche la distinzione tra religione e politica. Non dobbiamo mai dimenticare che la libertà religiosa è fondamento per lo sviluppo della democrazia e quindi rende possibile un compito comune, nel quale in amicizia è possibile ricordarci vicendevolmente che la violazione dei diritti umani è la fine di un rapporto di verità.
Dobbiamo avere questo coraggio, se non ci assumiamo come istituzioni europee oggi a Marsiglia questa responsabilità, ci rendiamo complici di una vera e propria degenerazione della democrazia.

SOCIETÀ LIQUIDA/ Legami familiari e culturali: l'unica “rete” a darci un senso di identità - Eugenia Scabini – IlSussidiario.net - lunedì 29 settembre 2008
Baumann usa spesso immagini suggestive che catturano alcune modalità del vivere odierno. Così è l’immagine della rete, a significare un certo modo di entrare e uscire dalle relazioni, vissute contingentemente, che fotografa uno stile di vita diffuso, soprattutto nelle generazioni più giovani e nella opulenta società occidentale.
Ma, e qui sta il punto, la rete ha un centro o no? Che ne è del soggetto che sta al centro della rete? Che ne è della sua identità? L’identità si costruisce giorno per giorno (e questo è l’aspetto costruttivo) ma certamente non sul nulla bensì a partire da un terreno costituito dai legami significativi, in primis quelli familiari. Questa struttura relazionale, con i suoi significati simbolici e culturali è l’humus nel quale il soggetto umano nasce (preceduto fin nell’utero da attese familiari e interazioni con la madre che oggi sappiamo arrivare fino a lui), che lo accoglie nei primi anni di vita, costituendo quel nocciolo duro dell’identità con i suoi “modelli operativi interni” (per usare una terminologia cara alla teoria dell’attaccamento) e le modalità di identificazione che il soggetto umano si porta appresso per tutta la vita e con le quali dovrà fare necessariamente i conti.
Dalla clinica psicologica di orientamento intergenerazionale, che ha una lunga e importante tradizione, sappiamo come i legami familiari, non solo prossimi ed in atto, ma anche lontani nel tempo, hanno un ruolo cruciale nel forgiare l’identità del soggetto e che hanno effetti psichici che si manifestano anche dopo generazioni. I legami familiari vivono di affetti e di responsabilità stringenti. Borzormeny-Nagy e Spark con un’espressione vivida sostengono da tempo che fibre invisibili di lealtà legano il soggetto umano alle generazioni che lo hanno preceduto e a quelle che sono in atto sulla scena e che una sofisticata dinamica di scambio, che ha sia un versante simbolico, di senso, che di azione, lega il soggetto al suo corpo familiare, che è appunto invisibile, se si vuole come la rete di Baumann ma non certo priva di vincolo. Ecco, il tema del vincolo, questo il grande assente dalle riflessioni di Baumann.
La rete di Baumann può non avere storia ed essere solo frutto della scelta contingente del soggetto. Ma il soggetto umano ha una storia che lo nutre, nel bene e nel male, e che lo vincola e dalla quale la scelta del soggetto non può prescindere.
Ognuno di noi viene al mondo entro relazioni primarie (si chiamano appunto primarie quelle familiari perché sono a fondamento dei legami anche sociali) specifiche, entro una cultura specifica, che ci precede e che in alcun modo nessuno di noi può scegliere. Nelle relazioni familiari, cioè in quello che oggi si usa dire nell’ambito degli affetti più cari, la scelta è limitata. Nessuno può scegliere in che famiglia nascere, i coniugi possono scegliere di non continuare la loro relazione ma non possono mai diventare ex genitori. Monica Mc Goldrick, nota terapeuta familiare che proviene da un ambiente culturale che di certo non sottovaluta il peso della scelta, così si esprime “quando i membri della famiglia considerano le relazioni familiari come una scelta, lo fanno a danno del proprio senso di identità e della ricchezza del loro contesto emozionale e sociale”. Con la nostra storia familiare, ma anche con la storia della cultura nella quale nasciamo e con la storia di tutti i legami significativi che incontriamo nella vita noi dobbiamo fare i conti e la scelta non è certo leggera e solo “giocosa” come Baumann dice. (Che dire ad esempio dei legami passionali che agitano, letteralmente fino alla morte, come ci fa vedere purtroppo la cronaca ogni giorno, la vita dei coniugi che si separano?) Tale storia dei legami noi possiamo subirla, contestarla, modificarla, trasformarla.
Possiamo anche, e questo è veramente il pericolo, negarla, de-negarla, presi da una forma di cecità. Non avere occhi per vedere la potenza, positiva e al tempo stesso anche drammatica, della storia dei legami ci priva della possibilità di dare spessore e sapore a ciò che costituisce la nostra identità in quanto “persona”, cioè essere costitutivamente in relazione. E la negazione, come si sa, è un meccanismo tra i più primitivi della mente umana. Come dire che non si fa tanta strada usandola.


DNA/ La vita dell'uomo ebbe origine da un unico evento nella storia - Marco Pierotti - lunedì 29 settembre 2008 – IlSussidiario.net
È affascinante, e in qualche modo stupefacente, che le moderne tecnologie della biologia molecolare affiancate alle più tradizionali metodologie dello studio dei fossili possano cominciare a dare delle risposte ad una delle domande fondamentali che l’uomo si pone : “da dove veniamo”. L’analisi dell'architettura del DNA ha rivelato che l’informazione in esso contenuta è veicolata dal modo in cui sono disposte, in diverse sequenze di lunghezza variabile, le quattro molecole contraddistinte dalle lettere dell’“alfabeto della vita” A,T,C,G. L’analisi di tale architettura ha rivelato che, in un quadro di sostanziale costanza dei messaggi (sequenze) scritti con queste lettere,esistono variazioni (polimorfismi) che cambiano una di queste in posizioni omologhe nei diversi DNA. Tecnicamente queste variazioni sono definite SNPs (Single Nucleotide Polymorphisms). Analizzando questi SNPs in DNA diversi è poi possibile tracciare le relazioni esistenti tra questi ultimi: i rapporti di parentela tra i diversi individui, le relazioni tra le diverse popolazioni ecc. In altre parole quanto più sono condivisi molti SNPs tanto più stretti sono i vincoli tra le persone da cui il DNA esaminato proviene. Dal punto di vista numerico basti pensare che l’intero codice genetico è composto di 3 miliardi di lettere e che uno SNPs può essere trovato ogni mille di queste ultime. Disponiamo , quindi, di circa 3 milioni di “marcatori” con cui caratterizzare i DNA dei singoli individui. Un altro aspetto che ci permette di capire l’approccio sperimentale e di valutarne le conclusioni è dato dal fatto che anche il cromosoma Y , caratterizzante gli individui di sesso maschile, contiene SNPs, come pure il DNA dei mitocondri. Il primo fatto ci dice che, ovviamente, possiamo usare ciò per stabilire relazioni di vicinanza ovvero di distanza genetica tra soggetti di sesso maschile. La questione legata ai mitocondri è invece per certi aspetti più interessante. Questi ultimi, infatti, sono delle strutture intracellulari specializzate in funzioni legate alla “respirazione” della cellula e sono caratterizzate dall’interessante proprietà di essere le uniche strutture cellulari al di fuori del nucleo ad avere un proprio DNA che si replica autonomamente. Inoltre, essi sono contenuti nell’oocita e non negli spermatozoi: i mitocondri presenti in tutte le nostre cellule derivano solamente dal sesso femminile, ossia dalle madri. Tutto ciò rende lo studio del DNA mitocondriale e dei suoi SNPs assolutamente importante per tracciare la storia dell’origine del genere umano e seguire i suoi flussi migratori.
Cosa ci hanno indicato questi studi? Paragonando i profili di questi SNPs in individui di diverse popolazioni di diverse parti del mondo e combinando questi dati con quelli ottenuti da reperti fossili, i ricercatori hanno potuto stabilire che il genere umano si è diffuso nel mondo attraverso una serie di migrazioni che sono originate da una singola località vicino all’attuale Addis Ababa in Etiopia e che questo è accaduto all’incirca 100.000 anni fa. Nessun elemento in nostro possesso contraddice, quindi, l’ipotesi di una nostra origine da una singola Eva africana, conclusione di una qualche suggestione e di grande interesse. L’origine dell’uomo da un singolo avvenimento trova d’altra parte un possibile riscontro in un ambito ancora più ampio e speculativo che è quello sull’origine della vita.
Senza entrare troppo in tecnicismi, ma invitando il lettore ad approfondire questo concetto, è noto che due mattoni della materia vivente, gli amminoacidi e i carboidrati, quando vengono colpiti da luce polarizzata la deviano a destra (forma R) o a sinistra (forma L). In altre parole esistono due possibili configurazioni per queste molecole. Producendo in laboratorio per sintesi queste due famiglie di molecole si generano entrambe le forme (racemo). Al contrario, in natura , in tutti i viventi gli amminoacidi hanno solo la forma L e i carboidrati biologicamente rilevanti solo la forma R. Questo porterebbe a concludere che la vita ha avuto origine da un singolo, unico evento.
È facile immaginare quante e quali conseguenze queste considerazioni possano avere, specialmente in tempi in cui, come riporta nel numero del 25 settembre la seguitissima e autorevole rivista Nature, il direttore dell’educazione della Britain’s Royal Society , Michael Reiss, è stato costretto a dimettersi in seguito a certi suoi commenti su alcuni aspetti della teoria del “creazionismo” che lo avevano fatto ritenere sostenitore di quest’ultima e con ciò incompatibile con l’incarico ricoperto.


VALORI/ Quella speranza utopica di Magris e Rusconi - Redazione - lunedì 29 settembre 2008 – IlSussidiario.net
Gli articoli che Claudio Magris e Gian Enrico Rusconi hanno pubblicato rispettivamente sul Corriere della Sera giovedì 25 settembre 2008 il primo, e sulla Stampa venerdì 26 settembre il secondo, dedicati entrambi al tema della speranza meritano una riflessione approfondita poiché toccano uno dei valori fondamentali più dimenticati dall’attuale società e del quale non si riesce – forse – più a comprenderne l’origine e il significato.
A Magris si può senz’altro riconoscere il merito di aver ripreso la questione della speranza all’interno di una riflessione vasta e composita, nella quale un importante risultato è stabilito dall’idea che la speranza costituisca un motore fondamentale per la conoscenza, anzi, che essa rappresenti una «conoscenza profonda e oggettiva perché sa che quel seme può diventare fiore e frutto», riprendendo – di fatto – quella nozione di progresso di cui è permeata tutta la nostra società a partire dall’epoca moderna. Che questo, poi, si sposi con un’idea di speranza-utopia alla Bloch, è un assunto che Magris non spiega ma, mi sembra, dia per assunto. È evidente, infatti, che, in una prospettiva laica, la speranza non può che essere collegata a un’immagine futura della realtà, una possibilità che incida non tanto durante la vita di ogni giorno, quanto su una credenza in una realtà ultra terrena. Che insomma, come Magris scrive, si possa pensare alla speranza solo nei termini di un’utopia, vale a dire nei termini di una forza che vada oltre la storia; accomunando in questo ebrei e cristiani, e commettendo un grave errore. Una speranza, infatti, che “serva” soltanto a rassicurare l’uomo sull’al di là, non ha nulla a che vedere con la speranza cristiana. A differenza del popolo ebraico che vive nella “speranza” di una promessa, per il cristiano la speranza nasce non da un’attesa, ma da una realtà. Così come, del resto, emerge da una lettura un po’ più attenta del testo di Peguy che lo stesso Magris cita: la “piccola” speranza, infatti, piccola tra le sue “grandi” sorelle – la fede e la carità –, ha origine dal riconoscimento di una grande grazia ottenuta.
Non è da un’attesa, allora, ma da qualcosa che si è palesato nella storia dell’uomo, da una presenza, che nasce la speranza. Per questo la speranza del cristiano non può essere confusa con una delle tante forme di utopie che pure hanno attraversato l’epoca moderna: né l’utopia scientista o materialista, né quella spiritualista laica, come la definisce Rusconi, potrà mai garantire all’uomo una speranza reale, una speranza, cioè, per cui vale la pena vivere, sino a dare tutto se stessi. Di una speranza, infatti, che si nutre soltanto dell’osservanza di una legge morale (Rusconi), o della convinzione che il mondo potrà essere sempre meglio amministrato (Magris), l'uomo non avverte la necessità, poiché sa che la sua speranza, ultimamente, sarebbe in mano a un qualche potente di turno (magistrato, medico o politico) che si crogiola nel suo successo contingente.
Non è una scienza o una “morale laica” che potrà essere garante della speranza, ma l’aver “ricevuto una grande grazia”, come scriveva Peguy, un grande amore, – come sembra fargli eco Benedetto XVI nella sua Enciclica Spe Salvi – che costituisca un segno “intramondano” della possibilità di una redenzione già in questo mondo. Non un’utopia muove la storia, ma la certezza di un amore presente e perenne, un amore che si è palesato nella storia avendo la pretesa di essere origine e scopo della speranza che vi è nell’uomo. Altro che “escamotage” o sconti: è con questa pretesa che l’uomo di tutti i tempi si è paragonato, giudicando se il suo desiderio di felicità non potesse che trovare soddisfazione nell’infinita misericordia di un Dio che si è fatto uomo.
(Paolo Ponzio)


Il ricordo di Paul Newman, “gli occhi blu” del cinema - Redazione - domenica 28 settembre 2008, IlSussidiario.net
Due fasci di luce azzurra - rivelatisi tali solo a poco a poco, inquadratura dopo inquadratura - si alzano a perpendicolo squarciando il buio della notte, ad indicare il luogo dove sorgevano le Torri Gemelle. Questo il potente prologo del primo film a mostrare e considerare le tante ferite newyorkesi post 11 settembre 2001, prima fra tutte il gigantesco cratere di Ground Zero. È La 25ª ora (2002, Spike Lee), il racconto dell’ultima giornata di libertà che separa lo spacciatore Montgomery Brogan (Edward Norton) da sette anni di reclusione nel carcere di Otisville. Una canaglia certo, ma dal cuore d’oro, nel cui appartamento vediamo campeggiare una vecchia locandina con un inconfondibile profilo di attore e due uniche scritte, quella del protagonista seguita dal titolo dell’opera: PAUL NEWMAN, COOL HAND LUKE. E ad unirle l’immagine dello stesso con le mani incrociate dietro la nuca. E le catene ai piedi.
È così che va, non ci si può far niente. Anche chi non se ne interessa o vi passa solo accanto, si porta nella testa, venendone magari involontariamente accompagnato per il resto della vita, nascosta chissà dove nella memoria e pronta a riemergere quando meno ce lo si aspetta, un’immagine proveniente direttamente dall’immaginario cinematografico, fosse solo perché “canonicamente” legata a certi modi di dire o a un repertorio visivo ormai comune.
Ognuno potrebbe stilare tranquillamente, ne siamo certi, la sua lista, più o meno personale, più o meno influenzata da questo “canone”, dalle bighe in corsa nel circo di Antiochia a due innamorati abbracciati sulla prua del più sfortunato transatlantico del mondo. Anche noi abbiamo la nostra. Molto personale. E lì in mezzo sappiamo che c’è uno sguardo, due occhi, “gli” occhi, incrociati sfortunatamente - per motivi anagrafici - solo nelle serate in famiglia sul piccolo schermo, almeno per quanto riguarda il periodo di loro maggiore vivacità. Due occhi che trasmettevano, a seconda delle storie e dei personaggi cui prestavano la propria intensità, misurata eleganza, sottile ironia, sfrontata spavalderia, talvolta rabbia repressa e distillata malinconia. Mai rassegnazione.
Non erano stati dati occhi così per comunicare rassegnazione. No, non si poteva incontrare questo sguardo per poi sentirsi lasciati da soli, fosse pure una storia di banditi e fuorilegge. Nella notte di venerdì scorso, 26 settembre, questi occhi, come ci era stato detto doveva accadere, si sono chiusi. Chiusi ma non spenti, almeno fino a quando esisteranno anche solo pochi metri di pellicola che ne tramanderanno la luce. Circondato dalle premurose attenzioni dei propri familiari tra le mura domestiche nella campagna di Westport (Connecticut), l’ottantatreenne divo, attore, autore e filantropo Paul Newman se n’è andato per un male incurabile ai polmoni.
Come riassumere una delle più luminose e generose carriere della storia del cinema del secondo Novecento? Con lampi per forza di cose sintetici, che vogliono solo suggerire una (ri)scoperta, più che dettagliare una strada che si vorrebbe già esaurita e saputa, lasciando da parte il ricordo di inutili e troppo tardivi riconoscimenti a fronte di cinquant’anni di lavoro dal valore incalcolabile.
Classe 1925 (nasce il 26 gennaio a Shaker Heights, un sobborgo nei dintorni di Cleveland, in Ohio), entrambi i genitori americani di seconda generazione (il padre discende da una famiglia di ebrei tedeschi mentre la madre da una di cattolici ungheresi), in pieno conflitto mondiale il diciottenne Paul Leonard Newman si arruola in Marina dovendo però evitare il servizio attivo per un difetto di quegli occhi azzurri che faranno la sua fortuna al cinema: non possono riconoscere certi colori, sono daltonici.
Terminata la guerra e ripresa l’università, si laurea nello stesso anno in cui perde il padre: è il 1949. Deve così forzatamente rilevare l’attività commerciale paterna, un negozio di articoli sportivi. Un compito che cede volentieri, di lì a poco più di un anno, al fratello in modo da poter frequentare prima i corsi di arte drammatica alla Yale Drama School e, una volta giunto a New York, il famoso Actors Studio.
Dopo trascurabilissime partecipazioni televisive, come quelle a The Aldrich Family (1949) e Tales of Tomorrow (1951), nei primi anni Cinquanta ecco i primi ruoli a Broadway e l’esordio al cinema, come emulo di Marlon Brando e James Dean. Il successo arriva con la parte del pugile Rocky Graziano in Lassù qualcuno mi ama (1956, Robert Wise) mentre la definitiva consacrazione è del 1958, suo vero e proprio annus mirabilis. È infatti protagonista di tre pellicole: Furia selvaggia di Arthur Penn, dove veste i panni del pistolero Billy The Kid; La lunga estate calda di Martin Ritt, recitando accanto all’amatissima seconda moglie Joanne Woodward e al gigante Orson Welles; La gatta sul tetto che scotta di Richard Brooks, in cui deve vedersela con Elizabeth Taylor.
Gli anni Sessanta sono invece quelli, tra gli altri, de Lo spaccone (1961, Robert Rossen) e del già citato Nick mano fredda (1967, Stuart Rosenberg), nonché quelli dell’inizio del sodalizio con il regista George Roy Hill e l’attore Robert Redford: se nel 1969 tocca al western in cadenze moderne Butch Cassidy, il 1973 è la volta de La stangata. Permettendosi anche un’incursione, in compagnia di altre “stelle”, nel genere catastrofico anni Settanta con il celebre L’inferno di cristallo (1974, John Guillermin), non prima di prestare il volto al tanto mitico quanto rude giudice Roy Bean nel western, sceneggiato da John Milius, L’uomo dai sette capestri (1972, John Huston).
Gli anni Ottanta lo vedono ancora sugli scudi con Il verdetto (1982, Sidney Lumet), mentre ne Il colore dei soldi (1986, Martin Scorsese) riprende il personaggio di Eddie Felson (il giocatore di biliardo cui ha dato vita venticinque anni prima per Lo spaccone) a fianco di un giovane Tom Cruise a inizio carriera.
E poi pellicole quali Mr. & Mrs. Bridge (1990, James Ivory), Mister Hula Hoop (1994, Joel Coen), La vita a modo mio (1994, Robert Benton) e Le parole che non ti ho detto (1999, Luis Mandoki), regalando l’ultima, grande interpretazione, prima dell’annunciato ritiro dal mondo del cinema, in Era mio padre – Road to Perdition (2002, Sam Mendes).
Come ha scritto il critico statunitense Leonard Maltin, Paul Newman è stato «una figura essenziale nella storia del cinema, il divo di passaggio tra le star inarrivabili dell’età d’oro di Hollywood e i più credibili attori che li sostituiranno a partire dagli anni Sessanta».
Grazie di tutto e a presto, “Occhi Blu”.
(Leonardo Locatelli)