Nella rassegna stampa di oggi:
1) Meditazione del Papa al termine del Rosario nel Santuario di Pompei - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della meditazione di Benedetto XVI al termine della recita del Rosario svoltasi questa domenica nella piazza del Santuario di Pompei.
2) Omelia del Papa a Pompei per la Giornata Missionaria Mondiale - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la messa celebrata nella mattina di domenica sulla piazza antistante il santuario della Madonna del Rosario di Pompei.
3) Sanità senza coscienza - L’aborto viene imposto ad ogni costo - di Padre John Flynn, LC - ROMA, martedì, 21 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Nelle ultime settimane, nello Stato australiano di Victoria, si è infiammato il dibattito sulle proposte di modifica alla normativa sull’aborto. Il disegno di legge è stato presentato alla Camera bassa ad agosto ed ha ultimamente raggiunto le fasi finali del suo iter di approvazione.
4) Nessuna bomba mediatica contro il Vertice con i musulmani in Vaticano - Previsto per il 4 e il 5 novembre - di Jesús Colina - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Alcuni mezzi informativi hanno estrapolato dal contesto alcune proposte dei gruppi di lavoro del Sinodo con l'obiettivo di creare una polemica tra la Chiesa e il mondo musulmano nel momento in cui la Santa Sede prepara un Vertice con alcuni rappresentanti islamici.
5) Il Papa al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia - “Per una chirurgia nel rispetto del malato” - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere questo lunedì in udienza i partecipanti al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia, in corso a Roma dal 19 al 22 ottobre sul tema: “Per una chirurgia nel rispetto del malato”.
6) Lettera aperta al Papa Benedetto XVI: "Può la Chiesa legittimare l’islam come religione e considerare Maometto un profeta?" - Appello al Santo Padre perché faccia chiarezza sulla deriva relativista e islamicamente corretta che ha portato alti prelati cattolici a legittimare l'islam come religione e a trasformare le chiese e le parrocchie in sale da preghiera e di raduno degli estremisti islamici. - autore: Magdi Cristiano Allam
7) Un sabato pomeriggio a scuola con un gruppo di genitori - Autore: Bruschi, Franco Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 20 ottobre 2008 - Proposte sulla nuova scuola, fatte da chi la scuola la vive.
8) USA/ Weigel: principi morali sbagliati possono facilmente corrompere le professioni e le leggi - INT. George Weigel - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) C’è un’alternativa al partito della rendita - Luca Antonini - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
10) SCUOLA/ Il governo non tolga risorse alle scuole paritarie, c’è un modo migliore per ridurre gli sprechi - Renato Farina - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
11) DIBATTITO/ A che punto è la filosofia? La nuova koiné naturalista - Redazione - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
12) EMERGENZA CIBO/ L’obiettivo del vertice Fao: raddoppiare entro il 2050 la produzione alimentare - Dario Casati - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
13) SCUOLA/ L’aiuto a chi ha difficoltà di apprendimento: una questione di sguardo - Associazione Foe - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
14) Banchi di Solidarietà, quando la carità diventa di casa - Redazione - lunedì 20 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
15) IMPORTANTE DISCORSO DEL PAPA ALLA SOCIETÀ DI CHIRURGIA - Ha integrato Ippocrate nel punto cruciale della bioetica - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 21 ottobre 2008
16) La Scrittura come esperienza di Cristo nell'insegnamento di sant'Ambrogio - La parola che si mangia e si beve - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano 21 ottobre 2008
17) I recenti studi sulla sensibilità del feto umano - I bambini scoprono - il mondo ancora prima di nascere - di Carlo Bellieni - Azienda Ospedaliera Universitaria Senese – L’Osservatore Romano, 21 ottobre 2008
Meditazione del Papa al termine del Rosario nel Santuario di Pompei - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della meditazione di Benedetto XVI al termine della recita del Rosario svoltasi questa domenica nella piazza del Santuario di Pompei.
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Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari religiosi e religiose,
cari fratelli e sorelle!
Prima di entrare in Santuario per recitare insieme a voi il santo Rosario, ho sostato brevemente dinanzi all’urna del beato Bartolo Longo, e pregando mi sono chiesto: “Questo grande apostolo di Maria, da dove ha tratto l’energia e la costanza necessarie per portare a compimento un’opera così imponente, nota ormai in tutto il mondo? Non è proprio dal Rosario, da lui accolto come un vero dono del cuore della Madonna?”. Sì, è stato veramente così! Lo testimonia l’esperienza dei santi: questa popolare preghiera mariana è un mezzo spirituale prezioso per crescere nell’intimità con Gesù, e per imparare, alla scuola della Vergine Santa, a compiere sempre la divina volontà. E’ contemplazione dei misteri di Cristo in spirituale unione con Maria, come sottolineava il servo di Dio Paolo VI nell’Esortazione apostolica Marialis cultus (n. 46), e come poi il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II ha ampiamente illustrato nella Lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae, che oggi idealmente riconsegno alla Comunità pompeiana e a ciascuno di voi. Voi che vivete ed operate qui a Pompei, specialmente voi, cari sacerdoti, religiose, religiosi e laici impegnati in questa singolare porzione di Chiesa, siete tutti chiamati a fare vostro il carisma del beato Bartolo Longo e a diventare, nella misura e nei modi che Dio concede a ciascuno, autentici apostoli del Rosario.
Ma per essere apostoli del Rosario, occorre fare esperienza in prima persona della bellezza e della profondità di questa preghiera, semplice ed accessibile a tutti. E’ necessario anzitutto lasciarsi condurre per mano dalla Vergine Maria a contemplare il volto di Cristo: volto gioioso, luminoso, doloroso e glorioso. Chi, come Maria e insieme con Lei, custodisce e medita assiduamente i misteri di Gesù, assimila sempre più i suoi sentimenti e si conforma a Lui. Mi piace, al riguardo, citare una bella considerazione del beato Bartolo Longo: “Come due amici – egli scrive –, praticando frequentemente insieme, sogliono conformarsi anche nei costumi, così noi, conversando familiarmente con Gesù e la Vergine, nel meditare i Misteri del Rosario, e formando insieme una medesima vita con la Comunione, possiamo diventare, per quanto ne sia capace la nostra bassezza, simili ad essi, ed apprendere da questi sommi esemplari il vivere umile, povero, nascosto, paziente e perfetto” (I Quindici Sabati del Santissimo Rosario, 27ª ed., Pompei, 1916, p. 27: cit. in Rosarium Virginis Mariae, 15).
Il Rosario è scuola di contemplazione e di silenzio. A prima vista, potrebbe sembrare una preghiera che accumula parole, difficilmente quindi conciliabile con il silenzio che viene giustamente raccomandato per la meditazione e la contemplazione. In realtà, questa cadenzata ripetizione dell’Ave Maria non turba il silenzio interiore, anzi, lo richiede e lo alimenta. Analogamente a quanto avviene per i Salmi quando si prega la Liturgia delle Ore, il silenzio affiora attraverso le parole e le frasi, non come un vuoto, ma come una presenza di senso ultimo che trascende le parole stesse e insieme con esse parla al cuore. Così, recitando le Ave Maria occorre fare attenzione a che le nostre voci non “coprano” quella di Dio, il quale parla sempre attraverso il silenzio, come “il sussurro di una brezza leggera” (1 Re 19,12). Quanto è importante allora curare questo silenzio pieno di Dio sia nella recita personale che in quella comunitaria! Anche quando viene pregato, come oggi, da grandi assemblee e come ogni giorno fate in questo Santuario, è necessario che si percepisca il Rosario come preghiera contemplativa, e questo non può avvenire se manca un clima di silenzio interiore.
Vorrei aggiungere un’altra riflessione, relativa alla Parola di Dio nel Rosario, particolarmente opportuna in questo periodo in cui si sta svolgendo in Vaticano il Sinodo dei Vescovi sul tema: “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”. Se la contemplazione cristiana non può prescindere dalla Parola di Dio, anche il Rosario, per essere preghiera contemplativa, deve sempre emergere dal silenzio del cuore come risposta alla Parola, sul modello della preghiera di Maria. A ben vedere, il Rosario è tutto intessuto di elementi tratti dalla Scrittura. C’è innanzitutto l’enunciazione del mistero, fatta preferibilmente, come oggi, con parole tratte dalla Bibbia. Segue il Padre nostro: nell’imprimere alla preghiera l’orientamento “verticale”, apre l’animo di chi recita il Rosario al giusto atteggiamento filiale, secondo l’invito del Signore: “Quando pregate dite: Padre…” (Lc 11,2). La prima parte dell’Ave Maria, tratta anch’essa dal Vangelo, ci fa ogni volta riascoltare le parole con cui Dio si è rivolto alla Vergine mediante l’Angelo, e quelle di benedizione della cugina Elisabetta. La seconda parte dell’Ave Maria risuona come la riposta dei figli che, rivolgendosi supplici alla Madre, non fanno altro che esprimere la propria adesione al disegno salvifico, rivelato da Dio. Così il pensiero di chi prega resta sempre ancorato alla Scrittura e ai misteri che in essa vengono presentati.
Ricordando infine che oggi celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale, mi piace richiamare la dimensione apostolica del Rosario, una dimensione che il beato Bartolo Longo ha vissuto intensamente traendone ispirazione per intraprendere in questa terra tante opere di carità e di promozione umana e sociale. Inoltre, egli volle questo Santuario aperto al mondo intero, quale centro di irradiazione della preghiera del Rosario e luogo di intercessione per la pace tra i popoli. Cari amici, entrambe queste finalità: l’apostolato della carità e la preghiera per la pace, desidero confermare e affidare nuovamente al vostro impegno spirituale e pastorale. Sull’esempio e con il sostegno del venerato Fondatore, non stancatevi di lavorare con passione in questa parte della vigna del Signore che la Madonna ha mostrato di prediligere.
Cari fratelli e sorelle, è giunto il momento di congedarmi da voi e da questo bel Santuario. Vi ringrazio per la calorosa accoglienza e soprattutto per le vostre preghiere. Ringrazio l’Arcivescovo Prelato e Delegato Pontificio, i suoi collaboratori e coloro che hanno lavorato per preparare al meglio la mia visita. Devo lasciarvi, ma il mio cuore rimane vicino a questa terra e a questa comunità. Vi affido tutti alla Beata Vergine del Santo Rosario, e a ciascuno imparto di cuore l’Apostolica Benedizione.
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Omelia del Papa a Pompei per la Giornata Missionaria Mondiale - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la messa celebrata nella mattina di domenica sulla piazza antistante il santuario della Madonna del Rosario di Pompei.
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Cari fratelli e sorelle!
Seguendo le orme del Servo di Dio Giovanni Paolo II, sono venuto in pellegrinaggio quest’oggi a Pompei per venerare, insieme a voi, la Vergine Maria, Regina del Santo Rosario. Sono venuto, in particolare, per affidare alla Madre di Dio, nel cui grembo il Verbo si è fatto carne, l’Assemblea del Sinodo dei Vescovi in corso in Vaticano sul tema della Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. La mia visita coincide anche con la Giornata Missionaria Mondiale: contemplando in Maria Colei che ha accolto in sé il Verbo di Dio e lo ha donato al mondo, pregheremo in questa Messa per quanti nella Chiesa spendono le loro energie a servizio dell’annuncio del Vangelo a tutte le nazioni. Grazie, cari fratelli e sorelle, per la vostra accoglienza! Vi abbraccio tutti con affetto paterno, e vi sono riconoscente per le preghiere che da qui fate salire incessantemente al Cielo per il Successore di Pietro e per le necessità della Chiesa universale.
Un cordiale saluto rivolgo, in primo luogo, all’Arcivescovo Carlo Liberati, Prelato di Pompei e Delegato Pontificio per il Santuario, e lo ringrazio per le parole con cui si è fatto interprete dei vostri sentimenti. Il mio saluto si estende alle Autorità civili e militari presenti, in modo speciale al Rappresentante del Governo, il Ministro per i Beni Culturali, ed al Sindaco di Pompei, il quale al mio arrivo ha voluto indirizzarmi espressioni di deferente benvenuto a nome dell’intera cittadinanza. Saluto i sacerdoti della Prelatura, i religiosi e le religiose che offrono il loro quotidiano servizio in Santuario, tra i quali mi piace menzionare le Suore Domenicane Figlie del Santo Rosario di Pompei e i Fratelli delle Scuole Cristiane; saluto i volontari impegnati in diversi servizi e gli zelanti apostoli della Madonna del Rosario di Pompei. E come dimenticare, in questo momento, le persone che soffrono, gli ammalati, gli anziani soli, i giovani in difficoltà, i carcerati, quanti versano in pesanti condizioni di povertà e di disagio sociale ed economico? A tutti e a ciascuno vorrei assicurare la mia vicinanza spirituale e far giungere la testimonianza del mio affetto. Ognuno di voi, cari fedeli e abitanti di questa terra, ed anche voi che siete spiritualmente uniti a questa celebrazione attraverso la radio e la televisione, tutti vi affido a Maria e vi invito a confidare sempre nel suo materno sostegno.
Lasciamo ora che sia Lei, la nostra Madre e Maestra, a guidarci nella riflessione sulla Parola di Dio che abbiamo ascoltato. La prima Lettura e il Salmo responsoriale esprimono la gioia del popolo d’Israele per la salvezza donata da Dio, salvezza che è liberazione dal male e speranza di vita nuova. L’oracolo di Sofonia si indirizza ad Israele che viene designato con gli appellativi di “figlia di Sion” e “figlia di Gerusalemme” e viene invitato alla gioia: “Rallégrati… grida di gioia… esulta!” (Sof 3,14). E’ il medesimo appello che l’angelo Gabriele rivolge a Maria, a Nazaret: “Rallegrati, piena di grazia” (Lc 1,28). “Non temere, Sion” (Sof 3,16), dice il Profeta; “Non temere, Maria” (Lc 1,30), dice l’Angelo. E il motivo della fiducia è lo stesso: “Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te / è un salvatore potente” (Sof 3,17), dice il Profeta; “il Signore è con te” (Lc 1,28), assicura l’Angelo alla Vergine. Anche il cantico di Isaia si conclude così: “Canta ed esulta, tu che abiti in Sion, / perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele” (Is 12,6). La presenza del Signore è fonte di gioia, perché, dove c’è Lui, il male è vinto e trionfano la vita e la pace. Vorrei sottolineare, in particolare, la stupenda espressione di Sofonia, che rivolgendosi a Gerusalemme dice: il Signore “ti rinnoverà con il suo amore” (3,17). Sì, l’amore di Dio ha questo potere: di rinnovare ogni cosa, a partire dal cuore umano, che è il suo capolavoro e dove lo Spirito Santo opera al meglio la sua azione trasformatrice. Con la sua grazia, Dio rinnova il cuore dell’uomo perdonando il suo peccato, lo riconcilia ed infonde in lui lo slancio per il bene. Tutto questo si manifesta nella vita dei santi, e lo vediamo qui particolarmente nell’opera apostolica del beato Bartolo Longo, fondatore della nuova Pompei. E così apriamo in quest’ora anche il nostro cuore a questo amore rinnovatore dell’uomo e di tutte le cose.
Sin dai suoi inizi, la comunità cristiana ha visto nella personificazione di Israele e di Gerusalemme in una figura femminile un significativo e profetico accostamento con la Vergine Maria, la quale viene riconosciuta proprio quale “figlia di Sion” e archetipo del popolo che “ha trovato grazia” agli occhi del Signore. E’ una interpretazione che ritroviamo nel racconto evangelico delle nozze di Cana (Gv 2,1-11). L’evangelista Giovanni mette in luce simbolicamente che Gesù è lo sposo d’Israele, del nuovo Israele che siamo noi tutti nella fede, lo sposo venuto a portare la grazia della nuova Alleanza, rappresentata dal “vino buono”. Al tempo stesso, il Vangelo dà risalto anche al ruolo di Maria, che viene detta all’inizio “la madre di Gesù”, ma che poi il Figlio stesso chiama “donna” – e questo ha un significato molto profondo: implica infatti che Gesù, a nostra meraviglia, antepone alla parentela il legame spirituale, secondo il quale Maria impersona appunto la sposa amata del Signore, cioè il popolo che lui si è scelto per irradiare la sua benedizione su tutta la famiglia umana. Il simbolo del vino, unito a quello del banchetto, ripropone il tema della gioia e della festa. Inoltre il vino, come le altre immagini bibliche della vigna e della vite, allude metaforicamente all’amore: Dio è il vignaiolo, Israele è la vigna, una vigna che troverà la sua realizzazione perfetta in Cristo, del quale noi siamo i tralci; e il vino è il frutto, cioè l’amore, perché proprio l’amore è ciò che Dio si attende dai suoi figli. E preghiamo il Signore, che ha dato a Bartolo Longo la grazia di portare l’amore in questa terra, affinché anche la nostra vita e il nostro cuore portino questo frutto dell’amore e rinnovino così la terra.
All’amore esorta anche l’apostolo Paolo nella seconda Lettura, tratta dalla Lettera ai Romani. Troviamo delineato in questa pagina il programma di vita di una comunità cristiana, i cui membri sono stati rinnovati dall’amore e si sforzano di rinnovarsi continuamente, per discernere sempre la volontà di Dio e non ricadere nel conformismo della mentalità mondana (cfr 12,1-2). La nuova Pompei, pur con i limiti di ogni realtà umana, è un esempio di questa nuova civiltà, sorta e sviluppatasi sotto lo sguardo materno di Maria. E la caratteristica della civiltà cristiana è proprio la carità: l’amore di Dio che si traduce in amore del prossimo. Ora, quando san Paolo scrive ai cristiani di Roma: “Non siate pigri nello zelo, siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore” (12,11), il pensiero nostro va a Bartolo Longo e alle tante iniziative di carità da lui attivate per i fratelli più bisognosi. Spinto dall’amore, egli fu in grado di progettare una città nuova, che poi sorse attorno al Santuario mariano, quasi come irradiazione della sua luce di fede e di speranza. Una cittadella di Maria e della carità, non però isolata dal mondo, non, come si suol dire, una “cattedrale nel deserto”, ma inserita nel territorio di questa Valle per riscattarlo e promuoverlo. La storia della Chiesa, grazie a Dio, è ricca di esperienze di questo tipo, e anche oggi se ne contano parecchie in ogni parte della terra. Sono esperienze di fraternità, che mostrano il volto di una società diversa, posta come fermento all’interno del contesto civile. La forza della carità è irresistibile: è l’amore che veramente manda avanti il mondo!
Chi avrebbe potuto pensare che qui, accanto ai resti dell’antica Pompei, sarebbe sorto un Santuario mariano di portata mondiale? E tante opere sociali volte a tradurre il Vangelo in servizio concreto alle persone più in difficoltà? Dove arriva Dio, il deserto fiorisce! Anche il beato Bartolo Longo, con la sua personale conversione, diede testimonianza di questa forza spirituale che trasforma l’uomo interiormente e lo rende capace di operare grandi cose secondo il disegno di Dio. La vicenda della sua crisi spirituale e della sua conversione appare oggi di grandissima attualità. Egli infatti, nel periodo degli studi universitari a Napoli, influenzato da filosofi immanentisti e positivisti, si era allontanato dalla fede cristiana diventando un militante anticlericale e dandosi anche a pratiche spiritistiche e superstiziose. La sua conversione, con la scoperta del vero volto di Dio, contiene un messaggio molto eloquente per noi, perché purtroppo simili tendenze non mancano nei nostri giorni. In questo Anno Paolino mi piace sottolineare che anche Bartolo Longo, come san Paolo, fu trasformato da persecutore in apostolo: apostolo della fede cristiana, del culto mariano e, in particolare, del Rosario, in cui egli trovò una sintesi di tutto il Vangelo.
Questa città, da lui rifondata, è dunque una dimostrazione storica di come Dio trasforma il mondo: ricolmando di carità il cuore di un uomo e facendone un “motore” di rinnovamento religioso e sociale. Pompei è un esempio di come la fede può operare nella città dell’uomo, suscitando apostoli di carità che si pongono al servizio dei piccoli e dei poveri, ed agiscono perché anche gli ultimi siano rispettati nella loro dignità e trovino accoglienza e promozione. Qui a Pompei si capisce che l’amore per Dio e l’amore per il prossimo sono inseparabili. Qui il genuino popolo cristiano, la gente che affronta la vita con sacrificio ogni giorno, trova la forza di perseverare nel bene senza scendere a compromessi. Qui, ai piedi di Maria, le famiglie ritrovano o rafforzano la gioia dell’amore che le mantiene unite. Opportunamente, quindi, in preparazione dell’odierna mia visita, uno speciale “pellegrinaggio delle famiglie per la famiglia” si è compiuto esattamente un mese fa, per affidare alla Madonna questa fondamentale cellula della società. Vegli la Vergine Santa su ogni famiglia e sull’intero popolo italiano!
Questo Santuario e questa città continuino soprattutto ad essere sempre legati a un dono singolare di Maria: la preghiera del Rosario. Quando, nel celebre dipinto della Madonna di Pompei, vediamo la Vergine Madre e Gesù Bambino che consegnano le corone rispettivamente a santa Caterina da Siena e a san Domenico, comprendiamo subito che questa preghiera ci conduce, attraverso Maria, a Gesù, come ci ha insegnato anche il caro Papa Giovanni Paolo II nella Lettera Rosarium Virginis Mariae, in cui fa riferimento esplicito al beato Bartolo Longo ed al carisma di Pompei. Il Rosario è preghiera contemplativa accessibile a tutti: grandi e piccoli, laici e chierici, colti e poco istruiti. E’ vincolo spirituale con Maria per rimanere uniti a Gesù, per conformarsi a Lui, assimilarne i sentimenti e comportarsi come Lui si è comportato. Il Rosario è “arma” spirituale nella lotta contro il male, contro ogni violenza, per la pace nei cuori, nelle famiglie, nella società e nel mondo.
Cari fratelli e sorelle, in questa Eucaristia, fonte inesauribile di vita e di speranza, di rinnovamento personale e sociale, ringraziamo Dio perché in Bartolo Longo ci ha dato un luminoso testimone di questa verità evangelica. E volgiamo ancora una volta il nostro cuore a Maria con le parole della Supplica, che tra poco insieme reciteremo: “Tu, Madre nostra, sei la nostra Avvocata, la nostra speranza, abbi pietà di noi … Misericordia per tutti, o Madre di misericordia!”. Amen.
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Sanità senza coscienza - L’aborto viene imposto ad ogni costo - di Padre John Flynn, LC - ROMA, martedì, 21 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Nelle ultime settimane, nello Stato australiano di Victoria, si è infiammato il dibattito sulle proposte di modifica alla normativa sull’aborto. Il disegno di legge è stato presentato alla Camera bassa ad agosto ed ha ultimamente raggiunto le fasi finali del suo iter di approvazione.
Nonostante la strenua opposizione della Chiesa e delle organizzazioni pro-life, la proposta di legge ha superato il vaglio della Camera bassa di quello Stato. Successivamente, il 10 ottobre, la Camera alta lo ha approvato in seconda lettura con 23 voti a favore e 17 contrari, secondo un articolo apparso sul quotidiano Herald Sun lo stesso giorno.
Il dibattito si è sviluppato su diverse proposte di emendamenti al disegno di legge, seguito dalla sua approvazione con una votazione che si è svolta in tarda serata, secondo il quotidiano Age del giorno seguente.
Il provvedimento prevede una depenalizzazione dell’aborto fino alla 24° settimana di gravidanza, ma lo consente anche successivamente con il consenso di due medici. Oltre a rendere l’aborto più facile, una delle principali innovazioni consiste nell’eliminazione, per i medici e altri operatori sanitari, del diritto all’obiezione di coscienza.
“Il disegno di legge è un attacco senza precedenti contro la libertà di avere ed esercitare le proprie fondamentali convinzioni religiose”, ha dichiarato l’arcivescovo Denis Hart di Melbourn nella sua lettera pastorale del 19 settembre.
Il presule ne ha sottolineato la contraddizione con la Carta statale sui diritti umani, in quanto impone ai medici obiettori l’obbligo di indirizzare la paziente ad altre strutture ove può ottenere l’aborto.
Inoltre esso impone agli operatori sanitari, obiettori di coscienza, l’obbligo di assistere a operazioni di aborto nei casi ritenuti di emergenza.
“Il disegno di legge è chiaramente finalizzato ad imporre agli ospedali cattolici l’obbligo di indirizzare le donne a strutture dove possono abortire”, ha avvertito.
Una minaccia per gli ospedali
L’arcivescovo Hart ha quindi sottolineato che il disegno di legge rappresenta una vera minaccia per l’esistenza degli ospedali cattolici. “In queste condizioni è difficile prevedere come gli ospedali cattolici possano continuare ad avere reparti di maternità o di emergenza nella loro forma attuale”, ha affermato.
La Chiesa cattolica gestisce 15 ospedali non-profit nello Stato di Victoria in cui vengono alla luce un terzo di tutti i bambini dello Stato, secondo Martin Laverty, direttore di Catholic Health Australia. Laverty ha scritto un articolo su questo dibattito relativo alla legge sull’aborto, pubblicato il 24 settembre sull'Herald Sun.
Uno dei vescovi ausiliari di Melbourne, Christopher Prowse, ha sottolineato che la nuova legge potrebbe porre gli infermieri in una posizione particolarmente vulnerabile. In un articolo pubblicato sull'Herald Sun del 9 settembre ha spiegato che essi avrebbero il dovere di assistere all’esecuzione di aborti qualora il medico lo richiedesse considerandolo un caso di emergenza.
“Non credo che la nostra comunità voglia costringere infermieri, molti dei quali sono obiettori di coscienza, ad assistere ad aborti tardivi”, ha affermato il vescovo Prowse.
Nella sua lettera pastorale, l’arcivescovo Hart ha anche evidenziato un’altra serie di difetti contenuti nella normativa, come la carenza di tutela per la salute della donna in quanto consentirebbe l’esecuzione di aborti da parte di medici privi delle qualificazioni o della formazione in ostetricia.
Inoltre, il disegno di legge non prevede alcuna tutela in termini di informazioni di da dare alle donne sui possibili effetti collaterali derivanti dall’aborto e manca di tutelare le donne dalle eventuali pressioni esterne che potrebbero averle spinte verso l’aborto.
Restrizioni alla coscienza
Nonostante queste considerazioni, i fautori della nuova legge hanno fatto sentire il loro sostegno. La responsabile di Pro-Choice Victoria, Leslie Cannold, ha definito “allarmismi isterici” le proteste dei medici che rivendicavano il loro diritto all’obiezione di coscienza in tema di aborto o dell’obbligo di indirizzare i pazienti ad altro medico, secondo quanto riferito dal quotidiano Australian del 7 ottobre.
Ray Cassin, opinionista di Age, ha evidenziato in un articolo del 12 settembre che le altre giurisdizioni australiane che hanno depenalizzato l’aborto non si sono spinte così avanti nelle restrizioni alla libertà di coscienza.
“È paradossale che questa coercizione della coscienza venga perpetrata nel nome della libertà di scelta”, ha concluso.
I giuisti Timothy Ginnane e Greg Craven hanno evidenziato un altro paradosso, in un articolo pubblicato il 6 ottobre dal quotidiano Herald Sun. I parlamentari che hanno votato il disegno di legge, lo hanno fatto grazie anche alla libertà di coscienza concessagli dai loro partiti di appartenenza, ma hanno approvato una legge che è proprio la negazione di questa libertà.
Essi hanno inoltre sostenuto che il disegno di legge contraddice lo spirito della Carta dei diritti umani dello Stato di Victoria. Tuttavia la Carta contiene una clausola di salvaguardia che specifica la sua non applicazione in materia di aborto.
Il disegno di legge sarebbe anche contrario al dritto internazionale, secondo l’organizzazione “Doctors in Conscience Against Abortion Bill”, ha riferito il quotidiano Australian il 7 ottobre. L’organizzazione sostiene che la nuova legge contraddice il Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite.
“Il disegno di legge non ha precedenti nel mondo occidentale, in quanto impone norme che obbligherebbero i medici ad agire in violazione della propria coscienza, dovendo aiutare i pazienti ad abortire”, ha affermato Mary Lewis a nome dell’organizzazione.
Libertà religiosa
Anche negli Stati Uniti si sta discutendo del diritto alla libertà di coscienza per gli operatori sanitari. Il Dipartimento della salute sta elaborando una proposta normativa che toglierebbe finanziamenti federali a ogni ospedale, clinica, programma sanitario o altra istituzione che non consenta ai propri dipendenti di potersi astenere dal partecipare in trattamenti contrari alle proprie convinzioni personali, secondo il Washington Post del 31 luglio.
Tra questi trattamenti vi sarebbero per esempio la pillola anticoncezionale, i dispositivi intrauterini e i contraccettivi di emergenza come la “pillola del giorno dopo”.
“La capacità delle donne di gestire la propria salute viene messa a rischio o compromessa da elementi politici e ideologici”, ha affermato Cecile Richards, presidente di Planned Parenthood Federation of America, la maggiore istituzione abortista negli Stati Uniti, secondo quanto riferito dall’Associated Press il 21 agosto.
Il cardinale Justin Rigali, d’altra parte, ha scritto a tutti i membri del Congresso raccomandando il rispetto della “libertà degli operatori sanitari di assistere i pazienti senza violare le proprie profonde convinzioni morali e religiose sulla sacralità della vita umana”.
Nella sua lettera, il cardinale Rigali, che è presidente della Commissione sulle attività pro-life della Conferenza episcopale USA, ha affermato che la proposta di legge “fornisce ai sedicenti fautori della libera scelta l’occasione di manifestare le loro vere intenzioni. [...] Non è l’etichetta ‘pro-choice’ una copertura per nascondere un programma di attiva promozione e persino di imposizione di procedure moralmente discutibili nei confronti di persone che in coscienza la pensano diversamente?”.
Canada
Intanto, in Canada, la libertà di coscienza è messa a rischio da una proposta del College of Physicians and Surgeons of Ontario, secondo il quotidiano National Post del 15 agosto.
Attualmente i medici in Canada possono rifiutarsi di prescrivere pillole anticoncezionali o pillole del giorno dopo, o di operare aborti, se ciò va contro la propria coscienza. La proposta è diretta a cambiare questa impostazione, dicendo che i medici dovrebbero essere pronti a mettere da parte le proprie convinzioni personali.
In seguito ad una valanga di critiche, il College di Ontario ha modificato la sua proposta normativa, ma il documento finale continua a non essere soddisfacente, secondo un articolo pubblicato il 19 settembre dal quotidiano Catholic Register.
La disposizione ora afferma che i medici devono essere consapevoli che una decisione di non eseguire determinate cure mediche potrebbe violare il codice dei diritti umani della provincia.
La violenza si diffonde
Benedetto XVI ha avvertito, nella sua omelia pronunciata il 5 ottobre durante la Messa di apertura del Sinodo dei vescovi, che quando l’uomo elimina Dio dal proprio orizzonte e non cerca più in Lui la salvezza, “crede di poter fare ciò che gli piace e di potersi porre come sola misura di se stesso e del proprio agire”.
“Quando gli uomini si proclamano proprietari assoluti di se stessi e unici padroni del creato, possono veramente costruire una società dove regnino la libertà, la giustizia e la pace?”.
Interrogativo a cui purtroppo anche la nuova legge sull’aborto nello Stato australiano di Victoria risponde negativamente.
Nessuna bomba mediatica contro il Vertice con i musulmani in Vaticano - Previsto per il 4 e il 5 novembre - di Jesús Colina - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Alcuni mezzi informativi hanno estrapolato dal contesto alcune proposte dei gruppi di lavoro del Sinodo con l'obiettivo di creare una polemica tra la Chiesa e il mondo musulmano nel momento in cui la Santa Sede prepara un Vertice con alcuni rappresentanti islamici.
La bomba, tuttavia, non è scoppiata, per cui prosegue la preparazione della riunione, che avrà luogo il 4 e 5 novembre in Vaticano sul tema “L'amore di Dio nell'amore del prossimo”.
L'incontro, organizzato dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, riunirà i delegati dei 138 firmatari – intellettuali e religiosi musulmani guidati dal principe di Giordania Ghazi bin Muhammad bin Talal – della Lettera aperta titolata “Una parola comune tra noi e voi”.
L'evento è stato presentato all'assemblea del Sinodo dei Vescovi venerdì 17 ottobre dal Cardinale Jean-Louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.
In merito a questo dialogo, il porporato francese ha voluto precisare che il testo fondamentale rimane la dichiarazione conciliare Nostra Aetate.
Il Cardinale ha poi fatto riferimento al punto 38 della relazione dopo il dibattito, presentata dal Cardinale Marc Ouellet, P.S.S., Arcivescovo di Québec, laddove si parla dell'opportunità di organizzare un forum cristiano-musulmano sulla Parola di Dio, per discutere e meditare insieme.
Il Cardinale Tauran ha suggerito che sarebbe forse più opportuno parlare di un forum tra religioni, perché i cristiani non condividono con i musulmani il Corano come Rivelazione.
In questo contesto, i quotidiani italiani hanno interpretato come un rifiuto del dialogo con l'islam la proposta sorta nel gruppo di lavoro “Hispanicus A”, in cui si ricorda che nel dialogo interreligioso non bisogna dimenticare la visione musulmana dei diritti della donna, che non sono trattati come si prevede nella dottrina dei diritti fondamentali dell'uomo.
Il gruppo si manifesta a favore del dialogo, spiegando le differenze obiettive che esistono nella concezione cristiana e islamica, come succede anche nella visione della famiglia.
Alcuni giornali italiani del 18 ottobre hanno presentato tuttavia l'osservazione come un rifiuto o un freno (in base alle sfumature) nei confronti del dialogo interreligioso con l'islam, e hanno pubblicato alcune dichiarazioni di esponenti musulmani in Italia che, com'è normale, criticavano il presunto rifiuto del dialogo da parte del Sinodo.
Mario Scialoja, Rappresentante della Lega Musulmana Mondiale, considera ad esempio “eccessivo” fermare il dialogo in virtù della diversa concezione dei diritti della donna. Non era la versione offerta dai giornali, ma è esattamente ciò che diceva il Sinodo. La bomba non è scoppiata.
Il Papa al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia - “Per una chirurgia nel rispetto del malato” - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere questo lunedì in udienza i partecipanti al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia, in corso a Roma dal 19 al 22 ottobre sul tema: “Per una chirurgia nel rispetto del malato”.
* * *
Illustri Signori,
gentili Signore,
sono lieto di accogliervi in questa speciale Udienza, che si svolge in occasione del Congresso Nazionale della Società Italiana di Chirurgia. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio saluto cordiale, riservando una speciale parola di ringraziamento al Prof. Gennaro Nuzzo per le parole con cui ha espresso i comuni sentimenti ed ha illustrato i lavori del Congresso, che vertono su un tema di fondamentale importanza. Al centro del vostro Congresso Nazionale vi è infatti questa promettente e impegnativa dichiarazione: "Per una chirurgia nel rispetto del malato". A ragione si parla oggi, in un tempo di grande progresso tecnologico, della necessità di umanizzare la medicina, sviluppando quei tratti del comportamento medico che meglio rispondono alla dignità della persona malata a cui si presta servizio. La specifica missione che qualifica la vostra professione medica e chirurgica è costituita dal perseguimento di tre obiettivi: guarire la persona malata o almeno cercare di incidere in maniera efficace sull’evoluzione della malattia; alleviare i sintomi dolorosi che la accompagnano, soprattutto quando è in fase avanzata; prendersi cura della persona malata in tutte le sue umane aspettative.
Nel passato spesso ci si accontentava di alleviare la sofferenza della persona malata, non potendo arrestare il decorso del male e ancor meno guarirlo. Nel secolo scorso gli sviluppi della scienza e della tecnica chirurgica hanno consentito di intervenire con crescente successo nella vicenda del malato. Così la guarigione, che precedentemente in molti casi era solo una possibilità marginale, oggi è una prospettiva normalmente realizzabile, al punto da richiamare su di sé l’attenzione quasi esclusiva della medicina contemporanea. Un nuovo rischio, però, nasce da questa impostazione: quello di abbandonare il paziente nel momento in cui si avverte l’impossibilità di ottenere risultati apprezzabili. Resta vero, invece, che, se anche la guarigione non è più prospettabile, si può ancora fare molto per il malato: se ne può alleviare la sofferenza, soprattutto lo si può accompagnare nel suo cammino, migliorandone in quanto possibile la qualità di vita. Non è cosa da sottovalutare, perché ogni singolo paziente, anche quello inguaribile, porta con sé un valore incondizionato, una dignità da onorare, che costituisce il fondamento ineludibile di ogni agire medico. Il rispetto della dignità umana, infatti, esige il rispetto incondizionato di ogni singolo essere umano, nato o non nato, sano o malato, in qualunque condizione esso si trovi.
In questa prospettiva, acquista rilevanza primaria la relazione di mutua fiducia che si instaura tra medico e paziente. Grazie a tale rapporto di fiducia il medico, ascoltando il paziente, può ricostruire la sua storia clinica e capire come egli vive la sua malattia. E’ ancora nel contesto di questa relazione che, sulla base della stima reciproca e della condivisione degli obiettivi realistici da perseguire, può essere definito il piano terapeutico: un piano che può portare ad arditi interventi salvavita oppure alla decisione di accontentarsi dei mezzi ordinari che la medicina offre. Quanto il medico comunica al paziente direttamente o indirettamente, in modo verbale o non verbale, sviluppa un notevole influsso su di lui: può motivarlo, sostenerlo, mobilitarne e persino potenziarne le risorse fisiche e mentali, o, al contrario, può indebolirne e frustrarne gli sforzi e, in questo modo, ridurre la stessa efficacia dei trattamenti praticati. Ciò a cui si deve mirare è una vera alleanza terapeutica col paziente, facendo leva su quella specifica razionalità clinica che consente al medico di scorgere le modalità di comunicazione più adeguate al singolo paziente. Tale strategia comunicativa mirerà soprattutto a sostenere, pur nel rispetto della verità dei fatti, la speranza, elemento essenziale del contesto terapeutico. E’ bene non dimenticare mai che sono proprio queste qualità umane che, oltre alla competenza professionale in senso stretto, il paziente apprezza nel medico. Egli vuole essere guardato con benevolenza, non solo esaminato; vuole essere ascoltato, non solo sottoposto a diagnosi sofisticate; vuole percepire con sicurezza di essere nella mente e nel cuore del medico che lo cura.
Anche l’insistenza con cui oggi si pone in risalto l’autonomia individuale del paziente deve essere orientata a promuovere un approccio al malato che giustamente lo consideri non antagonista, ma collaboratore attivo e responsabile del trattamento terapeutico. Bisogna guardare con sospetto qualsiasi tentativo di intromissione dall’esterno in questo delicato rapporto medico-paziente. Da una parte, è innegabile che si debba rispettare l’autodeterminazione del paziente, senza dimenticare però che l’esaltazione individualistica dell’autonomia finisce per portare ad una lettura non realistica, e certamente impoverita, della realtà umana. Dall’altra, la responsabilità professionale del medico deve portarlo a proporre un trattamento che miri al vero bene del paziente, nella consapevolezza che la sua specifica competenza lo mette in grado in genere di valutare la situazione meglio che non il paziente stesso.
La malattia, d’altro canto, si manifesta all’interno di una precisa storia umana e si proietta sul futuro del paziente e del suo ambiente familiare. Nei contesti altamente tecnologizzati dell’odierna società, il paziente rischia di essere in qualche misura "cosificato". Egli si ritrova infatti dominato da regole e pratiche che sono spesso completamente estranee al suo modo di essere. In nome delle esigenze della scienza, della tecnica e dell’organizzazione dell’assistenza sanitaria, il suo abituale stile di vita risulta stravolto. E’ invece molto importante non estromettere dalla relazione terapeutica il contesto esistenziale del paziente, in particolare la sua famiglia. Per questo occorre promuovere il senso di responsabilità dei familiari nei confronti del loro congiunto: è un elemento importante per evitare l’ulteriore alienazione che questi, quasi inevitabilmente, subisce se affidato ad una medicina altamente tecnologizzata, ma priva di una sufficiente vibrazione umana.
Su di voi, dunque, cari chirurghi, grava in misura rilevante la responsabilità di offrire una chirurgia veramente rispettosa della persona del malato. E’ un compito in sé affascinante, ma anche molto impegnativo. Il Papa, proprio per la sua missione di Pastore, vi è vicino e vi sostiene con la sua preghiera. Con questi sentimenti, augurandovi ogni migliore successo nel vostro lavoro, volentieri imparto a voi ed ai vostri cari l’Apostolica Benedizione.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Lettera aperta al Papa Benedetto XVI: "Può la Chiesa legittimare l’islam come religione e considerare Maometto un profeta?" - Appello al Santo Padre perché faccia chiarezza sulla deriva relativista e islamicamente corretta che ha portato alti prelati cattolici a legittimare l'islam come religione e a trasformare le chiese e le parrocchie in sale da preghiera e di raduno degli estremisti islamici. - autore: Magdi Cristiano Allam
A Sua Santità il Papa Benedetto XVI,
Mi rivolgo direttamente a Lei, Vicario di Cristo e Capo della Chiesa Cattolica, con deferenza da sincero credente nella fede in Gesù e da strenuo protagonista, testimone e costruttore della Civiltà cristiana, per manifestarLe la mia massima preoccupazione per la grave deriva religiosa ed etica che si è infiltrata e diffusa in seno alla Chiesa. Al punto che mentre al vertice della Chiesa taluni alti prelati e persino dei suoi stretti collaboratori sostengono apertamente e pubblicamente la legittimità dell’islam quale religione e accreditano Maometto come un profeta, alla base della Chiesa altri sacerdoti e parroci trasformano le chiese e le parrocchie in sale da preghiera e da raduno degli integralisti ed estremisti islamici che perseguono lucidamente e indefessamente la strategia di conquista del territorio e delle menti di un Occidente cristiano che, come Lei stesso l’ha definito, “odia se stesso”, ideologicamente ammalato di nichilismo, materialismo, consumismo, relativismo, islamicamente corretto, buonismo, laicismo, soggettivismo giuridico, autolesionismo, indifferentismo, multiculturalismo.
Si tratta di una guerra di conquista islamica che ha trasformato l’Occidente cristiano in una roccaforte dell’estremismo islamico al punto da “produrre” terroristi suicidi islamici con cittadinanza occidentale, dove la minaccia più seria non è tanto quella degli efferati tagliatori di teste che impugnano le armi, quanto quella dei subdoli tagliatori di lingue che hanno eretto la dissimulazione a precetto di fede islamica, dando vita a uno stato islamico in seno allo stato di diritto, basato su un’ampia rete di moschee e di scuole coraniche dove si predica l’odio, si inculca la fede nel cosiddetto “martirio” islamico, si pratica il lavaggio di cervello per trasformare le persone in combattenti della guerra santa islamica; di enti caritatevoli e assistenziali islamici che in cambio di aiuti materiali plagiano e sottomettono le menti; di banche islamiche che controllano fette sempre più ampie della finanza e dell’economia mondiale accreditando il diritto islamico; di veri e propri tribunali islamici che in Gran Bretagna sono già riusciti a imporre la sharia, la legge islamica, equiparata al diritto civile su questioni attinenti allo statuto personale e familiare, anche se assumono delle sentenze che violano i diritti fondamentali dell’uomo, quale la legittimazione della poligamia e la discriminazione della donna. Questi sono fatti: ci si creda o meno, piacciano o meno, ma sono fatti reali, oggettivi, innegabili.
Questa conquista islamica delle menti e del territorio si è resa possibile per l’estrema fragilità interiore dell’Occidente cristiano: sono due facce della stessa medaglia. Il nostro Occidente emerge sempre più come un colosso di materialità dai piedi d’argilla perché senz’anima, in profonda crisi di valori, che tradisce la propria identità non volendo riconoscere la verità storica ed oggettiva delle radici giudaico-cristiane della propria civiltà. E’ un Occidente ideologicamente e concretamente colluso con l’avanguardia dell’esercito di conquista islamico che mira a riesumare il mito e l’utopia della “Umma”, la Nazione islamica, invocando il Corano che legittima l’odio, la violenza e la morte, ed evocando il pensiero e l’azione di Maometto che ha dato l’esempio commettendo efferati crimini, come quello che lo vide personalmente partecipe della strage e della decapitazione di oltre 700 ebrei della tribù dei Banu Quraizah nel 627 alle porte di Medina.
Ebbene, Sua Santità, come non ci si può rendere conto che la disponibilità, o peggio ancora la collusione con l’islam come religione, che a dispetto delle apparenze mette a repentaglio l’amore cristiano per i musulmani come persone, culmina nel rinnegare la fede nel Dio che si è fatto Uomo e nel cristianesimo che è testimonianza di Verità, Vita, Amore, Libertà e Pace? Ecco perché oggi è vitale per il bene comune della Chiesa cattolica, per l’interesse generale della Cristianità e della stessa Civiltà occidentale che Lei si pronunci in modo chiaro e vincolante per l’insieme dei fedeli sul quesito di fondo alla base di questa deleteria deriva religiosa ed etica che sta screditando la Chiesa, scardinando le certezze valoriali e identitarie dell’Occidente cristiano, trascinando al suicidio della nostra civiltà: è concepibile che la Chiesa legittimi sostanzialmente l’islam come religione spingendosi fino al punto da considerare Maometto come un profeta?
Sua Santità, mi limiterò a indicarLe due recenti episodi di cui sono stato testimone. Mercoledì scorso, 15 ottobre 2008, l’arcivescovo di Brindisi, monsignor Rocco Talucci, mi ha fatto l’onore prima di accogliermi nella sede della Curia Arcivescovile verso le 17 e, mezz’ora dopo, di partecipare alla presentazione dell’autobiografia della mia conversione dall’islam al cattolicesimo “Grazie Gesù” nella Sala della Camera di Commercio di Brindisi. Ad organizzare il tutto è stata la mia cara amica Mimma Piliego, medico di base, volontaria presso il Seminario Papa Benedetto XVI e la Comunità Emmanuel, dedita al recupero dei tossicodipendenti. L’ho citata in “Grazie Gesù” come una delle testimoni di fede che mi hanno affascinato per la sua spiritualità.
L’arcivescovo mi è subito parso un fine diplomatico, attento a valutare sempre i pro e i contro di ogni situazione, cercando di accontentare tutti e di non irritare nessuno. Non è esattamente il tipo di Pastore della Chiesa o più semplicemente di persona che prediligo, anche se mi sforzo di immedesimarmi nella condizione altrui per comprendere le ragioni profonde di chi trasforma l’equilibrismo esistenziale in prassi quotidiana, finendo per condizionare e determinare la stessa scelta di vita. Senonché la mia disponibilità alla comprensione delle ragioni altrui è venuta meno quando, intervenendo dopo la mia presentazione del libro, l’arcivescovo Talucci ha qualificato Maometto come “un profeta” e ha sostanzialmente legittimato l’islam come religione in quanto “espressione dell’aspirazione dell’uomo ad elevarsi a Dio”. Non è assolutamente mia intenzione sollevare un caso personale nei confronti dell’arcivescovo Talucci. Perché non è affatto un caso isolato. Magari fosse così! Purtroppo è un atteggiamento diffuso in seno alla Chiesa cattolica odierna.
Il secondo episodio concerne il cardinale Jean-Louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Intervenendo al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini il 25 agosto 2008, nel corso di una conferenza stampa che ha preceduto l’incontro pubblico dal titolo “Le condizioni della pace”, ha ripetuto la tesi da lui già sostenuta in passato, secondo cui le religioni sarebbero di per sé “fattori di pace”, ma che farebbero paura a causa di “alcuni credenti” che hanno “tradito la loro fede”, mentre in realtà tutte le fedi sarebbero “portatrici di un messaggio di pace e fraternità”.
La tesi del cardinale Tauran è che le religioni sarebbero intrinsecamente buone e che quindi lo sarebbe anche l’islam. Ne consegue che se oggi l’estremismo e il terrorismo islamico sono diventati la principale emergenza per la sicurezza e stabilità internazionale, ciò si dovrebbe imputare a una minoranza “cattiva” che interpreterebbe in modo distorto il “vero islam”, mentre la maggioranza dei musulmani sarebbe “buona” nel senso di rispettosa dei diritti fondamentali e dei valori non negoziabili che sono alla base della comune civiltà dell’uomo.
La realtà oggettiva, lo dico con serenità e animato da un intento costruttivo, è esattamente il contrario di ciò che immagina il cardinale Tauran. L’estremismo e il terrorismo islamico sono il frutto maturo di chi, a partire dalla sconfitta degli eserciti arabi nella guerra contro Israele del 5 giugno 1967 che ha segnato il tramonto dell’ideologia laica, socialista e guerrafondaia del panarabismo, innalzando il vessillo del panislamismo ha voluto essere sempre più aderente al dettame del Corano e al pensiero e all’azione di Maometto. La verità, dunque, è che l’estremismo e il terrorismo islamico corrispondono genuinamente al “vero islam” che è un tutt’uno con il Corano che a sua volta è considerato un tutt’uno con Allah, opera increata al pari di Dio, così come corrispondono al pensiero e all’azione di Maometto.
Alla radice del male non vi è dunque una minoranza di uomini “cattivi”, responsabili del degrado generale, mentre le religioni sarebbero tutte ugualmente “buone”. La verità è che le religioni sono diverse, mentre gli uomini – al di là della fede e della cultura di riferimento - potrebbero essere accomunati dal rispetto di regole e di valori comuni. La verità è che il cristianesimo e l’islam sono totalmente differenti: il Dio che si è fatto uomo incarnato in Gesù, che ha condiviso la vita, la verità, l’amore e la libertà con altri uomini fino al sacrificio della propria vita, non ha nulla in comune con Allah che si è fatto testo incartato nel Corano, che s’impone sugli uomini in modo arbitrario, che ha legittimato un’ideologia e una prassi di odio, violenza e morte perseguita da Maometto e dai suoi seguaci per diffondere l’islam.
La verità, lo dico sulla base dell’oggettività della realtà manifesta e della consapevolezza legata all’esperienza diretta, è che non esiste un “islam moderato”, così come invece ha sostenuto lo stesso cardinale Tauran, mentre certamente ci sono dei “musulmani moderati”. Sono tutti quei musulmani che, al pari di qualsiasi altra persona, rispettano i diritti fondamentali dell’uomo e quei valori che non sono negoziabili in quanto sostanziano l’essenza della nostra umanità: la sacralità della vita, la dignità della persona, la libertà di scelta.
L’amara verità è che quella parte della Chiesa ammalata di relativismo e di islamicamente corretto rischia di diventare più islamica degli stessi islamici. Mi domando se la Chiesa si rende conto dell’arbitrio commesso nell’assumere la tesi del Corano creato anziché increato, al fine di consentire l’interpretazione e la contestualizzazione storica dei versetti, quindi la rappresentazione di un islam dove fede e ragione sarebbero del tutto compatibili, quando storicamente e a tutt’oggi la stragrande maggioranza dei musulmani crede in un Corano increato al pari di Allah, dove i versetti hanno un valore assoluto, universale, eterno, immodificabili? Come può la Chiesa prestarsi al gioco di chi strumentalmente e ideologicamente decontestualizza, scorpora, seleziona arbitrariamente il contenuto e il messaggio coranico, al fine di evidenziare quei versetti che estrapolati da ciò che precede e ciò che segue, consentirebbero di affermare l’esistenza di un “islam moderato”? Come può la Chiesa legittimare sostanzialmente un sedicente “islam moderato”, finendo per accreditare un personaggio abietto e criminale, che non ha avuto alcuna remora a ricorrere a tutti i mezzi, compreso lo sterminio di chi non aderiva all’islam, per sottometterli alla sua mercé?
Mi domando se la Chiesa si rende conto che se non afferma e non si erge a testimone dell’unicità, assolutezza, universalità ed eternità della Verità in Cristo, finisce per rendersi complice nella costruzione di un pantheon mondiale delle religioni, dove tutti ritengono che ciascuna religione sia depositaria di una parte della verità, anche se ciascuna religione si auto-attribuisce il monopolio della verità? Perché stupirsi poi del fatto che il cristianesimo, posto sullo stesso piano di una miriade di fedi e ideologie che danno le risposte più disparate ai bisogni spirituali, cessi di affascinare, persuadere e conquistare la mente e i cuori degli stessi cristiani, che disertano sempre più le chiese, che rifuggono dalla vocazione sacerdotale e più in generale che escludono la dimensione religiosa dalla propria vita?
Per me il cristianesimo non è una religione “migliore” dell’islam, o la religione “completa” dal messaggio “compiuto” rispetto ad un islam considerato come una religione “incompleta” dal messaggio “incompiuto”. Per me il cristianesimo è l’unica religione vera, perché è vero Gesù, il Dio che si fa uomo e che ha testimoniato in mezzo a noi uomini tramite le opere buone la verità, il fascino, la ragionevolezza e la bontà del cristianesimo. Per me l’islam che riconosce un Gesù solo umano, che pertanto condanna il cristianesimo come eresia perché crede nella divinità di Gesù e come idolatria perché crede nel dogma della Santissima Trinità, è una falsa religione, ispirata non da Dio ma dal demonio. Per me l’islam che ottemperando alle prescrizioni coraniche ed emulando le gesta di Maometto corrompe l’animo di chi si sottomette e uccide il corpo di chi si rifiuta, è una religione fisiologicamente violenta e si è rivelata storicamente aggressiva e conflittuale, del tutto incompatibile con i valori fondanti della comune civiltà umana.
Proprio la mia esperienza di “musulmano moderato” che perseguiva il sogno di un “islam moderato”, mi ha fatto comprendere che si può certamente essere “musulmani moderati” come persone ma che non esiste affatto un “islam moderato”. Dobbiamo pertanto distinguere tra la dimensione della persona da quella dalla religione. Con i musulmani moderati, partendo dal rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dalla condivisione dei valori non negoziabili della nostra umanità, si può dialogare e operare per favorire la civile convivenza. Ma dobbiamo affrancarci dall’errore diffuso che immagina che per poter amare i musulmani si debba amare l’islam, che per rapportarsi in modo dignitoso con i musulmani si debba attribuire pari dignità all’islam.
Sua Santità Benedetto XVI, la Chiesa, il Cristianesimo e la Civiltà occidentale oggi stanno soccombendo per l’imperversare della piaga interna del nichilismo e del relativismo di chi ha perso la propria anima, sotto l’incalzare della guerra di conquista di natura aggressiva dell’estremismo e del terrorismo islamico, in aggiunta alla deriva di un mondo che si è globalizzato ispirandosi alla modernità occidentale ma solo nella sua dimensione materialista e consumista, mentre non ha affatto recepito la sua dimensione spirituale e valoriale. Finendo per avvantaggiare coloro che rincorrono una concezione materialista e consumista della vita, scevra da valori e regole, violando i diritti fondamentali dell’uomo, così come è certamente il caso della Cina e dell’India. In questo contesto assai critico e dalla prospettiva buia, Lei oggi rappresenta un faro di Verità e di Libertà per tutti i cristiani e per tutte le persone di buona volontà in Occidente e nel Mondo. Lei è una Benedizione del Cielo che mantiene in piedi la speranza nel riscatto morale e civile della Cristianità e dell’Occidente. Ci ispiriamo a Lei e confidiamo nella sua benedizione per ergerci a Costruttori della Civiltà Cristiana in grado di promuovere un Movimento di riforma etica che realizzi un’Italia, un’Europa, un Occidente e un Mondo di Fede e Ragione. Che Dio l’assista nella missione che Le ha conferito e che Dio ci accompagni nel comune cammino volto all’affermazione della Verità, all’accreditamento del bene comune e alla realizzazione dell’interesse generale dell’umanità.
Magdi Cristiano Allam
Un sabato pomeriggio a scuola con un gruppo di genitori - Autore: Bruschi, Franco Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 20 ottobre 2008 - Proposte sulla nuova scuola, fatte da chi la scuola la vive.
Volevo raccontare dell’incontro di sabato 18 ottobre 2008 con alcuni genitori delle mie alunne di Terza superiore, in occasione delle elezioni dei rappresentanti dei consigli di classe. Essendo un nuovo insegnante, mi sono presentato dicendo che sono entrato in classe ponendomi come uomo che ha dei desideri, delle domande, delle certezze, degli ideali, dei punti di riferimento che desidera condividere con chi si trova di fronte, per vivere con loro l’avventura della conoscenza, della scoperta del senso della vita, della libertà. Per questo nel primo mese di scuola ho messo a tema fondamentalmente due questioni: quella dell’IO e quella della storia, della cultura, della civiltà a cui ciascuno di noi appartiene, coinvolgendo e provocando le alunne in un dialogo serrato. Non avrebbe senso affrontare lo studio delle opere dei grandi geni della letteratura che hanno messo a tema il loro io, la conoscenza di sé e della realtà, senza porsi la domanda: ma chi sono io? Oppure affrontare lo studio della storia, cioè il tentativo fatto da chi ci ha preceduto di rispondere a tutti i propri bisogni, senza conoscere e fare chiarezza su cosa vuol dire appartenere alla storia, alla cultura, alla civiltà, italiana ed europea, senza fare chiarezza sull’origine e sull’originalità di questa storia e quindi sul modo assolutamente originale di intendere i bisogni dell’uomo. Ho detto che quel che a me interessa è crescere con le mie alunne come uomo, capace di apertura e conoscenza del significato del reale, capace di giudizio su tutto, questo a partire da una profonda stima di chi mi trovo di fronte. La scuola è una grande occasione perché la sfida della conoscenza continui e si approfondisca prima di tutto in me. Non manco mai di sorprendermi del grande interesse con cui dei genitori ascoltano una simile proposta e negli ultimi anni, cadute ormai le tradizionali barriere ideologiche, del consenso, della approvazione che questa proposta ottiene. Ma quel che ieri mi ha sorpreso ulteriormente è stato il fatto che quei genitori avendo ascoltato altri discorsi sia negli anni passati alla mia scuola, sia in altre scuole dei loro figli, abbiano detto che la mia proposta, il mio modo di pormi nei confronti dei loro figli, apparisse loro come una cosa dell’altro mondo, e che se qualche altro genitore si fosse trovato per caso lì ad ascoltare il nostro dialogo avrebbe avuto l’impressione di trovarsi in una realtà scolastico-educativa unica nel suo genere, meravigliandosi che si parlasse di certe cose, di cui nella scuola o nei dibattiti quasi mai si parla. E hanno aggiunto che i genitori ( io direi anche gli studenti delle superiori) dovrebbero avere la possibilità di incontrare gli insegnanti, di ascoltare la loro proposta educativa e poi di scegliere a chi affidare i loro figli. A me non sembrava di aver fatto dei discorsi straordinari, semplicemente ho raccontato l’esperienza educativa che ha segnato la mia vita, da quando io ero giovane, come i figli di quei genitori. Io non faccio altro che riproporre a scuola quel che è stato decisivo per me, per la mia crescita come uomo: la presenza di un “maestro” appassionato ai suoi ragazzi, che vive con loro l’avventura della conoscenza, avendo come primo interesse la crescita della loro libertà. Educazione e libertà: sono questi i due fattori di una scuola che vuole rispondere ai bisogni dei bambini, dei ragazzi, dei giovani e alle esigenze e preoccupazioni della famiglie. Questo interessa veramente a studenti e genitori liberi da pregiudizi. Questa è una battaglia civile perché se non esiste la possibilità dei giovani di crescere, di imparare a giudicare e ad assumersi responsabilità, la società si sfascia. Avere questa possibilità è dunque decisivo! Tutto il resto non dico che non sia importante, ma è secondario Per questo vado ripetendo che se riforma della scuola ci sarà, non potrà prescindere dall’affronto di questi problemi: costruire le condizioni per rendere la scuola luogo di educazione e di libertà. Altrimenti si tratterà sempre di interventi marginali, incapaci di dare una risposta alla grave crisi della scuola italiana e soprattutto alla drammatica emergenza educativa. Di questo vorrei che si parlasse nelle scuole e nei dibattiti sulla scuola. Da dove partire? Da chi la scuola, quotidianamente, la vive già così.
USA/ Weigel: principi morali sbagliati possono facilmente corrompere le professioni e le leggi - INT. George Weigel - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
In America non ci fermiamo molto a riflettere su che cosa sia diventata la nostra cultura, ed è altrettanto difficile, per noi, riuscire a sviluppare una fede, una letteratura e un linguaggio comuni. Oggi molti americani probabilmente non sono d’accordo neppure su cosa voleva dire Thomas Jefferson quando, scrivendo la Dichiarazione di Indipendenza, disse che ci uniamo come una sola Nazione per difendere la vita (tutte le vite, non solo una classe specifica), la libertà (per tutti) e il perseguimento della felicità (per tutti, e non solo per i banchieri di Wall Street e per i loro amici politici). Sono tutte considerazioni importanti nell’attuale dibattito elettorale, ed è per questo che abbiamo chiesto a George Weigel che cosa abbia imparato da Giovanni Paolo II sul tema della cultura.
Cosa intendeva il Papa quando chiedeva: “Come va con la cultura?”
Giovanni Paolo II era un polacco e i polacchi hanno una visione particolare sulle dinamiche della Storia. Questo perché la Polonia come nazione è sopravvissuta alla vivisezione e alla distruzione della Polonia come Stato nel 1795 attraverso la sua cultura, anzi è sopravvissuta con vigore tale da poter permettere a un nuovo stato polacco di nascere nel 1918. Giovanni Paolo II è cresciuto con l’idea che la cultura è, alla lunga, la forza più dinamica della storia.
Qual è il centro della cultura, il suo principio ispiratore?
Il cuore della cultura è “culto”: cosa uomini e donne hanno a cuore, onorano e adorano; ciò su cui sono pronti a mettere in gioco le loro vite e quelle dei loro figli. Il Papa era anche cosciente del grande fallimento della Germania di Weimar: un edificio politico democratico costruito su una base culturale totalmente inadeguata. Per questo capiva, quindi, l’importanza di una vibrante cultura morale pubblica in una democrazia. La democrazia ha bisogno di una cultura morale pubblica capace di formare il tipo di cittadini che siano in grado di far funzionare la democrazia e una libera economia, così che il risultato di libera politica e libera economia sia una genuina fioritura umana.
Come valuterebbe Giovanni Paolo II la cultura della pratica medica in America nel nostro tempo?
Possiamo avere un’idea delle sue preoccupazioni leggendo l’enciclica del 1995 “Evangelium Vitae”, nella quale il Papa discute a lungo e con passione su come giudizi morali rivolti disperatamente in direzione sbagliata (vedi i casi di aborto e eutanasia) possono corrompere le professioni, così come le leggi.
Come vedrebbe Giovanni Paolo II la discussione attuale fra gruppi come l’Associazione Americana di Ginecologi e Ostetrici (che hanno proposto di limitare l’obiezione di coscienza di dottori in via di formazione i quali non desiderano partecipare in niente che sia collegato a pratiche abortive) e la posizione dell’ Associazione dei Medici Cattolici di difendere il diritto naturale di ogni professionista della sanità di esercitare la propria coscienza e di non partecipare in alcuna azione, come l’aborto, che compromette la vita di un essere umano?
Starebbe sicuramente dalla parte dei buoni. Una legge che costringe i medici a fare una cosa è un male morale oggettivo, è una legge falsa, e deve essere rifiutata.
Nella sua biografia “Testimone della speranza” lei scriveva che la “teologia del corpo” di Giovanni Paolo II è «una bomba a orologeria teologica pronta ad esplodere». C’è qualche segno che ci dice che la miccia è sempre accesa, almeno nella Chiesa Cattolica?
È già scoppiata fra un largo numero di giovani cattolici impegnati, che vedono nella teologia del corpo un’alternativa ai miasmi culturali della visione del sesso come uno “sport di contatto” potenzialmente letale. Certamente ha avuto un effetto nei corsi di preparazione al matrimonio, ed è il tema del lavoro di molti movimenti e gruppi di rinnovamento. Sono anche colpito dalla portata dell’interesse per la teologia del corpo da parte di studiosi e ricercatori. È un interesse che si misura dalla quantità di tesi e ricerche sull’argomento.
A suo avviso la teologia del corpo sta innescando una bomba anche sul piano sociologico? Intendo dire un riconoscimento del fatto che i sessi si completano l’un l’altro e che la differenza sessuale riflette il dono di sé di Dio stesso?
Non si può invertire in una sola generazione una cultura decadente che si è andata formando per duecento anni. Ma almeno adesso abbiamo gli strumenti per cominciare il lavoro.
La sentenza della Corte Suprema del Connecticut ha stabilito che il matrimonio tra coppie dello stesso sesso è legale, nonostante l’assembla legislativa dello Stato avesse agito in senso contrario. Che ne pensa?
Che il “matrimonio”, il sacramento primordiale, possa significare qualunque cosa che vogliamo farlo essere, è la forma più pura di gnosticismo che si possa trovare.
Come valuta questa tendenza a negare che l’esercizio dell’obiezione di coscienza nell’assistenza sanitaria appaia in larga parte (se non sempre) coinvolgere la sfera del sesso e le sue conseguenze, come il procurato aborto?
L’aborto non è una questione di moralità sessuale, ma di giustizia pubblica: il quinto comandamento, non il sesto. Se, d’altra parte, sta parlando di prescrivere contraccettivi e via dicendo, non è un caso che i Nuovi Gnostici vogliano usare il potere dello Stato per forzare la coscienza cattolica, perché la Chiesa cattolica è l’ultima grande barriera nazionale istituzionalizzata contro la loro vittoria e la vittoria della dittatura del relativismo.
20 studenti si sono incontrati privatamente con medici più esperti al meeting della Catholic Medical Association per domande e risposte. Il messaggio emerso in prevalenza è che l’etica medica insegni loro semplicemente di lasciarsi alle spalle quello che sono e dare ai pazienti ciò che vogliono o ciò che la cultura o la legge impongono. Cosa potrebbe dire Giovanni Paolo II a questi studenti brillanti e affamati di risposte?
Che non possono compromettere la loro integrità, e che sicuramente troveranno strade per farlo.
(Robert F. Conkling)
C’è un’alternativa al partito della rendita - Luca Antonini - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
In una Sala della Regina strapiena, giovedì scorso a Montecitorio, si è svolto il convegno organizzato dall’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà sul tema Federalismo fiscale: la sfida del Paese. È stato un momento di discussione e di lavoro di altissimo livello che ha sorpreso molto chi come il sottoscritto per professione studia la vita delle istituzioni. Erano anni o forse decenni che non accadeva qualcosa di simile nell’Italia del bipolarismo incompiuto e rusticano, della delegittimazione a priori dell’avversario, del manicheismo pronto ad affossare tutto quello che è avvenuto nella precedente stagione politica. Si è assistito, in azione, a un esempio di quel bipolarismo mite che l’Intergruppo per la Sussidiarietà aveva messo a tema due anni fa. Il confronto tra maggioranza e opposizione, infatti, è avvenuto mettendo da parte l’ideologia e analizzando con serietà e precisione i punti fondamentali del provvedimento sul federalismo fiscale approvato dal Governo. Su questo disegno di legge è stato espresso un sostanziale apprezzamento, concordando sulla necessità della riforma ed entrando nel merito, finalmente in modo puntuale e costruttivo, sulle singole soluzioni, anche evidenziane criticità e possibili correzioni. Un dialogo costruttivo e di alto livello tra personalità politiche di prim’ordine come Gianfranco Fini, Renato Schifani, Raffaele Fitto, Linda Lazillotta, Enrico Letta, Vannino Chiti e molti altri.
Il grande assente all’evento presieduto da Maurizio Lupi a nome dell’Intergruppo e organizzato insieme al network delle principali fondazioni culturali e politiche del Paese è stato uno solo: l’ideologia; più precisamente quell’ideologia politica incapace di dialogo e di qualsiasi gratuità che non sia il proprio, meschino, interesse di parte, o addirittura personale, senza nessuno spazio dato alla considerazione del bene comune. Da questo punto di vista, all’interno dell’Intergruppo si è aperta la possibilità di una nuova stagione di lavoro, probabilmente perché l’Intergruppo - il cui collante è la consapevolezza che la sussidiarietà è la chiave per la modernizzazione del Paese - rappresenta il contesto ideale, anche per la qualità delle persone che vi aderiscono, per accompagnare il lavoro parlamentare sul disegno di legge sul federalismo fiscale, che si presenta come una riforma bipartisan che porta a sintesi - come afferma la relazione di accompagnamento - i lavori degli ultimi anni e i contributi elaborati dalle Regioni, dagli Enti locali e dallo stesso governo Prodi. È certo un momento delicato, perché in Italia con questa riforma s’inizia a scrivere la storia del federalismo vero, destinato a mettere fine a quel costume dello scaricabarile delle responsabilità che ha caratterizzato in particolare gli ultimi anni. La riforma del federalismo fiscale permetterà, invece, di imputare le responsabilità con chiarezza. In Italia ci sono - l’ho denunciato spesso, ma ripeterlo è utile - troppe differenze ingiustificate, basta leggere le relazioni della Corte dei Conti: non è concepibile che una sacca per le trasfusioni costi in Calabria quattro volte di più di quanto costa in Lombardia o che una tac costi in un alcune parti del Paese 800 euro e in altre 500, o ancora che la spesa pro capite per bambino negli asili nido a Roma sia di 16000 euro e 7000 a Modena, che eppure è un modello premiato a livello internazionale.
Non si tratta in questi casi di gap strutturali o altro: sono solo differenze ingiustificate che poi ricadono sulla fiscalità generale, cioè sui contribuenti. Un recente studio di Unioncamere Veneto ha dimostrato come negli ultimi anni il residuo fiscale del Nord (la differenza tra quanto si paga in imposte e quanto ritorna in forma di spesa pubblica) sia aumentato, mentre la produttività del Sud, nonostante il maggiore trasferimento, sia diminuita. I conti non tornano, se non ipotizzando un enorme spreco di risorse che non si traduce in un reale aiuto alle realtà produttive e sociali, ma alimenta inefficienza, sprechi e rendite politiche di vario tipo. Un altro esempio: in Campania arrivano pro capite per la sanità più risorse che in Lombardia, ma la qualità della sanità lombarda ha un indice di qualità di + 0,9 e quella della Campania di -1,4.
In un momento di crisi finanziaria così delicata a livello internazionale, a livello nazionale non ci si può permettere questo disordine interno. Da questo punto di vista, i principi contenuti nel ddl sul federalismo fiscale non sono - come qualcuno ha obiettato - acqua fresca perché mancano i numeri. I principi del disegno di legge sono, invece, rivoluzionari. Lo è quello del passaggio dalla spesa storica (che finanzia servizi e inefficienza) al costo standard (che finanzia solo i servizi); quello della perequazione alla capacità fiscale per le funzioni non riconducibili a sanità, assistenza e istruzione; quello della cancellazione dei trasferimenti statali vincolati e della loro trasformazione in autonomia impositiva, permettendo alle Regioni e agli enti locali di sviluppare proprie politiche fiscali, fino a poter introdurre “leggi Tremonti” regionali di detassazione degli investimenti o a poter riconoscere i carichi familiari o sostituire i bandi che distribuiscono risorse a pioggia con una riduzione della pressione fiscale. Ancora, si stabilisce il principio di premiare i virtuosi e punire gli inefficienti, fino a introdurre il “fallimento politico” per quegli amministratori che portano un ente al disseto finanziario: come un imprenditore fallito non può rimettersi subito a fare l’imprenditore, così un sindaco “fallito” non potrà subito riciclarsi, come invece oggi purtroppo avviene, come parlamentare o euro deputato. Si tratta quindi davvero di una riforma storica per un sistema come quello italiano che questi principi li ha disconosciuti con chiara regolarità.
Il pericolo per la riforma viene invece da un altro “intergruppo” trasversale, il partito della rendita, che nell’inefficienza e negli sprechi, che prima si sono solo accennati, costruisce la propria fortuna.
Questo partito parassitario e trasversale certamente si troverà compatto nel tentativo di evitare o rallentare una riforma come questa, per non perdere i propri privilegi, la propria avversione alla responsabilità e alla resa del conto, nonostante la crisi e la situazione del Paese. Questo partito sarà il vero nemico del federalismo fiscale e dello stesso lavoro dell’Intergruppo per la Sussidiarietà.
SCUOLA/ Il governo non tolga risorse alle scuole paritarie, c’è un modo migliore per ridurre gli sprechi - Renato Farina - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Ci dev’essere stato un errore. Non possiamo crederci. E agli errori si rimedia.
È accaduto questo. Nelle tabelle che sostanziano di cifre la Finanziaria, che è la legge fondamentale con cui il Parlamento dà l’assenso alla politica del governo, risultano per il 2009 tagli per 133,4 milioni di euro alla scuola paritaria.
In commissione Cultura, scienza e istruzione i deputati della maggioranza all’unanimità hanno posto come “condizione” per dare un parere favorevole alla finanziaria il “reintegro” di questi 133,4 milioni di euro.
Capiamo come e perché i funzionari del ministero abbiano tagliato proprio lì: è più facile. Il 96,98 per cento del bilancio ministeriale è fatto di stipendi, e non si possono tagliare. Se il ministro dell’Economia impone tagli lineari del 20 per cento, il coltello affonda come nel burro là dove non ci sono sindacati irosi, dove si è abituati alla pazienza: le scuole paritarie. Non è giusto. Non è giusto in funzione di due ragioni: una è ideale, l’altra economica.
Comincio da quest’ultima.
1) Le scuole paritarie senza fini di lucro (non profit) sono quasi tutte di matrice cattolica. Versano in gravissime difficoltà, a causa della crisi che attanaglia le famiglie (in queste scuole ci vanno specie i figli delle classi medie e medio basse). Dovendo alzare le tariffe, vanno verso la chiusura. Con il risultato di riversare nella scuola statale molti allievi. E nella scuola statale il costo è pressoché il doppio per alunno. Altro che risparmio di 133,4 milioni. Si riuscirebbe nel capolavoro di aumentare gli sprechi e di togliere un diritto essenziale. Ma c’è una ragione economica dirimente. Ed è il fatto che queste scuole sono un fattore di concorrenza: mostrano come si può risparmiare sulle spese. Consentirebbero di ridisegnare il percorso del denaro nelle scuole statali, per capire in quali buche improduttive spesso finisce, e rimediare, seminando i soldi su terreni fertili e non sui sassi o tra le gramigne.
2) La ragione ideale è la più forte di tutte. L’emergenza educativa in Italia e nel mondo occidentale è gravissima, rispetto ad essa quella economica ci fa il solletico. Dirò anzi che la crisi economica, motivata dalla perdita di senso del lavoro-lavoro, per cui il valore si è concentrato sulla virtualità del denaro, deriva dalla perdita di rapporto serio con la realtà. E in questo clima dove manca aria, e siamo pieni di fumi tossici, che cosa si fa: si taglia sull’ossigeno? Non è possibile. La libertà di scelta educativa è la prima libertà e il Popolo della libertà si chiama così per qualche ragione.
Per questo il collega Gabriele Toccafondi ha preparato un emendamento dove si recuperano questi 133,4 milioni di euro. Non li si toglie alla scuola statale. Li si recupera in voci del bilancio di svariati ministeri, così da non dare pretesti di finto scandalo. Tra l’altro anche l’opposizione ha protestato per questi tagli.
Sono certo passerà, e che il governo darà parere favorevole. Confido nella serietà e nella tenacia dei ministri Mariastella Gelmini e Giulio Tremonti rispetto agli ideali professati.
DIBATTITO/ A che punto è la filosofia? La nuova koiné naturalista - Redazione - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
La filosofia, si sa, è la più strana delle discipline. Per molti è solo la materia “per la quale e senza la quale tutto rimane tale e quale”. Purtroppo o per fortuna, invece, la filosofia è la forma con cui concepiamo la realtà e non è possibile non averne una; anche la negazione della filosofia è una filosofia. Che ne sia la causa o conseguenza, è la filosofia che presenta i modi di pensare la vita, i significati delle parole, la società. Insomma, la cosiddetta mentalità.
Ci chiediamo, allora: a che punto siamo? Quale mentalità la filosofia odierna sta contribuendo a creare o quale si impegna a riflettere? Il Sussidiario vuole discutere su questo tema, accettando suggerimenti di filosofi, letture, scuole da studiare eccetera. L'intento è quello di divenire sempre più consapevoli della mentalità, il che è decisivo per capire il proprio compito. La mentalità filosofica di oggi è dominata da quello che si chiama “naturalismo”. In che cosa consiste?
De Caro (in Calcaterra, Pragmatismo e filosofia analitica 2006) identifica tre leggi portanti: l’esclusione di oggetti non naturali, l’antifondazionalismo e la continuità scienza-filosofia. Ci sono due modi di intendere queste leggi.
Il primo è uno scientismo duro (Dennett, per fare un nome). In questa versione esiste solo quello che la scienza “positiva” – in particolare la fisica – riconosce o arriverà a riconoscere, non c’è nessuna fondazione del nostro sapere al di là della conoscenza “scientifica” e la filosofia stessa è parte della scienza e come tale verrà pian piano dissolta in essa.
C’è un’altra versione, più soft o pluralista, che pur mantenendo le medesime leggi, le interpreta nel senso che negli oggetti naturali devono essere inclusi anche i prodotti culturali (McDowell), che la scienza non può avere a sua volta pretese fondative e che il sapere filosofico-umanistico può convivere con quello scientifico: “un modesto realismo non metafisico, adeguatamente conforme ai risultati delle scienze” (Putnam).
Le due versioni, però, condividono un assunto: essere naturalisti significa sostenere che “il mondo è causalmente chiuso” (Määttänen). Ciò significa che anche nella seconda versione si può accettare che esista una “cultura” con tutti i suoi significati belli e profondi, si può pensare che ci siano ragionamenti non scientifici eppure validi e persino che si deve essere “realisti”. In molte versioni esiste anche un’ontologia, cioè un chiedersi quale sia la natura degli oggetti. In fondo si va molto vicino a un ragionevole senso comune ormai lontano dagli eccessi del nichilismo di fine Novecento.
Eppure, con quel nichilismo – soprattutto nella sua versione “gaia” espressa da Del Noce – c’è una sottile affinità perché anche per il naturalismo l’ambito della realtà, per quanto ampio e non più in dubbio quanto alla sua esistenza, è chiuso, cioè non funziona mai come “segno”. Così emerge quella che era la radice comune a ermeneutica e analitica: negare che la realtà funzioni come segno e che quindi possa rimandare a un’altra realtà completamente oltre sé (meta-fisica) e che possa provocare interpretazioni la cui validità dipende dall’aver più o meno compreso quella realtà metafisica. Se si esclude il valore del segno, i suoi terminali, l’io e Dio – per semplificare à la Newman – non hanno più senso se non come valori culturali.
Si arriva così all’estrema ammissione di un naturalista scientista come McGinn: “L’essenza di un problema filosofico è l’inspiegabile salto, il passaggio da una cosa all’altra senza nessuna idea di quale sia il ponte che permette questo passaggio” (The Mysterious Flame, 2002). La filosofia – parole sue – è perciò “futile”. Paradossale destino: si studia tanto per tornare a “tutto rimane tale e quale”. Il modo normale (“naturale” e non “naturalista”) di pensare tende invece a sostenere che si pensa proprio per conoscere e cambiare la realtà, che oggetto del pensiero sia tutta la realtà, fisica o meta-fisica, e che tutto possa essere letto come “segno”.
La curiosa alleanza tra l’intellettualismo scientista e l’irrazionalismo del nostro proverbio fa nascere il sospetto che pensare il “segno” sia antipatico a tutti quelli che hanno un pregiudizio da difendere e che hanno già deciso di non voler essere disturbati da troppe domande.
(Giovanni Maddalena)
EMERGENZA CIBO/ L’obiettivo del vertice Fao: raddoppiare entro il 2050 la produzione alimentare - Dario Casati - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Ogni anno, il 16 ottobre, si celebra la Giornata Mondiale dell’Alimentazione per iniziativa della Fao. In genere questa data suscita un interesse abbastanza modesto che invece questa volta, dopo che i primi mesi dell’anno sono stati segnati da una forte attenzione alla tematica della crisi agricola mondiale, ci si aspettava fosse in ripresa. Al contrario, l’imperversare della bufera finanziaria ha addirittura fatto passare in secondo piano la tematica alimentare con l’eccezione di un aspetto abbastanza particolare se considerato in maniera avulsa dal contesto. Molti commenti si sono concentrati sull’elevato rischio di recessione mondiale che determinerebbe una contrazione della domanda di beni in genere, quindi anche di alimenti, con conseguenze sull’intera filiera alimentare. A riprova, si citano i dati della contrazione dei consumi nei paesi ricchi come, ad esempio, l’Italia. L’arditezza della costruzione stupisce e scoraggia ogni tentativo di rimettere ordine nelle cose, eppure vogliamo provarci. I consumi alimentari nei paesi ricchi sono in frenata già da qualche mese, il che lascia intendere che l’esplosione della crisi finanziaria non sia il solo colpevole. Se anche la flessione trovasse conferma, il sopraggiungere della recessione, come la storia insegna, potrebbe far riprendere questa categoria che normalmente si sviluppa in maniera anticiclica, nel senso che nei momenti di difficoltà gli altri consumi possono essere ridotti, ma non così l’alimentazione, che assicura la sopravvivenza degli individui. Se poi dovessimo prendere sul serio i consigli proposti dai media per “resistere” alla crisi, ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli, si va dal coltivare gli ortaggi sul balcone al far la spesa presso i singoli produttori, dal vagheggiare conserve domestiche al suggerire preparazioni che per valorizzare cibi poveri non badano a spese sugli ingredienti da aggiungere. Siamo alla storia delle brioches che Maria Antonietta, in perfetta buona fede ma con totale mancanza di senso della realtà, voleva somministrare alla folla affamata di Parigi che richiedeva pane.
In genere, per tornare alla Giornata mondiale, ci si chiede se davvero ne basti una sola o se non sarebbe meglio occuparsene tutti i giorni, una considerazione al limite della provocazione, che questa volta viene smentita in apparenza dai fatti: la Giornata, nel nostro paese, inizia il 16 ottobre e ufficialmente dura fino al 14 dicembre. In un paio di mesi il programma ufficiale elenca molte decine di avvenimenti illustrati in quasi un centinaio di pagine. Ma la domanda rimane sempre la stessa: e poi? Già il secondo giorno l’interesse mediatico si è visibilmente ridotto, dopo aver frettolosamente riportato la sintesi del discorso del direttore generale della Fao, Jacques Diouf che richiamava gli elementi di fondo della situazione alimentare..
Negli scorsi mesi, secondo le stime, quasi un centinaio di milioni di esseri umani è stato sospinto indietro nei suoi livelli di consumo verso quella fame che confidava di avere faticosamente sconfitta mentre altri 850 milioni vedono allontanarsi l’obiettivo della sicurezza alimentare. In questo contesto, servono a poco le Giornate se si limitano a discorsi che ruotano attorno all’immancabile tema a sviluppo obbligato. Serve ancor meno preoccuparsi delle importazioni dalla Cina o delle esportazioni dei nostri prodotti Dop o del calo delle vendite nei negozi, ma non nei discount. Chi può ragionevolmente raccontare queste cosucce a chi ha fame? Di recente, in una grande assise internazionale sui problemi dell’acqua e del cibo, dopo che Ingo Potrykus, il genetista svizzero che ha sviluppato un riso, il Golden rice, che potrebbe salvare ogni anno 40.000 vite umane, aveva esposto il significato della sua ricerca, gli è stato chiesto perché accanirsi tanto a studiare un riso naturalmente ricco di vitamina A e non cercare, invece, di far sì che anche quei popoli che si cibano normalmente (solo) di riso usino la pasta, perché è.... tanto più buona. Occorre imparare a distinguere fra ciò che è davvero importante e ciò che costituisce un mero tributo all’effimero in paesi ricchi.
Il nocciolo della questione è molto più duro da affrontare. Molti sembrano non capire che al mondo vi sarebbe spazio e cibo per tutti se si riuscisse a diffondere con coerenza, costanza e rispetto delle altrui esigenze un insieme di tecniche che permettesse ai popoli dei paesi della fame di coltivare quei prodotti di cui hanno bisogno, anche nei contesti più ostili. Le difficoltà ambientali, la presenza di avversità biologiche, come malattie, parassiti e predatori naturali, o abiotiche, come la carenza d’acqua, le ricorrenti siccità o la salinità dei terreni, possono essere affrontate, in parte con strumenti già disponibili, in parte potenziando la ricerca scientifica e le sue applicazioni. Si calcola che per il 2050, tenendo conto della dinamica demografica e di quella dei consumi individuali nei paesi in via di sviluppo, occorra raddoppiare la produzione mondiale di prodotti alimentari, un obiettivo che sembra irraggiungibile, ma che potrebbe essere conseguito ragionevolmente se vi fosse un vero impegno di tutto il mondo, rompendo schemi vecchi e contrapposizioni superate, agendo sui processi di spontanea democratizzazione dei paesi in maggiore difficoltà, favorendo grandi progetti di diffusione del progresso scientifico e tecnologico. Se la Giornata Mondiale servisse a far comprendere queste cose, ne basterebbe anche una sola, altrimenti un anno intero sarebbe sempre troppo poco.
SCUOLA/ L’aiuto a chi ha difficoltà di apprendimento: una questione di sguardo - Associazione Foe - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Mentre sulla riforma dell’istruzione i soliti sindacati muovono guerra al Ministro e gli studenti (i soliti…) in piazza urlano assurdi slogan contro la “distruzione della scuola pubblica”, in tante scuole paritarie, anziché perdere tempo con occupazioni pretestuose e sogni rivoluzionari, si continua silenziosamente a lavorare per il bene dei giovani, a partire da quelli che hanno più bisogno. E’ quanto ci racconta il contributo inviatoci dall’Istituto Spallanzani.
Tutti abbiamo potuto osservare una classe di prima elementare all’inizio dell’anno scolastico. Dopo qualche momento di imbarazzo, i bimbi generalmente manifestano un grande entusiasmo per l’apprendimento, pieni di orgoglio per la grande avventura appena intrapresa.
È desolante pensare che a distanza di pochi mesi per alcuni di loro potrebbe scattare un meccanismo di graduale emarginazione dal sistema scolastico, perché incapaci di tenere il ritmo della classe. Si tratta di alunni che, per quanto non certificati, manifestano sensibili problemi di apprendimento, per i quali la scuola, in genere, non predispone alcuna strategia di recupero. Li si promuove fino alla fine del primo ciclo dell’istruzione, tollerandone quasi la presenza, che, d’altra parte diventa inevitabilmente indisponente e provocatoria.
Eppure, se guardati e accolti, questi bambini spesso manifestano potenzialità sensoriali, cognitive, manipolative, affettive multiformi, genialità insospettabili, facoltà a volte strane e sorprendenti.
Perché la scuola possa accorgersi di loro occorre che la sua impostazione pedagogica sia fondata su un dato essenziale: la centralità dell’alunno, che implica, come prima conseguenza, il primato della persona sul programma. Dal punto di vista metodologico, questo comporta la disponibilità dei docenti ad interagire fattivamente tra loro e con altre realtà operanti nel territorio; richiede, poi, creatività e apertura a soluzioni didattiche non convenzionali, come la possibilità di scomporre il gruppo classe, per poter seguire gli alunni individualmente o a piccoli gruppi.
La nostra esperienza ci porta ad attribuire le difficoltà di apprendimento a tre categorie di problemi: neurobiologici, psicologici, culturali.
I problemi di carattere neurobiologico sono dovuti a carenze o deficit congeniti, come i disturbi specifici di apprendimento, il ritardo mentale o l’autismo. In campo cognitivo, tuttavia, abbiamo modo di sospettare che le diagnosi degli specialisti non abbiano sempre valore apodittico, tanto che diversi alunni, inseriti in un ambiente accogliente e gratificante, conseguono risultati sorprendenti.
Siamo arrivati alla conclusione che l’handicap vero, fisiologico è molto raro.
I problemi che più frequentemente riscontriamo sono quelli di natura psicologica, causati in gran parte dalle condizioni ambientali: l’abbandono di fatto da parte della famiglia, una cattiva storia scolastica, una scarsa attenzione ricevuta come persona.
All’origine troviamo molto spesso la rottura del nucleo familiare naturale e la composizione di nuclei familiari posticci e artificiosi. Forse, da parte della società, non ci si è mai chiesto seriamente quanto dolore causino queste situazioni nei bambini e quale costo dobbiamo tutti pagare in relazione alle gravi forme di disadattamento che ne derivano.
Riguardo alla terza causa di disagio, lo svantaggio culturale, ci sembra di poterne attribuire l’origine non più alla provenienza dell’alunno da una famiglia di umili condizioni, che non trasmette correttamente il codice linguistico e gli altri dati di una cultura evoluta (vedi Don Milani in “Lettera a una professoressa”), ma alla mancanza di un rapporto educativo significativo con la famiglia, per cui l’alunno passa la maggior parte del tempo davanti al televisore, Internet, play station, chat, telefonino senza qualcuno che lo accompagni e lo stimoli a sviluppare le potenzialità affettive e cognitive di cui è dotato. Questo tipo di disagio non riguarda un particolare ceto, ma è trasversale all’intero corpo sociale; anzi, spesso gli ambienti più colpiti sono proprio le classi sociali più agiate.
Le strategie che abbiamo messo in atto per affrontare le difficoltà di apprendimento sono le più svariate, anche perché le forme che esse presentano sono sempre diverse. A questo scopo la scuola deve essere disponibile ad una grande flessibilità operativa.
Un esempio, ormai lontano nel tempo, ma sempre significativo, è quello di M., una bimba affetta da una grave forma di distrofia muscolare, che non poteva muoversi dal letto e parlava a stento. Le erano stati decretati sei mesi di vita. Nell’ ’82, quando ancora non esistevano PC e, tanto meno, Internet, installammo in classe un sistema di videotrasmissione con telecamera, antenne, televisore, completato da un impianto radio CB, inventando, con diversi anni di anticipo, la comunicazione in videoconferenza. M. seguiva le lezioni dal suo letto, intervenendo anche via radio. La bimba, con sorpresa di tutti, invece che peggiorare migliorava, tanto che in terza media poté seguire le lezioni in classe, coi suoi compagni non più virtuali. Non solo. Completò tutto il ciclo delle superiori, si iscrisse all’università e superò diversi esami.
In diversi altri casi la nostra scuola si è attivata con iniziative didattiche specifiche nell’intento di affrontare particolari problemi. Abbiamo, tuttavia, maturato alcune prassi applicabili in generale a qualsiasi problema di apprendimento.
Il nostro metodo nasce da uno sguardo sull’alunno che ne vuole cogliere l’unicità come persona, il bene che costituisce e le potenzialità a volte imprevedibili e inimmaginabili di cui sempre è dotato.
L’attività didattica, di conseguenza, non è centrata sul programma, ma sull’alunno, ben sapendo che condizione primaria del suo successo è una relazione affettivamente significativa non solo con l’insegnante di sostegno, ma con tutto l’ambiente educativo in cui egli è inserito: personale docente e non docente, compagni di classe.
L’alunno deve potersi sentir dire dall’adulto educatore: “siamo insieme io e te, non sei solo, ti stimo per quello che sei, ti prendo per mano”. Si intraprende, così, un’attività di recupero che può essere individuale o a piccoli gruppi, in parallelo alle lezioni svolte in classe. I gruppi si compongono e si scompongono a seconda dei bisogni manifestati e del grado di preparazione acquisito da ogni alunno. Per ognuno viene sviluppato un percorso personalizzato, fondato sulle sue reali esigenze e non su obiettivi astratti. Il programma viene talvolta differenziato, talvolta ridotto, talvolta semplificato, sempre puntando al fatto che ogni alunno, nei momenti di presenza in classe, possa dire: “So di cosa parla l’insegnante, lo capisco, intervengo, interagisco; non sono emarginato.”
La personalizzazione dei percorsi si attua nella normale prassi didattica, aderendo alle abilità e ai bisogni mostrati dall’alunno e mediante colloqui continui e informali tra insegnanti di classe e insegnanti di sostegno – assistenti. Viene, poi, codificata e verificata all’interno dei consigli di classe e di un gruppo di lavoro sul disagio di apprendimento.
Si crea, così, intorno all’alunno, una effettiva comunità educante, nella quale egli si sente accolto a 360 gradi.
Gli esiti verificati di questa metodologia sono tre:
· la possibilità per ogni alunno di acquisire conoscenze e abilità rapportate al suo grado di ricettività;
· la possibilità per ogni alunno di acquisire una competenza sufficiente ad interagire con la classe nei momenti di colloquio e quindi di realizzare una effettiva socializzazione con i compagni
· la motivazione e l’interesse allo studio e più in generale alla conoscenza anche da parte di alunni normalmente considerati non predisposti per un buon esito dell’attività scolastica.
Nell’anno scolastico scorso sono stati seguiti in questo modo 40 alunni per 129 ore settimanali, con la collaborazione di 9 tra insegnanti di sostegno e assistenti.
Un alunno preveniente da un orfanotrofio di Bucarest, iscritto nella nostra scuola fin dalla prima elementare, ha terminato, lo scorso anno scolastico, la seconda media.
Inizialmente la sua situazione comportamentale e cognitiva era spaventosa; mostrava atteggiamenti del tutto imprevedibili; a pranzo si gettava talvolta sotto il tavolo per mordere i polpacci dei compagni, creando lo scompiglio generale. Era preso spesso da crisi di angoscia e dondolava continuamente il tronco, nell’atteggiamento tipico di chi è affetto da certe patologie psichiatriche. Naturalmente le materie scolastiche, lo studio erano per lui il più estraneo dei problemi. La nostra scuola lo ha seguito fin dalla prima elementare con insegnamento individualizzato o nell’ambito del piccolo gruppo, senza fargli mai perdere il contatto con la classe.
L’alunno, ora, non solo ha un rapporto sereno con compagni e insegnanti ma ha imparato a studiare e sta manifestando uno spiccato interesse per la musica, la storia e la geografia.
L’ultimo giorno di scuola era molto agitato. L’insegnante di lettere gliene chiese ragione. “Sono nervoso, nervoso, nervoso” fu la risposta. “Perché ?” insisté l’insegnante” “Perché per tre mesi non potrò più vedere Ileana, Federica, Loretta, Beppe…” e così via, citando nominalmente ogni insegnante e ogni operatore interno alla scuola: segretarie, bidella, cuoche.
Il resto della sua famiglia.
Giuliano Romoli
Coordinatore delle attività educative e didattiche
dell’Istituto paritario “Vladimiro Spallanzani” di Casalgrande (RE)
Banchi di Solidarietà, quando la carità diventa di casa - Redazione - lunedì 20 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Quello dei Banchi di Solidarietà è un gesto di carità che ti porta a entrare in case dove a volte si consumano in silenzio dolori e sofferenze portati da persone straordinarie. Ne abbiamo conosciute di persone così. E chi se le scorda più. Tu entri con il tuo pacco di generi alimentari, lo appoggi là per terra o su un tavolo, e poi ti siedi a scambiare quattro chiacchiere, bevi un caffè. Si cerca di fare compagnia, che è il bisogno più grande di chi vive schiacciato dalle difficoltà, isolato, sconfitto, disperato, o più semplicemente solo. A tutti ci si affeziona. O quasi a tutti. Ma a volte è capitato di incontrare persone così grandi…
Una di queste è Marta.
Un po’ di anni fa ci avevano segnalato la situazione di una giovane rumena, in Italia da pochi anni, con figlio e marito malati. La prima volta siamo andati a casa sua io e Saveria.
Marta allora era una ragazza di 25 anni, timida e riservata, sempre gentilissima con noi, capelli biondi e un bel viso dolce. Nel giro di 10 minuti abbiamo scoperto che questa fragile e dignitosissima ragazza, in un paese straniero, senza lavoro, stava perdendo il marito per un tumore al cervello e aveva un figlio di due anni con una grave forma di epilessia.
Marta guardava suo figlio Andrea e ci diceva: “I medici dicono che quando avrà cinque anni soffrirà di più, e che non guarirà mai”. È straziante il pensiero che una mamma guardando suo figlio sappia queste cose.
Il marito non era là con noi, stava in camera a dormire. Marta ci spiegava che il marito non sapeva ancora di avere una malattia inguaribile. Lei non aveva avuto il cuore di dirglielo: “Starebbe malissimo pensando a cosa ne sarà di noi. E io non voglio che soffra così. E poi se soffrisse la situazione peggiorerebbe, e io desidero che stia con noi il più a lungo possibile”.
E ci raccontava: “Quando ho saputo della malattia di mio figlio, anche mio marito era già malato. Ho passato un lungo periodo a piangere tutto il giorno. Poi mi sono detta che dovevo smetterla, che se fossi crollata anch’io la famiglia non poteva andare avanti. Allora ho smesso di piangere”.
Io e Saveria eravamo letteralmente impietriti di fronte a tanto dolore.
Qualche minuto dopo una vicina di casa ha accompagnato in casa il piccolo Andrea. È entrato questo bimbo, tutto storto nei suoi movimenti, con un caschetto in testa per evitare brutte conseguenze a eventuali cadute. Io lo guardavo e pensavo alla situazione sua e della sua povera mamma. Come potevo guardare quel bambino malato, che stava perdendo il papà, senza avere una stretta al cuore? E pensavo: "Dio, fai sentire a questo bambino la tua carezza". E poi mi è venuto in mente che la presenza mia e di Saveria era già in qualche modo la carezza di Dio.
Con Marta è iniziato un bel rapporto, abbiamo conosciuto anche suo marito a cui abbiamo fatto un poco di compagnia negli ultimi mesi della sua vita: un omone grande e grosso con un volto ruvido, di quelli che se li incontri di notte per strada ti viene paura, ma pieno di ironia sulla sua malattia e con una tenerezza e una dolcezza verso la moglie che faceva piangere.
Ogni volta che andavamo a trovarla con il pacco di generi alimentari (di cui un po’ ci vergognavamo per l’inadeguatezza rispetto ai bisogni della famiglia) Marta ci ringraziava, abbassava gli occhi, arrossiva, e diceva: “Ma perché fate tutto questo per me? Nemmeno mi conoscevate!”.
Dopo pochi mesi che li avevamo incontrati, lui è morto.
Subito dopo sono nati dissidi con la famiglia di lui che accusava Marta di aver plagiato il marito per mettere da parte dei soldi, sfruttando la sua bellezza (Marta era davvero molto bella, anche se di una bellezza segnata visibilmente dal dolore). La rimproveravano per il fatto che il marito fosse morto, e ora lei si sarebbe rifatta la vita con qualcun altro, e con i soldi del marito. Lei ci raccontava queste cose anche con una certa paura di quello che avrebbero potuto farle fisicamente. Una volta ci disse: “E poi, chi volete che sposi una ragazza rumena con un figlio gravemente malato?”.
Dopo alcuni mesi dalla morte del marito Marta si è trasferita a Torino, dalla sorella.
Negli anni successivi, abbiamo cercato di restare in contatto con lei. In due occasioni ha trascorso qualche giorno con noi in montagna, durante due fine settimana sulla neve. Ogni volta restavamo ammirati dalla forza di questa esile donna: stava per due ore a imboccare il figlio che prendeva in bocca la sua pappetta e la risputava, come fanno i bimbi di un anno, ma con la forza di uno che di anni ormai ne aveva 4/5. Poi se lo prendeva in braccio, se lo accudiva tutto il giorno, non lo perdeva di vista un attimo perché era anche abbastanza violento e non lo si poteva lasciare a giocare da solo con gli altri bambini. Eppure, sempre sorridente, radiosa, mai un lamento; sempre grata per quello che le succedeva intorno.
Lo scorso autunno con un gruppetto di amici siamo passati a salutarla a Torino. Ci ha accolti con una gioia che ci ha sorpreso.
Ci ha raccontato che la sua vita è cambiata. Andrea ha avuto dei miglioramenti e i medici cominciano a essere ottimisti sul suo futuro.
Lei deve ancora imboccarlo a lungo, deve stare di notte nel letto con lui (e dorme poco perché Andrea si muove e si sveglia continuamente) deve controllarlo in ogni momento perché è ancora violento, ma ora che ha 6/7 anni, riesce controllare la pipì e non deve più mettere il pannolone. “E finalmente posso tirare un po’ il fiato”.
Nel pomeriggio siamo andati a fare un giro per le strade di Torino. A una di noi ha detto: “Qui a Torino sto molto bene. Mia sorella e suo marito mi vogliono bene, e spesso vengono a trovarci i loro amici. Ma oggi sono venuti a trovarmi i miei amici e questo mi riempie di gioia”.
La storia del rapporto con Marta è uno dei frutti più grandi della caritativa del Banco di Solidarietà in Brianza.
Io penso spesso a lei e al giorno in cui sono entrato in casa sua, a quella sensazione di impotenza totale, al bisogno con cui ti imbatti e a cui non riesci a rispondere, un bisogno così grande che sembra schiacciarti.
L’unica cosa che abbiamo saputo fare è stata quella di “stare lì”, con lei. E con il suo bisogno. Stare lì senza sapere cosa fare e cosa dire, storditi, ma non smarriti; perché certi del fatto che il significato della vita è positivo. E la vita di persone come Maria ne è la prova più evidente.
IMPORTANTE DISCORSO DEL PAPA ALLA SOCIETÀ DI CHIRURGIA - Ha integrato Ippocrate nel punto cruciale della bioetica - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 21 ottobre 2008
I l discorso che Benedetto XVI ha rivolto ai partecipanti al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia è rilevante sotto diversi profili. Da una parte conferma, con toni fermi e lucidissimi, i punti essenziali della tradizione ippocratica: ogni essere umano, nato o non nato, sano o malato, possiede un valore incondizionato e la sua dignità esige un rispetto altrettanto incondizionato; esistono certamente malati che la medicina è costretta a ritenere non guaribili, ma non esistono malati che vadano ritenuti non curabili, la cui sofferenza cioè non possa essere alleviata; il rapporto tra medico e paziente non può ridursi a una relazione burocratica, governata da progetti terapeutici corretti ma freddi: esso deve, primariamente, esprimersi nella forma di un’alleanza terapeutica, in un rapporto caldo e personale, ispirato ad una mutua fiducia, all’interno del quale il paziente percepisca «di essere nella mente e nel cuore del medico che lo cura» ed il medico a sua volta percepisca il rispetto che il paziente gli deve, come a colui che ha come propria motivazione fondamentale quella di operare per quel bene obiettivo che è la vita. Sotto un altro profilo, però, il discorso del Papa va oltre la tradizione ippocratica: non nel senso che la neghi o la superi, ma nel senso che la integra in un punto cruciale, che è poi uno di quelli che hanno attivato e giustificato il sorgere della bioetica. L’estrema complessità della medicina moderna e l’incredibile ventaglio delle odierne possibilità terapeutiche offrono infatti nuovi e inediti spazi all’autonomia del paziente, che non può non diventare «collaboratore attivo e responsabile del trattamento terapeutico». Questo punto è cruciale e il Papa lo tratta con particolare lucidità, fissando tre punti sui quali merita portare l’attenzione. In primo luogo, egli sostiene, «bisogna guardare con sospetto qualsiasi tentativo di intromissione dall’esterno in questo delicato rapporto medico-paziente». L’allusione ad una legislazione invasiva, che svuoti la deontologia medica, che stabilisca o imponga procedure medicalmente non giustificate, che attribuisca o al medico o al paziente poteri che loro non competono è un rischio reale, di cui non tutti hanno ancora preso adeguatamente coscienza. In secondo luogo, afferma il Papa, «è innegabile che si debba rispettare l’autodeterminazione del paziente». Questa affermazione apparirà a molti bioeticisti (anche di formazione cattolica) particolarmente pungente: speriamo che essa chiuda una volta tante recenti e gratuite polemiche. Il rispetto per l’autodeterminazione del paziente, insiste però il Papa, e questo è il terzo punto su cui va richiamata la nostra attenzione, non va confuso con una «esaltazione individualistica dell’autonomia», che non può non portare ad una lettura impoverita ed astratta della realtà umana. La bioetica fatta non a partire dalle teorie dei manuali, ma dalla concreta presenza accanto ai letti dei malati, ci insegna infatti che ogni paziente, e in particolare il paziente anziano o terminale, non è un soggetto forte, sereno e determinato, ma un soggetto debole, fragile, facilmente influenzabile, spesso intimorito dalla previsione di quanto potranno essere onerose le cure da somministrargli e la cui prima esigenza è quella di non essere abbandonato. L’assoluto dovere del medico di rispettare l’autodeterminazione del paziente va sempre coniugato con l’altro dovere, per lui parimenti assoluto, di impegnare la sua competenza a favore e non contro la vita. Il tutto a partire da un principio inoppugnabile: in molti casi, e soprattutto nei casi estremi, è solo al medico (e non al paziente!) che è concessa la corretta valutazione della situazione clinica del malato. È facile prevedere che queste parole del Papa deluderanno sia gli astratti fautori di un’autodeterminazione ad oltranza, inevitabilmente destinata a divenire coercitiva nei confronti dei medici, sia gli snobistici fautori di una concezione della medicina come sapere elitario, autoreferenziale, 'non negoziabile'. Si tratta di due posizioni parimenti inaccettabili, perché irriducibili, per diversi motivi, a quell’orizzonte di alleanza terapeutica nel quale dobbiamo calare la medicina contemporanea, se vogliamo salvarla dal rischio di indebite esasperazioni tecnologiche. Il Papa, insomma, ha riportato i dibattiti bioetici dall’etereo cielo delle controversie morali (peraltro inevitabili e affascinanti) al terreno, umile e dolente, delle scelte tragiche che quotidianamente paziente e medici sono chiamati ad elaborare congiuntamente. È un alto insegnamento di bioetica clinica quello che il Papa ha offerto a tutti e in particolare a coloro, come il sottoscritto, che cedono spesso alla tentazione di privilegiare in bioetica approccio filosofici e dottrinali.
La Scrittura come esperienza di Cristo nell'insegnamento di sant'Ambrogio - La parola che si mangia e si beve - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano 21 ottobre 2008
Tutti i padri hanno commentato la Scrittura, fonte immediata della loro predicazione e catechesi e della loro teologia. Come del resto sarà per larga parte nel medioevo, dove la sacra pagina rappresentava il principio e il testo base della lectio scolastica, dal quale si verranno sviluppando le diverse glosse, e quindi le quaestiones e le disputationes.
Ma un tratto particolare contraddistingue la teologia e la spiritualità biblica di sant'Ambrogio, che largamente attinse al metodo di Origene, con la sua distinzione tra la "lettera" e lo "spirito" della Bibbia, tra l'apparenza esteriore e il midollo interiore, ed è la lettura cristologica del libro sacro.
Accostarsi alla Scrittura per il vescovo di Milano non è un puro esercizio di informazione o di cultura, ma una profonda esperienza spirituale, una reale comunione con Gesù Cristo; e, infatti, essa non è tanto una fonte di informazioni sul passato, un repertorio di concetti e di dottrine, ma il luogo di esperienza del Verbo, d'altra parte secondo la persuasione che la Bibbia è tutta attraversata dall'attuale presenza di Gesù, quasi un suo sacramento.
Secondo Ambrogio (De paradiso) il passeggiare di Dio nel paradiso terrestre (Genesi, 3, 8) significa la sua presenza e il suo aleggiare "nel corso degli avvenimenti narrati dalle divine scritture"; ma, ugualmente, nelle medesime Scritture, è presente e aleggia Gesù Cristo. Ambrogio, infatti, commentando il salmo 39, esclama: "Io ti attendevo, Signore Gesù, e tu finalmente sei giunto; nel vangelo hai indirizzato i miei passi, hai infuso nella mia bocca un canto nuovo: il Nuovo Testamento".
Veramente, già prima di giungere nel Nuovo Testamento, Gesù era presente nell'Antico: la Scrittura egli la percorre tutta, non solo perché vi si trova raffigurato, ma perché vi è già realmente anticipato. Egli già agisce e parla nei grandi eventi e nei protagonisti dell'attesa. Nell'Antico Testamento - secondo la lettura che è comune ai padri ma con un tono e un sentimento tutto santambrosiano - è soprattutto Gesù che si riscontra, che viene preveduto ed è motivo della speranza del perdono: Davide "aveva sete del sangue di Cristo (...), aveva sete del sacrificio di Cristo (...), in cui sarebbe avvenuta la remissione dei peccati"; i suoi occhi in pianto prevedevano lui; se i suoi occhi erano sempre volti al Signore, vuol dire che "era sempre sotto lo sguardo di Cristo"; se pianse a lungo è perché rimase a lungo "sotto lo sguardo del Signore", "arbitro del perdono". C'è, tra le opere di sant'Ambrogio, una pagina, che specialmente illustra questa presenza di Gesù Cristo e quindi la possibilità di un vivo contatto con lui nella Scrittura, espresso con l'efficace e concreta immagine del "bere": "Bevi per prima cosa l'Antico Testamento - egli esorta nel commento al 1 salmo - per bere poi anche il Nuovo Testamento (...). Bevi tutt'e due i calici, dell'Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo. Bevi Cristo, che è la vite; bevi Cristo, che è la pietra che ha sprizzato l'acqua. Bevi Cristo, che è la fontana di vita; bevi Cristo, che è il fiume la cui corrente feconda la città di Dio; bevi Cristo, che è la pace; bevi Cristo, che è "il ventre da cui sgorgano vene d'acqua viva": bevi Cristo, per bere il suo discorso. Il suo discorso è l'Antico Testamento, il suo discorso è il Nuovo Testamento. La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora, quando il succo della parola eterna discende nelle vene della mente e nelle energie dell'anima".
Come si vede, dichiarando la presenza di Cristo, quando si proclama la Scrittura, la Sacrosanctum Concilium (7) non fa che recuperare una persuasione antica.
Ma qui possiamo aggiungere un'osservazione: propriamente, non è la Scrittura, come libro, a "sostenere" e a creare la presenza di Gesù Cristo; al contrario, è Gesù Cristo che dà consistenza al libro e lo rende sempre vivo e attuale: l'eterna Parola è lui personalmente; la Bibbia è un suo segno: il "culto" non sarà mai rivolto al libro, bensì a Gesù Cristo, che percorre il libro, destinato a essere la sua ispirata e infallibile mediazione. A ragione ne Le paysan de la Garonne Jacques Maritain condannava la "bibliolatria". Un cristiano, inoltre, è consapevole che essa non è un testo "privato", offerto all'autonoma esegesi del singolo credente, ma un dono affidato da Cristo alla sua Chiesa, dove la Bibbia vive ed è commentata sotto la luce dello Spirito e con la guida di quanti hanno ricevuto il carisma e la missione del magistero.
Senza dubbio, è il singolo fedele che la deve assimilare e lasciarla crescere dentro di sé, quasi conferendole una molteplicità e un incremento di significati, disvelandone, secondo la propria intelligenza e le proprie necessità, gli infiniti e stupendi segreti in essa contenuti, ossia scoprendo tutte le risorse che, di là dalla "lettera", sono nascoste nello "spirito" della Scrittura.
(©L'Osservatore Romano - 20-21 ottobre 2008)
I recenti studi sulla sensibilità del feto umano - I bambini scoprono - il mondo ancora prima di nascere - di Carlo Bellieni - Azienda Ospedaliera Universitaria Senese – L’Osservatore Romano, 21 ottobre 2008
La prestigiosa rivista medica "Metabolism" riporta nel supplemento di ottobre 2008 delle scoperte stupefacenti: i gusti del bambino si formano durante la vita fetale, per effetto di quello che la mamma mangia; gli alimenti materni vengono filtrati nel liquido amniotico in cui è avvolto il feto e che questi succhia e assapora durante la gestazione.
Dopo la nascita il bimbo non farebbe altro che andare a ricercare i sapori sentiti prima di nascere. Non è che un esempio, ma molto chiaro, della luce che gli studi degli ultimi anni hanno gettato sul mondo della vita prenatale.
Ormai sappiamo che il feto è "multisensoriale", cioè percepisce e risponde a stimoli esterni, nonostante l'immaturità del suo sistema nervoso. L'arrivo al feto di questi stimoli è indispensabile per il suo sviluppo, dato che serviranno sia per favorire la crescita di certe popolazioni di neuroni e permettere la scomparsa di altre divenute inutili, sia per abituare il feto alla vita e agli stimoli che lo attendono all'esterno.
Vari studi scientifici sono stati dedicati alla "memoria fetale": nell'ospedale di Port Royal a Parigi esiste, ad esempio, un Centro per lo studio della sensorialità fetale dedicato a queste ricerche.
È stato dimostrato, ad esempio, che il feto sente e ricorda le voci percepite prima di nascere: se si fa ascoltare a un neonato la voce della sua mamma appena dopo la nascita, questi la individua subito tra varie voci, segno di una "conoscenza" prenatale; così se si fa sentire alla nascita l'odore di un vestito della propria mamma, il bambino si comporta differentemente rispetto a quando sente un odore di un'altra donna.
Infatti durante la gravidanza il bimbo succhia e assapora il liquido amniotico nel quale è immerso, che reca traccia delle cose che la mamma assume. Un esempio molto chiaro è il seguente, riportato sulla rivista "Pediatrics" del 2001: a un gruppo di donne incinte venne fatta assumere una dieta molto ricca di carote, e si osservò che, 5-6 mesi dopo, i bambini preferivano essere svezzati con pappe a base di carota rispetto ad altri sapori. Anche noi abbiamo condotto recentemente uno studio sulla memoria prenatale (Biology of the Neonate, 2004) in cui abbiamo rilevato che i figli di ballerine che durante la gravidanza non hanno smesso l'attività di danza, richiedevano nei mesi dopo la nascita di essere cullati più energicamente degli altri per addormentarsi, probabilmente per effetto del "ricordo" degli stimoli prenatali.
Un aspetto particolarmente importante della sensorialità fetale è la sensibilità al dolore. I primi studi in questo campo risalgono agli anni Ottanta, quando lo studioso Sunny Anand iniziò a far cadere i pregiudizi che circondavano non solo il dolore del feto, ma addirittura quello del neonato. Anand fu il primo a descrivere sistematicamente le vie di sensibilità al dolore del bambino prematuro e del feto, mostrando una sostanziale identità tra la fisiologia del bambino nato e quello non nato a parità di distanza dal concepimento. Uno studio successivo fatto all'Imperial College di Londra su feti di età gestazionale compresa tra 19 e 34 settimane mostra chiaramente una risposta del feto al dolore, caratterizzata dall'aumento di quegli ormoni che sono segno di stress e dolore: adrenalina, cortisolo ed endorfine ("Lancet" 1994). La ricercatrice Vivette Glover conclude che "è possibile che qualche esperienza sensoriale di dolore possa iniziare verso le 20 settimane" (Neonatal Pain, 2008).
Una rassegna del "Journal of American Medical Association" mise in dubbio nel 2006 che il feto potesse provare dolore prima del terzo trimestre, ma a essa fece da contraltare una monografia della rivista ufficiale della Associazione internazionale per gli studi sul dolore (Iasp) in cui si spiegava con chiarezza che l'immaturità dei neuroni della corteccia cerebrale non è sufficiente a precludere il dolore fetale, e che "le nostre attuali conoscenze sullo sviluppo mostrano le strutture anatomiche e l'evidenza funzionale della percezione del dolore che si sviluppa nel secondo trimestre, certo non nel primo, ma molto prima del terzo trimestre di gestazione".
È così chiara l'evidenza del dolore fetale che ormai si sta discutendo quali siano i migliori farmaci analgesici per il feto e le migliori vie per somministrarli, come ad esempio fa il belga Van der Velde sulla rivista "Seminars in Fetal and Neonatal Medicine" o il londinese Fisk sulla rivista "Anaesthesiology". Anche una rivista medica prestigiosa come "Archives of Disease in Childhood" pubblicò online nel 2005 le immagini video di un feto che piange per via del rumore che lo ha spaventato.
Ulteriori ricerche mostrano che possiamo sfruttare nell'interesse della salute dei nascituri queste nuove conoscenze sulle capacità fetali di percepire gli stimoli e di rispondere a essi, per trovare nuovi mezzi diagnostici e curativi e per una corretta e consapevole informazione delle donne. Censurare invece la vita e l'umanità del feto è censurare queste possibilità della ricerca scientifica e di un approccio sereno alla gravidanza.
Ovviamente i dibattiti sull'aborto in corso in vari Paesi, che mostrano una problematicità non sopita neanche laddove esso sia legale, devono tener conto di questa evidenza, per non limitarsi a discorsi ideologici che ritengono il feto un'appendice della madre: conoscere la verità è un obbligo per ogni legislatore ed è un diritto di ogni donna. Tutta questa messe di evidenza scientifica mostra infatti i tratti umani del feto e non tenerne conto nelle ultime decisioni sarebbe un'ingiusta censura.
(©L'Osservatore Romano - 20-21 ottobre 2008)
1) Meditazione del Papa al termine del Rosario nel Santuario di Pompei - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della meditazione di Benedetto XVI al termine della recita del Rosario svoltasi questa domenica nella piazza del Santuario di Pompei.
2) Omelia del Papa a Pompei per la Giornata Missionaria Mondiale - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la messa celebrata nella mattina di domenica sulla piazza antistante il santuario della Madonna del Rosario di Pompei.
3) Sanità senza coscienza - L’aborto viene imposto ad ogni costo - di Padre John Flynn, LC - ROMA, martedì, 21 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Nelle ultime settimane, nello Stato australiano di Victoria, si è infiammato il dibattito sulle proposte di modifica alla normativa sull’aborto. Il disegno di legge è stato presentato alla Camera bassa ad agosto ed ha ultimamente raggiunto le fasi finali del suo iter di approvazione.
4) Nessuna bomba mediatica contro il Vertice con i musulmani in Vaticano - Previsto per il 4 e il 5 novembre - di Jesús Colina - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Alcuni mezzi informativi hanno estrapolato dal contesto alcune proposte dei gruppi di lavoro del Sinodo con l'obiettivo di creare una polemica tra la Chiesa e il mondo musulmano nel momento in cui la Santa Sede prepara un Vertice con alcuni rappresentanti islamici.
5) Il Papa al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia - “Per una chirurgia nel rispetto del malato” - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere questo lunedì in udienza i partecipanti al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia, in corso a Roma dal 19 al 22 ottobre sul tema: “Per una chirurgia nel rispetto del malato”.
6) Lettera aperta al Papa Benedetto XVI: "Può la Chiesa legittimare l’islam come religione e considerare Maometto un profeta?" - Appello al Santo Padre perché faccia chiarezza sulla deriva relativista e islamicamente corretta che ha portato alti prelati cattolici a legittimare l'islam come religione e a trasformare le chiese e le parrocchie in sale da preghiera e di raduno degli estremisti islamici. - autore: Magdi Cristiano Allam
7) Un sabato pomeriggio a scuola con un gruppo di genitori - Autore: Bruschi, Franco Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 20 ottobre 2008 - Proposte sulla nuova scuola, fatte da chi la scuola la vive.
8) USA/ Weigel: principi morali sbagliati possono facilmente corrompere le professioni e le leggi - INT. George Weigel - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) C’è un’alternativa al partito della rendita - Luca Antonini - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
10) SCUOLA/ Il governo non tolga risorse alle scuole paritarie, c’è un modo migliore per ridurre gli sprechi - Renato Farina - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
11) DIBATTITO/ A che punto è la filosofia? La nuova koiné naturalista - Redazione - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
12) EMERGENZA CIBO/ L’obiettivo del vertice Fao: raddoppiare entro il 2050 la produzione alimentare - Dario Casati - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
13) SCUOLA/ L’aiuto a chi ha difficoltà di apprendimento: una questione di sguardo - Associazione Foe - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
14) Banchi di Solidarietà, quando la carità diventa di casa - Redazione - lunedì 20 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
15) IMPORTANTE DISCORSO DEL PAPA ALLA SOCIETÀ DI CHIRURGIA - Ha integrato Ippocrate nel punto cruciale della bioetica - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 21 ottobre 2008
16) La Scrittura come esperienza di Cristo nell'insegnamento di sant'Ambrogio - La parola che si mangia e si beve - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano 21 ottobre 2008
17) I recenti studi sulla sensibilità del feto umano - I bambini scoprono - il mondo ancora prima di nascere - di Carlo Bellieni - Azienda Ospedaliera Universitaria Senese – L’Osservatore Romano, 21 ottobre 2008
Meditazione del Papa al termine del Rosario nel Santuario di Pompei - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della meditazione di Benedetto XVI al termine della recita del Rosario svoltasi questa domenica nella piazza del Santuario di Pompei.
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Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari religiosi e religiose,
cari fratelli e sorelle!
Prima di entrare in Santuario per recitare insieme a voi il santo Rosario, ho sostato brevemente dinanzi all’urna del beato Bartolo Longo, e pregando mi sono chiesto: “Questo grande apostolo di Maria, da dove ha tratto l’energia e la costanza necessarie per portare a compimento un’opera così imponente, nota ormai in tutto il mondo? Non è proprio dal Rosario, da lui accolto come un vero dono del cuore della Madonna?”. Sì, è stato veramente così! Lo testimonia l’esperienza dei santi: questa popolare preghiera mariana è un mezzo spirituale prezioso per crescere nell’intimità con Gesù, e per imparare, alla scuola della Vergine Santa, a compiere sempre la divina volontà. E’ contemplazione dei misteri di Cristo in spirituale unione con Maria, come sottolineava il servo di Dio Paolo VI nell’Esortazione apostolica Marialis cultus (n. 46), e come poi il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II ha ampiamente illustrato nella Lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae, che oggi idealmente riconsegno alla Comunità pompeiana e a ciascuno di voi. Voi che vivete ed operate qui a Pompei, specialmente voi, cari sacerdoti, religiose, religiosi e laici impegnati in questa singolare porzione di Chiesa, siete tutti chiamati a fare vostro il carisma del beato Bartolo Longo e a diventare, nella misura e nei modi che Dio concede a ciascuno, autentici apostoli del Rosario.
Ma per essere apostoli del Rosario, occorre fare esperienza in prima persona della bellezza e della profondità di questa preghiera, semplice ed accessibile a tutti. E’ necessario anzitutto lasciarsi condurre per mano dalla Vergine Maria a contemplare il volto di Cristo: volto gioioso, luminoso, doloroso e glorioso. Chi, come Maria e insieme con Lei, custodisce e medita assiduamente i misteri di Gesù, assimila sempre più i suoi sentimenti e si conforma a Lui. Mi piace, al riguardo, citare una bella considerazione del beato Bartolo Longo: “Come due amici – egli scrive –, praticando frequentemente insieme, sogliono conformarsi anche nei costumi, così noi, conversando familiarmente con Gesù e la Vergine, nel meditare i Misteri del Rosario, e formando insieme una medesima vita con la Comunione, possiamo diventare, per quanto ne sia capace la nostra bassezza, simili ad essi, ed apprendere da questi sommi esemplari il vivere umile, povero, nascosto, paziente e perfetto” (I Quindici Sabati del Santissimo Rosario, 27ª ed., Pompei, 1916, p. 27: cit. in Rosarium Virginis Mariae, 15).
Il Rosario è scuola di contemplazione e di silenzio. A prima vista, potrebbe sembrare una preghiera che accumula parole, difficilmente quindi conciliabile con il silenzio che viene giustamente raccomandato per la meditazione e la contemplazione. In realtà, questa cadenzata ripetizione dell’Ave Maria non turba il silenzio interiore, anzi, lo richiede e lo alimenta. Analogamente a quanto avviene per i Salmi quando si prega la Liturgia delle Ore, il silenzio affiora attraverso le parole e le frasi, non come un vuoto, ma come una presenza di senso ultimo che trascende le parole stesse e insieme con esse parla al cuore. Così, recitando le Ave Maria occorre fare attenzione a che le nostre voci non “coprano” quella di Dio, il quale parla sempre attraverso il silenzio, come “il sussurro di una brezza leggera” (1 Re 19,12). Quanto è importante allora curare questo silenzio pieno di Dio sia nella recita personale che in quella comunitaria! Anche quando viene pregato, come oggi, da grandi assemblee e come ogni giorno fate in questo Santuario, è necessario che si percepisca il Rosario come preghiera contemplativa, e questo non può avvenire se manca un clima di silenzio interiore.
Vorrei aggiungere un’altra riflessione, relativa alla Parola di Dio nel Rosario, particolarmente opportuna in questo periodo in cui si sta svolgendo in Vaticano il Sinodo dei Vescovi sul tema: “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”. Se la contemplazione cristiana non può prescindere dalla Parola di Dio, anche il Rosario, per essere preghiera contemplativa, deve sempre emergere dal silenzio del cuore come risposta alla Parola, sul modello della preghiera di Maria. A ben vedere, il Rosario è tutto intessuto di elementi tratti dalla Scrittura. C’è innanzitutto l’enunciazione del mistero, fatta preferibilmente, come oggi, con parole tratte dalla Bibbia. Segue il Padre nostro: nell’imprimere alla preghiera l’orientamento “verticale”, apre l’animo di chi recita il Rosario al giusto atteggiamento filiale, secondo l’invito del Signore: “Quando pregate dite: Padre…” (Lc 11,2). La prima parte dell’Ave Maria, tratta anch’essa dal Vangelo, ci fa ogni volta riascoltare le parole con cui Dio si è rivolto alla Vergine mediante l’Angelo, e quelle di benedizione della cugina Elisabetta. La seconda parte dell’Ave Maria risuona come la riposta dei figli che, rivolgendosi supplici alla Madre, non fanno altro che esprimere la propria adesione al disegno salvifico, rivelato da Dio. Così il pensiero di chi prega resta sempre ancorato alla Scrittura e ai misteri che in essa vengono presentati.
Ricordando infine che oggi celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale, mi piace richiamare la dimensione apostolica del Rosario, una dimensione che il beato Bartolo Longo ha vissuto intensamente traendone ispirazione per intraprendere in questa terra tante opere di carità e di promozione umana e sociale. Inoltre, egli volle questo Santuario aperto al mondo intero, quale centro di irradiazione della preghiera del Rosario e luogo di intercessione per la pace tra i popoli. Cari amici, entrambe queste finalità: l’apostolato della carità e la preghiera per la pace, desidero confermare e affidare nuovamente al vostro impegno spirituale e pastorale. Sull’esempio e con il sostegno del venerato Fondatore, non stancatevi di lavorare con passione in questa parte della vigna del Signore che la Madonna ha mostrato di prediligere.
Cari fratelli e sorelle, è giunto il momento di congedarmi da voi e da questo bel Santuario. Vi ringrazio per la calorosa accoglienza e soprattutto per le vostre preghiere. Ringrazio l’Arcivescovo Prelato e Delegato Pontificio, i suoi collaboratori e coloro che hanno lavorato per preparare al meglio la mia visita. Devo lasciarvi, ma il mio cuore rimane vicino a questa terra e a questa comunità. Vi affido tutti alla Beata Vergine del Santo Rosario, e a ciascuno imparto di cuore l’Apostolica Benedizione.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Omelia del Papa a Pompei per la Giornata Missionaria Mondiale - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la messa celebrata nella mattina di domenica sulla piazza antistante il santuario della Madonna del Rosario di Pompei.
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Cari fratelli e sorelle!
Seguendo le orme del Servo di Dio Giovanni Paolo II, sono venuto in pellegrinaggio quest’oggi a Pompei per venerare, insieme a voi, la Vergine Maria, Regina del Santo Rosario. Sono venuto, in particolare, per affidare alla Madre di Dio, nel cui grembo il Verbo si è fatto carne, l’Assemblea del Sinodo dei Vescovi in corso in Vaticano sul tema della Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. La mia visita coincide anche con la Giornata Missionaria Mondiale: contemplando in Maria Colei che ha accolto in sé il Verbo di Dio e lo ha donato al mondo, pregheremo in questa Messa per quanti nella Chiesa spendono le loro energie a servizio dell’annuncio del Vangelo a tutte le nazioni. Grazie, cari fratelli e sorelle, per la vostra accoglienza! Vi abbraccio tutti con affetto paterno, e vi sono riconoscente per le preghiere che da qui fate salire incessantemente al Cielo per il Successore di Pietro e per le necessità della Chiesa universale.
Un cordiale saluto rivolgo, in primo luogo, all’Arcivescovo Carlo Liberati, Prelato di Pompei e Delegato Pontificio per il Santuario, e lo ringrazio per le parole con cui si è fatto interprete dei vostri sentimenti. Il mio saluto si estende alle Autorità civili e militari presenti, in modo speciale al Rappresentante del Governo, il Ministro per i Beni Culturali, ed al Sindaco di Pompei, il quale al mio arrivo ha voluto indirizzarmi espressioni di deferente benvenuto a nome dell’intera cittadinanza. Saluto i sacerdoti della Prelatura, i religiosi e le religiose che offrono il loro quotidiano servizio in Santuario, tra i quali mi piace menzionare le Suore Domenicane Figlie del Santo Rosario di Pompei e i Fratelli delle Scuole Cristiane; saluto i volontari impegnati in diversi servizi e gli zelanti apostoli della Madonna del Rosario di Pompei. E come dimenticare, in questo momento, le persone che soffrono, gli ammalati, gli anziani soli, i giovani in difficoltà, i carcerati, quanti versano in pesanti condizioni di povertà e di disagio sociale ed economico? A tutti e a ciascuno vorrei assicurare la mia vicinanza spirituale e far giungere la testimonianza del mio affetto. Ognuno di voi, cari fedeli e abitanti di questa terra, ed anche voi che siete spiritualmente uniti a questa celebrazione attraverso la radio e la televisione, tutti vi affido a Maria e vi invito a confidare sempre nel suo materno sostegno.
Lasciamo ora che sia Lei, la nostra Madre e Maestra, a guidarci nella riflessione sulla Parola di Dio che abbiamo ascoltato. La prima Lettura e il Salmo responsoriale esprimono la gioia del popolo d’Israele per la salvezza donata da Dio, salvezza che è liberazione dal male e speranza di vita nuova. L’oracolo di Sofonia si indirizza ad Israele che viene designato con gli appellativi di “figlia di Sion” e “figlia di Gerusalemme” e viene invitato alla gioia: “Rallégrati… grida di gioia… esulta!” (Sof 3,14). E’ il medesimo appello che l’angelo Gabriele rivolge a Maria, a Nazaret: “Rallegrati, piena di grazia” (Lc 1,28). “Non temere, Sion” (Sof 3,16), dice il Profeta; “Non temere, Maria” (Lc 1,30), dice l’Angelo. E il motivo della fiducia è lo stesso: “Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te / è un salvatore potente” (Sof 3,17), dice il Profeta; “il Signore è con te” (Lc 1,28), assicura l’Angelo alla Vergine. Anche il cantico di Isaia si conclude così: “Canta ed esulta, tu che abiti in Sion, / perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele” (Is 12,6). La presenza del Signore è fonte di gioia, perché, dove c’è Lui, il male è vinto e trionfano la vita e la pace. Vorrei sottolineare, in particolare, la stupenda espressione di Sofonia, che rivolgendosi a Gerusalemme dice: il Signore “ti rinnoverà con il suo amore” (3,17). Sì, l’amore di Dio ha questo potere: di rinnovare ogni cosa, a partire dal cuore umano, che è il suo capolavoro e dove lo Spirito Santo opera al meglio la sua azione trasformatrice. Con la sua grazia, Dio rinnova il cuore dell’uomo perdonando il suo peccato, lo riconcilia ed infonde in lui lo slancio per il bene. Tutto questo si manifesta nella vita dei santi, e lo vediamo qui particolarmente nell’opera apostolica del beato Bartolo Longo, fondatore della nuova Pompei. E così apriamo in quest’ora anche il nostro cuore a questo amore rinnovatore dell’uomo e di tutte le cose.
Sin dai suoi inizi, la comunità cristiana ha visto nella personificazione di Israele e di Gerusalemme in una figura femminile un significativo e profetico accostamento con la Vergine Maria, la quale viene riconosciuta proprio quale “figlia di Sion” e archetipo del popolo che “ha trovato grazia” agli occhi del Signore. E’ una interpretazione che ritroviamo nel racconto evangelico delle nozze di Cana (Gv 2,1-11). L’evangelista Giovanni mette in luce simbolicamente che Gesù è lo sposo d’Israele, del nuovo Israele che siamo noi tutti nella fede, lo sposo venuto a portare la grazia della nuova Alleanza, rappresentata dal “vino buono”. Al tempo stesso, il Vangelo dà risalto anche al ruolo di Maria, che viene detta all’inizio “la madre di Gesù”, ma che poi il Figlio stesso chiama “donna” – e questo ha un significato molto profondo: implica infatti che Gesù, a nostra meraviglia, antepone alla parentela il legame spirituale, secondo il quale Maria impersona appunto la sposa amata del Signore, cioè il popolo che lui si è scelto per irradiare la sua benedizione su tutta la famiglia umana. Il simbolo del vino, unito a quello del banchetto, ripropone il tema della gioia e della festa. Inoltre il vino, come le altre immagini bibliche della vigna e della vite, allude metaforicamente all’amore: Dio è il vignaiolo, Israele è la vigna, una vigna che troverà la sua realizzazione perfetta in Cristo, del quale noi siamo i tralci; e il vino è il frutto, cioè l’amore, perché proprio l’amore è ciò che Dio si attende dai suoi figli. E preghiamo il Signore, che ha dato a Bartolo Longo la grazia di portare l’amore in questa terra, affinché anche la nostra vita e il nostro cuore portino questo frutto dell’amore e rinnovino così la terra.
All’amore esorta anche l’apostolo Paolo nella seconda Lettura, tratta dalla Lettera ai Romani. Troviamo delineato in questa pagina il programma di vita di una comunità cristiana, i cui membri sono stati rinnovati dall’amore e si sforzano di rinnovarsi continuamente, per discernere sempre la volontà di Dio e non ricadere nel conformismo della mentalità mondana (cfr 12,1-2). La nuova Pompei, pur con i limiti di ogni realtà umana, è un esempio di questa nuova civiltà, sorta e sviluppatasi sotto lo sguardo materno di Maria. E la caratteristica della civiltà cristiana è proprio la carità: l’amore di Dio che si traduce in amore del prossimo. Ora, quando san Paolo scrive ai cristiani di Roma: “Non siate pigri nello zelo, siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore” (12,11), il pensiero nostro va a Bartolo Longo e alle tante iniziative di carità da lui attivate per i fratelli più bisognosi. Spinto dall’amore, egli fu in grado di progettare una città nuova, che poi sorse attorno al Santuario mariano, quasi come irradiazione della sua luce di fede e di speranza. Una cittadella di Maria e della carità, non però isolata dal mondo, non, come si suol dire, una “cattedrale nel deserto”, ma inserita nel territorio di questa Valle per riscattarlo e promuoverlo. La storia della Chiesa, grazie a Dio, è ricca di esperienze di questo tipo, e anche oggi se ne contano parecchie in ogni parte della terra. Sono esperienze di fraternità, che mostrano il volto di una società diversa, posta come fermento all’interno del contesto civile. La forza della carità è irresistibile: è l’amore che veramente manda avanti il mondo!
Chi avrebbe potuto pensare che qui, accanto ai resti dell’antica Pompei, sarebbe sorto un Santuario mariano di portata mondiale? E tante opere sociali volte a tradurre il Vangelo in servizio concreto alle persone più in difficoltà? Dove arriva Dio, il deserto fiorisce! Anche il beato Bartolo Longo, con la sua personale conversione, diede testimonianza di questa forza spirituale che trasforma l’uomo interiormente e lo rende capace di operare grandi cose secondo il disegno di Dio. La vicenda della sua crisi spirituale e della sua conversione appare oggi di grandissima attualità. Egli infatti, nel periodo degli studi universitari a Napoli, influenzato da filosofi immanentisti e positivisti, si era allontanato dalla fede cristiana diventando un militante anticlericale e dandosi anche a pratiche spiritistiche e superstiziose. La sua conversione, con la scoperta del vero volto di Dio, contiene un messaggio molto eloquente per noi, perché purtroppo simili tendenze non mancano nei nostri giorni. In questo Anno Paolino mi piace sottolineare che anche Bartolo Longo, come san Paolo, fu trasformato da persecutore in apostolo: apostolo della fede cristiana, del culto mariano e, in particolare, del Rosario, in cui egli trovò una sintesi di tutto il Vangelo.
Questa città, da lui rifondata, è dunque una dimostrazione storica di come Dio trasforma il mondo: ricolmando di carità il cuore di un uomo e facendone un “motore” di rinnovamento religioso e sociale. Pompei è un esempio di come la fede può operare nella città dell’uomo, suscitando apostoli di carità che si pongono al servizio dei piccoli e dei poveri, ed agiscono perché anche gli ultimi siano rispettati nella loro dignità e trovino accoglienza e promozione. Qui a Pompei si capisce che l’amore per Dio e l’amore per il prossimo sono inseparabili. Qui il genuino popolo cristiano, la gente che affronta la vita con sacrificio ogni giorno, trova la forza di perseverare nel bene senza scendere a compromessi. Qui, ai piedi di Maria, le famiglie ritrovano o rafforzano la gioia dell’amore che le mantiene unite. Opportunamente, quindi, in preparazione dell’odierna mia visita, uno speciale “pellegrinaggio delle famiglie per la famiglia” si è compiuto esattamente un mese fa, per affidare alla Madonna questa fondamentale cellula della società. Vegli la Vergine Santa su ogni famiglia e sull’intero popolo italiano!
Questo Santuario e questa città continuino soprattutto ad essere sempre legati a un dono singolare di Maria: la preghiera del Rosario. Quando, nel celebre dipinto della Madonna di Pompei, vediamo la Vergine Madre e Gesù Bambino che consegnano le corone rispettivamente a santa Caterina da Siena e a san Domenico, comprendiamo subito che questa preghiera ci conduce, attraverso Maria, a Gesù, come ci ha insegnato anche il caro Papa Giovanni Paolo II nella Lettera Rosarium Virginis Mariae, in cui fa riferimento esplicito al beato Bartolo Longo ed al carisma di Pompei. Il Rosario è preghiera contemplativa accessibile a tutti: grandi e piccoli, laici e chierici, colti e poco istruiti. E’ vincolo spirituale con Maria per rimanere uniti a Gesù, per conformarsi a Lui, assimilarne i sentimenti e comportarsi come Lui si è comportato. Il Rosario è “arma” spirituale nella lotta contro il male, contro ogni violenza, per la pace nei cuori, nelle famiglie, nella società e nel mondo.
Cari fratelli e sorelle, in questa Eucaristia, fonte inesauribile di vita e di speranza, di rinnovamento personale e sociale, ringraziamo Dio perché in Bartolo Longo ci ha dato un luminoso testimone di questa verità evangelica. E volgiamo ancora una volta il nostro cuore a Maria con le parole della Supplica, che tra poco insieme reciteremo: “Tu, Madre nostra, sei la nostra Avvocata, la nostra speranza, abbi pietà di noi … Misericordia per tutti, o Madre di misericordia!”. Amen.
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Sanità senza coscienza - L’aborto viene imposto ad ogni costo - di Padre John Flynn, LC - ROMA, martedì, 21 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Nelle ultime settimane, nello Stato australiano di Victoria, si è infiammato il dibattito sulle proposte di modifica alla normativa sull’aborto. Il disegno di legge è stato presentato alla Camera bassa ad agosto ed ha ultimamente raggiunto le fasi finali del suo iter di approvazione.
Nonostante la strenua opposizione della Chiesa e delle organizzazioni pro-life, la proposta di legge ha superato il vaglio della Camera bassa di quello Stato. Successivamente, il 10 ottobre, la Camera alta lo ha approvato in seconda lettura con 23 voti a favore e 17 contrari, secondo un articolo apparso sul quotidiano Herald Sun lo stesso giorno.
Il dibattito si è sviluppato su diverse proposte di emendamenti al disegno di legge, seguito dalla sua approvazione con una votazione che si è svolta in tarda serata, secondo il quotidiano Age del giorno seguente.
Il provvedimento prevede una depenalizzazione dell’aborto fino alla 24° settimana di gravidanza, ma lo consente anche successivamente con il consenso di due medici. Oltre a rendere l’aborto più facile, una delle principali innovazioni consiste nell’eliminazione, per i medici e altri operatori sanitari, del diritto all’obiezione di coscienza.
“Il disegno di legge è un attacco senza precedenti contro la libertà di avere ed esercitare le proprie fondamentali convinzioni religiose”, ha dichiarato l’arcivescovo Denis Hart di Melbourn nella sua lettera pastorale del 19 settembre.
Il presule ne ha sottolineato la contraddizione con la Carta statale sui diritti umani, in quanto impone ai medici obiettori l’obbligo di indirizzare la paziente ad altre strutture ove può ottenere l’aborto.
Inoltre esso impone agli operatori sanitari, obiettori di coscienza, l’obbligo di assistere a operazioni di aborto nei casi ritenuti di emergenza.
“Il disegno di legge è chiaramente finalizzato ad imporre agli ospedali cattolici l’obbligo di indirizzare le donne a strutture dove possono abortire”, ha avvertito.
Una minaccia per gli ospedali
L’arcivescovo Hart ha quindi sottolineato che il disegno di legge rappresenta una vera minaccia per l’esistenza degli ospedali cattolici. “In queste condizioni è difficile prevedere come gli ospedali cattolici possano continuare ad avere reparti di maternità o di emergenza nella loro forma attuale”, ha affermato.
La Chiesa cattolica gestisce 15 ospedali non-profit nello Stato di Victoria in cui vengono alla luce un terzo di tutti i bambini dello Stato, secondo Martin Laverty, direttore di Catholic Health Australia. Laverty ha scritto un articolo su questo dibattito relativo alla legge sull’aborto, pubblicato il 24 settembre sull'Herald Sun.
Uno dei vescovi ausiliari di Melbourne, Christopher Prowse, ha sottolineato che la nuova legge potrebbe porre gli infermieri in una posizione particolarmente vulnerabile. In un articolo pubblicato sull'Herald Sun del 9 settembre ha spiegato che essi avrebbero il dovere di assistere all’esecuzione di aborti qualora il medico lo richiedesse considerandolo un caso di emergenza.
“Non credo che la nostra comunità voglia costringere infermieri, molti dei quali sono obiettori di coscienza, ad assistere ad aborti tardivi”, ha affermato il vescovo Prowse.
Nella sua lettera pastorale, l’arcivescovo Hart ha anche evidenziato un’altra serie di difetti contenuti nella normativa, come la carenza di tutela per la salute della donna in quanto consentirebbe l’esecuzione di aborti da parte di medici privi delle qualificazioni o della formazione in ostetricia.
Inoltre, il disegno di legge non prevede alcuna tutela in termini di informazioni di da dare alle donne sui possibili effetti collaterali derivanti dall’aborto e manca di tutelare le donne dalle eventuali pressioni esterne che potrebbero averle spinte verso l’aborto.
Restrizioni alla coscienza
Nonostante queste considerazioni, i fautori della nuova legge hanno fatto sentire il loro sostegno. La responsabile di Pro-Choice Victoria, Leslie Cannold, ha definito “allarmismi isterici” le proteste dei medici che rivendicavano il loro diritto all’obiezione di coscienza in tema di aborto o dell’obbligo di indirizzare i pazienti ad altro medico, secondo quanto riferito dal quotidiano Australian del 7 ottobre.
Ray Cassin, opinionista di Age, ha evidenziato in un articolo del 12 settembre che le altre giurisdizioni australiane che hanno depenalizzato l’aborto non si sono spinte così avanti nelle restrizioni alla libertà di coscienza.
“È paradossale che questa coercizione della coscienza venga perpetrata nel nome della libertà di scelta”, ha concluso.
I giuisti Timothy Ginnane e Greg Craven hanno evidenziato un altro paradosso, in un articolo pubblicato il 6 ottobre dal quotidiano Herald Sun. I parlamentari che hanno votato il disegno di legge, lo hanno fatto grazie anche alla libertà di coscienza concessagli dai loro partiti di appartenenza, ma hanno approvato una legge che è proprio la negazione di questa libertà.
Essi hanno inoltre sostenuto che il disegno di legge contraddice lo spirito della Carta dei diritti umani dello Stato di Victoria. Tuttavia la Carta contiene una clausola di salvaguardia che specifica la sua non applicazione in materia di aborto.
Il disegno di legge sarebbe anche contrario al dritto internazionale, secondo l’organizzazione “Doctors in Conscience Against Abortion Bill”, ha riferito il quotidiano Australian il 7 ottobre. L’organizzazione sostiene che la nuova legge contraddice il Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite.
“Il disegno di legge non ha precedenti nel mondo occidentale, in quanto impone norme che obbligherebbero i medici ad agire in violazione della propria coscienza, dovendo aiutare i pazienti ad abortire”, ha affermato Mary Lewis a nome dell’organizzazione.
Libertà religiosa
Anche negli Stati Uniti si sta discutendo del diritto alla libertà di coscienza per gli operatori sanitari. Il Dipartimento della salute sta elaborando una proposta normativa che toglierebbe finanziamenti federali a ogni ospedale, clinica, programma sanitario o altra istituzione che non consenta ai propri dipendenti di potersi astenere dal partecipare in trattamenti contrari alle proprie convinzioni personali, secondo il Washington Post del 31 luglio.
Tra questi trattamenti vi sarebbero per esempio la pillola anticoncezionale, i dispositivi intrauterini e i contraccettivi di emergenza come la “pillola del giorno dopo”.
“La capacità delle donne di gestire la propria salute viene messa a rischio o compromessa da elementi politici e ideologici”, ha affermato Cecile Richards, presidente di Planned Parenthood Federation of America, la maggiore istituzione abortista negli Stati Uniti, secondo quanto riferito dall’Associated Press il 21 agosto.
Il cardinale Justin Rigali, d’altra parte, ha scritto a tutti i membri del Congresso raccomandando il rispetto della “libertà degli operatori sanitari di assistere i pazienti senza violare le proprie profonde convinzioni morali e religiose sulla sacralità della vita umana”.
Nella sua lettera, il cardinale Rigali, che è presidente della Commissione sulle attività pro-life della Conferenza episcopale USA, ha affermato che la proposta di legge “fornisce ai sedicenti fautori della libera scelta l’occasione di manifestare le loro vere intenzioni. [...] Non è l’etichetta ‘pro-choice’ una copertura per nascondere un programma di attiva promozione e persino di imposizione di procedure moralmente discutibili nei confronti di persone che in coscienza la pensano diversamente?”.
Canada
Intanto, in Canada, la libertà di coscienza è messa a rischio da una proposta del College of Physicians and Surgeons of Ontario, secondo il quotidiano National Post del 15 agosto.
Attualmente i medici in Canada possono rifiutarsi di prescrivere pillole anticoncezionali o pillole del giorno dopo, o di operare aborti, se ciò va contro la propria coscienza. La proposta è diretta a cambiare questa impostazione, dicendo che i medici dovrebbero essere pronti a mettere da parte le proprie convinzioni personali.
In seguito ad una valanga di critiche, il College di Ontario ha modificato la sua proposta normativa, ma il documento finale continua a non essere soddisfacente, secondo un articolo pubblicato il 19 settembre dal quotidiano Catholic Register.
La disposizione ora afferma che i medici devono essere consapevoli che una decisione di non eseguire determinate cure mediche potrebbe violare il codice dei diritti umani della provincia.
La violenza si diffonde
Benedetto XVI ha avvertito, nella sua omelia pronunciata il 5 ottobre durante la Messa di apertura del Sinodo dei vescovi, che quando l’uomo elimina Dio dal proprio orizzonte e non cerca più in Lui la salvezza, “crede di poter fare ciò che gli piace e di potersi porre come sola misura di se stesso e del proprio agire”.
“Quando gli uomini si proclamano proprietari assoluti di se stessi e unici padroni del creato, possono veramente costruire una società dove regnino la libertà, la giustizia e la pace?”.
Interrogativo a cui purtroppo anche la nuova legge sull’aborto nello Stato australiano di Victoria risponde negativamente.
Nessuna bomba mediatica contro il Vertice con i musulmani in Vaticano - Previsto per il 4 e il 5 novembre - di Jesús Colina - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Alcuni mezzi informativi hanno estrapolato dal contesto alcune proposte dei gruppi di lavoro del Sinodo con l'obiettivo di creare una polemica tra la Chiesa e il mondo musulmano nel momento in cui la Santa Sede prepara un Vertice con alcuni rappresentanti islamici.
La bomba, tuttavia, non è scoppiata, per cui prosegue la preparazione della riunione, che avrà luogo il 4 e 5 novembre in Vaticano sul tema “L'amore di Dio nell'amore del prossimo”.
L'incontro, organizzato dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, riunirà i delegati dei 138 firmatari – intellettuali e religiosi musulmani guidati dal principe di Giordania Ghazi bin Muhammad bin Talal – della Lettera aperta titolata “Una parola comune tra noi e voi”.
L'evento è stato presentato all'assemblea del Sinodo dei Vescovi venerdì 17 ottobre dal Cardinale Jean-Louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.
In merito a questo dialogo, il porporato francese ha voluto precisare che il testo fondamentale rimane la dichiarazione conciliare Nostra Aetate.
Il Cardinale ha poi fatto riferimento al punto 38 della relazione dopo il dibattito, presentata dal Cardinale Marc Ouellet, P.S.S., Arcivescovo di Québec, laddove si parla dell'opportunità di organizzare un forum cristiano-musulmano sulla Parola di Dio, per discutere e meditare insieme.
Il Cardinale Tauran ha suggerito che sarebbe forse più opportuno parlare di un forum tra religioni, perché i cristiani non condividono con i musulmani il Corano come Rivelazione.
In questo contesto, i quotidiani italiani hanno interpretato come un rifiuto del dialogo con l'islam la proposta sorta nel gruppo di lavoro “Hispanicus A”, in cui si ricorda che nel dialogo interreligioso non bisogna dimenticare la visione musulmana dei diritti della donna, che non sono trattati come si prevede nella dottrina dei diritti fondamentali dell'uomo.
Il gruppo si manifesta a favore del dialogo, spiegando le differenze obiettive che esistono nella concezione cristiana e islamica, come succede anche nella visione della famiglia.
Alcuni giornali italiani del 18 ottobre hanno presentato tuttavia l'osservazione come un rifiuto o un freno (in base alle sfumature) nei confronti del dialogo interreligioso con l'islam, e hanno pubblicato alcune dichiarazioni di esponenti musulmani in Italia che, com'è normale, criticavano il presunto rifiuto del dialogo da parte del Sinodo.
Mario Scialoja, Rappresentante della Lega Musulmana Mondiale, considera ad esempio “eccessivo” fermare il dialogo in virtù della diversa concezione dei diritti della donna. Non era la versione offerta dai giornali, ma è esattamente ciò che diceva il Sinodo. La bomba non è scoppiata.
Il Papa al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia - “Per una chirurgia nel rispetto del malato” - CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 20 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere questo lunedì in udienza i partecipanti al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia, in corso a Roma dal 19 al 22 ottobre sul tema: “Per una chirurgia nel rispetto del malato”.
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Illustri Signori,
gentili Signore,
sono lieto di accogliervi in questa speciale Udienza, che si svolge in occasione del Congresso Nazionale della Società Italiana di Chirurgia. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio saluto cordiale, riservando una speciale parola di ringraziamento al Prof. Gennaro Nuzzo per le parole con cui ha espresso i comuni sentimenti ed ha illustrato i lavori del Congresso, che vertono su un tema di fondamentale importanza. Al centro del vostro Congresso Nazionale vi è infatti questa promettente e impegnativa dichiarazione: "Per una chirurgia nel rispetto del malato". A ragione si parla oggi, in un tempo di grande progresso tecnologico, della necessità di umanizzare la medicina, sviluppando quei tratti del comportamento medico che meglio rispondono alla dignità della persona malata a cui si presta servizio. La specifica missione che qualifica la vostra professione medica e chirurgica è costituita dal perseguimento di tre obiettivi: guarire la persona malata o almeno cercare di incidere in maniera efficace sull’evoluzione della malattia; alleviare i sintomi dolorosi che la accompagnano, soprattutto quando è in fase avanzata; prendersi cura della persona malata in tutte le sue umane aspettative.
Nel passato spesso ci si accontentava di alleviare la sofferenza della persona malata, non potendo arrestare il decorso del male e ancor meno guarirlo. Nel secolo scorso gli sviluppi della scienza e della tecnica chirurgica hanno consentito di intervenire con crescente successo nella vicenda del malato. Così la guarigione, che precedentemente in molti casi era solo una possibilità marginale, oggi è una prospettiva normalmente realizzabile, al punto da richiamare su di sé l’attenzione quasi esclusiva della medicina contemporanea. Un nuovo rischio, però, nasce da questa impostazione: quello di abbandonare il paziente nel momento in cui si avverte l’impossibilità di ottenere risultati apprezzabili. Resta vero, invece, che, se anche la guarigione non è più prospettabile, si può ancora fare molto per il malato: se ne può alleviare la sofferenza, soprattutto lo si può accompagnare nel suo cammino, migliorandone in quanto possibile la qualità di vita. Non è cosa da sottovalutare, perché ogni singolo paziente, anche quello inguaribile, porta con sé un valore incondizionato, una dignità da onorare, che costituisce il fondamento ineludibile di ogni agire medico. Il rispetto della dignità umana, infatti, esige il rispetto incondizionato di ogni singolo essere umano, nato o non nato, sano o malato, in qualunque condizione esso si trovi.
In questa prospettiva, acquista rilevanza primaria la relazione di mutua fiducia che si instaura tra medico e paziente. Grazie a tale rapporto di fiducia il medico, ascoltando il paziente, può ricostruire la sua storia clinica e capire come egli vive la sua malattia. E’ ancora nel contesto di questa relazione che, sulla base della stima reciproca e della condivisione degli obiettivi realistici da perseguire, può essere definito il piano terapeutico: un piano che può portare ad arditi interventi salvavita oppure alla decisione di accontentarsi dei mezzi ordinari che la medicina offre. Quanto il medico comunica al paziente direttamente o indirettamente, in modo verbale o non verbale, sviluppa un notevole influsso su di lui: può motivarlo, sostenerlo, mobilitarne e persino potenziarne le risorse fisiche e mentali, o, al contrario, può indebolirne e frustrarne gli sforzi e, in questo modo, ridurre la stessa efficacia dei trattamenti praticati. Ciò a cui si deve mirare è una vera alleanza terapeutica col paziente, facendo leva su quella specifica razionalità clinica che consente al medico di scorgere le modalità di comunicazione più adeguate al singolo paziente. Tale strategia comunicativa mirerà soprattutto a sostenere, pur nel rispetto della verità dei fatti, la speranza, elemento essenziale del contesto terapeutico. E’ bene non dimenticare mai che sono proprio queste qualità umane che, oltre alla competenza professionale in senso stretto, il paziente apprezza nel medico. Egli vuole essere guardato con benevolenza, non solo esaminato; vuole essere ascoltato, non solo sottoposto a diagnosi sofisticate; vuole percepire con sicurezza di essere nella mente e nel cuore del medico che lo cura.
Anche l’insistenza con cui oggi si pone in risalto l’autonomia individuale del paziente deve essere orientata a promuovere un approccio al malato che giustamente lo consideri non antagonista, ma collaboratore attivo e responsabile del trattamento terapeutico. Bisogna guardare con sospetto qualsiasi tentativo di intromissione dall’esterno in questo delicato rapporto medico-paziente. Da una parte, è innegabile che si debba rispettare l’autodeterminazione del paziente, senza dimenticare però che l’esaltazione individualistica dell’autonomia finisce per portare ad una lettura non realistica, e certamente impoverita, della realtà umana. Dall’altra, la responsabilità professionale del medico deve portarlo a proporre un trattamento che miri al vero bene del paziente, nella consapevolezza che la sua specifica competenza lo mette in grado in genere di valutare la situazione meglio che non il paziente stesso.
La malattia, d’altro canto, si manifesta all’interno di una precisa storia umana e si proietta sul futuro del paziente e del suo ambiente familiare. Nei contesti altamente tecnologizzati dell’odierna società, il paziente rischia di essere in qualche misura "cosificato". Egli si ritrova infatti dominato da regole e pratiche che sono spesso completamente estranee al suo modo di essere. In nome delle esigenze della scienza, della tecnica e dell’organizzazione dell’assistenza sanitaria, il suo abituale stile di vita risulta stravolto. E’ invece molto importante non estromettere dalla relazione terapeutica il contesto esistenziale del paziente, in particolare la sua famiglia. Per questo occorre promuovere il senso di responsabilità dei familiari nei confronti del loro congiunto: è un elemento importante per evitare l’ulteriore alienazione che questi, quasi inevitabilmente, subisce se affidato ad una medicina altamente tecnologizzata, ma priva di una sufficiente vibrazione umana.
Su di voi, dunque, cari chirurghi, grava in misura rilevante la responsabilità di offrire una chirurgia veramente rispettosa della persona del malato. E’ un compito in sé affascinante, ma anche molto impegnativo. Il Papa, proprio per la sua missione di Pastore, vi è vicino e vi sostiene con la sua preghiera. Con questi sentimenti, augurandovi ogni migliore successo nel vostro lavoro, volentieri imparto a voi ed ai vostri cari l’Apostolica Benedizione.
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Lettera aperta al Papa Benedetto XVI: "Può la Chiesa legittimare l’islam come religione e considerare Maometto un profeta?" - Appello al Santo Padre perché faccia chiarezza sulla deriva relativista e islamicamente corretta che ha portato alti prelati cattolici a legittimare l'islam come religione e a trasformare le chiese e le parrocchie in sale da preghiera e di raduno degli estremisti islamici. - autore: Magdi Cristiano Allam
A Sua Santità il Papa Benedetto XVI,
Mi rivolgo direttamente a Lei, Vicario di Cristo e Capo della Chiesa Cattolica, con deferenza da sincero credente nella fede in Gesù e da strenuo protagonista, testimone e costruttore della Civiltà cristiana, per manifestarLe la mia massima preoccupazione per la grave deriva religiosa ed etica che si è infiltrata e diffusa in seno alla Chiesa. Al punto che mentre al vertice della Chiesa taluni alti prelati e persino dei suoi stretti collaboratori sostengono apertamente e pubblicamente la legittimità dell’islam quale religione e accreditano Maometto come un profeta, alla base della Chiesa altri sacerdoti e parroci trasformano le chiese e le parrocchie in sale da preghiera e da raduno degli integralisti ed estremisti islamici che perseguono lucidamente e indefessamente la strategia di conquista del territorio e delle menti di un Occidente cristiano che, come Lei stesso l’ha definito, “odia se stesso”, ideologicamente ammalato di nichilismo, materialismo, consumismo, relativismo, islamicamente corretto, buonismo, laicismo, soggettivismo giuridico, autolesionismo, indifferentismo, multiculturalismo.
Si tratta di una guerra di conquista islamica che ha trasformato l’Occidente cristiano in una roccaforte dell’estremismo islamico al punto da “produrre” terroristi suicidi islamici con cittadinanza occidentale, dove la minaccia più seria non è tanto quella degli efferati tagliatori di teste che impugnano le armi, quanto quella dei subdoli tagliatori di lingue che hanno eretto la dissimulazione a precetto di fede islamica, dando vita a uno stato islamico in seno allo stato di diritto, basato su un’ampia rete di moschee e di scuole coraniche dove si predica l’odio, si inculca la fede nel cosiddetto “martirio” islamico, si pratica il lavaggio di cervello per trasformare le persone in combattenti della guerra santa islamica; di enti caritatevoli e assistenziali islamici che in cambio di aiuti materiali plagiano e sottomettono le menti; di banche islamiche che controllano fette sempre più ampie della finanza e dell’economia mondiale accreditando il diritto islamico; di veri e propri tribunali islamici che in Gran Bretagna sono già riusciti a imporre la sharia, la legge islamica, equiparata al diritto civile su questioni attinenti allo statuto personale e familiare, anche se assumono delle sentenze che violano i diritti fondamentali dell’uomo, quale la legittimazione della poligamia e la discriminazione della donna. Questi sono fatti: ci si creda o meno, piacciano o meno, ma sono fatti reali, oggettivi, innegabili.
Questa conquista islamica delle menti e del territorio si è resa possibile per l’estrema fragilità interiore dell’Occidente cristiano: sono due facce della stessa medaglia. Il nostro Occidente emerge sempre più come un colosso di materialità dai piedi d’argilla perché senz’anima, in profonda crisi di valori, che tradisce la propria identità non volendo riconoscere la verità storica ed oggettiva delle radici giudaico-cristiane della propria civiltà. E’ un Occidente ideologicamente e concretamente colluso con l’avanguardia dell’esercito di conquista islamico che mira a riesumare il mito e l’utopia della “Umma”, la Nazione islamica, invocando il Corano che legittima l’odio, la violenza e la morte, ed evocando il pensiero e l’azione di Maometto che ha dato l’esempio commettendo efferati crimini, come quello che lo vide personalmente partecipe della strage e della decapitazione di oltre 700 ebrei della tribù dei Banu Quraizah nel 627 alle porte di Medina.
Ebbene, Sua Santità, come non ci si può rendere conto che la disponibilità, o peggio ancora la collusione con l’islam come religione, che a dispetto delle apparenze mette a repentaglio l’amore cristiano per i musulmani come persone, culmina nel rinnegare la fede nel Dio che si è fatto Uomo e nel cristianesimo che è testimonianza di Verità, Vita, Amore, Libertà e Pace? Ecco perché oggi è vitale per il bene comune della Chiesa cattolica, per l’interesse generale della Cristianità e della stessa Civiltà occidentale che Lei si pronunci in modo chiaro e vincolante per l’insieme dei fedeli sul quesito di fondo alla base di questa deleteria deriva religiosa ed etica che sta screditando la Chiesa, scardinando le certezze valoriali e identitarie dell’Occidente cristiano, trascinando al suicidio della nostra civiltà: è concepibile che la Chiesa legittimi sostanzialmente l’islam come religione spingendosi fino al punto da considerare Maometto come un profeta?
Sua Santità, mi limiterò a indicarLe due recenti episodi di cui sono stato testimone. Mercoledì scorso, 15 ottobre 2008, l’arcivescovo di Brindisi, monsignor Rocco Talucci, mi ha fatto l’onore prima di accogliermi nella sede della Curia Arcivescovile verso le 17 e, mezz’ora dopo, di partecipare alla presentazione dell’autobiografia della mia conversione dall’islam al cattolicesimo “Grazie Gesù” nella Sala della Camera di Commercio di Brindisi. Ad organizzare il tutto è stata la mia cara amica Mimma Piliego, medico di base, volontaria presso il Seminario Papa Benedetto XVI e la Comunità Emmanuel, dedita al recupero dei tossicodipendenti. L’ho citata in “Grazie Gesù” come una delle testimoni di fede che mi hanno affascinato per la sua spiritualità.
L’arcivescovo mi è subito parso un fine diplomatico, attento a valutare sempre i pro e i contro di ogni situazione, cercando di accontentare tutti e di non irritare nessuno. Non è esattamente il tipo di Pastore della Chiesa o più semplicemente di persona che prediligo, anche se mi sforzo di immedesimarmi nella condizione altrui per comprendere le ragioni profonde di chi trasforma l’equilibrismo esistenziale in prassi quotidiana, finendo per condizionare e determinare la stessa scelta di vita. Senonché la mia disponibilità alla comprensione delle ragioni altrui è venuta meno quando, intervenendo dopo la mia presentazione del libro, l’arcivescovo Talucci ha qualificato Maometto come “un profeta” e ha sostanzialmente legittimato l’islam come religione in quanto “espressione dell’aspirazione dell’uomo ad elevarsi a Dio”. Non è assolutamente mia intenzione sollevare un caso personale nei confronti dell’arcivescovo Talucci. Perché non è affatto un caso isolato. Magari fosse così! Purtroppo è un atteggiamento diffuso in seno alla Chiesa cattolica odierna.
Il secondo episodio concerne il cardinale Jean-Louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Intervenendo al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini il 25 agosto 2008, nel corso di una conferenza stampa che ha preceduto l’incontro pubblico dal titolo “Le condizioni della pace”, ha ripetuto la tesi da lui già sostenuta in passato, secondo cui le religioni sarebbero di per sé “fattori di pace”, ma che farebbero paura a causa di “alcuni credenti” che hanno “tradito la loro fede”, mentre in realtà tutte le fedi sarebbero “portatrici di un messaggio di pace e fraternità”.
La tesi del cardinale Tauran è che le religioni sarebbero intrinsecamente buone e che quindi lo sarebbe anche l’islam. Ne consegue che se oggi l’estremismo e il terrorismo islamico sono diventati la principale emergenza per la sicurezza e stabilità internazionale, ciò si dovrebbe imputare a una minoranza “cattiva” che interpreterebbe in modo distorto il “vero islam”, mentre la maggioranza dei musulmani sarebbe “buona” nel senso di rispettosa dei diritti fondamentali e dei valori non negoziabili che sono alla base della comune civiltà dell’uomo.
La realtà oggettiva, lo dico con serenità e animato da un intento costruttivo, è esattamente il contrario di ciò che immagina il cardinale Tauran. L’estremismo e il terrorismo islamico sono il frutto maturo di chi, a partire dalla sconfitta degli eserciti arabi nella guerra contro Israele del 5 giugno 1967 che ha segnato il tramonto dell’ideologia laica, socialista e guerrafondaia del panarabismo, innalzando il vessillo del panislamismo ha voluto essere sempre più aderente al dettame del Corano e al pensiero e all’azione di Maometto. La verità, dunque, è che l’estremismo e il terrorismo islamico corrispondono genuinamente al “vero islam” che è un tutt’uno con il Corano che a sua volta è considerato un tutt’uno con Allah, opera increata al pari di Dio, così come corrispondono al pensiero e all’azione di Maometto.
Alla radice del male non vi è dunque una minoranza di uomini “cattivi”, responsabili del degrado generale, mentre le religioni sarebbero tutte ugualmente “buone”. La verità è che le religioni sono diverse, mentre gli uomini – al di là della fede e della cultura di riferimento - potrebbero essere accomunati dal rispetto di regole e di valori comuni. La verità è che il cristianesimo e l’islam sono totalmente differenti: il Dio che si è fatto uomo incarnato in Gesù, che ha condiviso la vita, la verità, l’amore e la libertà con altri uomini fino al sacrificio della propria vita, non ha nulla in comune con Allah che si è fatto testo incartato nel Corano, che s’impone sugli uomini in modo arbitrario, che ha legittimato un’ideologia e una prassi di odio, violenza e morte perseguita da Maometto e dai suoi seguaci per diffondere l’islam.
La verità, lo dico sulla base dell’oggettività della realtà manifesta e della consapevolezza legata all’esperienza diretta, è che non esiste un “islam moderato”, così come invece ha sostenuto lo stesso cardinale Tauran, mentre certamente ci sono dei “musulmani moderati”. Sono tutti quei musulmani che, al pari di qualsiasi altra persona, rispettano i diritti fondamentali dell’uomo e quei valori che non sono negoziabili in quanto sostanziano l’essenza della nostra umanità: la sacralità della vita, la dignità della persona, la libertà di scelta.
L’amara verità è che quella parte della Chiesa ammalata di relativismo e di islamicamente corretto rischia di diventare più islamica degli stessi islamici. Mi domando se la Chiesa si rende conto dell’arbitrio commesso nell’assumere la tesi del Corano creato anziché increato, al fine di consentire l’interpretazione e la contestualizzazione storica dei versetti, quindi la rappresentazione di un islam dove fede e ragione sarebbero del tutto compatibili, quando storicamente e a tutt’oggi la stragrande maggioranza dei musulmani crede in un Corano increato al pari di Allah, dove i versetti hanno un valore assoluto, universale, eterno, immodificabili? Come può la Chiesa prestarsi al gioco di chi strumentalmente e ideologicamente decontestualizza, scorpora, seleziona arbitrariamente il contenuto e il messaggio coranico, al fine di evidenziare quei versetti che estrapolati da ciò che precede e ciò che segue, consentirebbero di affermare l’esistenza di un “islam moderato”? Come può la Chiesa legittimare sostanzialmente un sedicente “islam moderato”, finendo per accreditare un personaggio abietto e criminale, che non ha avuto alcuna remora a ricorrere a tutti i mezzi, compreso lo sterminio di chi non aderiva all’islam, per sottometterli alla sua mercé?
Mi domando se la Chiesa si rende conto che se non afferma e non si erge a testimone dell’unicità, assolutezza, universalità ed eternità della Verità in Cristo, finisce per rendersi complice nella costruzione di un pantheon mondiale delle religioni, dove tutti ritengono che ciascuna religione sia depositaria di una parte della verità, anche se ciascuna religione si auto-attribuisce il monopolio della verità? Perché stupirsi poi del fatto che il cristianesimo, posto sullo stesso piano di una miriade di fedi e ideologie che danno le risposte più disparate ai bisogni spirituali, cessi di affascinare, persuadere e conquistare la mente e i cuori degli stessi cristiani, che disertano sempre più le chiese, che rifuggono dalla vocazione sacerdotale e più in generale che escludono la dimensione religiosa dalla propria vita?
Per me il cristianesimo non è una religione “migliore” dell’islam, o la religione “completa” dal messaggio “compiuto” rispetto ad un islam considerato come una religione “incompleta” dal messaggio “incompiuto”. Per me il cristianesimo è l’unica religione vera, perché è vero Gesù, il Dio che si fa uomo e che ha testimoniato in mezzo a noi uomini tramite le opere buone la verità, il fascino, la ragionevolezza e la bontà del cristianesimo. Per me l’islam che riconosce un Gesù solo umano, che pertanto condanna il cristianesimo come eresia perché crede nella divinità di Gesù e come idolatria perché crede nel dogma della Santissima Trinità, è una falsa religione, ispirata non da Dio ma dal demonio. Per me l’islam che ottemperando alle prescrizioni coraniche ed emulando le gesta di Maometto corrompe l’animo di chi si sottomette e uccide il corpo di chi si rifiuta, è una religione fisiologicamente violenta e si è rivelata storicamente aggressiva e conflittuale, del tutto incompatibile con i valori fondanti della comune civiltà umana.
Proprio la mia esperienza di “musulmano moderato” che perseguiva il sogno di un “islam moderato”, mi ha fatto comprendere che si può certamente essere “musulmani moderati” come persone ma che non esiste affatto un “islam moderato”. Dobbiamo pertanto distinguere tra la dimensione della persona da quella dalla religione. Con i musulmani moderati, partendo dal rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dalla condivisione dei valori non negoziabili della nostra umanità, si può dialogare e operare per favorire la civile convivenza. Ma dobbiamo affrancarci dall’errore diffuso che immagina che per poter amare i musulmani si debba amare l’islam, che per rapportarsi in modo dignitoso con i musulmani si debba attribuire pari dignità all’islam.
Sua Santità Benedetto XVI, la Chiesa, il Cristianesimo e la Civiltà occidentale oggi stanno soccombendo per l’imperversare della piaga interna del nichilismo e del relativismo di chi ha perso la propria anima, sotto l’incalzare della guerra di conquista di natura aggressiva dell’estremismo e del terrorismo islamico, in aggiunta alla deriva di un mondo che si è globalizzato ispirandosi alla modernità occidentale ma solo nella sua dimensione materialista e consumista, mentre non ha affatto recepito la sua dimensione spirituale e valoriale. Finendo per avvantaggiare coloro che rincorrono una concezione materialista e consumista della vita, scevra da valori e regole, violando i diritti fondamentali dell’uomo, così come è certamente il caso della Cina e dell’India. In questo contesto assai critico e dalla prospettiva buia, Lei oggi rappresenta un faro di Verità e di Libertà per tutti i cristiani e per tutte le persone di buona volontà in Occidente e nel Mondo. Lei è una Benedizione del Cielo che mantiene in piedi la speranza nel riscatto morale e civile della Cristianità e dell’Occidente. Ci ispiriamo a Lei e confidiamo nella sua benedizione per ergerci a Costruttori della Civiltà Cristiana in grado di promuovere un Movimento di riforma etica che realizzi un’Italia, un’Europa, un Occidente e un Mondo di Fede e Ragione. Che Dio l’assista nella missione che Le ha conferito e che Dio ci accompagni nel comune cammino volto all’affermazione della Verità, all’accreditamento del bene comune e alla realizzazione dell’interesse generale dell’umanità.
Magdi Cristiano Allam
Un sabato pomeriggio a scuola con un gruppo di genitori - Autore: Bruschi, Franco Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 20 ottobre 2008 - Proposte sulla nuova scuola, fatte da chi la scuola la vive.
Volevo raccontare dell’incontro di sabato 18 ottobre 2008 con alcuni genitori delle mie alunne di Terza superiore, in occasione delle elezioni dei rappresentanti dei consigli di classe. Essendo un nuovo insegnante, mi sono presentato dicendo che sono entrato in classe ponendomi come uomo che ha dei desideri, delle domande, delle certezze, degli ideali, dei punti di riferimento che desidera condividere con chi si trova di fronte, per vivere con loro l’avventura della conoscenza, della scoperta del senso della vita, della libertà. Per questo nel primo mese di scuola ho messo a tema fondamentalmente due questioni: quella dell’IO e quella della storia, della cultura, della civiltà a cui ciascuno di noi appartiene, coinvolgendo e provocando le alunne in un dialogo serrato. Non avrebbe senso affrontare lo studio delle opere dei grandi geni della letteratura che hanno messo a tema il loro io, la conoscenza di sé e della realtà, senza porsi la domanda: ma chi sono io? Oppure affrontare lo studio della storia, cioè il tentativo fatto da chi ci ha preceduto di rispondere a tutti i propri bisogni, senza conoscere e fare chiarezza su cosa vuol dire appartenere alla storia, alla cultura, alla civiltà, italiana ed europea, senza fare chiarezza sull’origine e sull’originalità di questa storia e quindi sul modo assolutamente originale di intendere i bisogni dell’uomo. Ho detto che quel che a me interessa è crescere con le mie alunne come uomo, capace di apertura e conoscenza del significato del reale, capace di giudizio su tutto, questo a partire da una profonda stima di chi mi trovo di fronte. La scuola è una grande occasione perché la sfida della conoscenza continui e si approfondisca prima di tutto in me. Non manco mai di sorprendermi del grande interesse con cui dei genitori ascoltano una simile proposta e negli ultimi anni, cadute ormai le tradizionali barriere ideologiche, del consenso, della approvazione che questa proposta ottiene. Ma quel che ieri mi ha sorpreso ulteriormente è stato il fatto che quei genitori avendo ascoltato altri discorsi sia negli anni passati alla mia scuola, sia in altre scuole dei loro figli, abbiano detto che la mia proposta, il mio modo di pormi nei confronti dei loro figli, apparisse loro come una cosa dell’altro mondo, e che se qualche altro genitore si fosse trovato per caso lì ad ascoltare il nostro dialogo avrebbe avuto l’impressione di trovarsi in una realtà scolastico-educativa unica nel suo genere, meravigliandosi che si parlasse di certe cose, di cui nella scuola o nei dibattiti quasi mai si parla. E hanno aggiunto che i genitori ( io direi anche gli studenti delle superiori) dovrebbero avere la possibilità di incontrare gli insegnanti, di ascoltare la loro proposta educativa e poi di scegliere a chi affidare i loro figli. A me non sembrava di aver fatto dei discorsi straordinari, semplicemente ho raccontato l’esperienza educativa che ha segnato la mia vita, da quando io ero giovane, come i figli di quei genitori. Io non faccio altro che riproporre a scuola quel che è stato decisivo per me, per la mia crescita come uomo: la presenza di un “maestro” appassionato ai suoi ragazzi, che vive con loro l’avventura della conoscenza, avendo come primo interesse la crescita della loro libertà. Educazione e libertà: sono questi i due fattori di una scuola che vuole rispondere ai bisogni dei bambini, dei ragazzi, dei giovani e alle esigenze e preoccupazioni della famiglie. Questo interessa veramente a studenti e genitori liberi da pregiudizi. Questa è una battaglia civile perché se non esiste la possibilità dei giovani di crescere, di imparare a giudicare e ad assumersi responsabilità, la società si sfascia. Avere questa possibilità è dunque decisivo! Tutto il resto non dico che non sia importante, ma è secondario Per questo vado ripetendo che se riforma della scuola ci sarà, non potrà prescindere dall’affronto di questi problemi: costruire le condizioni per rendere la scuola luogo di educazione e di libertà. Altrimenti si tratterà sempre di interventi marginali, incapaci di dare una risposta alla grave crisi della scuola italiana e soprattutto alla drammatica emergenza educativa. Di questo vorrei che si parlasse nelle scuole e nei dibattiti sulla scuola. Da dove partire? Da chi la scuola, quotidianamente, la vive già così.
USA/ Weigel: principi morali sbagliati possono facilmente corrompere le professioni e le leggi - INT. George Weigel - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
In America non ci fermiamo molto a riflettere su che cosa sia diventata la nostra cultura, ed è altrettanto difficile, per noi, riuscire a sviluppare una fede, una letteratura e un linguaggio comuni. Oggi molti americani probabilmente non sono d’accordo neppure su cosa voleva dire Thomas Jefferson quando, scrivendo la Dichiarazione di Indipendenza, disse che ci uniamo come una sola Nazione per difendere la vita (tutte le vite, non solo una classe specifica), la libertà (per tutti) e il perseguimento della felicità (per tutti, e non solo per i banchieri di Wall Street e per i loro amici politici). Sono tutte considerazioni importanti nell’attuale dibattito elettorale, ed è per questo che abbiamo chiesto a George Weigel che cosa abbia imparato da Giovanni Paolo II sul tema della cultura.
Cosa intendeva il Papa quando chiedeva: “Come va con la cultura?”
Giovanni Paolo II era un polacco e i polacchi hanno una visione particolare sulle dinamiche della Storia. Questo perché la Polonia come nazione è sopravvissuta alla vivisezione e alla distruzione della Polonia come Stato nel 1795 attraverso la sua cultura, anzi è sopravvissuta con vigore tale da poter permettere a un nuovo stato polacco di nascere nel 1918. Giovanni Paolo II è cresciuto con l’idea che la cultura è, alla lunga, la forza più dinamica della storia.
Qual è il centro della cultura, il suo principio ispiratore?
Il cuore della cultura è “culto”: cosa uomini e donne hanno a cuore, onorano e adorano; ciò su cui sono pronti a mettere in gioco le loro vite e quelle dei loro figli. Il Papa era anche cosciente del grande fallimento della Germania di Weimar: un edificio politico democratico costruito su una base culturale totalmente inadeguata. Per questo capiva, quindi, l’importanza di una vibrante cultura morale pubblica in una democrazia. La democrazia ha bisogno di una cultura morale pubblica capace di formare il tipo di cittadini che siano in grado di far funzionare la democrazia e una libera economia, così che il risultato di libera politica e libera economia sia una genuina fioritura umana.
Come valuterebbe Giovanni Paolo II la cultura della pratica medica in America nel nostro tempo?
Possiamo avere un’idea delle sue preoccupazioni leggendo l’enciclica del 1995 “Evangelium Vitae”, nella quale il Papa discute a lungo e con passione su come giudizi morali rivolti disperatamente in direzione sbagliata (vedi i casi di aborto e eutanasia) possono corrompere le professioni, così come le leggi.
Come vedrebbe Giovanni Paolo II la discussione attuale fra gruppi come l’Associazione Americana di Ginecologi e Ostetrici (che hanno proposto di limitare l’obiezione di coscienza di dottori in via di formazione i quali non desiderano partecipare in niente che sia collegato a pratiche abortive) e la posizione dell’ Associazione dei Medici Cattolici di difendere il diritto naturale di ogni professionista della sanità di esercitare la propria coscienza e di non partecipare in alcuna azione, come l’aborto, che compromette la vita di un essere umano?
Starebbe sicuramente dalla parte dei buoni. Una legge che costringe i medici a fare una cosa è un male morale oggettivo, è una legge falsa, e deve essere rifiutata.
Nella sua biografia “Testimone della speranza” lei scriveva che la “teologia del corpo” di Giovanni Paolo II è «una bomba a orologeria teologica pronta ad esplodere». C’è qualche segno che ci dice che la miccia è sempre accesa, almeno nella Chiesa Cattolica?
È già scoppiata fra un largo numero di giovani cattolici impegnati, che vedono nella teologia del corpo un’alternativa ai miasmi culturali della visione del sesso come uno “sport di contatto” potenzialmente letale. Certamente ha avuto un effetto nei corsi di preparazione al matrimonio, ed è il tema del lavoro di molti movimenti e gruppi di rinnovamento. Sono anche colpito dalla portata dell’interesse per la teologia del corpo da parte di studiosi e ricercatori. È un interesse che si misura dalla quantità di tesi e ricerche sull’argomento.
A suo avviso la teologia del corpo sta innescando una bomba anche sul piano sociologico? Intendo dire un riconoscimento del fatto che i sessi si completano l’un l’altro e che la differenza sessuale riflette il dono di sé di Dio stesso?
Non si può invertire in una sola generazione una cultura decadente che si è andata formando per duecento anni. Ma almeno adesso abbiamo gli strumenti per cominciare il lavoro.
La sentenza della Corte Suprema del Connecticut ha stabilito che il matrimonio tra coppie dello stesso sesso è legale, nonostante l’assembla legislativa dello Stato avesse agito in senso contrario. Che ne pensa?
Che il “matrimonio”, il sacramento primordiale, possa significare qualunque cosa che vogliamo farlo essere, è la forma più pura di gnosticismo che si possa trovare.
Come valuta questa tendenza a negare che l’esercizio dell’obiezione di coscienza nell’assistenza sanitaria appaia in larga parte (se non sempre) coinvolgere la sfera del sesso e le sue conseguenze, come il procurato aborto?
L’aborto non è una questione di moralità sessuale, ma di giustizia pubblica: il quinto comandamento, non il sesto. Se, d’altra parte, sta parlando di prescrivere contraccettivi e via dicendo, non è un caso che i Nuovi Gnostici vogliano usare il potere dello Stato per forzare la coscienza cattolica, perché la Chiesa cattolica è l’ultima grande barriera nazionale istituzionalizzata contro la loro vittoria e la vittoria della dittatura del relativismo.
20 studenti si sono incontrati privatamente con medici più esperti al meeting della Catholic Medical Association per domande e risposte. Il messaggio emerso in prevalenza è che l’etica medica insegni loro semplicemente di lasciarsi alle spalle quello che sono e dare ai pazienti ciò che vogliono o ciò che la cultura o la legge impongono. Cosa potrebbe dire Giovanni Paolo II a questi studenti brillanti e affamati di risposte?
Che non possono compromettere la loro integrità, e che sicuramente troveranno strade per farlo.
(Robert F. Conkling)
C’è un’alternativa al partito della rendita - Luca Antonini - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
In una Sala della Regina strapiena, giovedì scorso a Montecitorio, si è svolto il convegno organizzato dall’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà sul tema Federalismo fiscale: la sfida del Paese. È stato un momento di discussione e di lavoro di altissimo livello che ha sorpreso molto chi come il sottoscritto per professione studia la vita delle istituzioni. Erano anni o forse decenni che non accadeva qualcosa di simile nell’Italia del bipolarismo incompiuto e rusticano, della delegittimazione a priori dell’avversario, del manicheismo pronto ad affossare tutto quello che è avvenuto nella precedente stagione politica. Si è assistito, in azione, a un esempio di quel bipolarismo mite che l’Intergruppo per la Sussidiarietà aveva messo a tema due anni fa. Il confronto tra maggioranza e opposizione, infatti, è avvenuto mettendo da parte l’ideologia e analizzando con serietà e precisione i punti fondamentali del provvedimento sul federalismo fiscale approvato dal Governo. Su questo disegno di legge è stato espresso un sostanziale apprezzamento, concordando sulla necessità della riforma ed entrando nel merito, finalmente in modo puntuale e costruttivo, sulle singole soluzioni, anche evidenziane criticità e possibili correzioni. Un dialogo costruttivo e di alto livello tra personalità politiche di prim’ordine come Gianfranco Fini, Renato Schifani, Raffaele Fitto, Linda Lazillotta, Enrico Letta, Vannino Chiti e molti altri.
Il grande assente all’evento presieduto da Maurizio Lupi a nome dell’Intergruppo e organizzato insieme al network delle principali fondazioni culturali e politiche del Paese è stato uno solo: l’ideologia; più precisamente quell’ideologia politica incapace di dialogo e di qualsiasi gratuità che non sia il proprio, meschino, interesse di parte, o addirittura personale, senza nessuno spazio dato alla considerazione del bene comune. Da questo punto di vista, all’interno dell’Intergruppo si è aperta la possibilità di una nuova stagione di lavoro, probabilmente perché l’Intergruppo - il cui collante è la consapevolezza che la sussidiarietà è la chiave per la modernizzazione del Paese - rappresenta il contesto ideale, anche per la qualità delle persone che vi aderiscono, per accompagnare il lavoro parlamentare sul disegno di legge sul federalismo fiscale, che si presenta come una riforma bipartisan che porta a sintesi - come afferma la relazione di accompagnamento - i lavori degli ultimi anni e i contributi elaborati dalle Regioni, dagli Enti locali e dallo stesso governo Prodi. È certo un momento delicato, perché in Italia con questa riforma s’inizia a scrivere la storia del federalismo vero, destinato a mettere fine a quel costume dello scaricabarile delle responsabilità che ha caratterizzato in particolare gli ultimi anni. La riforma del federalismo fiscale permetterà, invece, di imputare le responsabilità con chiarezza. In Italia ci sono - l’ho denunciato spesso, ma ripeterlo è utile - troppe differenze ingiustificate, basta leggere le relazioni della Corte dei Conti: non è concepibile che una sacca per le trasfusioni costi in Calabria quattro volte di più di quanto costa in Lombardia o che una tac costi in un alcune parti del Paese 800 euro e in altre 500, o ancora che la spesa pro capite per bambino negli asili nido a Roma sia di 16000 euro e 7000 a Modena, che eppure è un modello premiato a livello internazionale.
Non si tratta in questi casi di gap strutturali o altro: sono solo differenze ingiustificate che poi ricadono sulla fiscalità generale, cioè sui contribuenti. Un recente studio di Unioncamere Veneto ha dimostrato come negli ultimi anni il residuo fiscale del Nord (la differenza tra quanto si paga in imposte e quanto ritorna in forma di spesa pubblica) sia aumentato, mentre la produttività del Sud, nonostante il maggiore trasferimento, sia diminuita. I conti non tornano, se non ipotizzando un enorme spreco di risorse che non si traduce in un reale aiuto alle realtà produttive e sociali, ma alimenta inefficienza, sprechi e rendite politiche di vario tipo. Un altro esempio: in Campania arrivano pro capite per la sanità più risorse che in Lombardia, ma la qualità della sanità lombarda ha un indice di qualità di + 0,9 e quella della Campania di -1,4.
In un momento di crisi finanziaria così delicata a livello internazionale, a livello nazionale non ci si può permettere questo disordine interno. Da questo punto di vista, i principi contenuti nel ddl sul federalismo fiscale non sono - come qualcuno ha obiettato - acqua fresca perché mancano i numeri. I principi del disegno di legge sono, invece, rivoluzionari. Lo è quello del passaggio dalla spesa storica (che finanzia servizi e inefficienza) al costo standard (che finanzia solo i servizi); quello della perequazione alla capacità fiscale per le funzioni non riconducibili a sanità, assistenza e istruzione; quello della cancellazione dei trasferimenti statali vincolati e della loro trasformazione in autonomia impositiva, permettendo alle Regioni e agli enti locali di sviluppare proprie politiche fiscali, fino a poter introdurre “leggi Tremonti” regionali di detassazione degli investimenti o a poter riconoscere i carichi familiari o sostituire i bandi che distribuiscono risorse a pioggia con una riduzione della pressione fiscale. Ancora, si stabilisce il principio di premiare i virtuosi e punire gli inefficienti, fino a introdurre il “fallimento politico” per quegli amministratori che portano un ente al disseto finanziario: come un imprenditore fallito non può rimettersi subito a fare l’imprenditore, così un sindaco “fallito” non potrà subito riciclarsi, come invece oggi purtroppo avviene, come parlamentare o euro deputato. Si tratta quindi davvero di una riforma storica per un sistema come quello italiano che questi principi li ha disconosciuti con chiara regolarità.
Il pericolo per la riforma viene invece da un altro “intergruppo” trasversale, il partito della rendita, che nell’inefficienza e negli sprechi, che prima si sono solo accennati, costruisce la propria fortuna.
Questo partito parassitario e trasversale certamente si troverà compatto nel tentativo di evitare o rallentare una riforma come questa, per non perdere i propri privilegi, la propria avversione alla responsabilità e alla resa del conto, nonostante la crisi e la situazione del Paese. Questo partito sarà il vero nemico del federalismo fiscale e dello stesso lavoro dell’Intergruppo per la Sussidiarietà.
SCUOLA/ Il governo non tolga risorse alle scuole paritarie, c’è un modo migliore per ridurre gli sprechi - Renato Farina - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Ci dev’essere stato un errore. Non possiamo crederci. E agli errori si rimedia.
È accaduto questo. Nelle tabelle che sostanziano di cifre la Finanziaria, che è la legge fondamentale con cui il Parlamento dà l’assenso alla politica del governo, risultano per il 2009 tagli per 133,4 milioni di euro alla scuola paritaria.
In commissione Cultura, scienza e istruzione i deputati della maggioranza all’unanimità hanno posto come “condizione” per dare un parere favorevole alla finanziaria il “reintegro” di questi 133,4 milioni di euro.
Capiamo come e perché i funzionari del ministero abbiano tagliato proprio lì: è più facile. Il 96,98 per cento del bilancio ministeriale è fatto di stipendi, e non si possono tagliare. Se il ministro dell’Economia impone tagli lineari del 20 per cento, il coltello affonda come nel burro là dove non ci sono sindacati irosi, dove si è abituati alla pazienza: le scuole paritarie. Non è giusto. Non è giusto in funzione di due ragioni: una è ideale, l’altra economica.
Comincio da quest’ultima.
1) Le scuole paritarie senza fini di lucro (non profit) sono quasi tutte di matrice cattolica. Versano in gravissime difficoltà, a causa della crisi che attanaglia le famiglie (in queste scuole ci vanno specie i figli delle classi medie e medio basse). Dovendo alzare le tariffe, vanno verso la chiusura. Con il risultato di riversare nella scuola statale molti allievi. E nella scuola statale il costo è pressoché il doppio per alunno. Altro che risparmio di 133,4 milioni. Si riuscirebbe nel capolavoro di aumentare gli sprechi e di togliere un diritto essenziale. Ma c’è una ragione economica dirimente. Ed è il fatto che queste scuole sono un fattore di concorrenza: mostrano come si può risparmiare sulle spese. Consentirebbero di ridisegnare il percorso del denaro nelle scuole statali, per capire in quali buche improduttive spesso finisce, e rimediare, seminando i soldi su terreni fertili e non sui sassi o tra le gramigne.
2) La ragione ideale è la più forte di tutte. L’emergenza educativa in Italia e nel mondo occidentale è gravissima, rispetto ad essa quella economica ci fa il solletico. Dirò anzi che la crisi economica, motivata dalla perdita di senso del lavoro-lavoro, per cui il valore si è concentrato sulla virtualità del denaro, deriva dalla perdita di rapporto serio con la realtà. E in questo clima dove manca aria, e siamo pieni di fumi tossici, che cosa si fa: si taglia sull’ossigeno? Non è possibile. La libertà di scelta educativa è la prima libertà e il Popolo della libertà si chiama così per qualche ragione.
Per questo il collega Gabriele Toccafondi ha preparato un emendamento dove si recuperano questi 133,4 milioni di euro. Non li si toglie alla scuola statale. Li si recupera in voci del bilancio di svariati ministeri, così da non dare pretesti di finto scandalo. Tra l’altro anche l’opposizione ha protestato per questi tagli.
Sono certo passerà, e che il governo darà parere favorevole. Confido nella serietà e nella tenacia dei ministri Mariastella Gelmini e Giulio Tremonti rispetto agli ideali professati.
DIBATTITO/ A che punto è la filosofia? La nuova koiné naturalista - Redazione - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
La filosofia, si sa, è la più strana delle discipline. Per molti è solo la materia “per la quale e senza la quale tutto rimane tale e quale”. Purtroppo o per fortuna, invece, la filosofia è la forma con cui concepiamo la realtà e non è possibile non averne una; anche la negazione della filosofia è una filosofia. Che ne sia la causa o conseguenza, è la filosofia che presenta i modi di pensare la vita, i significati delle parole, la società. Insomma, la cosiddetta mentalità.
Ci chiediamo, allora: a che punto siamo? Quale mentalità la filosofia odierna sta contribuendo a creare o quale si impegna a riflettere? Il Sussidiario vuole discutere su questo tema, accettando suggerimenti di filosofi, letture, scuole da studiare eccetera. L'intento è quello di divenire sempre più consapevoli della mentalità, il che è decisivo per capire il proprio compito. La mentalità filosofica di oggi è dominata da quello che si chiama “naturalismo”. In che cosa consiste?
De Caro (in Calcaterra, Pragmatismo e filosofia analitica 2006) identifica tre leggi portanti: l’esclusione di oggetti non naturali, l’antifondazionalismo e la continuità scienza-filosofia. Ci sono due modi di intendere queste leggi.
Il primo è uno scientismo duro (Dennett, per fare un nome). In questa versione esiste solo quello che la scienza “positiva” – in particolare la fisica – riconosce o arriverà a riconoscere, non c’è nessuna fondazione del nostro sapere al di là della conoscenza “scientifica” e la filosofia stessa è parte della scienza e come tale verrà pian piano dissolta in essa.
C’è un’altra versione, più soft o pluralista, che pur mantenendo le medesime leggi, le interpreta nel senso che negli oggetti naturali devono essere inclusi anche i prodotti culturali (McDowell), che la scienza non può avere a sua volta pretese fondative e che il sapere filosofico-umanistico può convivere con quello scientifico: “un modesto realismo non metafisico, adeguatamente conforme ai risultati delle scienze” (Putnam).
Le due versioni, però, condividono un assunto: essere naturalisti significa sostenere che “il mondo è causalmente chiuso” (Määttänen). Ciò significa che anche nella seconda versione si può accettare che esista una “cultura” con tutti i suoi significati belli e profondi, si può pensare che ci siano ragionamenti non scientifici eppure validi e persino che si deve essere “realisti”. In molte versioni esiste anche un’ontologia, cioè un chiedersi quale sia la natura degli oggetti. In fondo si va molto vicino a un ragionevole senso comune ormai lontano dagli eccessi del nichilismo di fine Novecento.
Eppure, con quel nichilismo – soprattutto nella sua versione “gaia” espressa da Del Noce – c’è una sottile affinità perché anche per il naturalismo l’ambito della realtà, per quanto ampio e non più in dubbio quanto alla sua esistenza, è chiuso, cioè non funziona mai come “segno”. Così emerge quella che era la radice comune a ermeneutica e analitica: negare che la realtà funzioni come segno e che quindi possa rimandare a un’altra realtà completamente oltre sé (meta-fisica) e che possa provocare interpretazioni la cui validità dipende dall’aver più o meno compreso quella realtà metafisica. Se si esclude il valore del segno, i suoi terminali, l’io e Dio – per semplificare à la Newman – non hanno più senso se non come valori culturali.
Si arriva così all’estrema ammissione di un naturalista scientista come McGinn: “L’essenza di un problema filosofico è l’inspiegabile salto, il passaggio da una cosa all’altra senza nessuna idea di quale sia il ponte che permette questo passaggio” (The Mysterious Flame, 2002). La filosofia – parole sue – è perciò “futile”. Paradossale destino: si studia tanto per tornare a “tutto rimane tale e quale”. Il modo normale (“naturale” e non “naturalista”) di pensare tende invece a sostenere che si pensa proprio per conoscere e cambiare la realtà, che oggetto del pensiero sia tutta la realtà, fisica o meta-fisica, e che tutto possa essere letto come “segno”.
La curiosa alleanza tra l’intellettualismo scientista e l’irrazionalismo del nostro proverbio fa nascere il sospetto che pensare il “segno” sia antipatico a tutti quelli che hanno un pregiudizio da difendere e che hanno già deciso di non voler essere disturbati da troppe domande.
(Giovanni Maddalena)
EMERGENZA CIBO/ L’obiettivo del vertice Fao: raddoppiare entro il 2050 la produzione alimentare - Dario Casati - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Ogni anno, il 16 ottobre, si celebra la Giornata Mondiale dell’Alimentazione per iniziativa della Fao. In genere questa data suscita un interesse abbastanza modesto che invece questa volta, dopo che i primi mesi dell’anno sono stati segnati da una forte attenzione alla tematica della crisi agricola mondiale, ci si aspettava fosse in ripresa. Al contrario, l’imperversare della bufera finanziaria ha addirittura fatto passare in secondo piano la tematica alimentare con l’eccezione di un aspetto abbastanza particolare se considerato in maniera avulsa dal contesto. Molti commenti si sono concentrati sull’elevato rischio di recessione mondiale che determinerebbe una contrazione della domanda di beni in genere, quindi anche di alimenti, con conseguenze sull’intera filiera alimentare. A riprova, si citano i dati della contrazione dei consumi nei paesi ricchi come, ad esempio, l’Italia. L’arditezza della costruzione stupisce e scoraggia ogni tentativo di rimettere ordine nelle cose, eppure vogliamo provarci. I consumi alimentari nei paesi ricchi sono in frenata già da qualche mese, il che lascia intendere che l’esplosione della crisi finanziaria non sia il solo colpevole. Se anche la flessione trovasse conferma, il sopraggiungere della recessione, come la storia insegna, potrebbe far riprendere questa categoria che normalmente si sviluppa in maniera anticiclica, nel senso che nei momenti di difficoltà gli altri consumi possono essere ridotti, ma non così l’alimentazione, che assicura la sopravvivenza degli individui. Se poi dovessimo prendere sul serio i consigli proposti dai media per “resistere” alla crisi, ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli, si va dal coltivare gli ortaggi sul balcone al far la spesa presso i singoli produttori, dal vagheggiare conserve domestiche al suggerire preparazioni che per valorizzare cibi poveri non badano a spese sugli ingredienti da aggiungere. Siamo alla storia delle brioches che Maria Antonietta, in perfetta buona fede ma con totale mancanza di senso della realtà, voleva somministrare alla folla affamata di Parigi che richiedeva pane.
In genere, per tornare alla Giornata mondiale, ci si chiede se davvero ne basti una sola o se non sarebbe meglio occuparsene tutti i giorni, una considerazione al limite della provocazione, che questa volta viene smentita in apparenza dai fatti: la Giornata, nel nostro paese, inizia il 16 ottobre e ufficialmente dura fino al 14 dicembre. In un paio di mesi il programma ufficiale elenca molte decine di avvenimenti illustrati in quasi un centinaio di pagine. Ma la domanda rimane sempre la stessa: e poi? Già il secondo giorno l’interesse mediatico si è visibilmente ridotto, dopo aver frettolosamente riportato la sintesi del discorso del direttore generale della Fao, Jacques Diouf che richiamava gli elementi di fondo della situazione alimentare..
Negli scorsi mesi, secondo le stime, quasi un centinaio di milioni di esseri umani è stato sospinto indietro nei suoi livelli di consumo verso quella fame che confidava di avere faticosamente sconfitta mentre altri 850 milioni vedono allontanarsi l’obiettivo della sicurezza alimentare. In questo contesto, servono a poco le Giornate se si limitano a discorsi che ruotano attorno all’immancabile tema a sviluppo obbligato. Serve ancor meno preoccuparsi delle importazioni dalla Cina o delle esportazioni dei nostri prodotti Dop o del calo delle vendite nei negozi, ma non nei discount. Chi può ragionevolmente raccontare queste cosucce a chi ha fame? Di recente, in una grande assise internazionale sui problemi dell’acqua e del cibo, dopo che Ingo Potrykus, il genetista svizzero che ha sviluppato un riso, il Golden rice, che potrebbe salvare ogni anno 40.000 vite umane, aveva esposto il significato della sua ricerca, gli è stato chiesto perché accanirsi tanto a studiare un riso naturalmente ricco di vitamina A e non cercare, invece, di far sì che anche quei popoli che si cibano normalmente (solo) di riso usino la pasta, perché è.... tanto più buona. Occorre imparare a distinguere fra ciò che è davvero importante e ciò che costituisce un mero tributo all’effimero in paesi ricchi.
Il nocciolo della questione è molto più duro da affrontare. Molti sembrano non capire che al mondo vi sarebbe spazio e cibo per tutti se si riuscisse a diffondere con coerenza, costanza e rispetto delle altrui esigenze un insieme di tecniche che permettesse ai popoli dei paesi della fame di coltivare quei prodotti di cui hanno bisogno, anche nei contesti più ostili. Le difficoltà ambientali, la presenza di avversità biologiche, come malattie, parassiti e predatori naturali, o abiotiche, come la carenza d’acqua, le ricorrenti siccità o la salinità dei terreni, possono essere affrontate, in parte con strumenti già disponibili, in parte potenziando la ricerca scientifica e le sue applicazioni. Si calcola che per il 2050, tenendo conto della dinamica demografica e di quella dei consumi individuali nei paesi in via di sviluppo, occorra raddoppiare la produzione mondiale di prodotti alimentari, un obiettivo che sembra irraggiungibile, ma che potrebbe essere conseguito ragionevolmente se vi fosse un vero impegno di tutto il mondo, rompendo schemi vecchi e contrapposizioni superate, agendo sui processi di spontanea democratizzazione dei paesi in maggiore difficoltà, favorendo grandi progetti di diffusione del progresso scientifico e tecnologico. Se la Giornata Mondiale servisse a far comprendere queste cose, ne basterebbe anche una sola, altrimenti un anno intero sarebbe sempre troppo poco.
SCUOLA/ L’aiuto a chi ha difficoltà di apprendimento: una questione di sguardo - Associazione Foe - martedì 21 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Mentre sulla riforma dell’istruzione i soliti sindacati muovono guerra al Ministro e gli studenti (i soliti…) in piazza urlano assurdi slogan contro la “distruzione della scuola pubblica”, in tante scuole paritarie, anziché perdere tempo con occupazioni pretestuose e sogni rivoluzionari, si continua silenziosamente a lavorare per il bene dei giovani, a partire da quelli che hanno più bisogno. E’ quanto ci racconta il contributo inviatoci dall’Istituto Spallanzani.
Tutti abbiamo potuto osservare una classe di prima elementare all’inizio dell’anno scolastico. Dopo qualche momento di imbarazzo, i bimbi generalmente manifestano un grande entusiasmo per l’apprendimento, pieni di orgoglio per la grande avventura appena intrapresa.
È desolante pensare che a distanza di pochi mesi per alcuni di loro potrebbe scattare un meccanismo di graduale emarginazione dal sistema scolastico, perché incapaci di tenere il ritmo della classe. Si tratta di alunni che, per quanto non certificati, manifestano sensibili problemi di apprendimento, per i quali la scuola, in genere, non predispone alcuna strategia di recupero. Li si promuove fino alla fine del primo ciclo dell’istruzione, tollerandone quasi la presenza, che, d’altra parte diventa inevitabilmente indisponente e provocatoria.
Eppure, se guardati e accolti, questi bambini spesso manifestano potenzialità sensoriali, cognitive, manipolative, affettive multiformi, genialità insospettabili, facoltà a volte strane e sorprendenti.
Perché la scuola possa accorgersi di loro occorre che la sua impostazione pedagogica sia fondata su un dato essenziale: la centralità dell’alunno, che implica, come prima conseguenza, il primato della persona sul programma. Dal punto di vista metodologico, questo comporta la disponibilità dei docenti ad interagire fattivamente tra loro e con altre realtà operanti nel territorio; richiede, poi, creatività e apertura a soluzioni didattiche non convenzionali, come la possibilità di scomporre il gruppo classe, per poter seguire gli alunni individualmente o a piccoli gruppi.
La nostra esperienza ci porta ad attribuire le difficoltà di apprendimento a tre categorie di problemi: neurobiologici, psicologici, culturali.
I problemi di carattere neurobiologico sono dovuti a carenze o deficit congeniti, come i disturbi specifici di apprendimento, il ritardo mentale o l’autismo. In campo cognitivo, tuttavia, abbiamo modo di sospettare che le diagnosi degli specialisti non abbiano sempre valore apodittico, tanto che diversi alunni, inseriti in un ambiente accogliente e gratificante, conseguono risultati sorprendenti.
Siamo arrivati alla conclusione che l’handicap vero, fisiologico è molto raro.
I problemi che più frequentemente riscontriamo sono quelli di natura psicologica, causati in gran parte dalle condizioni ambientali: l’abbandono di fatto da parte della famiglia, una cattiva storia scolastica, una scarsa attenzione ricevuta come persona.
All’origine troviamo molto spesso la rottura del nucleo familiare naturale e la composizione di nuclei familiari posticci e artificiosi. Forse, da parte della società, non ci si è mai chiesto seriamente quanto dolore causino queste situazioni nei bambini e quale costo dobbiamo tutti pagare in relazione alle gravi forme di disadattamento che ne derivano.
Riguardo alla terza causa di disagio, lo svantaggio culturale, ci sembra di poterne attribuire l’origine non più alla provenienza dell’alunno da una famiglia di umili condizioni, che non trasmette correttamente il codice linguistico e gli altri dati di una cultura evoluta (vedi Don Milani in “Lettera a una professoressa”), ma alla mancanza di un rapporto educativo significativo con la famiglia, per cui l’alunno passa la maggior parte del tempo davanti al televisore, Internet, play station, chat, telefonino senza qualcuno che lo accompagni e lo stimoli a sviluppare le potenzialità affettive e cognitive di cui è dotato. Questo tipo di disagio non riguarda un particolare ceto, ma è trasversale all’intero corpo sociale; anzi, spesso gli ambienti più colpiti sono proprio le classi sociali più agiate.
Le strategie che abbiamo messo in atto per affrontare le difficoltà di apprendimento sono le più svariate, anche perché le forme che esse presentano sono sempre diverse. A questo scopo la scuola deve essere disponibile ad una grande flessibilità operativa.
Un esempio, ormai lontano nel tempo, ma sempre significativo, è quello di M., una bimba affetta da una grave forma di distrofia muscolare, che non poteva muoversi dal letto e parlava a stento. Le erano stati decretati sei mesi di vita. Nell’ ’82, quando ancora non esistevano PC e, tanto meno, Internet, installammo in classe un sistema di videotrasmissione con telecamera, antenne, televisore, completato da un impianto radio CB, inventando, con diversi anni di anticipo, la comunicazione in videoconferenza. M. seguiva le lezioni dal suo letto, intervenendo anche via radio. La bimba, con sorpresa di tutti, invece che peggiorare migliorava, tanto che in terza media poté seguire le lezioni in classe, coi suoi compagni non più virtuali. Non solo. Completò tutto il ciclo delle superiori, si iscrisse all’università e superò diversi esami.
In diversi altri casi la nostra scuola si è attivata con iniziative didattiche specifiche nell’intento di affrontare particolari problemi. Abbiamo, tuttavia, maturato alcune prassi applicabili in generale a qualsiasi problema di apprendimento.
Il nostro metodo nasce da uno sguardo sull’alunno che ne vuole cogliere l’unicità come persona, il bene che costituisce e le potenzialità a volte imprevedibili e inimmaginabili di cui sempre è dotato.
L’attività didattica, di conseguenza, non è centrata sul programma, ma sull’alunno, ben sapendo che condizione primaria del suo successo è una relazione affettivamente significativa non solo con l’insegnante di sostegno, ma con tutto l’ambiente educativo in cui egli è inserito: personale docente e non docente, compagni di classe.
L’alunno deve potersi sentir dire dall’adulto educatore: “siamo insieme io e te, non sei solo, ti stimo per quello che sei, ti prendo per mano”. Si intraprende, così, un’attività di recupero che può essere individuale o a piccoli gruppi, in parallelo alle lezioni svolte in classe. I gruppi si compongono e si scompongono a seconda dei bisogni manifestati e del grado di preparazione acquisito da ogni alunno. Per ognuno viene sviluppato un percorso personalizzato, fondato sulle sue reali esigenze e non su obiettivi astratti. Il programma viene talvolta differenziato, talvolta ridotto, talvolta semplificato, sempre puntando al fatto che ogni alunno, nei momenti di presenza in classe, possa dire: “So di cosa parla l’insegnante, lo capisco, intervengo, interagisco; non sono emarginato.”
La personalizzazione dei percorsi si attua nella normale prassi didattica, aderendo alle abilità e ai bisogni mostrati dall’alunno e mediante colloqui continui e informali tra insegnanti di classe e insegnanti di sostegno – assistenti. Viene, poi, codificata e verificata all’interno dei consigli di classe e di un gruppo di lavoro sul disagio di apprendimento.
Si crea, così, intorno all’alunno, una effettiva comunità educante, nella quale egli si sente accolto a 360 gradi.
Gli esiti verificati di questa metodologia sono tre:
· la possibilità per ogni alunno di acquisire conoscenze e abilità rapportate al suo grado di ricettività;
· la possibilità per ogni alunno di acquisire una competenza sufficiente ad interagire con la classe nei momenti di colloquio e quindi di realizzare una effettiva socializzazione con i compagni
· la motivazione e l’interesse allo studio e più in generale alla conoscenza anche da parte di alunni normalmente considerati non predisposti per un buon esito dell’attività scolastica.
Nell’anno scolastico scorso sono stati seguiti in questo modo 40 alunni per 129 ore settimanali, con la collaborazione di 9 tra insegnanti di sostegno e assistenti.
Un alunno preveniente da un orfanotrofio di Bucarest, iscritto nella nostra scuola fin dalla prima elementare, ha terminato, lo scorso anno scolastico, la seconda media.
Inizialmente la sua situazione comportamentale e cognitiva era spaventosa; mostrava atteggiamenti del tutto imprevedibili; a pranzo si gettava talvolta sotto il tavolo per mordere i polpacci dei compagni, creando lo scompiglio generale. Era preso spesso da crisi di angoscia e dondolava continuamente il tronco, nell’atteggiamento tipico di chi è affetto da certe patologie psichiatriche. Naturalmente le materie scolastiche, lo studio erano per lui il più estraneo dei problemi. La nostra scuola lo ha seguito fin dalla prima elementare con insegnamento individualizzato o nell’ambito del piccolo gruppo, senza fargli mai perdere il contatto con la classe.
L’alunno, ora, non solo ha un rapporto sereno con compagni e insegnanti ma ha imparato a studiare e sta manifestando uno spiccato interesse per la musica, la storia e la geografia.
L’ultimo giorno di scuola era molto agitato. L’insegnante di lettere gliene chiese ragione. “Sono nervoso, nervoso, nervoso” fu la risposta. “Perché ?” insisté l’insegnante” “Perché per tre mesi non potrò più vedere Ileana, Federica, Loretta, Beppe…” e così via, citando nominalmente ogni insegnante e ogni operatore interno alla scuola: segretarie, bidella, cuoche.
Il resto della sua famiglia.
Giuliano Romoli
Coordinatore delle attività educative e didattiche
dell’Istituto paritario “Vladimiro Spallanzani” di Casalgrande (RE)
Banchi di Solidarietà, quando la carità diventa di casa - Redazione - lunedì 20 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Quello dei Banchi di Solidarietà è un gesto di carità che ti porta a entrare in case dove a volte si consumano in silenzio dolori e sofferenze portati da persone straordinarie. Ne abbiamo conosciute di persone così. E chi se le scorda più. Tu entri con il tuo pacco di generi alimentari, lo appoggi là per terra o su un tavolo, e poi ti siedi a scambiare quattro chiacchiere, bevi un caffè. Si cerca di fare compagnia, che è il bisogno più grande di chi vive schiacciato dalle difficoltà, isolato, sconfitto, disperato, o più semplicemente solo. A tutti ci si affeziona. O quasi a tutti. Ma a volte è capitato di incontrare persone così grandi…
Una di queste è Marta.
Un po’ di anni fa ci avevano segnalato la situazione di una giovane rumena, in Italia da pochi anni, con figlio e marito malati. La prima volta siamo andati a casa sua io e Saveria.
Marta allora era una ragazza di 25 anni, timida e riservata, sempre gentilissima con noi, capelli biondi e un bel viso dolce. Nel giro di 10 minuti abbiamo scoperto che questa fragile e dignitosissima ragazza, in un paese straniero, senza lavoro, stava perdendo il marito per un tumore al cervello e aveva un figlio di due anni con una grave forma di epilessia.
Marta guardava suo figlio Andrea e ci diceva: “I medici dicono che quando avrà cinque anni soffrirà di più, e che non guarirà mai”. È straziante il pensiero che una mamma guardando suo figlio sappia queste cose.
Il marito non era là con noi, stava in camera a dormire. Marta ci spiegava che il marito non sapeva ancora di avere una malattia inguaribile. Lei non aveva avuto il cuore di dirglielo: “Starebbe malissimo pensando a cosa ne sarà di noi. E io non voglio che soffra così. E poi se soffrisse la situazione peggiorerebbe, e io desidero che stia con noi il più a lungo possibile”.
E ci raccontava: “Quando ho saputo della malattia di mio figlio, anche mio marito era già malato. Ho passato un lungo periodo a piangere tutto il giorno. Poi mi sono detta che dovevo smetterla, che se fossi crollata anch’io la famiglia non poteva andare avanti. Allora ho smesso di piangere”.
Io e Saveria eravamo letteralmente impietriti di fronte a tanto dolore.
Qualche minuto dopo una vicina di casa ha accompagnato in casa il piccolo Andrea. È entrato questo bimbo, tutto storto nei suoi movimenti, con un caschetto in testa per evitare brutte conseguenze a eventuali cadute. Io lo guardavo e pensavo alla situazione sua e della sua povera mamma. Come potevo guardare quel bambino malato, che stava perdendo il papà, senza avere una stretta al cuore? E pensavo: "Dio, fai sentire a questo bambino la tua carezza". E poi mi è venuto in mente che la presenza mia e di Saveria era già in qualche modo la carezza di Dio.
Con Marta è iniziato un bel rapporto, abbiamo conosciuto anche suo marito a cui abbiamo fatto un poco di compagnia negli ultimi mesi della sua vita: un omone grande e grosso con un volto ruvido, di quelli che se li incontri di notte per strada ti viene paura, ma pieno di ironia sulla sua malattia e con una tenerezza e una dolcezza verso la moglie che faceva piangere.
Ogni volta che andavamo a trovarla con il pacco di generi alimentari (di cui un po’ ci vergognavamo per l’inadeguatezza rispetto ai bisogni della famiglia) Marta ci ringraziava, abbassava gli occhi, arrossiva, e diceva: “Ma perché fate tutto questo per me? Nemmeno mi conoscevate!”.
Dopo pochi mesi che li avevamo incontrati, lui è morto.
Subito dopo sono nati dissidi con la famiglia di lui che accusava Marta di aver plagiato il marito per mettere da parte dei soldi, sfruttando la sua bellezza (Marta era davvero molto bella, anche se di una bellezza segnata visibilmente dal dolore). La rimproveravano per il fatto che il marito fosse morto, e ora lei si sarebbe rifatta la vita con qualcun altro, e con i soldi del marito. Lei ci raccontava queste cose anche con una certa paura di quello che avrebbero potuto farle fisicamente. Una volta ci disse: “E poi, chi volete che sposi una ragazza rumena con un figlio gravemente malato?”.
Dopo alcuni mesi dalla morte del marito Marta si è trasferita a Torino, dalla sorella.
Negli anni successivi, abbiamo cercato di restare in contatto con lei. In due occasioni ha trascorso qualche giorno con noi in montagna, durante due fine settimana sulla neve. Ogni volta restavamo ammirati dalla forza di questa esile donna: stava per due ore a imboccare il figlio che prendeva in bocca la sua pappetta e la risputava, come fanno i bimbi di un anno, ma con la forza di uno che di anni ormai ne aveva 4/5. Poi se lo prendeva in braccio, se lo accudiva tutto il giorno, non lo perdeva di vista un attimo perché era anche abbastanza violento e non lo si poteva lasciare a giocare da solo con gli altri bambini. Eppure, sempre sorridente, radiosa, mai un lamento; sempre grata per quello che le succedeva intorno.
Lo scorso autunno con un gruppetto di amici siamo passati a salutarla a Torino. Ci ha accolti con una gioia che ci ha sorpreso.
Ci ha raccontato che la sua vita è cambiata. Andrea ha avuto dei miglioramenti e i medici cominciano a essere ottimisti sul suo futuro.
Lei deve ancora imboccarlo a lungo, deve stare di notte nel letto con lui (e dorme poco perché Andrea si muove e si sveglia continuamente) deve controllarlo in ogni momento perché è ancora violento, ma ora che ha 6/7 anni, riesce controllare la pipì e non deve più mettere il pannolone. “E finalmente posso tirare un po’ il fiato”.
Nel pomeriggio siamo andati a fare un giro per le strade di Torino. A una di noi ha detto: “Qui a Torino sto molto bene. Mia sorella e suo marito mi vogliono bene, e spesso vengono a trovarci i loro amici. Ma oggi sono venuti a trovarmi i miei amici e questo mi riempie di gioia”.
La storia del rapporto con Marta è uno dei frutti più grandi della caritativa del Banco di Solidarietà in Brianza.
Io penso spesso a lei e al giorno in cui sono entrato in casa sua, a quella sensazione di impotenza totale, al bisogno con cui ti imbatti e a cui non riesci a rispondere, un bisogno così grande che sembra schiacciarti.
L’unica cosa che abbiamo saputo fare è stata quella di “stare lì”, con lei. E con il suo bisogno. Stare lì senza sapere cosa fare e cosa dire, storditi, ma non smarriti; perché certi del fatto che il significato della vita è positivo. E la vita di persone come Maria ne è la prova più evidente.
IMPORTANTE DISCORSO DEL PAPA ALLA SOCIETÀ DI CHIRURGIA - Ha integrato Ippocrate nel punto cruciale della bioetica - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 21 ottobre 2008
I l discorso che Benedetto XVI ha rivolto ai partecipanti al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia è rilevante sotto diversi profili. Da una parte conferma, con toni fermi e lucidissimi, i punti essenziali della tradizione ippocratica: ogni essere umano, nato o non nato, sano o malato, possiede un valore incondizionato e la sua dignità esige un rispetto altrettanto incondizionato; esistono certamente malati che la medicina è costretta a ritenere non guaribili, ma non esistono malati che vadano ritenuti non curabili, la cui sofferenza cioè non possa essere alleviata; il rapporto tra medico e paziente non può ridursi a una relazione burocratica, governata da progetti terapeutici corretti ma freddi: esso deve, primariamente, esprimersi nella forma di un’alleanza terapeutica, in un rapporto caldo e personale, ispirato ad una mutua fiducia, all’interno del quale il paziente percepisca «di essere nella mente e nel cuore del medico che lo cura» ed il medico a sua volta percepisca il rispetto che il paziente gli deve, come a colui che ha come propria motivazione fondamentale quella di operare per quel bene obiettivo che è la vita. Sotto un altro profilo, però, il discorso del Papa va oltre la tradizione ippocratica: non nel senso che la neghi o la superi, ma nel senso che la integra in un punto cruciale, che è poi uno di quelli che hanno attivato e giustificato il sorgere della bioetica. L’estrema complessità della medicina moderna e l’incredibile ventaglio delle odierne possibilità terapeutiche offrono infatti nuovi e inediti spazi all’autonomia del paziente, che non può non diventare «collaboratore attivo e responsabile del trattamento terapeutico». Questo punto è cruciale e il Papa lo tratta con particolare lucidità, fissando tre punti sui quali merita portare l’attenzione. In primo luogo, egli sostiene, «bisogna guardare con sospetto qualsiasi tentativo di intromissione dall’esterno in questo delicato rapporto medico-paziente». L’allusione ad una legislazione invasiva, che svuoti la deontologia medica, che stabilisca o imponga procedure medicalmente non giustificate, che attribuisca o al medico o al paziente poteri che loro non competono è un rischio reale, di cui non tutti hanno ancora preso adeguatamente coscienza. In secondo luogo, afferma il Papa, «è innegabile che si debba rispettare l’autodeterminazione del paziente». Questa affermazione apparirà a molti bioeticisti (anche di formazione cattolica) particolarmente pungente: speriamo che essa chiuda una volta tante recenti e gratuite polemiche. Il rispetto per l’autodeterminazione del paziente, insiste però il Papa, e questo è il terzo punto su cui va richiamata la nostra attenzione, non va confuso con una «esaltazione individualistica dell’autonomia», che non può non portare ad una lettura impoverita ed astratta della realtà umana. La bioetica fatta non a partire dalle teorie dei manuali, ma dalla concreta presenza accanto ai letti dei malati, ci insegna infatti che ogni paziente, e in particolare il paziente anziano o terminale, non è un soggetto forte, sereno e determinato, ma un soggetto debole, fragile, facilmente influenzabile, spesso intimorito dalla previsione di quanto potranno essere onerose le cure da somministrargli e la cui prima esigenza è quella di non essere abbandonato. L’assoluto dovere del medico di rispettare l’autodeterminazione del paziente va sempre coniugato con l’altro dovere, per lui parimenti assoluto, di impegnare la sua competenza a favore e non contro la vita. Il tutto a partire da un principio inoppugnabile: in molti casi, e soprattutto nei casi estremi, è solo al medico (e non al paziente!) che è concessa la corretta valutazione della situazione clinica del malato. È facile prevedere che queste parole del Papa deluderanno sia gli astratti fautori di un’autodeterminazione ad oltranza, inevitabilmente destinata a divenire coercitiva nei confronti dei medici, sia gli snobistici fautori di una concezione della medicina come sapere elitario, autoreferenziale, 'non negoziabile'. Si tratta di due posizioni parimenti inaccettabili, perché irriducibili, per diversi motivi, a quell’orizzonte di alleanza terapeutica nel quale dobbiamo calare la medicina contemporanea, se vogliamo salvarla dal rischio di indebite esasperazioni tecnologiche. Il Papa, insomma, ha riportato i dibattiti bioetici dall’etereo cielo delle controversie morali (peraltro inevitabili e affascinanti) al terreno, umile e dolente, delle scelte tragiche che quotidianamente paziente e medici sono chiamati ad elaborare congiuntamente. È un alto insegnamento di bioetica clinica quello che il Papa ha offerto a tutti e in particolare a coloro, come il sottoscritto, che cedono spesso alla tentazione di privilegiare in bioetica approccio filosofici e dottrinali.
La Scrittura come esperienza di Cristo nell'insegnamento di sant'Ambrogio - La parola che si mangia e si beve - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano 21 ottobre 2008
Tutti i padri hanno commentato la Scrittura, fonte immediata della loro predicazione e catechesi e della loro teologia. Come del resto sarà per larga parte nel medioevo, dove la sacra pagina rappresentava il principio e il testo base della lectio scolastica, dal quale si verranno sviluppando le diverse glosse, e quindi le quaestiones e le disputationes.
Ma un tratto particolare contraddistingue la teologia e la spiritualità biblica di sant'Ambrogio, che largamente attinse al metodo di Origene, con la sua distinzione tra la "lettera" e lo "spirito" della Bibbia, tra l'apparenza esteriore e il midollo interiore, ed è la lettura cristologica del libro sacro.
Accostarsi alla Scrittura per il vescovo di Milano non è un puro esercizio di informazione o di cultura, ma una profonda esperienza spirituale, una reale comunione con Gesù Cristo; e, infatti, essa non è tanto una fonte di informazioni sul passato, un repertorio di concetti e di dottrine, ma il luogo di esperienza del Verbo, d'altra parte secondo la persuasione che la Bibbia è tutta attraversata dall'attuale presenza di Gesù, quasi un suo sacramento.
Secondo Ambrogio (De paradiso) il passeggiare di Dio nel paradiso terrestre (Genesi, 3, 8) significa la sua presenza e il suo aleggiare "nel corso degli avvenimenti narrati dalle divine scritture"; ma, ugualmente, nelle medesime Scritture, è presente e aleggia Gesù Cristo. Ambrogio, infatti, commentando il salmo 39, esclama: "Io ti attendevo, Signore Gesù, e tu finalmente sei giunto; nel vangelo hai indirizzato i miei passi, hai infuso nella mia bocca un canto nuovo: il Nuovo Testamento".
Veramente, già prima di giungere nel Nuovo Testamento, Gesù era presente nell'Antico: la Scrittura egli la percorre tutta, non solo perché vi si trova raffigurato, ma perché vi è già realmente anticipato. Egli già agisce e parla nei grandi eventi e nei protagonisti dell'attesa. Nell'Antico Testamento - secondo la lettura che è comune ai padri ma con un tono e un sentimento tutto santambrosiano - è soprattutto Gesù che si riscontra, che viene preveduto ed è motivo della speranza del perdono: Davide "aveva sete del sangue di Cristo (...), aveva sete del sacrificio di Cristo (...), in cui sarebbe avvenuta la remissione dei peccati"; i suoi occhi in pianto prevedevano lui; se i suoi occhi erano sempre volti al Signore, vuol dire che "era sempre sotto lo sguardo di Cristo"; se pianse a lungo è perché rimase a lungo "sotto lo sguardo del Signore", "arbitro del perdono". C'è, tra le opere di sant'Ambrogio, una pagina, che specialmente illustra questa presenza di Gesù Cristo e quindi la possibilità di un vivo contatto con lui nella Scrittura, espresso con l'efficace e concreta immagine del "bere": "Bevi per prima cosa l'Antico Testamento - egli esorta nel commento al 1 salmo - per bere poi anche il Nuovo Testamento (...). Bevi tutt'e due i calici, dell'Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo. Bevi Cristo, che è la vite; bevi Cristo, che è la pietra che ha sprizzato l'acqua. Bevi Cristo, che è la fontana di vita; bevi Cristo, che è il fiume la cui corrente feconda la città di Dio; bevi Cristo, che è la pace; bevi Cristo, che è "il ventre da cui sgorgano vene d'acqua viva": bevi Cristo, per bere il suo discorso. Il suo discorso è l'Antico Testamento, il suo discorso è il Nuovo Testamento. La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora, quando il succo della parola eterna discende nelle vene della mente e nelle energie dell'anima".
Come si vede, dichiarando la presenza di Cristo, quando si proclama la Scrittura, la Sacrosanctum Concilium (7) non fa che recuperare una persuasione antica.
Ma qui possiamo aggiungere un'osservazione: propriamente, non è la Scrittura, come libro, a "sostenere" e a creare la presenza di Gesù Cristo; al contrario, è Gesù Cristo che dà consistenza al libro e lo rende sempre vivo e attuale: l'eterna Parola è lui personalmente; la Bibbia è un suo segno: il "culto" non sarà mai rivolto al libro, bensì a Gesù Cristo, che percorre il libro, destinato a essere la sua ispirata e infallibile mediazione. A ragione ne Le paysan de la Garonne Jacques Maritain condannava la "bibliolatria". Un cristiano, inoltre, è consapevole che essa non è un testo "privato", offerto all'autonoma esegesi del singolo credente, ma un dono affidato da Cristo alla sua Chiesa, dove la Bibbia vive ed è commentata sotto la luce dello Spirito e con la guida di quanti hanno ricevuto il carisma e la missione del magistero.
Senza dubbio, è il singolo fedele che la deve assimilare e lasciarla crescere dentro di sé, quasi conferendole una molteplicità e un incremento di significati, disvelandone, secondo la propria intelligenza e le proprie necessità, gli infiniti e stupendi segreti in essa contenuti, ossia scoprendo tutte le risorse che, di là dalla "lettera", sono nascoste nello "spirito" della Scrittura.
(©L'Osservatore Romano - 20-21 ottobre 2008)
I recenti studi sulla sensibilità del feto umano - I bambini scoprono - il mondo ancora prima di nascere - di Carlo Bellieni - Azienda Ospedaliera Universitaria Senese – L’Osservatore Romano, 21 ottobre 2008
La prestigiosa rivista medica "Metabolism" riporta nel supplemento di ottobre 2008 delle scoperte stupefacenti: i gusti del bambino si formano durante la vita fetale, per effetto di quello che la mamma mangia; gli alimenti materni vengono filtrati nel liquido amniotico in cui è avvolto il feto e che questi succhia e assapora durante la gestazione.
Dopo la nascita il bimbo non farebbe altro che andare a ricercare i sapori sentiti prima di nascere. Non è che un esempio, ma molto chiaro, della luce che gli studi degli ultimi anni hanno gettato sul mondo della vita prenatale.
Ormai sappiamo che il feto è "multisensoriale", cioè percepisce e risponde a stimoli esterni, nonostante l'immaturità del suo sistema nervoso. L'arrivo al feto di questi stimoli è indispensabile per il suo sviluppo, dato che serviranno sia per favorire la crescita di certe popolazioni di neuroni e permettere la scomparsa di altre divenute inutili, sia per abituare il feto alla vita e agli stimoli che lo attendono all'esterno.
Vari studi scientifici sono stati dedicati alla "memoria fetale": nell'ospedale di Port Royal a Parigi esiste, ad esempio, un Centro per lo studio della sensorialità fetale dedicato a queste ricerche.
È stato dimostrato, ad esempio, che il feto sente e ricorda le voci percepite prima di nascere: se si fa ascoltare a un neonato la voce della sua mamma appena dopo la nascita, questi la individua subito tra varie voci, segno di una "conoscenza" prenatale; così se si fa sentire alla nascita l'odore di un vestito della propria mamma, il bambino si comporta differentemente rispetto a quando sente un odore di un'altra donna.
Infatti durante la gravidanza il bimbo succhia e assapora il liquido amniotico nel quale è immerso, che reca traccia delle cose che la mamma assume. Un esempio molto chiaro è il seguente, riportato sulla rivista "Pediatrics" del 2001: a un gruppo di donne incinte venne fatta assumere una dieta molto ricca di carote, e si osservò che, 5-6 mesi dopo, i bambini preferivano essere svezzati con pappe a base di carota rispetto ad altri sapori. Anche noi abbiamo condotto recentemente uno studio sulla memoria prenatale (Biology of the Neonate, 2004) in cui abbiamo rilevato che i figli di ballerine che durante la gravidanza non hanno smesso l'attività di danza, richiedevano nei mesi dopo la nascita di essere cullati più energicamente degli altri per addormentarsi, probabilmente per effetto del "ricordo" degli stimoli prenatali.
Un aspetto particolarmente importante della sensorialità fetale è la sensibilità al dolore. I primi studi in questo campo risalgono agli anni Ottanta, quando lo studioso Sunny Anand iniziò a far cadere i pregiudizi che circondavano non solo il dolore del feto, ma addirittura quello del neonato. Anand fu il primo a descrivere sistematicamente le vie di sensibilità al dolore del bambino prematuro e del feto, mostrando una sostanziale identità tra la fisiologia del bambino nato e quello non nato a parità di distanza dal concepimento. Uno studio successivo fatto all'Imperial College di Londra su feti di età gestazionale compresa tra 19 e 34 settimane mostra chiaramente una risposta del feto al dolore, caratterizzata dall'aumento di quegli ormoni che sono segno di stress e dolore: adrenalina, cortisolo ed endorfine ("Lancet" 1994). La ricercatrice Vivette Glover conclude che "è possibile che qualche esperienza sensoriale di dolore possa iniziare verso le 20 settimane" (Neonatal Pain, 2008).
Una rassegna del "Journal of American Medical Association" mise in dubbio nel 2006 che il feto potesse provare dolore prima del terzo trimestre, ma a essa fece da contraltare una monografia della rivista ufficiale della Associazione internazionale per gli studi sul dolore (Iasp) in cui si spiegava con chiarezza che l'immaturità dei neuroni della corteccia cerebrale non è sufficiente a precludere il dolore fetale, e che "le nostre attuali conoscenze sullo sviluppo mostrano le strutture anatomiche e l'evidenza funzionale della percezione del dolore che si sviluppa nel secondo trimestre, certo non nel primo, ma molto prima del terzo trimestre di gestazione".
È così chiara l'evidenza del dolore fetale che ormai si sta discutendo quali siano i migliori farmaci analgesici per il feto e le migliori vie per somministrarli, come ad esempio fa il belga Van der Velde sulla rivista "Seminars in Fetal and Neonatal Medicine" o il londinese Fisk sulla rivista "Anaesthesiology". Anche una rivista medica prestigiosa come "Archives of Disease in Childhood" pubblicò online nel 2005 le immagini video di un feto che piange per via del rumore che lo ha spaventato.
Ulteriori ricerche mostrano che possiamo sfruttare nell'interesse della salute dei nascituri queste nuove conoscenze sulle capacità fetali di percepire gli stimoli e di rispondere a essi, per trovare nuovi mezzi diagnostici e curativi e per una corretta e consapevole informazione delle donne. Censurare invece la vita e l'umanità del feto è censurare queste possibilità della ricerca scientifica e di un approccio sereno alla gravidanza.
Ovviamente i dibattiti sull'aborto in corso in vari Paesi, che mostrano una problematicità non sopita neanche laddove esso sia legale, devono tener conto di questa evidenza, per non limitarsi a discorsi ideologici che ritengono il feto un'appendice della madre: conoscere la verità è un obbligo per ogni legislatore ed è un diritto di ogni donna. Tutta questa messe di evidenza scientifica mostra infatti i tratti umani del feto e non tenerne conto nelle ultime decisioni sarebbe un'ingiusta censura.
(©L'Osservatore Romano - 20-21 ottobre 2008)