giovedì 23 ottobre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) All'udienza generale il Papa parla dell'insegnamento paolino sulla centralità di Cristo - Il principio per capire il mondo - Non è con la superbia ma con l'umiltà che l'uomo si eleva a Dio e realizza pienamente l'amore. Lo ha ricordato il Papa nella catechesi - dedicata all'insegnamento paolino sulla centralità di Cristo - durante l'udienza generale di mercoledì 22 ottobre, in piazza San Pietro, L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2008.
2) In Vietnam la Chiesa non ha paura. Il regime comunista sì - Perché vede nella Chiesa cattolica un luogo di libertà, da tutti desiderata. E allora la schiaccia, per arrestare il contagio. Il reportage di un inviato sul campo - di Sandro Magister
3) 23/10/2008 11:05 – ASIA - L’Asia, il continente delle violazioni della libertà di religione - Dal “Rapporto 2008 sulla Libertà Religiosa nel mondo” di “Aiuto alla Chiesa che soffre”, presentato oggi, risulta che sono asiatici 10 dei 13 Paesi del mondo ove si registrano “gravi limitazioni alla libertà religiosa” e 15 dei 24 nei quali esistono “limitazioni”.
4) Lettera di Alessio II a Benedetto XVI - Testimonianza comune per proclamare il Vangelo all'uomo d'oggi , L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2008
5) I fondamenti della morale cristiana - La pienezza dell'agire ha un volto - Il libro di Livio Melina, José Noriega e Juan José Pérez-Soba Camminare nella luce dell'amore (Siena, Cantagalli, 2008, pagine 680, euro 42) viene presentato mercoledì 22 ottobre a Roma, presso l'Istituto Giovanni Paolo ii per studi su Matrimonio e Famiglia. Pubblichiamo uno stralcio della relazione tenuta per l'occasione dal cardinale vicario generale emerito per la diocesi di Roma.- di Camillo Ruini – L’Osservatore Romano
6) ELEZIONI USA/ George (Princeton): c'è una ragione fondamentale per non votare Obama - INT. Robert George – IlSussidiario.net - giovedì 23 ottobre 2008
7) Gerusalemme incontra l’epopea della libertà - Roberto Fontolan - giovedì 23 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) CONVEGNO/ Lo spirito distruttore del neopaganesimo bolscevico - Redazione - giovedì 23 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) MEDICINA/ Il Papa richiama al rapporto medico-paziente come premessa di ogni cura - Redazione - giovedì 23 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
10) INSEGNANTI/ Raccontare la professione facendo scuola - Associazione Diesse - giovedì 23 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
11) FRONTEGGIARE LA CRISI - ARRIVATA L’ORA DI CURVARSI SULLE FAMIGLIE - GIANFRANCO MARCELLI – Avvenire, 23 ottobre 2008


All'udienza generale il Papa parla dell'insegnamento paolino sulla centralità di Cristo - Il principio per capire il mondo - Non è con la superbia ma con l'umiltà che l'uomo si eleva a Dio e realizza pienamente l'amore. Lo ha ricordato il Papa nella catechesi - dedicata all'insegnamento paolino sulla centralità di Cristo - durante l'udienza generale di mercoledì 22 ottobre, in piazza San Pietro.
Cari fratelli e sorelle,
nelle catechesi delle scorse settimane abbiamo meditato sulla "conversione" di san Paolo, frutto dell'incontro personale con Gesù crocifisso e risorto, e ci siamo interrogati su quale sia stata la relazione dell'Apostolo delle genti con il Gesù terreno. Oggi vorrei parlare dell'insegnamento che san Paolo ci ha lasciato sulla centralità del Cristo risorto nel mistero della salvezza, sulla sua cristologia. In verità, Gesù Cristo risorto, "esaltato sopra ogni nome", sta al centro di ogni sua riflessione. Cristo è per l'Apostolo il criterio di valutazione degli eventi e delle cose, il fine di ogni sforzo che egli compie per annunciare il Vangelo, la grande passione che sostiene i suoi passi sulle strade del mondo. E si tratta di un Cristo vivo, concreto: il Cristo - dice Paolo - "che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me" (Gal 2, 20). Questa persona che mi ama, con la quale posso parlare, che mi ascolta e mi risponde, questo è realmente il principio per capire il mondo e per trovare la strada nella storia.
Chi ha letto gli scritti di san Paolo sa bene che egli non si è preoccupato di narrare i singoli fatti in cui si articola la vita di Gesù, anche se possiamo pensare che nelle sue catechesi abbia raccontato molto di più sul Gesù prepasquale di quanto egli scrive nelle Lettere, che sono ammonimenti in situazioni precise. Il suo intento pastorale e teologico era talmente teso all'edificazione delle nascenti comunità, che gli era spontaneo concentrare tutto nell'annuncio di Gesù Cristo quale "Signore", vivo adesso e presente adesso in mezzo ai suoi. Di qui la caratteristica essenzialità della cristologia paolina, che sviluppa le profondità del mistero con una costante e precisa preoccupazione: annunciare, certo, il Gesù vivo, il suo insegnamento, ma annunciare soprattutto la realtà centrale della sua morte e risurrezione, come culmine della sua esistenza terrena e radice del successivo sviluppo di tutta la fede cristiana, di tutta la realtà della Chiesa. Per l'Apostolo la risurrezione non è un avvenimento a sé stante, disgiunto dalla morte: il Risorto è sempre colui che, prima, è stato crocifisso. Anche da Risorto porta le sue ferite: la passione è presente in Lui e si può dire con Pascal che Egli è sofferente fino alla fine del mondo, pur essendo il Risorto e vivendo con noi e per noi. Questa identità del Risorto col Cristo crocifisso Paolo l'aveva capita nell'incontro sulla via di Damasco: in quel momento gli si rivelò con chiarezza che il Crocifisso è il Risorto e il Risorto è il Crocifisso, che dice a Paolo: "Perché mi perseguiti?" (At 9, 4). Paolo sta perseguitando Cristo nella Chiesa e allora capisce che la croce non è "una maledizione di Dio" (Dt 21, 23), ma sacrificio per la nostra redenzione.
L'Apostolo contempla affascinato il segreto nascosto del Crocifisso-risorto e attraverso le sofferenze sperimentate da Cristo nella sua umanità (dimensione terrena) risale a quell'esistenza eterna in cui Egli è tutt'uno col Padre (dimensione pre-temporale): "Quando venne la pienezza del tempo - egli scrive -, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli" (Gal 4, 4-5). Queste due dimensioni, la preesistenza eterna presso il Padre e la discesa del Signore nella incarnazione, si annunciano già nell'Antico Testamento, nella figura della Sapienza. Troviamo nei Libri sapienziali dell'Antico Testamento alcuni testi che esaltano il ruolo della Sapienza preesistente alla creazione del mondo. In questo senso vanno letti passi come questo del Salmo 90: "Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, Dio" (v. 2); o passi come quello che parla della Sapienza creatrice: "Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all'origine. Dall'eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra" (Prv 8, 22-23). Suggestivo è anche l'elogio della Sapienza, contenuto nell'omonimo libro: "La Sapienza si estende vigorosa da un'estremità all'altra e governa a meraviglia l'universo" (Sap 8, 1).
Gli stessi testi sapienziali che parlano della preesistenza eterna della Sapienza, parlano anche della discesa, dell'abbassamento di questa Sapienza, che si è creata una tenda tra gli uomini. Così sentiamo echeggiare già le parole del Vangelo di Giovanni che parla della tenda della carne del Signore. Si è creata una tenda nell'Antico Testamento: qui è indicato il tempio, il culto secondo la "Thorà"; ma dal punto di vista del Nuovo Testamento possiamo capire che questa era solo una prefigurazione della tenda molto più reale e significativa: la tenda della carne di Cristo. E vediamo già nei Libri dell'Antico Testamento che questo abbassamento della Sapienza, la sua discesa nella carne, implica anche la possibilità che essa sia rifiutata. San Paolo, sviluppando la sua cristologia, si richiama proprio a questa prospettiva sapienziale: riconosce in Gesù la sapienza eterna esistente da sempre, la sapienza che discende e si crea una tenda tra di noi e così egli può descrivere Cristo, come "potenza e sapienza di Dio", può dire che Cristo è diventato per noi "sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione" (1 Cor 1, 24.30). Similmente Paolo chiarisce che Cristo, al pari della Sapienza, può essere rifiutato soprattutto dai dominatori di questo mondo (cfr. 1 Cor 2, 6-9), cosicché può crearsi nei piani di Dio una situazione paradossale, la croce, che si capovolgerà in via di salvezza per tutto il genere umano.
Uno sviluppo ulteriore di questo ciclo sapienziale, che vede la Sapienza abbassarsi per poi essere esaltata nonostante il rifiuto, si ha nel famoso inno contenuto nella Lettera ai Filippesi (cfr. 2, 6-11). Si tratta di uno dei testi più alti di tutto il Nuovo Testamento. Gli esegeti in stragrande maggioranza concordano ormai nel ritenere che questa pericope riporti una composizione precedente al testo della Lettera ai Filippesi. Questo è un dato di grande importanza, perché significa che il giudeo-cristianesimo, prima di san Paolo, credeva nella divinità di Gesù. In altre parole, la fede nella divinità di Gesù non è una invenzione ellenistica, sorta molto dopo la vita terrena di Gesù, un'invenzione che, dimenticando la sua umanità, lo avrebbe divinizzato; vediamo in realtà che il primo giudeo-cristianesimo credeva nella divinità di Gesù, anzi possiamo dire che gli Apostoli stessi, nei grandi momenti della vita del loro Maestro, hanno capito che Egli era il Figlio di Dio, come disse san Pietro a Cesarea di Filippi: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16, 16). Ma ritorniamo all'inno della Lettera ai Filippesi. La struttura di questo testo può essere articolata in tre strofe, che illustrano i momenti principali del percorso compiuto dal Cristo. La sua preesistenza è espressa dalle parole: "Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio" (v. 6); segue poi l'abbassamento volontario del Figlio nella seconda strofa: "Svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo" (v. 7), fino a umiliare se stesso "facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce" (v. 8). La terza strofa dell'inno annuncia la risposta del Padre all'umiliazione del Figlio: "Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome" (v. 9). Ciò che colpisce è il contrasto tra l'abbassamento radicale e la seguente glorificazione nella gloria di Dio. È evidente che questa seconda strofa è in contrasto con la pretesa di Adamo che da sé voleva farsi Dio, è in contrasto anche col gesto dei costruttori della torre di Babele che volevano da soli edificare il ponte verso il cielo e farsi loro stessi divinità. Ma questa iniziativa della superbia finì nella autodistruzione: non si arriva così al cielo, alla vera felicità, a Dio. Il gesto del Figlio di Dio è esattamente il contrario: non la superbia, ma l'umiltà, che è realizzazione dell'amore e l'amore è divino. L'iniziativa di abbassamento, di umiltà radicale di Cristo, con la quale contrasta la superbia umana, è realmente espressione dell'amore divino; ad essa segue quell'elevazione al cielo alla quale Dio ci attira con il suo amore.
Oltre alla Lettera ai Filippesi, vi sono altri luoghi della letteratura paolina dove i temi della preesistenza e della discesa del Figlio di Dio sulla terra sono tra loro collegati. Una riaffermazione dell'assimilazione tra Sapienza e Cristo, con tutti i connessi risvolti cosmici e antropologici, si ritrova nella prima Lettera a Timoteo: "Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria" (3, 16). È soprattutto su queste premesse che si può meglio definire la funzione di Cristo come Mediatore unico, sullo sfondo dell'unico Dio dell'Antico Testamento (cfr. 1 Tm 2, 5 in relazione a Is 43, 10-11; 44, 6). È Cristo il vero ponte che ci guida al cielo, alla comunione con Dio.
E, finalmente, solo un accenno agli ultimi sviluppi della cristologia di san Paolo nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini. Nella prima, Cristo viene qualificato come "primogenito di tutte le creature" (1, 15-20). Questa parola "primogenito" implica che il primo tra tanti figli, il primo tra tanti fratelli e sorelle, è disceso per attirarci e farci suoi fratelli e sorelle. Nella Lettera agli Efesini troviamo una bella esposizione del piano divino della salvezza, quando Paolo dice che in Cristo Dio voleva ricapitolare tutto (cfr. Ef 1, 23). Cristo è la ricapitolazione di tutto, riassume tutto e ci guida a Dio. E così ci implica in un movimento di discesa e di ascesa, invitandoci a partecipare alla sua umiltà, cioè al suo amore verso il prossimo, per essere così partecipi anche della sua glorificazione, divenendo con lui figli nel Figlio. Preghiamo che il Signore ci aiuti a conformarci alla sua umiltà, al suo amore, per essere così resi partecipi della sua divinizzazione.
(©L'Osservatore Romano - 23 ottobre 2008)


In Vietnam la Chiesa non ha paura. Il regime comunista sì - Perché vede nella Chiesa cattolica un luogo di libertà, da tutti desiderata. E allora la schiaccia, per arrestare il contagio. Il reportage di un inviato sul campo - di Sandro Magister
ROMA, 22 ottobre 2008 – Nel sinodo che è in corso in Vaticano siedono anche due vescovi del Vietnam: quello di Nha Trang, Joseph Vo Duc Minh, e quello di Thanh Hóa, Joseph Nguyên Chi Linh.

Quest'ultimo, prendendo la parola in aula la mattina del 13 ottobre, ha definito la Chiesa del Vietnam "una delle Chiese più provate da persecuzioni sanguinose e ininterrotte".

Subito dopo, però, ha rincuorato gli astanti con questa frase della costituzione conciliare Gaudium et Spes:

"La Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall'opposizione di quanti la avversano o la perseguitano".

Prove di questo "giovamento" – ha detto – sono la fioritura in Vietnam delle conversioni e il crescente rispetto tributato ai cattolici per il loro prodigarsi a difesa della maternità, in un paese ad altissimo tasso di aborti.

Nell'aula del sinodo il vescovo non ha aggiunto altro, per descrivere le tribolazioni dei cattolici nel Vietnam d'oggi. Ma le notizie diffuse ogni giorno da agenzie come "Asia News" e "UCA News" attestano un crescendo di difficoltà. Per aver affermato, dopo un incontro infruttuoso con esponenti del regime comunista, che la libertà religiosa "è un diritto, non un privilegio", anche l'arcivescovo di Hanoi, Joseph Ngo Quang Kiet, è finito sotto attacco. Il sindaco della città, Nguyên The Thao, astro nascente della scena politica vietnamita e probabile futuro primo ministro, ha reclamato la sua rimozione.

A sua volta, il primo ministro in carica, Nguyên Tan Dung, ha minacciato che le rivendicazioni dei cattolici, se non avranno fine, "avranno un impatto negativo sui rapporti il Vietnam ed il Vaticano". Che tra loro non intrattengono relazioni diplomatiche.

In Vietnam la Santa Sede non ha piena libertà di scegliere i nuovi vescovi. La prassi è che Roma presenta ogni volta tre candidati, tra i quali le autorità vietnamite escludono quelli ad esse sgraditi. Le ultime due nomine, seguendo tale prassi, sono state rese pubbliche lo scorso 15 ottobre.

Quattro mesi prima, in giugno, una delegazione della Santa Sede si era recata in Vietnam in visita ufficiale. Il comunicato emesso al termine della missione aveva acceso delle speranze. Ma queste sono state presto cancellate dai fatti.

Un quadro aggiornato delle tribolazioni della Chiesa cattolica in Vietnam è dato dal reportage che segue, in uscita sul prossimo numero del settimanale di Milano "Tempi":


Nel paese dello zio Ho - di Lorenzo Fazzini
"Lei non conosce i comunisti. Se le raccontassi apertamente tutto quello che fanno contro la Chiesa, domani mi arresterebbero e mi manderebbero in prigione". Il vescovo vietnamita che mi fa questa confidenza allarga le braccia sconsolato. Perchè finire in carcere per la propria fede è un'opzione realistica, in un paese in cui il Partito è ancora sovieticamente un dio.

Con termini più diplomatici il cardinale Jean-Baptiste Pham Minh Manh, arcivescovo di Ho Chi Minh City, ammette che "la situazione è difficile". Nelle sue parole c’è tutto quel che basta a evocare quella finzione di "libertà" religiosa che stritola la Chiesa in Vietnam. "La Chiesa è libera ma non ha il diritto di esserlo", afferma il cardinale mentre mi apre la porta della sua residenza nei pressi della centralissima cattedrale di Notre Dame. Di fronte al vescovado, sulla facciata dell’ex palazzo presidenziale del Vietnam del Sud, fa mostra di sé un cartellone propagandistico dipinto di rosso. "Il Partito comunista, il governo e il distretto popolare 5 ti dicono: studia e segui l’esempio di zio Ho Chi Minh", recita la scritta, col padre della patria che sorride col suo pizzetto bianco.

In Vietnam i cattolici sono l’8 per cento degli 84 milioni di abitanti e la Chiesa gode di un prestigio sociale indiscusso anche tra i non cristiani, ma dalla fine della scorsa estate le tensioni sono arrivate a un punto di rottura. Oggetto del contendere sono alcuni terreni, edifici e strutture un tempo di proprietà ecclesiastica, confiscati dai vietminh dopo la conquista del potere ad Hanoi, nel Nord, nel 1954; confische che si sono ripetute nel 1975 nel Sud una volta occupata Saigon, l’attuale Ho Chi Minh City. Sono questi beni che ora la Chiesa richiede indietro a un paese che inizia ad aprirsi alle libertà economiche e che nel 2006 è entrato nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, WTO.

Per oltre dieci anni – fino alla metà degli anni Ottanta – i comunisti hanno tenuto chiuse le chiese. La cappella dell’università di Dalat, secondo centro accademico del paese, ha subìto una singolare trasformazione: al posto della croce, sul campanile, oggi svetta una stella rossa di sovietica memoria. I seminari sono divenuti edifici statali. A Huê, antica capitale imperiale, il seminario minore nel quale studiò il futuro cardinale François-Xavier Nguyên Van Thuân, martire della fede, imprigionato per 13 anni, è diventato il più lussuoso albergo della città. Il convento carmelitano di Hanoi – qui Santa Teresa di Lisieux sognava di venire missionaria – è stato trasformato in un ospedale. Una chiesa a pochi passi dall’ambasciata d'Italia nella capitale è divenuta un magazzino.

Di fronte a episodi di corruzione sfacciata, in cui i terreni vengono venduti a industrie statali o private in cambio di cospicue tangenti ai funzionari di governo, i cattolici sono scesi in piazza. In piazza a pregare, come spiegano alla conferenza episcopale vietnamita, che raccoglie i vescovi delle 27 diocesi del paese. La Chiesa esige la restituzione di proprietà di cui oggi ha più bisogno che mai per accudire un popolo di fedeli in crescita: solo a Ho Chi Minh City si contano ogni anno 9 mila battesimi di adulti. Fedeli e pastori si pongono una domanda semplice: perché in un Vietnam che cresce economicamente al tasso dell’8 per cento all’anno, con aziende giapponesi e “yankee” che investono, grattacieli che spuntano come funghi assieme a hotel di lusso (nella località costiera di Nha Trang il il vescovado è ora circondato da un nuovo hotel Hilton a destra e da due torri avveniristiche a sinistra), la Chiesa non ha il diritto di vedersi riconsegnati beni e proprietà portati via con la forza trent'anni fa?

A metà agosto hanno iniziato a manifestare pacificamente i fedeli della parrocchia redentorista di Thai Ha, nei sobborghi di Hanoi. Su un terreno di 14 mila metri quadrati, che le autorità sostengono falsamente essere stato ceduto dai religiosi allo Stato negli anni Sessanta, un’azienda statale vuole costruire una strada. La polizia è intervenuta con bastoni elettrici e gas irritanti contro anziani e bambini. Sei persone sono state arrestate. Perché?

"Perché pregavano in maniera pacifica. Questa violazione dei diritti dell’uomo è inaccettabile, lo scriva e lo dica al mondo". Monsignor Joseph Ngo Quang Kiet, arcivescovo di Hanoi da poco più di 3 anni, non ha paura di denunciare quanto avvenuto a Thai Ha e non solo. Ora lui è nell’occhio del ciclone per essersi schierato prima a fianco della parrocchia redentorista e poi per aver guidato la più grande manifestazione di protesta non violenta che si ricordi ad Hanoi dal 1954.

Il 21 settembre 10 mila persone si sono radunate a pregare sul piazzale dell’ex nunziatura apostolica, adiacente al vescovado di Hanoi, nel centralissimo distretto di Hoàn Kiem. La protesta era la risposta al fatto che dopo nove mesi di trattative con le autorità della capitale, due giorni prima, di notte, improvvisamente, bulldozer e operai edili scortati da esercito e polizia erano entrati nel terreno dell’ex delegazione apostolica per realizzare un parco pubblico.

"Non ci hanno avvertiti, hanno fatto tutto in maniera unilaterale interrompendo il dialogo che portavamo avanti da mesi", è la lamentela che arriva dai piani alti della Chiesa vietnamita. Il cardinale Pham Minh Manh rincara la dose: "Ho pubblicamente ribadito che la politica della Chiesa si basa su un dialogo fondato su verità, giustizia e carità. Ma questo dialogo è difficile perché tale parola, dialogo, neppure esiste nel vocabolario comunista, come non esiste il termine solidarietà".

Ora le preghiere di protesta sono state sospese, come i lavori edilizi. Intanto però monsignor Kiet ha vissuto da sorvegliato speciale per alcune settimane. Andare a incontrarlo significava passare tra registratori, macchine fotografiche e cineprese nascoste, piazzate intorno al vescovado per identificare chiunque si avvicinasse a lui. Solo dopo la prima settimana di ottobre questo vescovo di 56 anni che ha studiato all’Institut Catholique a Parigi e ha guidato due diocesi del Nord – dove i cattolici sono stati ridotti a soli 6 mila fedeli dalla repressione comunista – ha potuto comparire di nuovo in pubblico. Per assistere all’ordinazione episcopale del nuovo vescovo di Bac Ninh, 30 chilometri a nord dalla capitale, i fedeli lo hanno quasi travolto nel manifestargli la loro solidarietà in questa sua coraggiosa azione per la libertà della Chiesa.

Infatti, quella che potrebbe sembrare una mera questione edilizia è in realtà un atto di repressione della Chiesa. Da alcune voci autorevoli del cattolicesimo vietnamita arrivano stringenti argomentazioni sul perché questa vicenda – la restituzione dei beni confiscati – sia la linea di resistenza da cui dipende il futuro del cattolicesimo nella patria di zio Ho.

"Abbiamo chiesto molte volte al governo, con domande scritte, la restituzione delle nostre proprietà, di cui possediamo i documenti. Il più delle volte le autorità non ci hanno nemmeno risposto. Qualche volta hanno detto: vediamo, stiamo valutando", spiega padre Thomas Vu Quang Trung, provinciale dei gesuiti a Thu Duc, periferia di Saigon. "Nel ’75, dopo l’espulsione dei religiosi stranieri, il ragionamento del governo è stato semplice: siete troppo pochi per tutte queste strutture, le prendiamo noi per usarle per il popolo".

Padre Trung allarga le braccia: "Si può anche accettare che usino una nostra vecchia proprietà, come la nostra casa di Dalat, per uno scopo pubblico, cioè per farne scuole o ospedali. Ma farle diventare una discoteca, come è capitato a una struttura di suore a Ho Chi Minh City, questo no! Il nostro studentato di Hu è diventato un supermercato. Le nostre richieste di restituzione continuano, anche perché è una questione che riguarda non solo i cattolici, ma tutte le confessioni religiose e anche la gente normale, il popolo. Le due vertenze del Nord – l’ex nunziatura di Hanoi e la parrocchia redentorista – non riguardano solo la proprietà di un terreno, ma il modo in cui è amministrata la giustizia".

Padre John Nguyen Van Ty, già superiore dei salesiani, consigliere del cardinale Pham Minh Manh, è ancora più esplicito: "Le autorità temono un effetto domino: se cedono su Hanoi, c’è il rischio che tutte le religioni reclamino le loro esigenze in nome della giustizia. Questa vicenda di Hanoi, secondo alcuni, può essere la scintilla che fa bruciare tutto. Sia i cattolici del Vietnam che quelli della diaspora sono uniti: non cediamo, è una questione di giustizia, non di libertà religiosa ma di diritto. Fa bene il Vaticano a non intervenire sulla questione, considerandola un affare della Chiesa locale. Altrimenti la cosa verrebbe considerata un fatto solo confessionale e invece è un problema di giustizia. Certo, stanno facendo pesanti intimidazioni con minacce all’arcivescovo, incursioni di bande violente, arresti di cattolici, insulti quotidiani sui media contro la Chiesa. I comunisti hanno paura dei cattolici perché sono la religione organizzata più forte in tutto il paese. Ma tra gli intellettuali, docenti universitari, studenti e giornalisti, si inizia a capire la realtà, cioè che il comunismo opprime, e vedono nella Chiesa un luogo di libertà".

Padre Francis Xavier Phan Long, guida della provincia francescana, spiega che i vescovi vietnamiti hanno fatto benissimo a "piantare il chiodo" della proprietà privata, chiedendo pubblicamente al governo di rivedere la legge – "sorpassata e datata" l’ha definita il presidente della conferenza episcopale, monsignor Peter Nguyen Van Nhon – che assegna solo allo Stato il possesso della terra.

"Sono contento del fatto che i vescovi abbiano avuto per la prima volta una posizione comune su un problema concreto. Di solito, quando facevano la loro assemblea annuale, emettevano un comunicato finale che riguardava questioni molto generali", spiega padre Long nel suo ufficio nel centro di Ho Chi Minh City. "Questa volta, in maniera nuova, hanno affrontato una questione calda come quella di Hanoi, insistendo sul dialogo franco e diretto con le autorità. Non sappiamo se la legge sulla proprietà privata cambierà, ma noi ci speriamo. Io una cosa alle autorità l’ho già detta...".

Che cosa? Risponde: "Quando sono iniziati i fatti di Hanoi, il ministero della sicurezza mi ha convocato per chiedere la mia opinione su quanto stava accadendo. Ho avvertito che se il governo in futuro si impossessasse di proprietà dei francescani noi saremo pronti a lottare. Pacificamente, visto che siamo figli di san Francesco. Ma non saremo comunque disposti a rinunciare alla lotta".


23/10/2008 11:05 – ASIA - L’Asia, il continente delle violazioni della libertà di religione - Dal “Rapporto 2008 sulla Libertà Religiosa nel mondo” di “Aiuto alla Chiesa che soffre”, presentato oggi, risulta che sono asiatici 10 dei 13 Paesi del mondo ove si registrano “gravi limitazioni alla libertà religiosa” e 15 dei 24 nei quali esistono “limitazioni”.

Roma (AsiaNews) - E’ largamente l’Asia il continente delle violazioni della libertà di religione. Su 13 Paesi nei quali il “Rapporto 2008 sulla Libertà Religiosa nel mondo” di Aiuto alla Chiesa che soffre (ACS), presentato oggi a Roma, individua “gravi limitazioni alla libertà religiosa”, 10 sono asiatici: Arabia Saudita, Yemen, Iran, Turkmenistan, Pakistan, Cina, Bhutan, Myanmar, Laos e Corea del Nord. A far loro compagnia, gli africani Nigeria e Sudan e Cuba. E non basta: altri 15 Stati asiatici sono indicati tra quelli ove, comunque, si registrano “limitazioni alla libertà religiosa”. Anche qui, in tutto il resto del mondo ce ne sono solo altri nove.
Il Rapporto ACS, tradotto in sette lingue e che quest'anno si presenta in una veste internazionale, viene presentato contemporaneamente in Italia, Francia, Spagna e Germania.
Libertà di cambiare religione, di manifestare e praticare le proprie convinzioni religiose sia in privato che in pubblico, di sviluppare la propria vita religiosa, di trasmettere il proprio credo e di diffonderne i valori, il Rapporto analizza la presenza o la negazione della libertà religiosa in ogni nazione, fornendo dati e cifre, in molti casi, allarmanti. Ad illustrare i dati, con il presidente di ACS, padre Joaquin Alliende. padre Bernardo Cervelliera, direttore di AsiaNews, Camille Eid e Marco Politi, coordinati da Paola Rivetta.
L’esame delle violazioni alla libertà religiosa va dall’Arabia Saudita, che dichiarandosi “integralmente” islamica, continua a vietare ogni manifestazione pubblica di fede non musulmana (avere Bibbie, portare un crocifisso, un rosario, pregare in pubblico), al Bhutan, dove non solo è impedito l’ingresso a missionari non buddisti ed è limitata o non permessa la realizzazione di edifici religiosi non buddisti, ma è richiesto che tutti i cittadini indossino le vesti della etnia Ngalop, che è soprattutto buddista, negli uffici pubblici, nei monasteri, nelle scuole e durante le cerimonie ufficiali. Si va dal Myanmar, con la sanguinosa repressione dei monaci, alla Corea del Nord, ove è vietato praticare la fede e dove continua a non esserci neppure un sacerdote o un monaco, tutti con ogni probabilità uccisi nei decenni passati, così come 300mila cristiani. E ci sono l’India, resa tristemente famosa in questi giorni dai pogrom anticristiani, e la Cina, con l’oppressione sistematica delle Chiese, dei buddisti tibetani e dei musulmani uiguri e con sacerdoti e pastori in prigione, fino al paradiso turistico delle Maldive dove la Costituzione riserva ai musulmani tutte le cariche politiche, giudiziarie e amministrative, il governo applica la sharia ed è vietata qualsiasi manifestazione pubblica di altre religioni.
Un quadro delle violazioni che è anche “visibile”, grazie ad una mappa allegata al volume e che “disegna” i luoghi ove ancora oggi si soffre a causa della fede.


Lettera di Alessio II a Benedetto XVI - Testimonianza comune per proclamare il Vangelo all'uomo d'oggi , L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2008
Il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo metropolita di Napoli, durante la recente visita compiuta a Mosca, è stato ricevuto mercoledì 1 ottobre da Alessio II, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, e gli ha consegnato - come abbiamo riferito nell'edizione del 4 ottobre - un messaggio autografo di Benedetto XVI. Pubblichiamo ora, nell'originale russo e in una nostra traduzione italiana, la lettera di risposta che Sua Santità Alessio ii ha indirizzato al Papa per il tramite del cardinale Sepe. Nel testo il Patriarca sottolinea lo sviluppo positivo delle relazioni e della cooperazione tra la Chiesa cattolica e il Patriarcato di Mosca. Questo sviluppo, basato sulle radici comuni, è dovuto alla convergenza su numerose questioni di attualità e soprattutto alla consapevolezza di quanto sia urgente proclamare il messaggio evangelico e testimoniare i valori cristiani nel mondo contemporaneo.
Pubblichiamo di seguito una nostra traduzione italiana della lettera indirizzata dal Patriarca Alessio II a Papa Benedetto XVI.
Santità,
desidero ringraziarla cordialmente per la lettera che mi ha inviato tramite Sua Eminenza il Cardinale Crescenzio Sepe, Arcivescovo di Napoli, durante la sua visita a Mosca. In risposta alle affettuose parole del suo messaggio, anche io desidero esprimere i miei sentimenti di profondissima stima e sincera benevolenza.
Sono lieto per le crescenti prospettive di sviluppare buone relazioni e una positiva cooperazione fra le nostre due Chiese. La solida base di ciò sta nelle nostre radici comuni e nelle nostre posizioni convergenti su molte questioni che oggi affliggono il mondo.
Sono convinto del fatto che la più grande rivelazione del Vangelo: "Dio è amore" (1 Gv 4,8) dovrebbe divenire un orientamento vitale per tutti coloro che si considerano seguaci di Cristo, perché soltanto attraverso la nostra testimonianza di questo mistero possiamo superare la discordia e l'alienazione di questo secolo, proclamando i valori eterni del cristianesimo al mondo moderno.
Santità, con tutto il cuore le auguro buona salute e auspico l'aiuto di Dio nel suo ministero.
Con amore fraterno nel Signore,
ALESSIO II
Patriarca di Mosca
e di tutte le Russie
(©L'Osservatore Romano - 23 ottobre 2008)


I fondamenti della morale cristiana - La pienezza dell'agire ha un volto - Il libro di Livio Melina, José Noriega e Juan José Pérez-Soba Camminare nella luce dell'amore (Siena, Cantagalli, 2008, pagine 680, euro 42) viene presentato mercoledì 22 ottobre a Roma, presso l'Istituto Giovanni Paolo ii per studi su Matrimonio e Famiglia. Pubblichiamo uno stralcio della relazione tenuta per l'occasione dal cardinale vicario generale emerito per la diocesi di Roma.- di Camillo Ruini – L’Osservatore Romano
La prima sorpresa di chi prende in mano il volume che oggi presentiamo proviene dalla sua copertina. In essa gli autori hanno voluto mostrare la meravigliosa abside della basilica di san Clemente, immagine senz'altro bellissima, ma che sembrerebbe più adeguata a un libro di teologia dogmatica che a un manuale di morale fondamentale.
Un tempo si pensava la teologia morale soprattutto al modo di una casistica e si limitava il suo discorso fondamentale a pochi elementi: la legge, la coscienza e il peccato. Il concilio Vaticano ii ha invitato i moralisti a un profondo lavoro di rinnovamento teologico, circa il quale l'allora cardinale Ratzinger ebbe a dire che il compito principale della teologia morale è di pensare la profonda sinergia tra azione umana e azione divina nell'agire del cristiano. Solo così infatti si può uscire dalle ristrettezze di un angusto moralismo e cogliere il respiro di grandezza proprio della vita cristiana. E proprio di questo ha bisogno oggi l'evangelizzazione per manifestare come le opere dei cristiani rendano gloria al Padre che è nei cieli (cfr. Matteo, 5, 16). Penetrando ora nel senso di questo mosaico possiamo trasformare la nostra sorpresa iniziale in spunto per una comprensione profonda del mistero dell'agire.
Infatti, i diversi lavori dell'uomo - quello dell'operaio, del maestro, del segretario, del contadino, dello studioso - che sono raffigurati in questo mosaico si trovano dentro un'immensa vite che cresce verso l'alto. Con audacia incredibile, gli artisti hanno inserito l'agire quotidiano umano proprio nell'abside del tempio, nel cuore del luogo sacro. Qual è allora la rilevanza dell'agire umano che lo fa degno di occupare una posizione così elevata? Quale la sua bellezza?
Dai piccoli lavori che si sviluppano attorno alla grande vite, lo sguardo dell'osservatore s'indirizza subito verso la radice: la croce che occupa il centro del mosaico. Infatti, è dal cuore squarciato del Crocefisso che scaturisce la fonte che fa crescere questa preziosa vite.
Allo stesso tempo, guardare il Crocefisso ci fa levare gli occhi ancora più in alto, verso Colui che l'ha mandato. La mano del Padre, che invia suo Figlio al mondo, è la vera sorgente di tutto il movimento di questo mosaico. Infatti, Gesù si presenta durante la propria vita come il Figlio, il cui cibo è fare la volontà del Padre suo. Così, l'agire umano ci porta, attraverso Cristo, all'ultima origine: il Padre, Datore di ogni bene. All'origine del creato e delle nostre azioni troviamo, per dirla con Dante, il suo Amore "che muove il sole e le altre stelle".
Ma il grande mosaico di san Clemente non ci parla soltanto di un'origine. Sulla croce di Cristo appaiono dodici colombe, segno della pienezza del Paraclito che fa nascere la Chiesa. Insieme alla presenza paterna, antecedente e originaria, nella vita di Gesù scopriamo l'attività dello Spirito Santo che opera in Lui e lo muove ad agire. Infatti, così spiegava il grande san Tommaso, il Padre ci ha consegnato il suo Figlio: dandogli lo Spirito Santo, affinché Lui potesse accogliere la volontà paterna. Così la croce dolorosa e infamante può diventare albero di vita, gloria e fecondità. Da essa scaturisce lo Spirito che riempie tutta la vite della Chiesa e, per essa, tutto il creato.
Origine e fine. L'immagine di quest'abside ci permette di risalire fino all'ultima sorgente dell'agire umano e indirizzarci verso il suo destino definitivo. Ci parla di una cascata d'amore attraverso la quale il Padre invia il Figlio, che, testimoniando sulla croce l'immensità dell'amore di Dio, ci dona il suo Spirito, nuovo principio per il nostro agire. A partire da tale impostazione trinitaria, gli autori di questa opera ponderosa, compiono audacemente un passo decisivo nel rinnovamento della teologia morale. Infatti, collocando l'amore come fondamento e destino dell'agire, quale sua chiave esplicativa, offrono una comprensione metafisica e teologica dell'amore, capace di offrire una base affidabile alla morale.
In secondo luogo, i tre autori hanno saputo anche presentare con acutezza e rigore un cristocentrismo che non è "cristomonismo", cioè non riduce Cristo a se stesso. Al contrario, mettendo al centro il mistero di Gesù, ci portano, con Lui, al-di-là di Se stesso. Lui è il Figlio ed è il Cristo: il Figlio del Padre e il Cristo, l'Unto dallo Spirito. Il vero cristocentrismo rimanda a un'impostazione trinitaria, dove l'agire va inteso come una partecipazione nello Spirito all'agire di Cristo per la gloria del Padre. Virtù indiscutibile di questo manuale è la proposta di un cristocentrismo profondamente trinitario e dinamico.
In terzo luogo, il lavoro dei professori Livio Melina, José Noriega e Juan-José Pérez-Soba ha il grande merito di offrire un metodo che integra l'esperienza umana e la rivelazione divina in reciproca illuminazione. Quest'intima unità poggia sull'ermeneutica dell'esperienza morale come vocazione all'amore. Infatti, nella croce, dove Dio si è fatto vicino rivelando il Suo amore, ci viene mostrato non soltanto il mistero di Dio, ma anche il volto dell'uomo, essere la cui origine, dimora e destino è l'amore. In questo modo, nell'orizzonte dell'amore, la razionalità pratica trova la sua capacità d'illuminare l'agire dell'uomo.
Queste tre indicazioni permettono di capire l'audacia degli artisti di san Clemente e degli autori di questo libro, che in qualche modo si sono messi alla loro scuola nel comporre la loro opera. Il mosaico absidale rivela, insiti nell'agire quotidiano, un ricchissimo movimento e una pienezza.
Da una parte, un movimento che tende verso l'identità dell'uomo. La vite che si alza verso l'alto indica la tensione dell'uomo nel suo agire. Come la pianta che, per alzarsi più in alto, deve spingere più nel profondo le sue radici, così, l'uomo, nell'incontro con Cristo, risveglia la memoria del Padre che l'ha amato per primo. Riconoscendosi come figlio, amato per se stesso, sperimenta la gratitudine e il desiderio di corrispondere a tale dono. In questo modo, attraverso la donazione generosa di sé, può diventare sposo. Nel passaggio dal dono alla donazione, dall'amore all'amare, l'uomo sperimenta la fecondità del suo agire e arriva a essere padre, costruttore di comunione.
Insieme a tale movimento d'amore, l'immagine di san Clemente mostra anche la pienezza dell'agire. Accanto all'uomo, il mosaico raffigura piante fiorite, alberi fecondi, uccelli e animali selvaggi e domestici. L'uomo sale verso Dio, ma non lo fa da solo: rientra insieme agli altri uomini, accomunati sotto la stessa vite, portando con sé tutto il creato. Così, se i suoi lavori, anche i più piccoli e semplici, trovano posto nell'abside, nel cuore della casa di Dio, è perché attraverso il suo agire l'uomo diventa vero collaboratore di Dio.
In questo modo, il volume che oggi ho il piacere di presentare, ci dà una preziosa indicazione sul senso veramente salvifico dell'azione del cristiano. Mettendo a fuoco il metodo della "collaborazione" (sinergia) dell'agire umano e dell'agire divino, ci mostra perché - come ci ha detto il Papa Benedetto XVI- "ogni agire serio e retto dell'uomo è speranza in atto" (Spe salvi, 35), autentica fonte di salvezza.
(©L'Osservatore Romano - 23 ottobre 2008)


ELEZIONI USA/ George (Princeton): c'è una ragione fondamentale per non votare Obama - INT. Robert George – IlSussidiario.net - giovedì 23 ottobre 2008
Il professor Robert George è docente di Diritto Civile e Filosofia del Diritto all'Università di Princeton nel New Jersey. È inoltre membro del consiglio di bioetica e di diritti civili per il presidente degli Stati Uniti. Da qualche tempo denuncia il programma di Barack Obama come mirato a promuovere un eccessivo permissivismo nei confronti della legislazione sull'aborto
Lei reputa che sia moralmente accettabile per un cattolico votare per un candidato pro-choice, cioè a favore di una libera scelta della donna in materia di aborto?
Detto chiaro e tondo, le ingiustizie più gravi e più diffuse nella società americana di oggi hanno a che fare con l’uccisione legalmente autorizzata di esseri umani, attraverso l’aborto e la ricerca che prevede la distruzione di embrioni. È dovere morale di ogni cittadino, cattolico o non, di votare tenendo in mente questo fatto. E per questo l’elettore deve valutare l’operato passato e le proposte politiche dei candidati, quando si tratta delle questioni cruciali della vita e della morte, ricordando che ciò che è in gioco, oltre a molte vite umane, è la fedeltà della nostra nazione al principio che ogni essere umano possiede una dignità profonda, intrinseca ed eguale, e ha diritto, come questione di giustizia fondamentale, a eguale protezione da parte delle leggi.
Cosa pensa che i cattolici dovrebbero fare in queste elezioni, dato che Obama si è dichiarato in favore della libertà di scelta e che anche John McCain ha ammesso, nell’ultimo dibattito, di sostenere la ricerca sulle cellule staminali embrionali?
A me sembra che decidere tra McCain e Obama non sia difficile. McCain ha dalla sua una decisa posizione pro-life, macchiata solo della sua infelice disponibilità a sostenere il finanziamento della ricerca su embrioni creati con la fertilizzazione in vitro per fini riproduttivi, ma mantenuti ora in stato di crioconservazione in strutture per l’assistenza alla riproduzione, perché i loro genitori non intendono procedere al loro impianto. Il ragionamento di McCain, con il quale non sono d’accordo, è che la sua posizione è giustificata dal fatto che questi embrioni sono destinati ad essere scartati dai loro genitori e quindi a morire. Su ogni altra questione rilevante che abbia a che fare con una possibile legislazione per proteggere il nascituro, McCain è fermamente dalla parte della vita.
In cosa la posizione di McCain si distingue da quella di Obama?
Come McCain, Obama appoggia il finanziamento alla ricerca con embrioni crioconservati di cui i genitori intendano disfarsi. Ma Obama non si fermerebbe qui. Ha co-sponsorizzato una legge, alla quale McCain si è duramente opposto, che autorizzerebbe la produzione industriale su larga scala di embrioni umani per l’uso nella ricerca biomedica, nella quale verrebbero uccisi.
Nei fatti, la legge che Obama ha co-sponsorizzato richiederebbe effettivamente l’uccisione di esseri umani nella fase embrionale prodotti per clonazione e renderebbe per una donna un crimine federale salvare un embrione permettendo di farsi impiantare in grembo il minuscolo essere umano in via di sviluppo, così da poter portare a termine la gravidanza. Questa legge “clona e ammazza”, se attuata, porterebbe in America qualcosa che fino a ora è esistito solo in Cina: l’equivalente dell’aborto obbligatorio per legge. In uno sfacciato tentativo di imbrogliare le carte, Obama e i suoi co-sponsor hanno subdolamente chiamato questa una legge anti-clonazione. Ma non è niente del genere. Ciò che vieta non è la clonazione, ma la possibilità di vita per bambini nella fase embrionale prodotti attraverso la clonazione.
Dunque Obama appare molto “pericoloso”…


Quello che ho già detto non trasmette pienamente la portata del radicalismo di Obama per quanto riguarda clonazione e ricerca distruttiva di embrioni. Persone rispettabili, pur con opinioni diverse, coltivano la sempre più realistica speranza che le questioni morali attorno alla ricerca sulle cellule staminali embrionali possano essere risolte sviluppando metodi per ottenerne un esatto equivalente senza usare o produrre embrioni. Ma quando nel Senato degli Stati Uniti è stato presentato un disegno di legge per destinare una modesta quantità di denaro alla ricerca per sviluppare questi metodi, Barack Obama è stato uno dei pochi senatori ad opporsi. Da qualsiasi punto di vista razionale, questo è un comportamento scriteriato. Perché non si dovrebbe desiderare di trovare, un metodo per produrre le cellule pluripotenti richieste dagli scienziati, un metodo che tutti gli americani potrebbe essere appoggiato con entusiasmo da tutti gli americani? Perché creare e uccidere embrioni umani, quando ci sono alternative che non richiedono di prendere vite umane nascenti? È come se Obama si opponesse alla ricerca sulle cellule staminali, a meno che essa non comporti l’uccisione di embrioni umani.
Cosa pensa della posizione cosiddetta “pro-choice”?
Come ho detto altrove, Barack Obama è il candidato più estremamente pro-aborto che abbia mai cercato di ottenere la presidenza. Non solo è a favore dell’aborto legale, incluso l’aborto a nascita parziale, ma promette anche di revocare leggi americane attualmente in vigore che tutelano i cittadini pro-life dall’essere forzati a finanziare l’aborto attraverso la tassazione.
Come membro del Senato dell’Illinois, si è opposto a leggi per proteggere la vita dei bambini nati vivi dopo un aborto fallito, per poi essere sorpreso a mentire sui motivi della sua opposizione a questa legge. La stessa legge è passata all’unanimità nel Senato degli Stati Uniti, dove è stata sostenuta anche dai più ferventi sostenitori dell’aborto legale. Loro hanno posto il confine prima dell’infanticidio; Obama si è rifiutato di mettere questo confine. Inoltre, Obama si oppone a leggi che richiedano il consenso dei genitori, o almeno la notifica, quando gli aborti vengono eseguiti su ragazze minorenni. Come il professor Michael New ha dimostrato, queste leggi salvano molte vite. È scioccante che sia anche a favore del taglio di ogni sostegno governativo a centri pro-life di sostegno della gravidanza, che offrono a donne incinte reali alternative all’aborto. Questo non è essere pro-choice, è essere pro-aborto.
Prima di poter eliminare la legge sull’aborto, c’è chi ritiene necessario creare una cultura in cui la gente comprenda perché la legge è ingiusta. Prima ancora che sul piano politico, dovremmo quindi confrontarci con questa ideologia a livello culturale. Qual è la sua opinione?
Io non approvo tali scuse per evitare di provvedere protezione legale ai bambini non ancora nati. Una maggioranza di americani già si oppone a gran parte degli aborti effettuati (per esempio, agli aborti per motivi sociali). Molto potrebbe essere fatto sin d’ora per rispettare i diritti umani di base di chi non è ancora nato, senza la necessità di aspettare cambiamenti dell’opinione pubblica o miglioramenti culturali in genere.
In verità, una cosa che sta avvelenando la cultura è l’insegnamento implicito di un sistema legale che tratta l’uccisione del feto come una questione di scelta. È vero che la cultura dà forma alla legge. Ma è ugualmente vero che la legge dà forma alla cultura. Quando la legge invia il messaggio che l’aborto è uno strumento legittimo per risolvere un problema, non è sorprendente che l’accettazione dell’aborto aumenti e se ne verifichi un maggior numero di casi. Ciò che in questo momento negli Stati Uniti sta bloccando una significativa protezione legale dei non ancora nati, non è l’opinione pubblica, ma il potente gruppo abortista e quei politici, come Barack Obama, che si sono dedicati a proteggerne le prerogative e a portarne avanti gli interessi.
In Italia, lo scorso anno il governo di centrosinistra ha discusso alcuni documenti sul testamento biologico, senza mai raggiungere alcun accordo in proposito. Anche il nuovo Governo ha parlato di una legge sul testamento biologico, mentre Monsignor Betori, membro della Conferenza episcopale italiana ha detto che è preferibile una legge sul fine vita. Qual è la sua opinione su questa controversa discussione?
L’esperienza delle giurisdizioni americane sul fenomeno dei testamenti biologici è che questi strumenti sono impossibili da progettare in modo da contemplare l’ampio spettro di situazioni che frequentemente famiglie e medici si trovano ad affrontare, quando un paziente si sta avvicinando alla fine della vita. Cosi, spesso accade che siano lasciati da parte quando le famiglie e i medici devono prendere decisioni sull’assistenza ai malati terminali. Certamente, un preciso principio di legge deve essere che i medici non rendano mai oggetto delle loro azioni la morte del paziente. Né che possano collaborare al suicidio di un paziente. Allo stesso tempo, trattamenti sproporzionati ed eccessivamente gravosi per il paziente possono essere legittimamente non imposti, anche quando ciò potrebbe prolungare per un po’ di tempo la sua vita.
C’è un principio guida a cui potersi ispirare?
Il principio centrale che dovrebbe guidarci è che gli esseri umani non dovrebbero mai essere trattati come lebensunwertes Leben (vita non degna di essere vissuta). Ciascuna vita, anche la vita di una persona gravemente ammalata, possiede profondo valore e dignità. La morte può, in alcune circostanze, essere accettata come prevedibile effetto collaterale di un atto (o della decisione di astenersi dall’agire), il cui obiettivo è però qualcosa di diverso dalla morte stessa, ma la morte non può mai legittimamente essere l’obiettivo ultimo, e nemmeno immediato, dell’azione di un individuo.
È possibile, corretto ed utile usare uno statuto, l’affermazione di norme generali e astratte, per regolare situazioni molto specifiche ed eccezionali, come i casi coperti dalla legge sul testamento biologico?
La legge dovrebbe impedire l’omicidio, includendo l’eutanasia e il suicidio assistito. Per quanto riguarda l’interruzione di trattamenti eccessivamente gravosi, questa è una decisione che deve essere fatta dai medici, dai pazienti e dalle loro famiglie, all’interno di una struttura generale di norme legali che proteggano le vite umane.


Gerusalemme incontra l’epopea della libertà - Roberto Fontolan - giovedì 23 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Tra pochi giorni a Gerusalemme si apre una mostra sul romanzo-principe del Novecento, Vita e Destino, e sul suo autore, Vassilji Grossman. L’iniziativa è in sé bellissima, per il luogo e l’eccezionalità del suo contesto, ma è anche notevole in quanto frutto del paziente lavoro di un Centro culturale di Torino, il Piergiorgio Frassati, che da un paio d’anni, in collaborazione con la Fondazione arte storia cultura ebraica, ha riaperto il discorso su una delle narrazioni più importanti del nostro tempo, proponendo la mostra itinerante (che in terra d’Israele è promossa dalla Compagnia delle Opere di Gerusalemme), convegni e presentazioni, e un ottimo volume di saggi grossmaniani.
Vita e Destino è un capolavoro che dovrebbe essere adottato come libro di testo in tutte le scuole superiori italiane (proposta per il ministro Gelmini), per tre ragioni. Innanzitutto il tema storico-ideologico del Novecento e dei suoi orrori (oggetto anni fa di un tremendo discorso di Giovanni Paolo II ai giovani radunati a Denver). Il suo nucleo evidente è l’analogia tra nazismo e comunismo, una tesi che sebbene considerata inopportuna da molti ambienti, anche da quelli meno inclini al politicamente corretto, ha comunque fatto strada. Insomma grazie a Grossman non c’è solo Hobsbawn e il suo fortunatissimo Secolo breve a dettare l’interpretazione storica ufficiale. Valga l’esempio de Le benevole, grandioso e discusso romanzo di Jonathan Littel, al centro di un recente caso letterario mondiale: un resoconto “stenografico”, allucinato e fin troppo estremo, del nazismo “vissuto dal di dentro” da un ufficiale delle SS. Ebbene la parte dedicata alla battaglia di Stalingrado è un ricalco volontario di Vita e Destino, con episodi simili e la riproposta quasi letterale del celebre dialogo tra l’ufficiale nazista e l’ufficiale comunista (“in fondo siamo la stessa cosa…”).
Un altro tema che giganteggia in Grossman è quello della libertà dell’uomo. E’ grazie ad essa che proprio a Stalingrado la guarnigione russa riesce a resistere davanti alla forza pazzesca dell’armata tedesca sulla striscia di terra lungo la riva del Volga. Una libertà che non durerà molto: Grossman viene richiamato dalla sua missione di inviato per “Stella Rossa” e gli eroi della guarnigione messi sotto silenzio. Le cronache del giornalista Grossman e le testimonianze di quei soldati sdruciti davano fastidio (e infatti la pubblicazione del romanzo venne vietata). La libertà è l’enigma che attraversa tutta l’epopea. L’uomo può scegliere, non è schiavo delle circostanze, non è un prodotto degli antecedenti. Anche nella condizione peggiore, quella della reclusione nel campo di lavoro (altra parte del libro) io posso dire di no, posso non essere complice, posso decidere per il bene anche quando il male mi sta sommergendo.
Infine, la ricerca dell’uomo, la sua perenne domanda di senso. Un grande intellettuale del nostro tempo, George Steiner, riconosce che l’uomo è “qualificato” proprio dal suo continuo interrogare e cercare, ma afferma anche che tutto è inutile: già sappiamo che non avremo risposta, che “non andiamo da nessuna parte”. Grossman dice invece che l’umano emerge nella lealtà del cercare, nella sincerità di una ragione aperta. La strada che ci porta da qualche parte passa di qui.


CONVEGNO/ Lo spirito distruttore del neopaganesimo bolscevico - Redazione - giovedì 23 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Sabato e domenica prossimi a Seriate si svolgerà l’annuale convegno della Fondazione Russia Cristiana, in questa occasione organizzato con la Fondazione per la Sussidarietà e dedicato a «Stato, società e persona. La Russia e l’Europa di fronte alle svolte epocali del XX e XXI secolo». Presentiamo un passo della relazione di padre Georgij Mitrofanov, dell’Accademia Teologica di San Pietroburgo, dal titolo: «La religiosità tradizionale di fronte al secolarismo comunista (homo religiosus e homo sovieticus)»
Nell’irriducibile conflitto di concezioni tra cristianesimo e comunismo, quest’ultimo fin dall’inizio si pose come un’ideologia aggressiva, offensiva, che non limitava la propria lotta anticristiana semplicemente alla sfera delle questioni politiche, che pure per il bolscevismo rivestivano un’importanza fondamentale.
C’è una logica profonda nel fatto che, dopo l’affermarsi del regime comunista nel paese, il bolscevismo cominciasse a porsi come alternativa universale al cristianesimo nelle più diverse sfere della vita socio-politica e cultural-religiosa. «Il bolscevismo pretende di non essere solo una politica – osservava Georgij Fedotov. – Non si batte per il corpo, ma per l’anima. Non è il socialismo che vuol costruire, ma l’uomo nuovo, una nuova vita, una nuova etica, un nuovo modo di vivere e una nuova personalità. In Russia il bolscevismo costruisce quest’uomo a propria immagine e somiglianza. Il partito di Lenin, il partito dei vecchi cospiratori, è diventato da tempo un’icona vivente di santità, su cui vengono educate e plasmate milioni di giovani esistenze. Saranno questi giovani a determinare l’oggi e il domani della Russia. Ecco il perché della domanda fondamentale che facciamo sul bolscevismo: non che cosa (fa), ma chi (è)... L’ideocrazia bolscevica è una satanocrazia per il contenuto stesso della sua idea».
Distrutti fin dai primi decenni della propria esistenza i principi fondamentali della vita economico-sociale e politica della Russia, liquidata l’élite culturale formatasi nei secoli, il regime comunista ratificò in Russia un tipo di civiltà anticristiana e totalitaria senza precedenti storici, che doveva diventare una delle più grandi seduzioni religiose per il popolo russo.
A differenza dei popoli occidentali, la seduzione più pericolosa per il popolo russo non fu quella di una civiltà che celebrava apertamente la diseguaglianza, secondo la proposta fatta dal diavolo a Faust, ma la tentazione di una falsa eguaglianza universale promossa dall’anticristo. «L’egoismo sociale è un peccato umano – sottolineava Berdjaev – ma l’egoismo sociale elevato a supremo valore sacro è ormai lo spirito dell’anticristo».
Effettivamente, ponendo a fondamento della propria attività sovente pragmatica e della propria ideologia prevalentemente utopistica un potente stimolo come l’egoismo sociale, il comunismo cercava di usare come mezzo di seduzione delle masse popolari non semplicemente una delle basse passioni più diffuse dell’animo umano, ma anche i sentimenti di giustizia sociale e amore fraterno, continuamente calpestati nel mondo decaduto da Dio. Fu proprio mischiando questi sentimenti, e in ultima analisi sostituendo ai sentimenti più elevati le passioni più triviali, che si realizzò il «gioco di prestigio» dell’anticristo – un gioco quasi impercettibile alla ragione che riuscì ad attrarre verso l’utopismo comunista le persone più disinteressate e piene di abnegazione, desiderose di acquistare già in questo mondo la verità, il bene e la giustizia assoluti. Sedotto dalla demoniaca chimera della giustizia sociale intesa come panacea di tutti i mali che accompagnano l’umanità allontanatasi da Dio, il popolo russo permise in pratica la pressoché totale distruzione della Chiesa ortodossa, esattamente l’istituzione storica che per secoli aveva alimentato nell’anima del popolo il senso di realismo storico-spirituale che tante volte l’aveva abbandonato.
La secolarizzazione comunista della vita spirituale del popolo russo, tradottasi fin dal primo ventennio di esistenza del regime bolscevico nell’eliminazione fisica di milioni di ortodossi che erano rimasti fedeli alla Chiesa, doveva far rinascere e intensificare i principi religiosamente più primitivi e moralmente più distruttivi di questa vita.
La concezione pseudoreligiosa propria dell’utopismo comunista fece regredire profondamente la mentalità del popolo russo, rendendolo particolarmente recettivo proprio ai concetti che più erano estranei all’autentica cultura cristiana e più consonanti all’ideologia comunista che si impose per decenni, un’ideologia neopagana per sua essenza religiosa


MEDICINA/ Il Papa richiama al rapporto medico-paziente come premessa di ogni cura - Redazione - giovedì 23 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Viviamo in un periodo in cui sembra che il rapporto medico-paziente non abbia più nulla da dire e in cui un esame radiologico pare abbia più valore di cento visite mediche; in un contesto in cui la biotecnologia è esasperata, e la traiettoria terapeutica tradizionale è stravolta a causa di una diagnosi sempre più affidata alla genomica, e di una terapia con farmaci indirizzati al difetto molecolare che sta alla base della malattia, in cui paziente è di fatto estromesso dal percorso di diagnosi e di cura. A fare le spese di questa tendenza sono soprattutto gli anziani, i malati cronici, gli inguaribili, ma in realtà tutti soffriamo di una medicina che è sempre più “sanità” e sempre meno “clinica”.
Nel discorso di giovedì scorso per il decennale della Enciclica Fides et Ratio, il Santo Padre aveva già messo in guardia dai pericoli della biomedicina esasperata, parlando della ricerca: il dato non è creato dal ricercatore, è offerto dalla realtà stessa e può essere riconosciuto già presente nella natura. Il ricercatore ha il compito di essere leale con il dato e di mantenere vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede (per chi ce l’ha) esercitano nei confronti della scienza perché permanga al servizio dell’uomo. I due pericoli che il Papa segnala, quello del facile guadagno e quello della tentazione di manipolare la realtà, sono ben presenti a chiunque si occupi di ricerca in campo biomedico. Oggi, con il discorso alla Società Italiana di Chirurgia, allarga la prospettiva al rapporto medico-paziente, e alla relazione del tutto particolare che si instaura tra chi cura e chi è curato. In questo rapporto basato sulla fiducia, sulla stima reciproca e sulla condivisione degli obiettivi realistici da perseguire, si può definire il programma di cura e gli strumenti da utilizzare, da quelli più arditi e “tecnologici” a quelli ordinari e “low-tech”. Il medico stesso è il sostegno migliore al paziente con la sua presenza, il suo modo di comunicare e la sua propria umanità. In effetti il rapporto medico-paziente è un incontro tra due persone che, con ruoli e compiti diversi, condividono il proprio destino. Il compito fondamentale di chi cura è sostenere la speranza del paziente, nel rispetto della verità dei fatti.
Questa posizione è più umana e più rispettosa della realtà rispetto a quella che afferma l’autonomia e l’autodeterminazione del paziente, posizione sostenuta da importanti scienziati e illustri clinici, forse però ormai lontani dalla realtà clinica. È una concezione, questa, che riduce la relazione di cura, cioè il rapporto tra medico e paziente, ad un livello meramente contrattualistico e rischia di indurre, come già accaduto in diversi paesi, atteggiamenti rinunciatari da parte dei professionisti e dei sistemi sanitari nei confronti soprattutto di malati più deboli e fragili. Espressione di questa cultura in cui l’uomo diventa arbitro della propria e altrui vita è il testamento biologico, o le direttive anticipate di trattamento, che vengono attualmente discusse soprattutto in relazione al caso di Eluana Englaro. Pur non citandolo espressamente, il Santo Padre rigetta la logica del testamento biologico, e sostiene la responsabilità personale del medico il cui compito è proporre trattamenti che mirino al vero bene del paziente, nella consapevolezza che la sua professionalità lo mette in grado di valutare la situazione meglio che il paziente stesso.
Dei tre obiettivi della professione medica (guarire la persona malata o almeno incidere in modo significativo sull’evoluzione della malattia; alleviare il dolore che l’accompagna, soprattutto quando è in fase avanzata; prendersi cura della persona umana in tutte le sue umane aspettative) quest’ultimo è quello più impegnativo e affascinante: ogni singolo paziente, anche quando la malattia è inguaribile, porta con sé un valore incondizionato, una dignità da onorare, che costituisce il fondamento di ogni attività clinica.

(Marco Bregni - Ospedale San Giuseppe, Milano; Presidente Medicina&Persona)


INSEGNANTI/ Raccontare la professione facendo scuola - Associazione Diesse - giovedì 23 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
“Libertà di educazione”, rivista trimestrale fatta da e per docenti di ogni ordine e grado di scuola, esiste da più di trent’anni. E’ nata nell’autunno del 1976 per opera di giovani insegnanti, con una grande volontà di vivere la scuola e la professione da protagonisti.
Così scrive uno dei fondatori della rivista ricordando quei mesi:
“Dall’intensa esperienza di comunità vissuta nelle scuole e nelle università, era nato un popolo di giovani-adulti che si affacciava alla vita della famiglia, della professione, degli interessi e dei problemi culturali e sociali con una grande volontà di “presenza”. Una sola parola catalizzava tutta l’esperienza del passato, fondava il presente e metteva in posizione creativa nei confronti del futuro: la parola educazione”.
Una parola inscindibile rispetto a quell’altra: libertà; parole che diventavano grido in quel famosissimo slogan “Mandateci in giro nudi, ma non toglieteci la libertà di educare”.
Molti gli ostacoli culturali, politici e sindacali che si opponevano all’idea e alla pratica della libertà di educazione: l’ideologia del Sessantotto, lo statalismo paternalista, la cultura marxista allora egemone, il consumismo materialista, il laicismo dominante. Per chi portava avanti la rivista, il tema della libertà di educazione era e resta tuttora un’esperienza più che una parola. Per questo essa si configurava, e si caratterizza ancora oggi, come strumento di riflessione e di testimonianza sull’emergenza e le condizioni dell’educazione, sulla natura della professione docente, sui fattori e le forme dell’educare istruendo.
È stata (ed è) battaglia di tutto un movimento di insegnanti e genitori, che ha come suo strumento civile privilegiato l’Associazione DIESSE – didattica e innovazione scolastica, proprietaria della rivista “Libertà di educazione”; una battaglia fervida non soltanto di idee, ma anche di fatti e di opere, espressioni della grande tradizione educativa dei cattolici. Allora erano gli anni del “più società meno stato”, della raccolta firme per leggi di iniziativa popolare sulla riforma della scuola. Oggi sono i tempi tristi del nichilismo e del relativismo, tempi in cui difendere la libertà di educazione significa anche difendere nel dettaglio la vita e la dignità dell’uomo, ed operare perché la società superi la tentazione dell’omologazione e viva il rischio della convivenza e del confronto fra identità diverse. Non è più questione di alcuni giovani insegnanti, ma di professionisti della scuola consapevoli dell’urgenza di contribuire al rinnovamento di tutto il sistema scolastico italiano.
Per questo, dopo alterne vicende, “Libertà di educazione” quattro anni fa diventa “Quaderni di Libertà di educazione”. Dal lavoro dei soci di DIESSE esce ogni tre mesi un numero sui temi del “fare” lezione, del costruire scuola ed operare cultura, offrendo ipotesi di lettura dei diversi contesti scolastici e raccontando esperienze in atto.
Con questo spirito sono già 15 i numeri della nuova serie.
I titoli del 2005 (L’unità di apprendimento – Il portfolio – Costruire percorsi personalizzati – Il secondo ciclo del sistema educativo) dicono il sentiero intrapreso e i passi verso la meta, che è sempre la testimonianza della possibilità di costruire una scuola rischiando sulla libertà di educazione e comunicando un’esperienza dentro un’intelligente didattica delle discipline.
Su questa scia, l’anno successivo, la redazione si è misurata con la proposta del laboratorio (n.5) e la riforma dei licei (n. 6), ha voluto testimoniare, raccogliendo in due CD, per celebrare i trent’anni della rivista, le esperienze didattiche nate dentro il confronto critico con il testo “Il rischio educativo” di don Giussani per riaffermare che “Un’ altra scuola è possibile” (n.7) e perché ci sono tanti “Insegnanti all’opera” (n.8).
Nel 2007 la rivista ha raccontato proprio questo “essere all’opera insieme” per una scuola come comunità di persone, luogo e strumento di professionisti dell’insegnamento-apprendimento intenzionale, significativo e critico ( n.9-10-11). Il n. 12 ha documentato che il ruolo dell’insegnante è quello di un professionista in un’equipe di professionisti con il compito di educare insegnando e che non può essere concepito né in termini di monade autosufficiente o di precettore isolato, né di un funzionario con compiti esecutivi-burocratici, né di un tecnico facilitante apprendimento.
Nel 2008 Libertà di educazione ha riproposto in termini nuovi l’alleanza tra genitori e docenti, ricordando che un rapporto costruttivo tra scuola e famiglia è risorsa per la professione docente (n.13); ha messo in evidenza le ragioni, i problemi, le condizioni dell’educazione del cuore, che è ragione ed affettività, motore dell’apprendere e del conoscere, elemento tipico dell’essere uomini.(n.14)
Alla “Scuola liquida” (n.15) si è opposto l’impegno a costruire la scuola dell’“educare insegnando” che non può e non vuole negare la realtà, come meta di ogni educazione, e le discipline come punti di vista sul reale da proporre agli alunni con l’arte della didattica.
Il prossimo numero (16), intitolato “Un voto alle scuole”, affronta la valutazione esterna degli istituti scolastici e l’autovalutazione delle singole scuole. E’ un invito a considerare la scuola, in cui si insegna, un’espressione del proprio lavoro, un ambiente da costruire e vivere da protagonisti insieme a tutti i soggetti vivi della società, amanti dell’educazione e della libertà.


FRONTEGGIARE LA CRISI - ARRIVATA L’ORA DI CURVARSI SULLE FAMIGLIE - GIANFRANCO MARCELLI – Avvenire, 23 ottobre 2008
L’emergenza famiglia' è oggi in Italia, a un mese esatto dall’inizio di un autunno fla­gellato dalla crisi finanziaria internazionale, una drammatica quanto cupa realtà. Sottostimarla o, peggio ancora, provare a ignorarla non è più pos­sibile. Chi lo facesse si assumerebbe una grave re­sponsabilità davanti al futuro del nostro Paese. E chi volesse ancora prendere tempo, prima di passare a un’incisiva azione di contrasto, lo e­sporrebbe a rischi non meno pesanti di avvita­mento.
Il grado di sofferenza sociale dei nuclei con figli e con soggetti deboli sta toccando ormai livelli in­tollerabili. A certificarlo sono fonti insospettabi­li di 'familismo' cattolico piagnone, come la Con­findustria, il Fondo monetario internazionale, l’Ocse, diverse società demoscopiche indipen­denti. Tre giorni fa un sondaggio Ipr-Il Sole 24 O­re dava per certo che due italiani su tre (ma nel centrosud parecchi di più) saranno costretti a ta­gliare le spese. L’altro ieri l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico segnala­va un drastico allargamento della forbice nazio­nale tra ricchi e poveri. Mentre il governatore del­la Banca d’Italia metteva in guardia contro la pe­nalizzazione che la contrazione del credito può causare anche alle famiglie. A fronte di queste e molte altre denunce non si può più rinviare un serio piano di conteni­mento dei disagi a tempi migliori.
La gente della strada da molte settimane segue con preoccupazione e scon­certo le vicende della co­siddetta 'finanza tossica', le sue conseguenze sui mercati borsistici, le rica­dute mondiali sui colossi del credito, costretti tal­volta a chiudere o a but­tarsi nelle braccia soccor­revoli degli Stati. Prende atto delle soluzioni messe a punto con tempestività dalle autorità moneta­rie nazionali e sovranazionali e comprende be­ne o male che era giusto intervenire.
Il cittadino medio percepisce allo stesso modo che, per i prossimi mesi, i governi sono preoc­cupati delle ripercussioni che lo tsunami inne­scato dai mutui 'subprime' infliggerà all’econo­mia 'reale', quella fatta di imprese e servizi pro­duttivi di reddito e di occupazione. Constata che, per tamponare nuovi crolli, ci si accinge a studiare contromisure, sotto forma di stimoli diretti o in­diretti, come le ben note rottamazioni, che in­centivano i consumatori a rinnovare autovettu­re o elettrodomestici e in tal modo alimentano il fatturato di industria e commercio.
Quello che l’italiano comune, i padri e le madri di famiglia alle prese con la spesa al supermer­cato e i conti delle bollette da far quadrare, non vedono ancora, neppure all’orizzonte dell’anno nuovo che si avvicina, è una chiara volontà di aiutare anche loro, di sostenere il loro tenore di vita messo a dura prova dalla tenaglia dei prez­zi in costante ascesa e dello stipendio che rista­gna. E quando sentono dire che gli aiuti alle im­prese avranno un benefico influsso anche sulle loro personali finanze, temono a buon diritto che questo avvenga troppo tardi. Per di più si domandano perché non si debba seguire la stra­da opposta: e cioè supportare, fiscalmente o per altra via, il loro tenore di vita, consentendo così di incrementare i consumi e quindi le entrate delle aziende.
Forse non è un caso che, in queste ultime ore, le voci più attente dello stesso mondo produttivo invitino a non mettere in concorrenza, o addi­rittura in contrapposizione fra loro, le famiglie e le imprese. I fatti però dicono che la prossima settimana il governo intende mettere attorno a un tavolo i rappresentanti delle industrie e del­le banche, per studiare con loro nuovi rimedi del genere sopra descritto. I sindacati hanno chiesto subito di essere convocati e magari a quel tavolo si troverà posto anche per loro. Nul­la si annuncia invece sul versante delle politiche familiari.
Ciclicamente si ribadisce l’intenzione di intro­durre nel nostro sistema tributario il quoziente familiare, non appena i conti pubblici lo con­sentiranno (e chissà quando avverrà questo mi­racolo). Qualche giorno fa il capo dello Stato, ri­cevendo il Forum delle associazioni di ispirazio­ne cattolica, raccomandava di non fare della fa­miglia un «terreno di scontro» fra maggioranza e opposizione. Francamente non vorremmo che la disputa venisse evitata solo perché continuerà a mancare il motivo del contendere.