martedì 7 ottobre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa: bisogna imparare a dire a Cristo “Sono tuo” - Meditazione in apertura dei lavori del Sinodo dei Vescovi
2) Discorso del Papa in apertura del Sinodo sulla Parola - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 6 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della meditazione che Benedetto XVI ha tenuto questo lunedì mattina nell’Aula del Sinodo in apertura dei lavori della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dopo la lectio brevis dell’Ora Terza.
3) Il Rabbino di Haifa: un segno di speranza la mia presenza al Sinodo - Per la prima volta un rappresentante ebraico è presente all'assemblea - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 7 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il Gran Rabbino di Haifa (Israele) ha confessato che il suo intervento, questo lunedì pomeriggio, al Sinodo dei Vescovi rappresenta un segno di speranza per la crescita delle buone relazioni tra cattolici ed ebrei.
4) Ed è subito Siri - Coniugare “l’intransigentissima verità con la tollerantissima carità”, ecco il cardinal Siri… - di Francesco Agnoli – Il Foglio 2 ottobre 2008
5) 06/10/2008 14:30 – INDIA - Maoisti hanno ucciso lo Swami indù; il governo dell’Orissa ha nascosto le prove. L’assassinio dello Swami è stata la scintilla da cui è partito il pogrom contro i cristiani. Richieste le dimissioni del governo dell’Orissa. La riconversione di tribali e paria cristiani all’induismo è un progetto in atto da decenni. Le organizzazioni cristiane chiedono di mettere fuorilegge le organizzazioni radicali indù
6) L'alternativa al nulla è il coraggio di porre fatti positivi - Pigi Colognesi - martedì 7 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
7) SCUOLA/ Quella passione educativa che supera anche i pugni in faccia - Fabrizio Foschi - martedì 7 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) SOCIETA' LIQUIDA/ E' ancora possibile riaffermare un'etica del legame - Maria Teresa Maiocchi – IlSussidiario.net - martedì 7 ottobre 2008
9) CRISI FINANZIARIA/ Il rilancio dell'economia europea parte da una nuova collaborazione fra gli Stati membri - Stefano Cingolani - martedì 7 ottobre 2008
10) L’ESEMPIO/ Quando investire in capitale umano produce sviluppo - Redazione - lunedì 6 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
11) 7 ottobre 2008 - Il cardinale e lo storico fanno apologia misericordiosa della promiscuità – Giuliano Ferrara, il Foglio.it
12) LA PERSONA E L’ART.32 DELLA COSTITUZIONE PER FORZA BUONA QUALUNQUE DECISIONE? NO, NON È VERO - FRANCESCO D’AGOSTINO, Avvenire, 7 ottobre 2008


Il Papa: bisogna imparare a dire a Cristo “Sono tuo” - Meditazione in apertura dei lavori del Sinodo dei Vescovi
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 6 ottobre 2008 (ZENIT.org).- La parola di Dio “ha un volto, è persona, Cristo”, ha affermato Benedetto XVI nella meditazione che ha tenuto questo lunedì mattina in apertura dei lavori della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
“Nel cammino della Parola, entrando nel mistero della sua incarnazione, del suo essere con noi, vogliamo appropriarci del suo essere, vogliamo espropriarci della nostra esistenza, dandoci a Lui che si è dato a noi”, ha osservato.
Con la sua incarnazione, infatti, Cristo “ha detto: io sono tuo. E nel Battesimo ha detto a me: io sono tuo. Nella sacra Eucaristia lo dice sempre di nuovo: io sono tuo, perché noi possiamo rispondere: Signore, io sono tuo”.
“Preghiamo il Signore di poter imparare con tutta la nostra esistenza a dire questa parola. Così saremo nel cuore della Parola. Così saremo salvi”, ha auspicato.
Il Pontefice ha ricordato che la Liturgia delle Ore proponeva “un brano del grande Salmo 118 sulla Parola di Dio: un elogio di questa sua Parola, espressione della gioia di Israele di poterla conoscere e, in essa, di poter conoscere la sua volontà e il suo volto”.
Meditando con i Vescovi alcuni versetti del brano, il Papa ha sottolineato che la Parola “è solida, è la vera realtà sulla quale basare la propria vita”.
“Chi costruisce solo sulle cose visibili e tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi”, “sulla materia, sul successo, su tutto quello che appare, costruisce sulla sabbia”, ha osservato.
“Apparentemente queste sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente”.
“Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà”, ha sottolineato. “Solo Dio è infinito. E perciò anche la sua Parola è universale e non conosce confine”.
“Tutto è creato dalla Parola e tutto è chiamato a servire la Parola”, ha proseguito, sottolineando che “questo vuol dire che tutta la creazione, alla fine, è pensata per creare il luogo dell'incontro tra Dio e la sua creatura, un luogo dove l'amore della creatura risponda all'amore divino, un luogo in cui si sviluppi la storia dell'amore tra Dio e la sua creatura”.
Il Pontefice ha riconosciuto che “siamo sempre alla ricerca della Parola di Dio”, ma ha avvertito che se ci si ferma alla lettera non necessariamente la si comprende realmente. “C'è il pericolo che noi vediamo solo le parole umane e non vi troviamo dentro il vero attore, lo Spirito Santo”.
Per questo motivo, “l'esegesi, la vera lettura della Sacra Scrittura, non è solamente un fenomeno letterario, non è soltanto la lettura di un testo. È il movimento della mia esistenza. È muoversi verso la Parola di Dio nelle parole umane”.
“Solo conformandoci al mistero di Dio, al Signore che è la Parola, possiamo entrare all'interno della Parola, possiamo trovare veramente in parole umane la Parola di Dio”, con la quale “usciamo dalla limitatezza delle nostre esperienze e entriamo nella realtà che è veramente universale”.
Entrando nella comunione con la Parola di Dio, ha ricordato Benedetto XVI, entriamo nella comunione della Chiesa che la vive, “usciamo nella comunione di tutti i fratelli e le sorelle, di tutta l'umanità”.
E' per questa ragione che l'evangelizzazione, l'annuncio del Vangelo, la missione “non sono una specie di colonialismo ecclesiale”, ma “uscire dai limiti delle singole culture nella universalità che collega tutti, unisce tutti, ci fa tutti fratelli”.
La parola di Dio, ha concluso il Papa, “è come una scala sulla quale possiamo salire e, con Cristo, anche scendere nella profondità del suo amore”.


Discorso del Papa in apertura del Sinodo sulla Parola - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 6 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della meditazione che Benedetto XVI ha tenuto questo lunedì mattina nell’Aula del Sinodo in apertura dei lavori della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dopo la lectio brevis dell’Ora Terza.
* * *
Cari Fratelli nell'Episcopato,
cari fratelli e sorelle,
all'inizio del nostro Sinodo la Liturgia delle Ore ci propone un brano del grande Salmo 118 sulla Parola di Dio: un elogio di questa sua Parola, espressione della gioia di Israele di poterla conoscere e, in essa, di poter conoscere la sua volontà e il suo volto. Vorrei meditare con voi alcuni versetti di questo brano del Salmo.
Comincia così: «In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet». Si parla della solidità della Parola. Essa è solida, è la vera realtà sulla quale basare la propria vita. Ricordiamoci della parola di Gesù che continua questa parola del Salmo: «Cieli e terra passeranno, la mia parola non passerà mai». Umanamente parlando, la parola, la nostra parola umana, è quasi un niente nella realtà, un alito. Appena pronunciata, scompare. Sembra essere niente. Ma già la parola umana ha un forza incredibile. Sono le parole che creano poi la storia, sono le parole che danno forma ai pensieri, i pensieri dai quali viene la parola. È la parola che forma la storia, la realtà.
Ancor più la Parola di Dio è il fondamento di tutto, è la vera realtà. E per essere realisti, dobbiamo proprio contare su questa realtà. Dobbiamo cambiare la nostra idea che la materia, le cose solide, da toccare, sarebbero la realtà più solida, più sicura. Alla fine del Sermone della Montagna il Signore ci parla delle due possibilità di costruire la casa della propria vita: sulla sabbia e sulla roccia. Sulla sabbia costruisce chi costruisce solo sulle cose visibili e tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi. Apparentemente queste sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente. E così tutte queste cose, che sembrano la vera realtà sulla quale contare, sono realtà di secondo ordine. Chi costruisce la sua vita su queste realtà, sulla materia, sul successo, su tutto quello che appare, costruisce sulla sabbia. Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà. Quindi dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo. Realista è chi riconosce nella Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto. Realista è chi costruisce la sua vita su questo fondamento che rimane in permanenza. E così questi primi versetti del Salmo ci invitano a scoprire che cosa è la realtà e a trovare in questo modo il fondamento della nostra vita, come costruire la vita.
Nel successivo versetto si dice: «Omnia serviunt tibi». Tutte le cose vengono dalla Parola, sono un prodotto della Parola. "All'inizio era la Parola". All'inizio il cielo parlò. E così la realtà nasce dalla Parola, è "creatura Verbi". Tutto è creato dalla Parola e tutto è chiamato a servire la Parola. Questo vuol dire che tutta la creazione, alla fine, è pensata per creare il luogo dell'incontro tra Dio e la sua creatura, un luogo dove l'amore della creatura risponda all'amore divino, un luogo in cui si sviluppi la storia dell'amore tra Dio e la sua creatura. «Omnia serviunt tibi». La storia della salvezza non è un piccolo avvenimento, in un pianeta povero, nell'immensità dell'universo. Non è una cosa minima, che succede per caso in un pianeta sperduto. È il movente di tutto, il motivo della creazione. Tutto è creato perché ci sia questa storia, l'incontro tra Dio e la sua creatura. In questo senso, la storia della salvezza, l'alleanza, precede la creazione. Nel periodo ellenistico, il giudaismo ha sviluppato l'idea che la Torah avrebbe preceduto la creazione del mondo materiale. Questo mondo materiale sarebbe stato creato solo per dare luogo alla Torah, a questa Parola di Dio che crea la risposta e diventa storia d'amore. Qui traspare già misteriosamente il mistero di Cristo. È quello che ci dicono le Lettere agli Efesini e ai Colossesi: Cristo è il protòtypos, il primo nato della creazione, l'idea per la quale è concepito l'universo. Egli accoglie tutto. Noi entriamo nel movimento dell'universo unendoci a Cristo. Si può dire che, mentre la creazione materiale è la condizione per la storia della salvezza, la storia dell'alleanza è la vera causa del cosmo. Arriviamo alle radici dell'essere arrivando al mistero di Cristo, a questa sua parola viva che è lo scopo di tutta la creazione. «Omnia serviunt tibi». Servendo il Signore realizziamo lo scopo dell'essere, lo scopo della nostra propria esistenza.
Facciamo ora un salto: «Mandata tua exquisivi». Noi siamo sempre alla ricerca della Parola di Dio. Essa non è semplicemente presente in noi. Se ci fermiamo alla lettera, non necessariamente abbiamo compreso realmente la Parola di Dio. C'è il pericolo che noi vediamo solo le parole umane e non vi troviamo dentro il vero attore, lo Spirito Santo. Non troviamo nelle parole la Parola. Sant'Agostino, in questo contesto, ci ricorda gli scribi e i farisei consultati da Erode nel momento dell'arrivo dei Magi. Erode vuol sapere dove sarebbe nato il Salvatore del mondo. Essi lo sanno, danno la risposta giusta: a Betlemme. Sono grandi specialisti, che conoscono tutto. E tuttavia non vedono la realtà, non conoscono il Salvatore. Sant'Agostino dice: sono indicatori di strada per gli altri, ma loro stessi non si muovono. Questo è un grande pericolo anche nella nostra lettura della Scrittura: ci fermiamo alle parole umane, parole del passato, storia del passato, e non scopriamo il presente nel passato, lo Spirito Santo che parla oggi a noi nelle parole del passato. Così non entriamo nel movimento interiore della Parola, che in parole umane nasconde e apre le parole divine. Perciò c'è sempre bisogno dell’«exquisivi». Dobbiamo essere in ricerca della Parola nelle parole.
Quindi l'esegesi, la vera lettura della Sacra Scrittura, non è solamente un fenomeno letterario, non è soltanto la lettura di un testo. È il movimento della mia esistenza. È muoversi verso la Parola di Dio nelle parole umane. Solo conformandoci al mistero di Dio, al Signore che è la Parola, possiamo entrare all'interno della Parola, possiamo trovare veramente in parole umane la Parola di Dio. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a cercare non solo con l'intelletto, ma con tutta la nostra esistenza, per trovare la parola.
Alla fine: «Omni consummationi vidi finem, latum praeceptum tuum nimis». Tutte le cose umane, tutte le cose che noi possiamo inventare, creare, sono finite. Anche tutte le esperienze religiose umane sono finite, mostrano un aspetto della realtà, perché il nostro essere è finito e capisce solo sempre una parte, alcuni elementi: «latum praeceptum tuum nimis». Solo Dio è infinito. E perciò anche la sua Parola è universale e non conosce confine. Entrando quindi nella Parola di Dio, entriamo realmente nell'universo divino. Usciamo dalla limitatezza delle nostre esperienze e entriamo nella realtà che, è veramente universale. Entrando nella comunione con la Parola di Dio, entriamo nella comunione della Chiesa che vive la Parola di Dio. Non entriamo in un piccolo gruppo, nella regola di un piccolo gruppo, ma usciamo dai nostri limiti. Usciamo verso il largo, nella vera larghezza dell'unica verità, la grande verità di Dio. Siamo realmente nell'universale. E così usciamo nella comunione di tutti i fratelli e le sorelle, di tutta l'umanità, perché nel cuore nostro si nasconde il desiderio della Parola di Dio che è una. Perciò anche l'evangelizzazione, l'annuncio del Vangelo, la missione non sono una specie di colonialismo ecclesiale, con cui vogliamo inserire altri nel nostro gruppo. È uscire dai limiti delle singole culture nella universalità che collega tutti, unisce tutti, ci fa tutti fratelli. Preghiamo di nuovo affinché il Signore ci aiuti a entrare realmente nella "larghezza" della sua Parola e così aprirci all'orizzonte universale dell'umanità, quello che ci unisce con tutte le diversità.
Alla fine ritorniamo ancora a un versetto precedente: «Tuus sum ego: salvum me fac». Il testo italiano traduce: «Io sono tuo». La parola di Dio è come una scala sulla quale possiamo salire e, con Cristo, anche scendere nella profondità del suo amore. È una scala per arrivare alla Parola nelle parole. «Io sono tuo». La parola ha un volto, è persona, Cristo. Prima che noi possiamo dire «Io sono tuo», Egli ci ha già detto «Io sono tuo». La Lettera agli Ebrei, citando il Salmo 39, dice: «Un corpo invece mi hai preparato... Allora ho detto: Ecco, io vengo». Il Signore si è fatto preparare un corpo per venire. Con la sua incarnazione ha detto: io sono tuo. E nel Battesimo ha detto a me: io sono tuo. Nella sacra Eucaristia lo dice sempre di nuovo: io sono tuo, perché noi possiamo rispondere: Signore, io sono tuo. Nel cammino della Parola, entrando nel mistero della sua incarnazione, del suo essere con noi, vogliamo appropriarci del suo essere, vogliamo espropriarci della nostra esistenza, dandoci a Lui che si è dato a noi.
«Io sono tuo». Preghiamo il Signore di poter imparare con tutta la nostra esistenza a dire questa parola. Così saremo nel cuore della Parola. Così saremo salvi.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Il Rabbino di Haifa: un segno di speranza la mia presenza al Sinodo - Per la prima volta un rappresentante ebraico è presente all'assemblea - CITTA' DEL VATICANO, martedì, 7 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il Gran Rabbino di Haifa (Israele) ha confessato che il suo intervento, questo lunedì pomeriggio, al Sinodo dei Vescovi rappresenta un segno di speranza per la crescita delle buone relazioni tra cattolici ed ebrei.
Shear Yashuv Cohen è entrato insieme a Benedetto XVI nell'aula sinodale e ha partecipato seduto tra i Vescovi a tutta la sessione pomeridiana. Poi, dalla cattedra centrale, accanto al Papa, ha pronunciato le prime parole rivolte da un rappresentante ebraico al Sinodo dei Vescovi.
“Esiste una lunga, dura e dolorosa storia di relazioni tra il nostro popolo e la nostra fede e i leader e seguaci della Chiesa cattolica, una storia di sangue e lacrime”, ha affermato.
Il Rabbino è Copresidente della Commissione Bilaterale del Gran Rabbinato di Israele e della Santa Sede.
“Sono profondamente convinto che la mia presenza tra voi sia estremamente significativa - ha aggiunto - . Porta con sé un segno di speranza e un messaggio d'amore, convivenza e pace per la nostra generazione e per le generazioni future”.
Secondo quando ha spiegato l'Arcivescovo Nikola Eterović, Segretario generale del Sinodo dei Vescovi, la commissione organizzatrice ha ritenuto “logico” invitare all'assemblea sulla Parola di Dio un rappresentante del popolo ebraico. Benedetto XVI ha poi approvato questa decisione.
Quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, del resto, il Cardinale Joseph Ratzinger incontrava spesso rappresentanti ebraici.
Nel suo intervento al Sinodo il Rabbino, nato nel 1927 e figlio di David Cohen, un famoso Rabbino di Gerusalemme, ha illustrato ai Vescovi il ruolo centrale che la Bibbia ha nella vita e in particolare nella preghiera e nel culto degli ebrei.
Il Rabbino, che ha rivelato di essere stato introdotto dai suoi amici della Comunità di Sant'Egidio allo spirito di dialogo promosso da Giovanni Paolo II con l'incontro di Assisi del 1986, ha presentato alcuni momenti tipici del culto nella sinagoga.
“Preghiamo Dio utilizzando le sue stesse parole, come ci vengono riportate dalle Scritture”, ha affermato. “Allo stesso modo, lo lodiamo usando le sue stesse parole tratte dalla Bibbia”.
“Imploriamo la sua misericordia, ricordando che Egli l'ha promessa ai nostri antenati e a noi. Tutto il nostro servizio si basa su un'antica regola, come ci hanno riferito i nostri Rabbini e maestri: 'Dategli ciò che è suo, perché voi e ciò che è vostro siete suoi'”.
“Crediamo che la preghiera sia il linguaggio dell'anima nella sua comunione con Dio. Crediamo sinceramente che la nostra anima sia sua, che Egli ce l'abbia donata”.
I Rabbini, quando parlano nei loro sermoni di temi come la santità della vita, la lotta al secolarismo, la promozione dei valori della fraternità, l'amore e la pace, cercano “sempre di basare le proprie parole su citazioni bibliche”, ha osservato.
“Il nostro punto di partenza si ritrova nei tesori della nostra tradizione religiosa, anche se parliamo a un mondo moderno con un linguaggio contemporaneo e affrontiamo questioni attuali”.
“E' sorprendente constatare come le Sacre Scritture non perdano mai la loro vitalità e importanza per presentare questioni della nostra epoca – ha concluso il Rabbino –. E' questo il miracolo della perpetua Parola di Dio”.



Ed è subito Siri - Coniugare “l’intransigentissima verità con la tollerantissima carità”, ecco il cardinal Siri… - di Francesco Agnoli – Il Foglio 2 ottobre 2008

Il recente convegno organizzato a Genova in suo ricordo, alla presenza del cardinal Angelo Bagnasco, la pubblicazione di alcune sue omelie da parte di un’ editrice cattolica emergente, e in rapida espansione, “Fede & Cultura”, segnano, insieme ad alcune nomine papali strategiche di alcuni suoi discepoli, il ritorno del cardinal Giuseppe Siri e del suo magistero nella vita della Chiesa. Il tempo, dunque, è stato ancora una volta galantuomo: i nuovi teologi francesi, tedeschi, olandesi, osteggiati a lungo, apparentemente senza successo, dal cardinale di Genova, dopo aver imperversato nel post concilio, beandosi della loro “originalità” e “indipendenza”, cadono pian piano nell’oblio, e le loro novità si rivelano sempre più figlie del loro tempo, effimeri tributi allo spirito di un’epoca, incapaci di resistere alla prova della storia.
Chi veniva esaltato, acclamato come voce profetica, che predice e anticipa il futuro, è oggi sempre più dimenticato; chi era considerato un residuo del passato, da dimenticare per sempre, viene oggi pian piano riscoperto. Questo perché Siri fu fedele al motto di cui ogni ministro di Dio, dovrebbe fregiarsi, per evitare di cadere nella vanagloria, nell’orgoglio, nella presunzione: Non nobis Domine, sed Nomini Tuo da gloriam. Questa certezza, che tutto ciò che facciamo dobbiamo giudicarlo come Lui lo avrebbe giudicato, permise a Siri di costruire la sua vita sulla roccia, per affrontare il successo, con equilibrio, quando innegabilmente ci fu, e l’ostracismo, l’incomprensione, l’odio, quando necessario.
Da giovane sacerdote Siri è ben cosciente di quanto il fascismo sia incompatibile con la fede, per la sua concezione hegeliana della storia, per il suo nazionalismo e per il suo “panstatismo”. A 38 anni diviene il più giovane vescovo italiano e durante l’occupazione tedesca è costretto a vivere clandestinamente, sull’appennino ligure, ricercato dai tedeschi. Nell’aprile del 1945 è tra coloro che convincono i tedeschi ad abbandonare Genova senza distruggerla, senza inutili rappresaglie e spargimenti di sangue. Proprio questo suo ruolo, la sua fama di antifascista, le sue grandi opere di carità, gli ottengono una notevole stima e influenza, presso gli ambienti più diversi. Ma la caduta del fascismo non pone certo fine alla storia della lotta tra bene e male, come l’ ideologia vorrebbe far credere. C’è, in agguato, il fascino del comunismo, e Siri si trova a vivere in una città particolarmente influenzabile: reagisce mantenendo ferma la barra dell’anticomunismo, cercando la collaborazione degli imprenditori, attentissimo ad essere, nel contempo, il difensore del suo popolo. Ai suoi sacerdoti chiede povertà, vieta loro, se non in casi particolari, l’uso dell’automobile, e di ogni ostentazione di ricchezza. Vuole sacerdoti che siano poveri, capaci di sacrificio, vicini alla gente, ma anche distinti: i suoi “cappellani del lavoro” non si confondono, né quanto a veste, né ad atteggiamenti, ai preti operai, ma nello stesso tempo partecipano delle ristrettezze e delle urgenze anche materiali del proletariato e degli operai della città. Vive, lui stesso, in povertà, ed accoglie persone in cerca di lavoro, le aiuta, paga bollette a questo e a quello, come un vero padre affettuoso e premuroso.
Amatissimo da Pio XII, che lo vorrebbe a Roma, come Segretario di Stato, fa di tutto per rimanere nella sua Genova. A Roma però va spesso, per il Concilio, perchè chiamato a consulto dai papi, cui non di rado, con umiltà, esprime il proprio parere, trovandosi non di rado in disaccordo, come Paolo con Pietro, con Giovanni XXIII, ad esempio sulle persecuzioni a padre Pio, che non comprende, o con Paolo VI, sulle sue aperture politiche, al centro sinistra, e dottrinali. Il periodo sicuramente più travagliato della sua vita è però quello del Concilio e del post Concilio. Siri è uno dei tanti principi della Chiesa che accolgono con forte contrarietà l’indizione del Concilio: il momento non gli appare opportuno, ed anche l’ottimismo di Giovanni XXIII sui segni dei tempi lo trova perplesso. “Ho capito poco del discorso del papa- scriverà alludendo all’ apertura del concilio-, in quel poco ho subito avuto modo di fare un grande atto di obbedienza mentale”. Siri è inoltre indignato per lo spirito di non pochi padri conciliari, per la verbosità dei documenti, in cui gli sembra che alcune proposizioni possano risultare “incerte”, ambigue; per le “pillole democratiche” ingerite dai padri che vogliono limitare l’autorità papale a vantaggio dell’assemblea; per l’avversione di alcuni alla Tradizione; per tante idee sull’ecumenismo che gli sembrano confinare con l’indifferentismo ed il sincretismo, e per la nuova concezione della “libertà religiosa”, sostituita alla più tradizionale “tolleranza religiosa”.
Scrive: “Se la Chiesa non fosse divina, questo Concilio l’avrebbe seppellita”. Soprattutto Siri segue con particolare apprensione le innovazioni liturgiche, critica aspramente l’operato di Bugnini e Lercaro, lamenta l’accento posto maggiormente sull’idea di Cena, piuttosto che sul Sacrificio, l’eliminazione della centralità del Tabernacolo, la protestantizzazione dei preti e delle cerimonie, la comunione sulla mano (un Dio che non viene ricevuto, accolto, ma “preso”)… Abbandonata la presidenza della Cei, Siri concluderà la sua vita cercando di fare della propria diocesi un argine, un luogo di resistenza a quelle innovazioni da lui ritenute ingiuste o inopportune, ma agendo sempre, come mi racconta un vecchio collaboratore di Renovatio, Piero Vassallo, cercando di coniugare “l’intransigentissima verità con la tollerantissima carità”.
Il Foglio 2 ottobre 2008


06/10/2008 14:30 – INDIA - Maoisti hanno ucciso lo Swami indù; il governo dell’Orissa ha nascosto le prove
L’assassinio dello Swami è stata la scintilla da cui è partito il pogrom contro i cristiani. Richieste le dimissioni del governo dell’Orissa. La riconversione di tribali e paria cristiani all’induismo è un progetto in atto da decenni. Le organizzazioni cristiane chiedono di mettere fuorilegge le organizzazioni radicali indù
Bhubaneshwar (AsiaNews) – Un leader maoista ha di nuovo rivendicato la morte di Swami Laxmanananda Saraswati, il cui assassinio ha scatenato il pogrom contro i cristiani in Orissa.
Egi afferma che gli autori dell’eccidio hanno lasciato 2 lettere sul luogo del delitto, ma il governo ha taciuto per incolpare i cristiani e lasciare che venissero uccisi “per scopi elettorali”.
Lo Swami, uno dei capi del gruppo radicale Vhp (Vishwa Hindu Parishad), è stato ucciso lo scorso 23 agosto nel suo ashram da un gruppo di armati. Da subito il Vhp e altre organizzazioni fondamentaliste hanno incolpato i cristiani anche se vi erano sospetti che gli autori fossero dei maoisti.
Ora il leader maoista Sabyasachi Panda rivendica la morte dello Swami perché egli forzava i tribali a divenire indù. “Abbiamo ordinato la pena di morte per lui” ha detto Panda da un rifugio segreto. Egli ha aggiunto che i killer hanno lasciato due lettere, ma le autorità hanno nascosto le prove “per avere una scusa e attaccare i cristiani”. Panda afferma anche che egli ha cercato di diffondere la notizia della rivendicazione fra i giornali locali, ma essi si sono rifiutati di pubblicarla.
“Dopo le violenze del dicembre 2007 [in cui ci sono state ancora violenze contro i cristiani in Orissa - ndr] abbiamo minacciato di ucciderlo se avesse continuato insieme ai suoi sostenitori a dare fastidio a tribali e dalit cristiani per far loro cambiare religione”.
Swami Laxamananda Saraswati e il Vhp, da decenni accusano le Chiese cristiane di convertire tribali e dalit con la forza, con l’inganno e dietro promesse di vantaggi economici. La loro campagna anti-cristiana è appoggiata da proprietari terrieri e commercianti, timorosi dell’emancipazione di dalit e tribali.
Le (false) accuse contro i cristiani hanno scatenato una serie di violenze che hanno causato finora la morte di 61 persone, l’incendio di oltre 4 mila case di cristiani, la distruzione di 181 chiese e cappelle e di 13 fra scuole e centri sociali. Molti villaggi, soprattutto nel distretto di Kandhamal, sono ancora presi di mira. I radicali indù minacciano di morte chiunque non si riconverte all’induismo.
Secondo il leader maoista, il Chief minister dell’Orissa, Naveen Patnaik, dovrebbe dimettersi immediatamente per non aver difeso i cristiani e le loro proprietà.
Anche le organizzazioni cristiane in India denunciano l’inazione del governo dell’Orissa e di quello centrale. Ma essi chiedono soprattutto la messa al bando delle organizzazioni indù radicali, accusate di essere vere e proprie “organizzazioni terroriste”. Il Vhp, l’Rss (Rashtriya Swayamsevak Sangh), il Bd (Bajrang Dal) hanno come progetto l’eliminazione delle minoranze e di tutte le religioni diverse dall’induismo. Esse trovano espressione politica e protezione nel Bjp (Bharatiya Janata Party), attualmente all’opposizione nella Confederazione, ma al potere in Orissa.


L'alternativa al nulla è il coraggio di porre fatti positivi - Pigi Colognesi - martedì 7 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
A volte si leggono delle espressioni che, nella loro semplicità ed efficacia, appaiono definitivamente espressive di una situazione, di un momento storico, di uno stato dell’umano. A me è capitato recentemente di fronte a un’intervista concessa da André Gluksmann a Il Giornale. Descrivendo il suo impegno attuale, il filosofo francese dice: «La sfida al nichilismo è la più vasta, la più profonda, la più intima delle prove contemporanee». E accenna al fatto che, in questa lotta, ciò che occorre fare è dar voce ai «dissidenti del nichilismo». Eccola l’espressione sintetica ed efficace: «dissidenti del nichilismo».
Nichilismo è una parola che ormai ha travalicato il contesto filosofico e la discussione teorica, per finire nel linguaggio comune. Con essa si descrive qualcosa magari di vago e generico, ma in fondo preciso nella sua radice. La radice stessa della parola: nihil, nulla. Come a dire che non c’è niente che valga, niente che consista. Non i rapporti interpersonali resi labili dalla facilità e superficialità del loro farsi e disfarsi; non la verità, sostituita dal cicaleccio delle opinioni; non il destino della vita, che in fondo sembra rotolare verso il buio e scomparire. È come se una gigantesca ma impalpabile nube tossica abbai invaso i pensieri, gli affetti, le azioni, il lavoro, rendendo tutto così fragile da sembrare sempre lì lì per disgregarsi, sull’orlo, appunto, del nulla. Come, altrimenti, spiegare l’incredibile aumento dell’uso di stupefacenti tra adulti che lavorano, guadagnano, hanno una buona posizione sociale? Oppure la gravissima crisi educativa, la cui ultima causa è il fatto che sembra non ci sia nulla cui educare?
Ma non è sull’analisi del nichilismo – che ha molti altri volti e sfumature – che voglio soffermarmi. Piuttosto la frase di Gluksmann è interessante perché afferma la possibilità di un dissenso rispetto a tale nichilismo. Giuseppe Galasso su Il Corriere della Sera ha commentato che per opporsi al nichilismo non basta il dissenso: «Al nulla non si può opporre solo la sua negazione, ma un positivo, alternativo e persuasivo». Ma, a ben guardare, quando uno si oppone al nulla lo fa già in nome di qualcosa di diverso dal nulla stesso. Magari è solo l’intuizione di un bene cui non sa dare nome, magari è soltanto il disagio che sale dal profondo e che impedisce di rassegnarsi. Magari è un piccolo gesto di costruzione positiva in un contesto distruttivo.
Vaclav Havel, il grande «dissidente» cecoslovacco racconta ne Il potere dei senza potere, che il semplice fatto che un venditore di verdura si rifiuti di esporre sopra il prezzo dell’insalata una frase inneggiante al regime totalitario è una speranza per tutti, è un gesto di positivo dissenso dal nichilismo. Così i monaci di cui ha parlato Benedetto XVI a Parigi: semplicemente stanziandosi in un posto mentre tutti vagabondavano senza meta, dissodando terreni che nessuno curava più, stringendo legami amichevoli quando tutto intorno era violenza, si sono opposti al vortice del nulla che distruggeva una civiltà. E ne hanno costruito un’altra.
Ecco, i «dissidenti del nulla» sono quelli che hanno il coraggio di porre fatti positivi. Che diventano segni di speranza per tutti. Nei prossimi giorni cercheremo di raccontare la storia di qualcuno di questi «dissidenti».


SCUOLA/ Quella passione educativa che supera anche i pugni in faccia - Fabrizio Foschi - martedì 7 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Il professor Luigi Sergi, di Novara, ha ricevuto un pugno al volto da un suo allievo di terza media (14 anni) al quale aveva (giustamente) negato di uscire di nuovo dalla classe dopo l’intervallo. «Il ragazzo aveva dei problemi – ha detto il professore – e l’ho sempre aiutato; ora mi crolla il mondo addosso, proprio non mi aspettavo una tale reazione».
Grazie professore, coraggio professore. Non si demoralizzi, non demorda non abbandoni il campo. Sarebbe certamente comprensibile dopo un simile sfregio ad una onorata carriera: peraltro del tutto imprevedibile e non corrispondente a nessuna volontà vessatoria da parte sua. Tutt’altro! Quello che vorremmo dirle è che lei ci ha insegnato, pur nella drammaticità del caso, che cosa è la scuola oggi. Una realtà nella quale le categorie universali diventano, in ultima istanza, particolari. La classe non è formata da “alunni”, ma da quelle persone lì, nome e cognome. E oggi, tra l’altro, ai Mario e alle Caterine si affiancano a ritmo vorticoso gli Allam e le Jamile.
La scuola italiana di origine gentiliana, espressione di una cultura fondata sulla idea della sintesi si è rovesciata nel suo contrario: l’eccesso dell’analitico e la mancanza di punti di riferimento comuni. In questo guazzabuglio, nel quale l’insegnante talvolta si perde ed è tentato di gettare la spugna, ciò che resiste è l’idea che la professione docente poggia su una matrice che non deriva dall’organizzazione, ma da un impeto ideale. Si tratta di quella passione ad insegnare che si coglie a prima vista e per la quale il docente è attento non solo a ciò che comunica (abilità, saperi, competenze, ecc.), ma anche al perché lo comunica. La differenza non è da poco perché implica l’interesse profondo per la persona alla quale si insegna.
Il professor Sergi, rammaricato, ha detto che si era preso cura altre volte di quell’alunno. E questo è indice di una passione educativa che dà forma e significato alla cultura disciplinare. Ma tutto come abbiamo visto si gioca poi nel campo dell’incontro tra persone e non nell’astratto del general-generico.
Insegnare educando è rischioso. Ne va della faccia propria (in senso letterale) che deve misurarsi con la libertà altrui. Il ragazzo la sua libertà l’ha usata: male, povero ragazzo. Sarà punito, com’è giusto che sia. Ma il professor Sergi non potrà mai più togliersi dalla testa l’impressione che il pugno sia stato una maldestra risposta individuale ad una sua richiesta. Insomma, se non si fosse imposto non sarebbe arrivato il pugno. Era bene non chiedere? Era giusto sottrarsi all’incontro-scontro? No, perché se non si chiede nulla e nulla si pretende, la scuola diventa il camposanto delle buone intenzioni e delle perfette programmazioni (inutili).
Non si scoraggi dunque professore, lei ci ha insegnato cosa vuol dire rischiare dentro un rapporto: vuol dire attendersi sempre una risposta. A volte negativa, ma tante volte spalancata alla bellezza della conoscenza.
Recuperi fiducia in questa professione e, se vuole, recuperi fiducia nella possibilità di quel ragazzo di ritrovare in lei un adulto capace di introdurlo nel mondo. Magari fra qualche tempo.


SOCIETA' LIQUIDA/ E' ancora possibile riaffermare un'etica del legame - Maria Teresa Maiocchi – IlSussidiario.net - martedì 7 ottobre 2008
“Come due gocce d’acqua”, si dice per indicare l’identità perfetta di due individui, che quindi sembrano due, ma – piuttosto che irrepetibili e singolari – sono in realtà uni-formi. Non veramente due quindi, ma solo piccoli ‘uni’ che si rispecchiano nella loro in-differenza.
Credo che il segreto della brillante metafora baumaniana – come il segreto della fortuna folgorante – non stia tanto nell’idea di una fluidità, legata a uno sciogliersi dell’antica affidabile solidità delle relazionid’un tempo, ormai private di precisi limiti, disperse in vasi resi troppo comunicanti dalla dissoluzione tardo imperiale dei ‘valori’. E’ decisiva piuttosto l’intuizione che sta dietro alla fluidità: in virtù di una radicale omogeneizzazione delle differenze, si può intendere che il cosiddetto liquido celi – ma anche insieme renda evidente – una più reale e inattraversabile… impermeabilità. In altri termini, quel che la spinta postmoderna e irrefrenabile al consumer assoluto produce non è una più libera circolazione dei legami, quanto piuttosto una loro ridefinizione, che li riduce alla loro somiglianza, rimuovendo dalla scena la risorsa della loro differenza. E per questo sono legami che possono così facilmente dis-farsi, di-sciogliersi: se ad agganciarmi all’altro non c’è più lo stupore, la sorpresa enigmatica della sua diversità irriducibile, allora inevitabilmente resto il prigioniero annoiato della mia eternizzata stessità.
Nel dramma barocco di Calderon, un altro polacco, Sigismondo anche lui, ma in altro tempo da quello del nostro Zygmunt, si dispera proprio su questo punto: “La vita è sogno?”. Come, allora, toccare un reale che il sogno attutisce e allontana, ma anche avvolge e a suo modo mette in atto, e per questo non può essere semplicemente da rigettare… Come tollerare l’ambiguità etica di questa reverie, per la quale si rischia la follia di abbandonarsi nelle mani dell’altro, ma senza di cui resta -come unica soluzione- un malinconico rinchiudersi nel perimetro insopportabile e pur rassicurante della torre? La torre, che – nel dramma calderoniano – è fin dalla nascita il luogo della radicale segregazione di Sigismondo ma anche il suo rifugio contro l’inquietante imprevedibilità di un incontro reale.
La questione – così barocca e così attuale – mi sembra trovare una corrispondenza segreta con quella della “vita liquida” baumaniana. A ciascuno la sua torre? A ciascuno la sua piccola impermeabile goccia? Rispetto a cui il perdersi nel mare anonimo delle mille e mille identiche altre piccole gocce sembra di sollievo: sollievo del gruppo, che sancisce nell’omologazione un’appartenenza senza radici, fondata sull’immagine. Ma che in cambio chiede il sacrificio della singolarità, la rinuncia all’insopportabile differenza di ciascuna soggettività.
E’ quel che oggi dice a chiare lettere la pratica clinica: ci si ammala di anonimato. I ‘nuovi’ sintomi che oggi si disegnano nella patologia di sempre sono l’indice di una nuova inseparabilità del soggetto dall’infantilismo di certe forme della relazione, sorta di disimpegno dal volervi-potervi operare il giusto taglio. Vi resta invece caratteristicamente a bagno, invischiato in una non scelta, al di qua del desiderio come motore della crescita e della cura. Se dunque nella dimensione clinica la patologia coincide con un disimpegno soggettivo dal destino e dal suo dramma, sembra possibile pensare che questo corrisponda – nel campo sociale – alla liquidità baumaniana dei legami, che si mantengono come ruoli, ma senza separazione, senza progetto, senza desiderio: indifferenti, sempre diversi, sempre uguali.
Generosamente Bauman ha provato a dar nome al disagio che costituisce la postmodernità, sulla scia forse di un altro Sigmund, ebreo anche lui, che altrettanto appassionatamente ha avvertito come il disagio sia strutturale nella civiltà, insieme clinico e sociale, poiché è lo stesso legame tra soggetti che pone un interrogativo sulla soggettività: l’incontro con l’altro è costitutivo, ma i suoi esiti non sono scontati. Possono prendere vie diverse. Anche nefaste. Per questo prendere in conto con realismo questo disagio, il gesto di dargli nome, è essenziale a cogliere alla dimensione etica, per scegliere di mettersi al lavoro in altra direzione, in controsenso al Disagio della civiltà e alle sue incalcolabili derive. E’ il 1930, la “notte dei cristalli” è ormai in agguato, non ancora così vicina da soffocare la voce nell’orrore, ma non abbastanza lontana da permettere una via diversa dall’Olocausto: il cui tema è non a caso profondamente baumaniano. Anche per Bauman infatti le congiunture che portano al realizzarsi della Shoa toccano un punto nevralgico, non episodico dell’esperienza umana. Con l’Olocausto si evidenza – come ha più volte notato Lacan in snodi cruciali del suo insegnamento – la spinta irriducibile che l’universalismo della scienza ha indissolubilmente dato a forme di legame oscure, che si definiscono come “segregazione”. Marcare socialmente – come fa Barman – la liquidità delle convivenze, la cancellazione di confini e di passaggi, l’assenza del limite, dà nome al pericolo radicale – sociale e psichico – di una societas senza soglie, senza passaggi segnati, senza limiti, senza chiusure e quindi senza nemmeno vere aperture, nello scorrere senza traccia di distacchi, separazioni, lutti: far più leggero il dramma, dar l’oblio al disagio, liquefare la dimensione dell’incontro, rimuove anche il rischio-risorsa dei legami, la loro cura vitale, ciò che fa l’esistenza propriamente umana, come ricordava Eugenia Scabini nel suo intervento in questo dibattito.
La “vita liquida” può essere un nome sottile, che rende pensabile come dietro la facilità della circolazione universale e l’infinità delle reti stia la segregazione, la chiusura malinconica al legame con l’altro e al suo rischio vivificante. «In quanto compratori – dice Bauman – noi siamo stati istruiti da manager di mercato e da sceneggiatori pubblicitari a giocare il ruolo del soggetto – una finzione vissuta come una verità viva; una messinscena rappresentata come la “vita vera”, la quale però con il passar del tempo spinge via la vita vera e la priva di ogni possibilità di ritorno …».
Come in un film di fantascienza di qualche anno fa, I robot, a far mutare le sorti del dramma – l’annientamento delle imperfette macchine umane a vantaggio della perfezione dei robot – sarà solo un piccolo imprevedibile gesto di intesa tra soggetti – poco importa se uno è umano e l’altro macchina umanizzata – in quanto interessati al loro reciproco destino.
Panta rei, tutto scorre, la vita liquida, la vita che scioglie dal legame facendo finta di non reciderlo, può sembrare dunque una strada imboccata, ma è ancora rinunciabile se ne siamo avvertiti… Per un soggetto che possa scegliere – ancora – per un’etica del legame.


CRISI FINANZIARIA/ Il rilancio dell'economia europea parte da una nuova collaborazione fra gli Stati membri - Stefano Cingolani - martedì 7 ottobre 2008
Nemmeno la valigiona piena di dollari che Hank Paulson ha preparato (in tutto 700 miliardi pari al 5% del prodotto lordo americano) è riuscita a riportare fiducia a Wall Street e in Main Street. Figuriamoci le parole dei quattro grandi (Germania, Regno Unito, Francia e Italia). Sono durate lo spazio di un mattino segnato, nelle borse europee, da un lunedì tra i più neri. Il bricolage nazionale non funziona, come ha dimostrato il fiasco tedesco nel salvataggio di Hypo Real Estate. E i governi saranno chiamati a scelte molto più drastiche.
È vero che la Ue non è uno stato federale, non ha un unico bilancio, né una sola politica fiscale. Quindi è più difficile creare un fondo alla Paulson (la proposta Sarkozy appoggiata da Berlusconi ammonta a 300 miliardi di euro pari al 3% del pil europeo). Il problema di chi e quanto paga resta un rompicapo politico prima ancora che economico, pressoché irrisolvibile nel Vecchio Continente. Tuttavia, l’approccio caso per caso è un errore. Dietro questa ostinazione tardo-nazionale non c’è soltanto l’eterna diatriba tra federalisti e confederali, ma un conflitto di interessi molto forte. Gli inglesi non vogliono che la Bce possa in qualsiasi modo mettere il naso nei santuari della Old Lady, alias Banca d’Inghilterra. E soprattutto intendono salvaguardare l’autonomia della City, nonostante i guai che ha combinato. I tedeschi difendono quell’intreccio tra banche, assicurazioni, industrie che è l’architrave del Modell Deutschland. Il Lussemburgo vuol tenersi il suo “paradiso”. E così via. Ciascun per sé, perché ciascuno coltiva il proprio orticello.
Il vertice parigino, inoltre, ha mancato di rispondere a tre questioni vitali: Maastricht, il ruolo della Bce nella vigilanza bancaria e la politica monetaria. Certo, tutti auspicano un’applicazione più flessibile, ma il patto di stabilità va rivisto da capo, perché la storia è cambiata. Allora (sono passati 15 anni) il pericolo veniva dalle valute, oggi dalla finanza e dal credito. Allora bisognava sradicare l’inflazione, oggi bisogna mettere radici robuste allo sviluppo. Ciò ci porta al dogma della banca centrale: l’unico suo compito non può più essere mantenere i prezzi sotto il 2%. Deve anche favorire il rilancio economico, controllare il credito e garantire una crescita che coincida con il potenziale dei paesi europei (si aggira al 3%, il doppio di quel che in media è stato realizzato negli anni di vacche grasse).
È in gioco l’Europa così come l’abbiamo conosciuta. Dunque, si può pensare l’impensabile, anche il collasso dell’euro. «E se i suoi critici avessero avuto ragione?» – ha scritto Pierre-Antoine Delhommas su Le Monde. Se fior di premi Nobel come Milton Friedman o il francese Maurice Allais avessero capito che una moneta unica non poteva sopravvivere senza un vero mercato unico e una struttura politica adeguata? Fino a ieri erano voci nel deserto, ma oggi che la Ue non ha il coraggio di superare i vetusti campanili, nemmeno di fronte alla più grave crisi della sua storia, il loro pessimismo rischia di trasformarsi in realismo. Un progetto coordinato di rilancio dell’economia reale, insieme a un radicale risanamento della finanza malata, può evitare che la sfiducia si trasformi in panico. Ma ci vuol altro che un week end all’Eliseo.


L’ESEMPIO/ Quando investire in capitale umano produce sviluppo - Redazione - lunedì 6 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
C’è un’azienda tecnologica nelle Marche che pensa al benessere dei propri dipendenti e che aiuta i giovani ad avere l’esperienza necessaria per diventare, dopo pochi anni di cammino all’interno della struttura, loro stessi imprenditori e mettere su un’azienda.
Si tratta del Gruppo Loccioni, 280 “collaboratori”, situato ad Angeli di Rosora, piccolo comune in provincia di Ancona, che, principalmente, sviluppa e realizza soluzioni su misura nell’ambito del controllo qualitativo dell’automazione e delle infrastrutture di rete.
Collaboratori, e non dipendenti oppure operai, perché «tutti quelli che lavorano nella nostra azienda collaborano a sviluppare idee ed essere parte integrante di un progetto che poi li vedrà protagonisti in futuro», sottolinea Enrico Loccioni, presidente e fondatore dell’azienda, eletto “marchigiano dell’anno 2008 per l’innovazione tecnologica” e Imprenditore Olivettiano 2008 per aver «perseguito l’obiettivo della valorizzazione del lavoro e della libertà creativa ispirandosi al pensiero di Adriano Olivetti».
Un caso di successo che è diventato anche analisi di un libro, “Competenze organizzative nella media impresa: il caso Loccioni”, scritto da due professori universitari di Organizzazione aziendale, Mariacristina Bonti e Enrico Cori.
Le vicende imprenditoriali e aziendali del Gruppo Loccioni, fondato nel 1968 nell’entroterra marchigiano e protagonista di uno sviluppo ininterrotto in nicchie di mercato ad elevata tecnologia, offrono agli autori l’occasione per approfondire le più ricorrenti tematiche organizzative nella media impresa.
E che la Loccioni sia un’azienda particolare è evidente: fra una sessione di lavoro e l’altra ci si rilassa col ping pong, o si passeggia nel parco interno dove si aggirano alcuni animali liberi. E dal 2002 la società compare sempre fra i “great place to work” in Italia, il riconoscimento per la soddisfazione sul posto di lavoro. Non solo. È stato inaugurato a giugno il primo mini-condominio a emissioni zero di tipo passivo. La palazzina conta sei appartamenti e i condomini che vi abiteranno, dipendenti del gruppo Loccioni, entreranno a far parte del progetto Life energy and future (Leaf), la community che vivrà usando solo l’energia che arriva da fonti naturali e soluzioni domotiche e tecnologiche di altissimo livello.
L’idea nasce in casa Loccioni e vi hanno preso parte anche Enel, Whirlpool e Cisco. La palazzina possiede anche un sistema di accumulo per l’idrogeno o gli elettrodomestici ad altissima efficienza. Le pareti sono isolate per trattenere il caldo in inverno e il fresco in estate. La mansarda, invece, sarà dedicata ad un laboratorio, il Whirlpool Zeos (Zero emission open space) per sperimentare nuovi prodotti e nuove soluzioni eco-sostenibili ed eco-compatibili. Ad Angeli di Rosora si sta lavorando per estendere la comunità Leaf iniziando ad usare per gli spostamenti vetture elettriche o a idrogeno.
Dal 22 al 26 settembre, il condominio si è “acceso” per un evento, promosso da Cisco, per dimostrare il valore della rete e che ha coinvolto cinque personaggi alle prese con il proprio lavoro: l’esperto di web 2.0 Luca Conti, la presentatrice Andrea Delogu, il film maker Sebastiano Vitale, la giornalista di moda Eliana Venier e Alessandra Cesarano, conosciuta sul Web come Thelma e creatrice della community Stasera.org.
Lo “Human network effect live” è stato, in pratica, uno show trasmesso in diretta via web. I cinque hanno proseguito i rispettivi lavoricomunicando e interagendo con il pubblico attraverso i social network più diffusi. Ogni giorno gli abitanti hanno affrontato delle sfide, utilizzando gli strumenti della rete, e sono stati presenti (o nella casa oppure in collegamento) ospiti con i quali discutere, tra cui il famoso scrittore Federico Moccia, oltre che contatti con il pubblico.
L’età media dei “collaboratori” è 32 anni, tutti marchigiani («crediamo molto al radicamento regionale e non vogliamo che si impieghi più di mezz’ora per arrivare in azienda», dice Loccioni), tranne un gruppo di ragazzi napoletani, provenienti dall’Università Federico II, e un cinese.
«Il modello che abbiamo scelto è quello della play factory, un’impresa dove le idee hanno la possibilità di realizzarsi - prosegue Loccioni -. Puntiamo sulla formazione continua, ma anche sul lavoro in totale autonomia, usando un approccio da start up su ogni progetto».
Il 4% del fatturato va alla ricerca, con quattro laboratori che operano con università e centri di ricerca, nello sviluppo e realizzazione di sistemi chiavi in mano ad alto contenuto tecnologico. Ma anche in stretta collaborazione con le scuole: la “Bluzone” lavora all’integrazione fra studenti e lavoro, circa un migliaio tra italiani e stranieri, una palestra che permette ai giovani di mettersi alla prova sui progetti. Si va dalle semplici visite di orientamento a tirocini formativi, master tecnici e manageriali per neodiplomati e neolaureati, progetti speciali con istituti formativi e università.
(Marino Petrelli)


7 ottobre 2008 - Il cardinale e lo storico fanno apologia misericordiosa della promiscuità – Giuliano Ferrara, il Foglio.it
“La prossimità corporea delle persone prima del matrimonio è un fatto”, dice eufemisticamente il cardinal Martini. E’ vero: i ragazzi e le ragazze, anzi ragazzini e ragazzine (e poi su su con l’età le cose cambiano ma non di molto) scopano come pare a loro, e piace (non sempre piace, per la verità). Martini ne desume che la chiesa non ha riconosciuto questa realtà, le si è messa contro, ha perso autorevolezza, e quindi dovrebbe chiedere scusa per l’enciclica Humanae vitae scritta da Paolo VI nel 1968, il testo che diede scandalo e mise il Papa in una situazione di tormentosa solitudine.
Per Martini la decisione se fare o no un figlio è un atto di responsabilità individuale, di “autodeterminazione”, per riprendere la parola fatale di cui abbiamo discusso a partire dalla abiura di Roberta de Monticelli; e dunque l’uso di scopare liberamente ma con il palloncino o la pillola di tutti i giorni o del giorno dopo, ed eventualmente un veniale aborto in caso di fallimento, è parte di un complesso culturale e psicologico diffuso, un orientamento di massa da convalidare rinnegando la parola degli ultimi tre papi. Bene.
In sostegno al cardinale arriva lo storico Adriano Prosperi. Prosperi fa sempre la stessa operazione. Se qualcuno afferma che l’aborto è divenuto un gesto moralmente indifferente, che trentacinque anni dopo la sentenza americana Roe vs. Wade e trent’anni dopo le legislazioni europee l’aborto non è più depenalizzato per sanare la piaga della clandestinità ma legittimato da una oscena cultura di morte che si incarna anche in politiche pubbliche eugenetiche in tutto il mondo, lo storico insigne ti spiega che nei secoli la chiesa e la medicina repressive obbligavano le donne a partorire e martoriavano il loro corpo. Segue lezione di progressismo morale e implicita rilegittimazione dell’aborto di massa indifferente, e del martirio subito nel presente, non ad opera della chiesa ma della cultura secolare, dal corpo delle donne.
Così per il sesso in generale. In appoggio a Martini, e contro Benedetto XVI, Prosperi racconta secoli di controllo dei preti sulla riproduzione, sul matrimonio, e bolla questa lunga e complicata storia come l’epoca in cui l’amore veniva domato o addomesticato per ragioni di potere sui corpi, sulle anime, sui patrimoni, di concerto tra chiesa e autorità civile. Il magistero tradizionale della chiesa era così oscurantista che si fondava, fino al Concilio Vaticano II, sulla scomparsa dell’amore umano dall’orizzonte della fede e della carità, quando il prete si intrufolava nella camera da letto dei coniugi. Segue lezione d’amore, richiesta di scuse alla chiesa, in sintonia con il cardinale, e condanna degli ultimi tre papati che non si accorgono della libera sessualità dei fedeli neanche quando raccolgono palloncini dopo le Giornate Mondiali della Gioventù a Torvergata o a Sidney.
Penso anche io che “la prossimità corporea delle persone prima del matrimonio è un fatto”, ci mancherebbe, ma non ne deduco che l’ultima istituzione capace di ragionare d’amore, cioè la chiesa con la sua dottrina cattolica e la cultura cristiana in generale, debba rinunciare alla propria esperienza e alla parola razionale per prosternarsi in un mea culpa di fronte alla libera libido moderna. Perché mai? Può essere, e lo dico da laico, lo dico accettando senza obblighi di coscienza e di fede la diagnosi e le indicazioni di Benedetto XVI e dei suoi predecessori, può essere che la “prossimità”, la promiscuità, il divorzio, l’aborto, l’infertilità generalizzata siano testimonianze straordinarie di amore moderno, ma può essere vero il contrario. Vogliamo continuarla questa discussione, o vogliamo chiuderla con le scuse oscurantiste della chiesa cattolica, con una bella abiura, e con il trionfo del secolarismo più invadente, ideologico e saccente? (Immagine: René Magritte, "Gli amanti", Richard Zeisler Collection - New York)


LA PERSONA E L’ART.32 DELLA COSTITUZIONE PER FORZA BUONA QUALUNQUE DECISIONE? NO, NON È VERO - FRANCESCO D’AGOSTINO, Avvenire, 7 ottobre 2008
È davvero esasperante l’insistenza con la quale al­cuni giuristi, anche di fama, cercano di riaprire un discorso sull’indisponibilità della vita, su di un principio, cioè, che molti ritenevano assolutamente consolidato, almeno nella cultura giuridica recente, anche per le tante dirette e indirette indicazioni for­nite in tal senso dalle diverse Carte dei diritti (a par­tire da quella dell’Onu del 1948), dalla stessa nostra Costituzione e più in generale da tutto il nostro or­dinamento giuridico. Evidentemente non è più que­sta l’epoca in cui si possa continuare a ritenere au­toevidenti i principi fondamentali del diritto.
Di indisponibilità della vita, sostengono alcuni, si dovrebbe parlare solo per escludere la possibilità di disporre della vita altrui. La propria vita, invece, sa­rebbe pienamente disponibile, quando in tal senso dovesse orientarsi la nostra 'autonomia'. Del resto, non è forse vero che l’articolo 32, 2° comma, della Co­stituzione proibisce ogni terapia coercitiva e impo­ne a un’eventuale legge che renda obbligatorio un qualsiasi trattamento sanitario di non «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»? La pri­ma cosa che si deve fare, cioè, quando si voglia ri­spettare una persona, sarebbe rispettarne l’autono­mia, anche quando questa autonomia giungesse a concretizzarsi in scelte tragiche, come la rinuncia a trattamenti terapeutici salvavita, o, per dirla in mo­do più concreto, in richieste di eutanasia passiva.
L’errore di tutti coloro che si muovono in una prospettiva libertaria (e non liberale!) co­me quella sopra riassunta è an­tico ed è stato mille volte rile­vato, già a partire da Kant (ma inutilmente, perché quasi mai i libertari si preoccupano di prendere atto delle critiche che vengono loro rivolte e di ri­spondere a esse). L’errore con­siste nel ritenere che qualsiasi decisione, purché autonoma­mente assunta, non possa che essere sempre rispettosa dei valori della 'persona'. Non è così, né in una prospettiva esclusivamente morale (che però lascio al di fuori di queste consi­derazioni), né in una prospettiva strettamente giu­ridica. Il diritto, infatti, considera come vuote di va­lore (e a volte sanziona, anche gravemente) decisio­ni perfettamente autonome, ma gravemente lesive della dignità e del rispetto che comunque è dovero­so avere nei confronti del corpo. Una persona può, in piena lucidità e autonomia, ten­tare il suicidio (e allora il tentativo di salvarlo sareb­be da ritenere illecito!), può vendere se stesso pro­stituendosi, può decidere di vendere i propri organi a fini di profitto, può decidere di auto mutilarsi, può perfino – anche se sembra incredibile! – vendere la propria libertà, accettando uno stato di servitù vo­lontaria. Se si arriva a ritenere non solo lecita, non solo insindacabile, ma addirittura rispettosa della persona una decisione che abbia per oggetto né più né meno che la propria morte, si dovrebbe per coe­renza legittimare tutte le pratiche cui sopra abbiamo fatto cenno, in quanto possiedono un rilievo esi­stenziale di gran lunga minore. È peraltro quello che pensano alcuni bioeticisti, che portano con indub­bia coerenza la propria ideologia libertaria fino agli estremi limiti.
La richiesta di morte, ancorché 'dignitosa', da par­te di un malato non è mai esercizio del diritto di go­vernare autonomamente la propria esistenza, come ritengono i libertari, quanto piuttosto la prova dello stato di abbandono in cui versa quella persona e del­la sua conseguente disperazione (nel senso proprio del termine: è 'disperato' colui al quale è stata sot­tratta la speranza non della guarigione, ma di poter continuare a dar senso alla propria vita). Ecco per­ché non è corretto vedere nell’articolo 32 della Co­stistuzione il fondamento di potenziali normative a­perte all’eutanasia (nulla era più lontano dalla men­te dei nostro Costituenti). La Costituzione riconosce il diritto negativo del malato a sottrarsi ad una tera­pia, ma saggiamente non trasforma questo no nel di­ritto positivo ad ottenere prestazioni eutanasiche (attive o passive, poco rileva). La scelta del malato di rifiutare alcune pratiche terapeutiche non è affatto detto che sia una scelta di morte; egli può dir loro di no, perché le percepisce come vero accanimento, o perché vuole affidare il suo destino ad altra terapia più dolce e meno invasiva o abbandonare il decor­so della sua malattia ai ritmi della «natura» o ai di­segni della «Provvidenza». Auguriamoci che il Parlamento, se giungerà a vota­re una legge sulla fine della vita umana, sappia ca­pire che il diritto del malato a rifiutare una cura vie­ne molto, molto dopo quello, davvero fondamentale, che ogni malato possiede di essere assistito e 'con­solato' (cioè di non esser mai 'lasciato solo') fino alla fine.