Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e la relazione di San Paolo con il Gesù storico - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
2) Omelia del Papa nella Messa per i 50 anni dalla morte di Pio XII
3) Comincia il conto alla rovescia per uccidere Eluana - I cattolici mobilitati per impedire l’eutanasia
4) Una vita per l’annuncio del Vangelo - ROMA, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di monsignor Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, apparso sul numero di ottobre della rivista “Paulus”.
5) Ebrei testimoniano di essere stati salvati da Pio XII - Tra loro il figlio del rabbino di Genova durante la guerra - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Alcuni ebrei italiani hanno testimoniato davanti alle telecamere di essere stati salvati durante la persecuzione nazista da membri della Chiesa con l'appoggio di Papa Pio XII.
6) 09/10/2008 15:10 – IRAQ - Fondamentalisti islamici: “cacciamo i cristiani da Mosul”
7) Di fronte alla crisi è urgente che il G8 imbocchi una nuova strada - Roberto Fontolan - giovedì 9 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) ELUANA/ Dopo il fallimento dei ricorsi di Camera e Senato la strada è una sola: colmare il vuoto legislativo - Assuntina Morresi - giovedì 9 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) IL DESTINO DI ELUANA E DEGLI ALTRI NELLA TRAPPOLA DI UN TITOLO DI GIORNALE - Mettere fine al loro «inferno» o a quello di chi li assiste? - MARINA CORRADI – Avvenire, 10 ottobre 2008
Benedetto XVI e la relazione di San Paolo con il Gesù storico - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 8 ottobre 2008 (ZENIT.org).-Pubblichiamo il testo della catechesi tenuta da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale del mercoledì svoltasi in piazza San Pietro, dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, continuando il ciclo di catechesi sulla figura di San Paolo, il Papa si è soffermato sul tema "La relazione con il Gesù storico".
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Cari fratelli e sorelle,
nelle ultime catechesi su san Paolo ho parlato del suo incontro con il Cristo risorto, che ha cambiato profondamente la sua vita, e poi della sua relazione con i dodici Apostoli chiamati da Gesù – particolarmente con Giacomo, Cefa e Giovanni – e della sua relazione con la Chiesa di Gerusalemme. Rimane adesso la questione su che cosa san Paolo ha saputo del Gesù terreno, della sua vita, dei suoi insegnamenti, della sua passione. Prima di entrare in questa questione, può essere utile tener presente che san Paolo stesso distingue due modi di conoscere Gesù e più in generale due modi di conoscere una persona. Scrive nella Seconda Lettera ai Corinzi: "Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così" (5,16). Conoscere "secondo la carne", in modo carnale, vuol dire conoscere in modo solo esteriore, con criteri esteriori: si può aver visto una persona diverse volte, conoscerne quindi le fattezze ed i diversi dettagli del comportamento: come parla, come si muove, ecc. Tuttavia, pur conoscendo uno in questo modo, non lo si conosce realmente, non si conosce il nucleo della persona. Solo col cuore si conosce veramente una persona. Di fatto, i farisei e i sadducei hanno conosciuto Gesù in modo esteriore, hanno appreso il suo insegnamento, tanti dettagli su di lui, ma non lo hanno conosciuto nella sua verità. C’è una distinzione analoga in una parola di Gesù. Dopo la Trasfigurazione, egli chiede agli apostoli: "Che cosa dice la gente che io sia?" e "Chi dite voi che io sia?". La gente lo conosce, ma superficialmente; sa diverse cose di lui, ma non lo ha realmente conosciuto. Invece i Dodici, grazie all’amicizia che chiama in causa il cuore, hanno almeno capito nella sostanza e cominciato a conoscere chi è Gesù. Anche oggi esiste questo diverso modo di conoscenza: ci sono persone dotte che conoscono Gesù nei suoi molti dettagli e persone semplici che non hanno conoscenza di questi dettagli, ma lo hanno conosciuto nella sua verità: "il cuore parla al cuore". E Paolo vuol dire essenzialmente di conoscere Gesù così, col cuore, e di conoscere in questo modo essenzialmente la persona nella sua verità; e poi, in un secondo momento, di conoscerne i dettagli.
Detto questo rimane tuttavia la questione: che cosa ha saputo san Paolo della vita concreta, delle parole, della passione, dei miracoli di Gesù? Sembra accertato che non lo abbia incontrato durante la sua vita terrena. Tramite gli Apostoli e la Chiesa nascente ha sicuramente conosciuto anche dettagli sulla vita terrena di Gesù. Nelle sue Lettere possiamo trovare tre forme di riferimento al Gesù pre-pasquale. In primo luogo, ci sono riferimenti espliciti e diretti. Paolo parla della ascendenza davidica di Gesù (cfr Rm 1,3), conosce l'esistenza di suoi "fratelli" o consanguinei (1 Cor 9,5; Gal 1,19), conosce lo svolgimento dell'Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,23), conosce altre parole di Gesù, per esempio circa l'indissolubilità del matrimonio (cfr 1 Cor 7,10 con Mc 10,11-12), circa la necessità che chi annuncia il Vangelo sia mantenuto dalla comunità in quanto l'operaio è degno della sua mercede (cfr 1 Cor 9,14 con Lc 10,7); Paolo conosce le parole pronunciate da Gesù nell’Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,24-25 con Lc 22,19-20) e conosce anche la croce di Gesù. Questi sono riferimenti diretti a parole e fatti della vita di Gesù.
In secondo luogo, possiamo intravedere in alcune frasi delle Lettere paoline varie allusioni alla tradizione attestata nei Vangeli sinottici. Per esempio, le parole che leggiamo nella prima Lettera ai Tessalonicesi, secondo cui "come un ladro di notte così verrà il giorno del Signore" (5,2), non si spiegherebbero con un rimando alle profezie veterotestamentarie, poiché il paragone del ladro notturno si trova solo nel Vangelo di Matteo e di Luca, quindi è preso proprio dalla tradizione sinottica. Così, quando leggiamo che "Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto..." (1 Cor 1,27-28), si sente l'eco fedele dell'insegnamento di Gesù sui semplici e sui poveri (cfr Mt 5,3; 11,25; 19,30). Vi sono poi le parole pronunciate da Gesù nel giubilo messianico: "Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli". Paolo sa - è la sua esperienza missionaria – come siano vere queste parole, che cioè proprio i semplici hanno il cuore aperto alla conoscenza di Gesù. Anche l'accenno all'obbedienza di Gesù "fino alla morte", che si legge in Fil 2,8 non può non richiamare la totale disponibilità del Gesù terreno a compiere la volontà del Padre suo (cfr Mc 3,35; Gv 4,34) Paolo dunque conosce la passione di Gesù, la sua croce, il modo in cui egli ha vissuto i momenti ultimi della sua vita. La croce di Gesù e la tradizione su questo evento della croce sta al centro del Kerygma paolino. Un altro pilastro della vita di Gesù conosciuto da san Paolo è il Discorso della Montagna, del quale cita alcuni elementi quasi alla lettera, quando scrive ai Romani: "Amatevi gli uni gli altri... Benedite coloro che vi perseguitano... Vivete in pace con tutti... Vinci il male con il bene...". Quindi nelle sue Lettere c’è un riflesso fedele del Discorso della Montagna (cfr Mt 5-7).
Infine, è possibile riscontrare un terzo modo di presenza delle parole di Gesù nelle Lettere di Paolo: è quando egli opera una forma di trasposizione della tradizione pre-pasquale alla situazione dopo la Pasqua. Un caso tipico è il tema del Regno di Dio. Esso sta sicuramente al centro della predicazione del Gesù storico (cfr Mt 3,2; Mc 1,15; Lc 4,43). In Paolo si può rilevare una trasposizione di questa tematica, perché dopo la risurrezione è evidente che Gesù in persona, il Risorto, è il Regno di Dio. Il Regno pertanto arriva laddove sta arrivando Gesù. E così necessariamente il tema del Regno di Dio, in cui era anticipato il mistero di Gesù, si trasforma in cristologia. Tuttavia, le stesse disposizioni richieste da Gesù per entrare nel Regno di Dio valgono esattamene per Paolo a proposito della giustificazione mediante la fede: tanto l’ingresso nel Regno quanto la giustificazione richiedono un atteggiamento di grande umiltà e disponibilità, libera da presunzioni, per accogliere la grazia di Dio. Per esempio, la parabola del fariseo e del pubblicano (cfr Lc 18,9-14) impartisce un insegnamento che si trova tale e quale in Paolo, quando insiste sulla doverosa esclusione di ogni vanto nei confronti di Dio. Anche le frasi di Gesù sui pubblicani e le prostitute, più disponibili dei farisei ad accogliere il Vangelo (cfr Mt 21,31; Lc 7,36-50), e le sue scelte di condivisione della mensa con loro (cfr Mt 9,10-13; Lc 15,1-2) trovano pieno riscontro nella dottrina di Paolo sull’amore misericordioso di Dio verso i peccatori (cfr Rm 5,8-10; e anche Ef 2,3-5). Così il tema del Regno di Dio viene riproposto in forma nuova, ma sempre in piena fedeltà alla tradizione del Gesù storico.
Un altro esempio di trasformazione fedele del nucleo dottrinale inteso da Gesù si trova nei "titoli" a lui riferiti. Prima di Pasqua egli stesso si qualifica come Figlio dell'uomo; dopo la Pasqua diventa evidente che il Figlio dell’uomo è anche il Figlio di Dio. Pertanto il titolo preferito da Paolo per qualificare Gesù è Kýrios, "Signore" (cfr Fil 2,9-11), che indica la divinità di Gesù. Il Signore Gesù, con questo titolo, appare nella piena luce della risurrezione. Sul Monte degli Ulivi, nel momento dell’estrema angoscia di Gesù (cfr Mc 14,36), i discepoli prima di addormentarsi avevano udito come egli parlava col Padre e lo chiamava "Abbà – Padre". E’ una parola molto familiare equivalente al nostro "papà", usata solo da bambini in comunione col loro padre. Fino a quel momento era indispensabile che un ebreo usasse una simile parola per rivolgersi a Dio; ma Gesù, essendo vero figlio, in questa ora di intimità parla così e dice: "Abbà, Padre". Nelle Lettere di san Paolo ai Romani e ai Galati sorprendentemente questa parola "Abbà", che esprime l’esclusività della figliolanza di Gesù, appare sulla bocca dei battezzati (cfr Rm 8,15; Gal 4,6), perché hanno ricevuto lo "Spirito del Figlio" e adesso portano in sé tale Spirito e possono parlare come Gesù e con Gesù da veri figli al loro Padre, possono dire "Abbà" perché sono divenuti figli nel Figlio.
E finalmente vorrei accennare alla dimensione salvifica della morte di Gesù, quale noi troviamo nel detto evangelico secondo cui "il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (Mc 10,45; Mt 20,28). Il riflesso fedele di questa parola di Gesù appare nella dottrina paolina sulla morte di Gesù come riscatto (cfr 1 Cor 6,20), come redenzione (cfr Rm 3,24), come liberazione (cfr Gal 5,1) e come riconciliazione (cfr Rm 5,10; 2 Cor 5,18-20). Qui sta il centro della teologia paolina, che si basa su questa parola di Gesù.
In conclusione, san Paolo non pensa a Gesù in veste di storico, come a una persona del passato. Conosce certamente la grande tradizione sulla vita, le parole, la morte e la risurrezione di Gesù, ma non tratta tutto ciò come cosa del passato; lo propone come realtà del Gesù vivo. Le parole e le azioni di Gesù per Paolo non appartengono al tempo storico, al passato. Gesù vive adesso e parla adesso con noi e vive per noi. Questo è il modo vero di conoscere Gesù e di accogliere la tradizione su di lui. Dobbiamo anche noi imparare a conoscere Gesù non secondo la carne, come una persona del passato, ma come il nostro Signore e Fratello, che è oggi con noi e ci mostra come vivere e come morire.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli della diocesi di Savona-Noli, venuti insieme con il loro Pastore, Mons. Vittorio Lupi, e con sacerdoti ed Autorità civili, per ricambiare la visita che ho avuto la gioia di compiere nel maggio scorso, nel ricordo sempre vivo della presenza dell’illustre mio Predecessore Pio VII, a cui la popolazione savonese tributò ripetute testimonianze di affetto. Cari amici, grazie ancora per l’accoglienza che mi avete riservato: vi esorto a proseguire nell’essere generosi testimoni di Cristo.
Rivolgo ora un cordiale pensiero ai partecipanti al pellegrinaggio promosso dalla diocesi di Vigevano e dalle Suore Missionarie dell’Immacolata Regina Pacis, in occasione della beatificazione del sacerdote Francesco Pianzola. Sapiente predicatore, egli seppe rinnovare i cuori con la luce del Vangelo e la forza dell’Eucaristia, dalla quale attinse quell’ardore di carità che lo fece attento specialmente alle necessità dei giovani, divenendo per loro amico, fratello e padre. Cari amici, imitate l’esempio del nuovo Beato e siate anche voi, come lui, segni luminosi della presenza di Cristo, mediante una convinta fedeltà alla Chiesa. Saluto altresì gli alunni delle Scuole materne della Provincia dell’Aquila e li ringrazio per la loro gioiosa e nutrita presenza.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari fratelli e sorelle, il mese di ottobre, dedicato al Santo Rosario, costituisca un’occasione preziosa per valorizzare questa tradizionale preghiera mariana. Vi esorto tutti a recitare il Rosario ogni giorno, abbandonandovi fiduciosi nelle mani di Maria.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Omelia del Papa nella Messa per i 50 anni dalla morte di Pio XII
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere, questo giovedì mattina, nella Basilica di San Pietro, la Santa Messa nel 50° anniversario della morte di Pio XII.
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Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
Il brano del libro del Siracide ed il prologo della Prima Lettera di san Pietro, proclamati come prima e seconda lettura, ci offrono significativi spunti di riflessione in questa celebrazione eucaristica, durante la quale facciamo memoria del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Pio XII. Sono passati esattamente cinquant’anni dalla sua morte, avvenuta nelle prime ore del 9 ottobre 1958. Il Siracide, come abbiamo ascoltato, ha ricordato a quanti intendono seguire il Signore che devono prepararsi ad affrontare prove, difficoltà e sofferenze. Per non soccombere ad esse – egli ammonisce - occorre un cuore retto e costante, occorre fedeltà a Dio e pazienza unite a inflessibile determinazione nel proseguire nella via del bene. La sofferenza affina il cuore del discepolo del Signore, come l’oro viene purificato nella fornace. "Accetta quanto ti capita - scrive l’autore sacro – e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiolo del dolore" (2,4-5).
San Pietro, per parte sua, nella pericope che ci è stata proposta, rivolgendosi ai cristiani delle comunità dell’Asia Minore che erano "afflitti da varie prove", va anche oltre: chiede loro di essere, ciò nonostante, "ricolmi di gioia" (1 Pt 1,6). La prova è infatti necessaria, egli osserva, "affinché il valore della vostra fede, assai più preziosa dell’oro - destinato a perire e tuttavia purificato col fuoco -, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà" (1 Pt 1,7). E poi, per la seconda volta, li esorta ad essere lieti, anzi ad esultare "di gioia indicibile e gloriosa" (v. 8). La ragione profonda di questo gaudio spirituale sta nell’amore per Gesù e nella certezza della sua invisibile presenza. E’ Lui a rendere incrollabile la fede e la speranza dei credenti anche nelle fasi più complicate e dure dell’esistenza.
Alla luce di questi testi biblici possiamo leggere la vicenda terrena di Papa Pacelli e il suo lungo servizio alla Chiesa iniziato nel 1901 sotto Leone XIII, e proseguito con san Pio X, Benedetto XV e Pio XI. Questi testi biblici ci aiutano soprattutto a comprendere quale sia stata la sorgente da cui egli ha attinto coraggio e pazienza nel suo ministero pontificale, svoltosi negli anni travagliati del secondo conflitto mondiale e nel periodo susseguente, non meno complesso, della ricostruzione e dei difficili rapporti internazionali passati alla storia con la qualifica significativa di "guerra fredda".
"Miserere mei Deus, secundum magnam misericordiam tuam": con questa invocazione del Salmo 50/51 Pio XII iniziava il suo testamento. E continuava: "Queste parole, che, conscio di essere immeritevole e impari, pronunciai nel momento in cui diedi, tremando, la mia accettazione alla elezione a Sommo Pontefice, con tanto maggior fondamento le ripeto ora". Mancavano allora due anni alla sua morte. Abbandonarsi nelle mani misericordiose di Dio: fu questo l’atteggiamento che coltivò costantemente questo mio venerato Predecessore, ultimo dei Papi nati a Roma ed appartenente ad una famiglia legata da molti anni alla Santa Sede. In Germania, dove svolse il compito di Nunzio Apostolico, prima a Monaco di Baviera e poi a Berlino sino al 1929, lasciò dietro di sé una grata memoria, soprattutto per aver collaborato con Benedetto XV al tentativo di fermare "l’inutile strage" della Grande Guerra, e per aver colto fin dal suo sorgere il pericolo costituito dalla mostruosa ideologia nazionalsocialista con la sua perniciosa radice antisemita e anticattolica. Creato Cardinale nel dicembre 1929, e divenuto poco dopo Segretario di Stato, per nove anni fu fedele collaboratore di Pio XI, in un’epoca contrassegnata dai totalitarismi: quello fascista, quello nazista e quello comunista sovietico, condannati rispettivamente dalle Encicliche Non abbiamo bisogno, Mit Brennender Sorge e Divini Redemptoris.
"Chi ascolta la mia parola e crede… ha la vita eterna" (Gv 5,24). Questa assicurazione di Gesù, che abbiamo ascoltato nel Vangelo, ci fa pensare ai momenti più duri del pontificato di Pio XII quando, avvertendo il venir meno di ogni umana sicurezza, sentiva forte il bisogno, anche attraverso un costante sforzo ascetico, di aderire a Cristo, unica certezza che non tramonta. La Parola di Dio diventava così luce al suo cammino, un cammino nel quale Papa Pacelli ebbe a consolare sfollati e perseguitati, dovette asciugare lacrime di dolore e piangere le innumerevoli vittime della guerra. Soltanto Cristo è vera speranza dell’uomo; solo fidando in Lui il cuore umano può aprirsi all’amore che vince l’odio. Questa consapevolezza accompagnò Pio XII nel suo ministero di Successore di Pietro, ministero iniziato proprio quando si addensavano sull’Europa e sul resto del mondo le nubi minacciose di un nuovo conflitto mondiale, che egli cercò di evitare in tutti i modi: "Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo. Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra", aveva gridato nel suo radiomessaggio del 24 agosto 1939 (AAS, XXXI, 1939, p. 334).
La guerra mise in evidenza l’amore che nutriva per la sua "diletta Roma", amore testimoniato dall’intensa opera di carità che promosse in difesa dei perseguitati, senza alcuna distinzione di religione, di etnia, di nazionalità, di appartenenza politica. Quando, occupata la città, gli fu ripetutamente consigliato di lasciare il Vaticano per mettersi in salvo, identica e decisa fu sempre la sua risposta: "Non lascerò Roma e il mio posto, anche se dovessi morire" (cfr Summarium, p.186). I familiari ed altri testimoni riferirono inoltre delle privazioni quanto a cibo, riscaldamento, abiti, comodità, a cui si sottopose volontariamente per condividere la condizione della gente duramente provata dai bombardamenti e dalle conseguenze della guerra (cfr A. Tornielli, Pio XII, Un uomo sul trono di Pietro). E come dimenticare il radiomessaggio natalizio del dicembre 1942? Con voce rotta dalla commozione deplorò la situazione delle "centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento" (AAS, XXXV, 1943, p. 23), con un chiaro riferimento alla deportazione e allo sterminio perpetrato contro gli ebrei. Agì spesso in modo segreto e silenzioso proprio perché, alla luce delle concrete situazioni di quel complesso momento storico, egli intuiva che solo in questo modo si poteva evitare il peggio e salvare il più gran numero possibile di ebrei. Per questi suoi interventi, numerosi e unanimi attestati di gratitudine furono a lui rivolti alla fine della guerra, come pure al momento della morte, dalle più alte autorità del mondo ebraico, come ad esempio, dal Ministro degli Esteri d’Israele Golda Meir, che così scrisse: "Quando il martirio più spaventoso ha colpito il nostro popolo, durante i dieci anni del terrore nazista, la voce del Pontefice si è levata a favore delle vittime", concludendo con commozione: "Noi piangiamo la perdita di un grande servitore della pace".
Purtroppo il dibattito storico sulla figura del Servo di Dio Pio XII, non sempre sereno, ha tralasciato di porre in luce tutti gli aspetti del suo poliedrico pontificato. Tantissimi furono i discorsi, le allocuzioni e i messaggi che tenne a scienziati, medici, esponenti delle categorie lavorative più diverse, alcuni dei quali conservano ancora oggi una straordinaria attualità e continuano ad essere punto di riferimento sicuro. Paolo VI, che fu suo fedele collaboratore per molti anni, lo descrisse come un erudito, un attento studioso, aperto alle moderne vie della ricerca e della cultura, con sempre ferma e coerente fedeltà sia ai principi della razionalità umana, sia all’intangibile deposito delle verità della fede. Lo considerava come un precursore del Concilio Vaticano II (cfr Angelus del 10 marzo 1974). In questa prospettiva, molti suoi documenti meriterebbero di essere ricordati, ma mi limito a citarne alcuni. Con l’Enciclica Mystici Corporis, pubblicata il 29 giugno 1943 mentre ancora infuriava la guerra, egli descriveva i rapporti spirituali e visibili che uniscono gli uomini al Verbo incarnato e proponeva di integrare in questa prospettiva tutti i principali temi dell’ecclesiologia, offrendo per la prima volta una sintesi dogmatica e teologica che sarebbe stata la base per la Costituzione dogmatica conciliare Lumen gentium.
Pochi mesi dopo, il 20 settembre 1943, con l’Enciclica Divino afflante Spiritu stabiliva le norme dottrinali per lo studio della Sacra Scrittura, mettendone in rilievo l’importanza e il ruolo nella vita cristiana. Si tratta di un documento che testimonia una grande apertura alla ricerca scientifica sui testi biblici. Come non ricordare quest’Enciclica, mentre sono in svolgimento i lavori del Sinodo che ha come tema proprio "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa"? Si deve all’intuizione profetica di Pio XII l’avvio di un serio studio delle caratteristiche della storiografia antica, per meglio comprendere la natura dei libri sacri, senza indebolirne o negarne il valore storico. L’approfondimento dei "generi letterari", che intendeva comprendere meglio quanto l’autore sacro aveva voluto dire, fino al 1943 era stato visto con qualche sospetto, anche per gli abusi che si erano verificati. L’Enciclica ne riconosceva la giusta applicazione, dichiarandone legittimo l’uso per lo studio non solo dell’Antico Testamento, ma anche del Nuovo. "Oggi poi quest’arte - spiegò il Papa - che suol chiamarsi critica testuale e nelle edizioni degli autori profani s’impiega con grande lode e pari frutto, con pieno diritto si applica ai Sacri Libri appunto per la riverenza dovuta alla parola di Dio". Ed aggiunse: "Scopo di essa infatti è restituire con tutta la possibile precisione il sacro testo al suo primitivo tenore, purgandolo dalle deformazioni introdottevi dalle manchevolezze dei copisti e liberandolo dalle glosse e lacune, dalle trasposizioni di parole, dalle ripetizioni e da simili difetti d’ogni genere, che negli scritti tramandati a mano pei molti secoli usano infiltrarsi" (AAS, XXXV, 1943, p. 336).
La terza Enciclica che vorrei menzionare è la Mediator Dei, dedicata alla liturgia, pubblicata il 20 novembre 1947. Con questo Documento il Servo di Dio dette impulso al movimento liturgico, insistendo sull’"elemento essenziale del culto", che "deve essere quello interno: è necessario, difatti, - egli scrisse - vivere sempre in Cristo, tutto a Lui dedicarsi, affinché in Lui, con Lui e per Lui si dia gloria al Padre. La sacra Liturgia richiede che questi due elementi siano intimamente congiunti… Diversamente, la religione diventa un formalismo senza fondamento e senza contenuto". Non possiamo poi non accennare all’ impulso notevole che questo Pontefice impresse all’attività missionaria della Chiesa con le Encicliche Evangelii praecones (1951) e Fidei donum (1957), ponendo in rilievo il dovere di ogni comunità di annunciare il Vangelo alle genti, come il Concilio Vaticano II farà con coraggioso vigore. L’amore per le missioni, peraltro, Papa Pacelli lo aveva dimostrato sin dall’inizio del pontificato quando nell’ottobre 1939 aveva voluto consacrare personalmente dodici Vescovi di Paesi di missione, tra i quali un indiano, un cinese, un giapponese, il primo Vescovo africano e il primo Vescovo del Madagascar. Una delle sue costanti preoccupazioni pastorali fu infine la promozione del ruolo dei laici, perché la comunità ecclesiale potesse avvalersi di tutte le energie e le risorse disponibili. Anche per questo la Chiesa e il mondo gli sono grati.
Cari fratelli e sorelle, mentre preghiamo perché prosegua felicemente la causa di beatificazione del Servo di Dio Pio XII, è bello ricordare che la santità fu il suo ideale, un ideale che non mancò di proporre a tutti. Per questo dette impulso alle cause di beatificazione e canonizzazione di persone appartenenti a popoli diversi, rappresentanti di tutti gli stati di vita, funzioni e professioni, riservando ampio spazio alle donne. Proprio Maria, la Donna della salvezza, egli additò all’umanità quale segno di sicura speranza proclamando il dogma dell’Assunzione durante l’Anno Santo del 1950. In questo nostro mondo che, come allora, è assillato da preoccupazioni e angosce per il suo avvenire; in questo mondo, dove, forse più di allora, l’allontanamento di molti dalla verità e dalla virtù lascia intravedere scenari privi di speranza, Pio XII ci invita a volgere lo sguardo verso Maria assunta nella gloria celeste. Ci invita ad invocarla fiduciosi, perchè ci faccia apprezzare sempre più il valore della vita sulla terra e ci aiuti a volgere lo sguardo verso la meta vera a cui siamo tutti destinati: quella vita eterna che, come assicura Gesù, possiede già chi ascolta e segue la sua parola. Amen!
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Comincia il conto alla rovescia per uccidere Eluana - I cattolici mobilitati per impedire l’eutanasia
ROMA, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Ha destato preoccupazione e sconcerto la decisione della Consulta che, mercoledì 8 ottobre, ha dichiarato “inammissibili i ricorsi per conflitto di attribuzione sollevati da Senato e Camera”, in merito al caso di Emanuela Englaro.
Questo significa che la Corte di Cassazione, quando si riunirà l’11 novembre prossimo, potrà decidere se dare seguito all’interruzione dell’idratazione e alimentazione di Eluana.
In un comunicato diffuso in serata, l’associazione “Scienza & Vita” parla di “un mercoledì nero per chi ama la vita”, perchè la data dell’11 novembre “è troppo vicina affinché il Parlamento possa legiferare per difendere la vita di Eluana, di tutti colro che si trovano nelle stesse condizioni e di quanti vi si potrebbero trovare”.
Scienza & Vita teme che “dopo la condanna a morte di Eluana per mano di un giudice, e l’offesa portata alla coscienza di quella parte maggioritaria dell’opinione pubblica alla quale ripugna questo esito nefasto, sarà ancor più difficile, per il Parlamento, costruire una legge di autentica tutela della vita umana”.
Il comunicato di Scienza & Vita conclude denunciando quella parte della magistratura italiana “particolarmente aggressiva sui temi della vita e talvolta malata di onnipotenza”.
Nell’esprimere la propria “inquietudine” per quanto sta accadendo, il Movimento per la Vita (MpV) ha annunciato uno studio dal titolo “Eluana: una legge per tutti noi. Perché no al testamento biologico” che verrà diffuso ai giudici della Cassazione ed ai parlamentari.
Carlo Casini, presidente del MpV, ha affermato che “le dolorose nebbie dell’inquietudine devono ora essere risolte facendo irrompere senza riserve la luce della dignità umana, che per definizione non consente di distinguere tra vite umane degne o non degne di vivere, che determina l’assoluta indisponibilità della vita umana, propria o altrui”.
“Una luce – ha continuato – che deve illuminare i magistrati e la società nel suo insieme”.
Casini ha concluso sostenendo che “solo la prospettiva della dignità umana potrà salvare la vita di Eluana attraverso la nuova decisione della Corte di Cassazione. Ma sarà anche preciso compito del Parlamento chiudere gli eccessivi spazi di ambiguità e discrezionalità entro i quali hanno dovuto finora muoversi i giudici”.
Una vita per l’annuncio del Vangelo - ROMA, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di monsignor Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, apparso sul numero di ottobre della rivista “Paulus”.
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Cosa può dire l’apostolo Paolo può dire agli uomini e alle donne di oggi? Gli elementi sono certamente tanti, ma credo che il tutto possa essere sintetizzato in due termini: conversione e apostolato. Prima di tutto Paolo ci dice che incontrare Gesù Cristo è possibile, come è possibile poter parlare con Lui. Come conseguenza di questo, siamo chiamati a cambiare vita. In At 9,17-18 apprendiamo che all’Apostolo, che si trovava davanti ad Anania, uscirono dagli occhi come delle squame. Non sappiamo in cosa consistessero, sappiamo però che, simbolicamente, qualcosa della sua vita era realmente cambiata. La stessa cosa la troviamo descritta in 2Cor 5,16-17: «anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove». L’invito di Paolo a ciascun cristiano è di conoscere Cristo secondo lo spirito: anche per noi oggi vi è la possibilità di un cambiamento nella possibilità di incontrare Gesù di Nazareth il Signore.
Siamo chiamati, dunque, come primo passo a cambiare vita. Ora passiamo al secondo termine, alla seconda dimensione a cui abbiamo fatto riferimento, quella che rende Paolo tanto conosciuto fino ai nostri giorni, cioè l’apostolato. “Apostolo” è una parola greca che significa: “colui che è inviato”. Paolo è un missionario e questo non per un caso. Chi incontra Cristo è portato a diventare un evangelizzatore. Secondo la mia esperienza, sono convinto che per conoscere l’Apostolo dobbiamo leggere innanzitutto la lettera ai Galati. Qui Paolo parla della sua vita, dice in che cosa è consistita questa rivelazione, di cui molto sinteticamente ci ha dato una sua versione (cfr. Gal 1,13-18). In questi versetti scopriamo subito chi era l’Apostolo e vorremmo avere tutti i dettagli su ciò che è accaduto sulla via di Damasco. Nella nostra immaginazione, anche a motivo di tante rappresentazioni pittoriche, ci raffiguriamo Paolo che cade da cavallo... ma né nelle lettere né negli Atti degli Apostoli si menzionano cavalli nei racconti della conversione.
Forse Paolo adoperò un animale da trasporto, ma è molto più probabile che andasse anche a piedi: a quei tempi era comune percorrere circa trenta km al giorno. Paolo, dunque, non si preoccupa di dirci cos’è avvenuto, ma com’è avvenuto; a lui interessa dirci l’essenziale: Dio «si compiacque di rivelare a me suo Figlio». Come questo sia avvenuto appartiene alla dimensione del mistero che ci rimanda al giorno di Pasqua. Quando gli evangelisti lo raccontano, usano lo stesso linguaggio per dire che Gesù “si è fatto vedere”. Non siamo stati noi a vedere Lui, Lui si è fatto vedere a noi. Secondo il linguaggio biblico, questa condizione è diversa: non sono le nostre categorie, ma è Lui che si fa vedere e chiama a entrare nella sua dimensione. Chi è all’interno della visione e della rivelazione non riesce a esprimere nulla. Paolo sperimenta tutta l’incapacità del linguaggio di poter esprimere l’esperienza fatta, e questo può valere anche per ognuno di noi non alle prese con una visione, ma chiamati a cambiare la nostra vita dall’annuncio del vangelo.
Nella stessa lettera ai Galati ci viene descritto anche il carattere di Paolo, un uomo che non conosceva mezze misure e andava là dove era chiamato senza consultare nessuno e senza andare a Gerusalemme da chi aveva conosciuto direttamente il Signore, ma subito andò in Arabia per annunciare il vangelo e poi di nuovo a Damasco e poi così via per tutta la vita. Paolo è il missionario, l’evangelizzatore per eccellenza. Da un calcolo approssimativo delle date possiamo vedere che Paolo incontra Gesù sulla via di Damasco intorno all’anno 33, tre anni dopo la morte di Gesù e, dal 33 fino al 65-67, Paolo è sempre e soltanto in viaggio per annunciare il vangelo. Pensiamo solo ai viaggi di Paolo: 16.500 km! Duemila per il primo viaggio, cinquemila per il secondo, seimila per il terzo, tremilacinquecento da Gerusalemme a Roma.
In 2Cor 11,23-28 Paolo racconta della sua ansia missionaria ed elenca con passione cosa abbia significato annunciare il vangelo nelle molte fatiche, prigionie, percosse, naufragi... ciò che ha vissuto in questi trent’anni di evangelizzazione è tutto vero. Paolo ha dato gli anni più belli della sua vita per annunciare il vangelo di Gesù Cristo fino ad arrivare a Roma, dove l’accoglienza non fu tra le migliori.
Paolo aveva scritto la lettera ai Romani per preparare la sua visita. Ma i Romani erano autonomi: la loro era una bella comunità e non era stata fondata da Paolo, bensì da Pietro. Paolo veniva visto quasi come un intruso. Perché? Perché aveva detto che la legge era una preparazione, ma quello che Gesù aveva portato era l’amore. Avrebbe dovuto rallegrare il cuore di tutti, e invece non era così, perché nei primi tempi sottostare alla legge era ancora una tentazione molto forte.
Paolo, però, con forza, andando fino a Gerusalemme e discutendo con Pietro e con Giacomo, ha voluto far capire che Gesù era arrivato ed era veramente il Messia; per questo la legge di Mosè era completamente superata. Per questo l’Apostolo è stato tanto osteggiato. Alcuni pensavano che bisognava andare adagio senza urtare la mentalità di quelli che si erano convertiti dal giudaismo. Anche noi tante volte facciamo attenzione a come parliamo, nel dire tutta la verità perché qualcuno si può scandalizzare, perché si può essere intolleranti e allora è meglio smussare gli angoli, e magari rinunciare alla nostra identità. Se Paolo sentisse tanti ragionamenti simili che oggi vengono fatti...! La verità è Cristo, dice l’Apostolo, in lui siamo stati battezzati, in lui tutti siamo peccatori come nel primo Adamo, ma nel secondo Adamo, il Cristo, tutti siamo stati salvati, perché Dio ha rinchiuso tutti nel peccato per portare tutti alla salvezza nella morte e nella risurrezione di suo Figlio.
Per concludere possiamo dire che questo richiamo, questo appassionato annunzio dell’amore ha portato a vedere Paolo in alcuni ambienti anche con un certo sospetto. Fino al secondo secolo le lettere di Paolo venivano lette, ma non in tutte le comunità. Si deve arrivare a Ireneo e ad altri discepoli, che incominciano a mettere insieme gli scritti di Paolo e a scoprire la profonda ricchezza presente nel suo insegnamento a cui tutti noi possiamo oggi attingere.
Penso infine agli ultimi momenti della vita di Paolo, a quel 30 giugno di ormai duemila anni fa in cui i protomartiri di Roma morirono a causa di Cristo e della fede. E tra loro c’erano anche Pietro e Paolo. Paolo nell’avvicinarsi a questo momento supremo, scrive una delle pagine più dense e toccanti dei suoi scritti: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6-7). Da questo tutti possiamo comprendere chi è Paolo per noi, cosa ci dice ancora oggi; da questi versetti comprendiamo chi è l’apostolo di oggi: è colui che per tutta la vita annuncia il vangelo e conserva la fede fino alla fine.
Rino Fisichella
Presidente della Pontificia Accademia per la Vita
Ebrei testimoniano di essere stati salvati da Pio XII - Tra loro il figlio del rabbino di Genova durante la guerra - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Alcuni ebrei italiani hanno testimoniato davanti alle telecamere di essere stati salvati durante la persecuzione nazista da membri della Chiesa con l'appoggio di Papa Pio XII.
Tra loro c'è Emanuele Pacifici, figlio di Riccardo, che nella Seconda Guerra Mondiale era rabbino capo di Genova, che assieme ad altri sopravvissuti lo rivela in un reportage video prodotto dal mensile Inside the Vatican e dall'agenzia H2onews.org.
Pacifici, che durante la guerra era un bambino, ricorda il momento in cui i nazisti chiesero alla comunità ebraica di Roma 50 chili d'oro.
"Era impossibile riunire 50 chili d'oro nelle poche ora che avevamo. Senza averne fatto pubblicità con nessuno, la città di Roma collaborò in tutti i modi che poté: con denti d'oro - perché prima si portavano denti d'oro -, con un anello, con quello che avevano... Si raccolsero i 50 chili d'oro", ha ricordato.
"Ma la promessa di sicurezza non si mantenne - ha aggiunto - e gli ebrei si videro obbligati a nascondersi per cercare di scappare da una morte sicura. L'azione del Papa Pio XII fu fondamentale in quei momenti difficili".
Un altro dei sopravvissuti, Settimio Di Porto, ha ricordato: "Avevamo perso i diritti civili. Non potevamo fare nulla. Non avevamo neanche tessere per il razionamento".
"Il 16 ottobre fu una mattinata tremenda. Sto ancora vedendo quella scena. Se li portavano via tutti nei camion, fu una gran razzia, entravano nelle case e si portavano via le famiglie: donne, vecchi, bambini, malati...".
"Qui a Roma aprirono le porte tutti i conventi", ha sottolineato Di Porto.
E Pacifici ha aggiunto: "Il Vaticano era pieno. C'era gente che dormiva anche nei corridoi".
Claudio Della Sera ha ricordato di essere stato salvato dai Fratelli Maristi del Collegio di San Leone Magno.
Per questo motivo nello Yad Vashem, il museo e archivio dell'Olocausto a Gerusalemme, si ricordano alcuni di questi uomini e donne che strapparono alla morte tanti ebrei e li si onora con il titolo di "Giusti tra le Nazioni".
Il giornalista del quotidiano "Il Giornale" Andrea Tornielli sottolinea che "agirono per salvare gli ebrei in un momento in cui non si sapeva quale sarebbe stato l'esito della guerra, e pertanto come un atto totalmente disinteressato".
Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia all'Università del Molise, testimonia che "i documenti dei servizi segreti statunitensi ci dicono anche il motivo per il quale Hitler odiava il Papa: perché stava nascondendo ebrei. Poiché dava ordini ai conventi, ai santuari e nascondendoli nello stesso Vaticano".
Le religiose, ricorda Emanuele Pacifici, cercarono di salvare le donne ebree nascondendole nei conventi.
"I tedeschi entrarono dentro e deportarono da questo convento 33 donne, tra le quali c'era anche mia madre. Capisci? La Madre Superiora, suor Ester Busnelli, venne arrestata perché aveva fatto qualcosa che non doveva fare".
"Bisogna capire il rischio che era... Il rischio che corse Pio XII salvando 8.000 persone", ha concluso.
Il reportage "Pio XII e l'Olocausto" è disponibile su www.h2onews.org
09/10/2008 15:10 – IRAQ - Fondamentalisti islamici: “cacciamo i cristiani da Mosul”
Ieri è stato freddato a colpi di pistola un caldeo di 38 anni, ma le vittime potrebbero essere tre. Per la città girano auto che lanciano slogan contro i cristiani, minacciando altre stragi e violenze. Dal comando Usa la conferma che Mosul è diventata l’ultima roccaforte dei militanti di al Qaeda.
Mosul (AsiaNews) – Jalal Moussa, 38 anni, è l’ultima vittima della campagna di odio lanciata dai fondamentalisti islamici contro i cristiani a Mosul, teatro di un “martirio senza fine” nel silenzio dei media e della comunità internazionale. Jalal, cristiano di rito caldeo, è stato ucciso a colpi di pistola davanti alla sua abitazione nel quartiere di al Noor, lo stesso in cui nel giugno 2007 venne ammazzato P. Ragheed Gani assieme a tre diaconi e dove è stato rapito mons. Paulo Farj Rahho. Il sequestro del vescovo di Mosul alla fine di febbraio si è poi concluso in maniera tragica, due settimane più tardi, con il ritrovamento del cadavere in un terreno abbandonato fuori città.
Fonti di AsiaNews rivelano che “vi potrebbero essere altre due vittime”, ma al momento non si hanno ulteriori dettagli sulla loro identità e sulle modalità con le quali è avvenuto l’agguato.
Non si ferma la striscia di sangue a Mosul: in meno di una settimana sono morte nove persone perché fedeli di religione cristiana. Dalla cittadina della provincia di Ninive arrivano drammatici appelli in cui si chiede “di non far calare il silenzio” sulle continue stragi. “C’è in atto una campagna per far fuggire i cristiani dalla zona – rivela la fonte ad AsiaNews – tanto che ieri una macchina con altoparlante girava per le vie del quartiere di Sukkar, ordinando ai cristiani di andarsene”. “Cristiani via dalla città – urlavano le persone a bordo – altrimenti sarete vittima di altri attacchi”.
La persecuzione contro i cristiani potrebbe nascondere risvolti di carattere politico ed economico, che si intrecciano con l’elemento confessionale alla base delle violenze commesse da parte del mondo islamico fondamentalista e jihadista. Alcune fra le vittime dei giorni scorsi erano proprietari di negozi e attività commerciali a Mosul, chiaro segnale lanciato dai terroristi che mirano ad azzerare le attività economiche dei cristiani, costringendo la popolazione ad andarsene. Ma non si esclude nemmeno un movente politico: secondo alcune testimonianze, prima di sparare i terroristi accusano i cristiani di “voler creare un’enclave a Ninive” e poi procedono con l’esecuzione a sangue freddo. Una conferma della pericolosità della città, nella quale operano bande di terroristi legate ad al Qaeda, arriva anche dal comando militare americano: “Al Qaeda sta cercando di mettere piede in Iraq – rivela il generale Mark Hertling, comandante delle truppe Usa nel nord dell’Iraq – e Mosul è la base operativa che hanno scelto per lanciare i loro attacchi”, infiltrando militanti stranieri dall’Arabia Saudita, dalla Giordania, dallo Yemen e dal Pakistan attraverso il confine con la Siria.
Mosul, del resto, è una delle località escluse dalla tornata elettorale in programma a gennaio e solo in un secondo momento dovrebbe svolgersi un referendum, in cui si dovrà stabilire il destino di tutta la regione, al centro di una lotta fra la comunità curda e la controparte araba. Un fattore non di poco conto, se si considerano gli ingenti quantitativi di petrolio racchiusi nel sottosuolo e in attesa di essere sfruttati; il voto dei cristiani potrebbe risultare decisivo per far pendere l’ago della bilancia da una o dall’altra parte.
Il progetto inerente alla "piana di Ninive" - dove si vorrebbe creare una enclave in cui trovino rifugio i cristiani dell’Iraq - è stato al centro di strumentalizzazioni e polemiche ed è osteggiato dalla maggioranza della Chiesa irachena; l'enclave potrebbe infatti trasformarsi in una sorta di ghetto dove rinchiudere i profughi in fuga da Baghdad, Mosul, Kirkuk e Bassora. Il pericolo è che diventi “un ghetto per cristiani – così mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, definiva il progetto nel giugno del 2007 – e un focolaio di rivolte, scontri e tensioni sociali come avviene oggi in Palestina”. Per questo la Chiesa ha sempre promosso una “convivenza all’insegna della pace e del rispetto reciproco”, fra popolazioni che sono "radicate per storia e tradizione alla patria irachena".
Le violenze delle ultime settimane a Mosul hanno spinto sempre più persone ad abbandonare la città. Secondo stime dei cristiani locali, “ogni settimana più di 20 famiglie decidono di fuggire”. Un esodo che “ha svuotato interi quartieri” dalla presenza cristiana, “nell’indifferenza dei media e dei governi occidentali”.(DS)
Di fronte alla crisi è urgente che il G8 imbocchi una nuova strada - Roberto Fontolan - giovedì 9 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Presto, ci vuole un vertice. Dateci un G8 straordinario, un Summit europeo, un’Assemblea dell’Onu, un Dialogo Nord-Sud, un Forum a Davos, un Colloquio a Dubai, almeno uno straccio di Incontro euro-mediterraneo… Qualcosa che faccia capire che i Grandi si danno da fare per arginare la valanga, che si mettano d’accordo su due o tre punti, o anche uno solo. E’ piuttosto paradossale che nel momento del quasi-disastro ci si voti a un santo che ha l’immaginetta di una tavola rotonda. Se il capitalismo finanziarizzato si sta trasformando in un incubo peggiore di quello di Osama, da dove ci verrà l’aiuto - direbbe il salmista? Da anni non sentiamo che rovesciare anatemi contro gli organismi internazionali. Non senza ragione, e anzi con molte ragioni, ci siamo avventati contro la mostruosa paralisi delle Nazioni Unite, l’esaurimento psico-fisico dell’Unione Europea, la scandalosa burocratizzazione di tutte le agenzie possibili e immaginabili, la semivuota grancassa del G8, persino dell’insensibilità dell’Opec e della inanità dell’Oua. Ora, in che modo congressi e convegni e convocazioni urgenti potrebbero riuscire a fare ciò che non hanno fatto per molti anni? Anche la recente rimpatriata di quattro “piccoli grandi europei” non ha prodotto altro se non “la necessità di rivedersi e di parlare ad una voce sola”? E qualcuno ricorda che solo due settimane fa si è aperta in pompa magna l’Assemblea generale delle Nazioni Unite? Di che si è parlato? Che cosa stanno facendo? Prendiamo il G8. Proprio all’assemblea di New York il presidente francese Sarkozy ha illustrato in un magnifico discorso (come solo i francesi sanno fare) la necessità di dare una svolta alle relazioni tra gli Stati, l’urgenza di una strada nuova. Ha aggiunto che anche il G8, che tempo fa era il G7, è ormai anacronistico, che dovrebbe diventare G14 o G16, inglobando Cina, India, Brasile etc. etc. Una prospettiva che ha riscosso l’entusiasmo del nostro ministro Giulio Tremonti, il quale ne ha scritto sul Corriere della Sera. Ma quale dovrebbe essere il contenuto unificante del nuovo G alla ennesima? Il Pil, la bilancia dei pagamenti, le riserve auree o petrolifere? O forse c’è qualcosa d’altro da mettere sul documento fondativi del nuovo club: trasparenza, diritti, regole democratiche, pluralismo?
Qualche anno fa, sull’onda delle discussioni occidentali seguite all’11 settembre, dall’America era stata posta una questione nuova e finalmente “impolitica” (nel senso del politicamente corretto) e “a-economica”, e cioè per un momento non schiava degli interessi dell’import-export: c’è una differenza sperimentabile tra democrazie reali e altri regimi? I diritti umani e le libertà della società civile dove sono tutelati? Queste differenze hanno un valore misurabile, tracciano dei confini, fanno capire delle dinamiche? Quali conseguenze ne traiamo nella vita degli organismi internazionali? Per qualche tempo un’aria fresca e pungente era circolata nelle capitali, come un tentativo di risveglio dal sonno del mondo “onusiano”, ma poi, quando gli enigmi che avrebbero richiesto tanto lavoro e tanta pazienza sono stato risolti nello slogan “esportiamo la democrazia in Irak”, siamo tornati a sonnecchiare: insofferenti verso la foresta pietrificata degli acronimi planetari e impotenti ad agire per ridarle vita, vita vera. Intanto gli altri, i “regimi” di vario colore e natura, hanno ripreso la marcia per occupare presidenze, comitati ristretti, direzioni esecutive.
Ora, sommersi dalla crisi finanziaria, si pensa a vertici e a nuovi G8. Ma se le democrazie non riprendono a pensare, a se stesse e al loro contenuto, prima ancora (o almeno in contemporanea) che ai mutui, ci baloccheremo con la solita scatola vuota e costosa.
ELUANA/ Dopo il fallimento dei ricorsi di Camera e Senato la strada è una sola: colmare il vuoto legislativo - Assuntina Morresi - giovedì 9 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
I giudici che hanno stabilito che Eluana può essere lasciata morire di fame e di sete non hanno interferito con il parlamento, ma si sono pronunciati come spettava loro: in fin dei conti il caso giudiziario non è ancora concluso, e niente impedisce al parlamento di varare una legge in materia che sia “fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti'.
Questa in buona sostanza la motivazione con cui la Corte Costituzionale ha respinto il ricorso di Camera e Senato, che avevano ipotizzato uno sconfinamento dei giudici della Cassazione nelle competenze del parlamento: con la sentenza dell’ottobre scorso avevano stabilito che ad Eluana possono essere sospese idratazione e alimentazione se il suo stato vegetativo è diagnosticato come irreversibile, e qualora sia accertata, a posteriori, in base a testimonianze e ricostruita dagli “stili di vita”, la sua volontà di non essere sottoposta a nutrimento artificiale.
L’ennesima conferma del fatto che solo una legge in materia – come andiamo ripetendo da mesi – può arginare il crescente potere giudiziario: non c’è altro modo. D’altra parte la sentenza che lascia morire di stenti Eluana non nasce dal nulla, non è il risultato di un’improvvisa e isolata presa di posizione di un manipolo di giudici particolarmente spregiudicato. Ha origine invece da una interpretazione consolidata del consenso informato e dell’articolo 32 della Costituzione, intesi nel senso di una totale autodeterminazione del malato, che arriva fino al diritto a morire.
Questa è l’interpretazione che va corretta, e riportata nei termini di garanzie di tutela del malato nel pieno rispetto delle sue volontà, con una normativa dedicata.
Ieri mattina, inoltre, non è stata accolta la richiesta della Procura di Milano di sospensiva dell’autorizzazione a staccare il sondino con cui Eluana viene alimentata: non c’è nessuna urgenza, hanno stabilito i giudici, e poi il padre si è impegnato a non interrompere alcunché fino alla sentenza definitiva della Cassazione. E’ anche vero che finora Beppino Englaro non è riuscito a trovare dove far morire di fame e di sete sua figlia: nessuna struttura si è dichiarata disponibile a rendere esecutiva la sentenza, in Lombardia e altrove, e d’altra parte i giudici non hanno obbligato il padre a staccare il sondino a sua figlia, ne hanno solamente dato l’autorizzazione.
Intanto nei giorni scorsi alla Commissione Igiene e Sanità del Senato è iniziata la discussione sulle proposte di legge presentate fino ad ora. La rapidità con cui la maggioranza parlamentare si è dichiarata disposta ad una legge sul fine vita, grazie anche ad una chiara posizione di gran parte del mondo cattolico –favorevole ad una normativa in proposito solo dopo la sentenza Englaro – ha letteralmente spiazzato l’opposizione, che fino alla fine non ha dato credito alla reale volontà della maggioranza di legiferare a riguardo.
Fermo restando che, per essere efficace e non permettere più nuovi casi Englaro la legge dovrà entrare nel merito delle dichiarazioni anticipate, e non limitarsi a vietare espressamente l’eutanasia, fin da ora sono chiari i punti critici del confronto: idratazione ed alimentazione artificiale e obbligatorietà o meno per il medico di seguire le indicazioni del paziente.
Che la nutrizione artificiale sia un sostegno vitale, e non una terapia medica (e che quindi non può essere inclusa nelle dichiarazioni anticipate), e che le dichiarazioni anticipate non siano vincolanti per il medico, ma solo delle indicazioni di cui tenere conto: queste le due condizioni necessarie alla futura normativa per evitare nuovi casi Englaro.
IL DESTINO DI ELUANA E DEGLI ALTRI NELLA TRAPPOLA DI UN TITOLO DI GIORNALE - Mettere fine al loro «inferno» o a quello di chi li assiste? - MARINA CORRADI – Avvenire, 10 ottobre 2008
L a Corte di Appello di Milano non si è pronunciata: si è scelto di attendere il giudizio della Cassazione, fissato per l’11 novembre. Beppe Englaro si è impegnato a non sospendere intanto l’alimentazione della figlia Eluana, strada che d’altra parte la Regione Lombardia gli aveva per suo conto precluso.
Ma nel giorno in cui i giudici milanesi si fermano, il padre di Eluana rilascia un’intervista. Titolo: «Mia figlia deve morire, così finirà il mio inferno». Un titolo forzato, una infelice sintesi giornalistica?
Nel testo quell’espressione, fra virgolette, non c’è. C’è però ampiamente il senso di sedici anni di sofferenza, poi aggravati dalla malattia della moglie. Il senso di un «non esserci più giorno né notte», di ogni equilibrio saltato. «Non c’è più Natale, Pasqua né Ferragosto per noi. Non ci sono più compleanni, né anniversari da festeggiare. La nostra vita è un inferno». E il pensiero, oltre che a lui, va alle suore che hanno concretamente in consegna Eluana, e la curano da anni. L’assillo costante, dice Englaro, «è dar voce al patto che c’era fra Eluana e me. Devo liberare mia figlia». E chi legge non può non confrontarsi con la sofferenza di quest’uomo, dentro a un tunnel che non finisce: tra la malattia della moglie e quella figlia 'addormentata', Englaro sembra incalzato, tallonato dal dolore e dalla morte. «Un inferno», dice, la sua vita. Ed è sicuro che questo «inferno» finirà, quando «libererà» la figlia.
Ma nell’intervista si affaccia evidente un equivoco certo non voluto, forse solo giornalistico. Il padre sembra chiedere la sospensione dell’alimentazione della figlia per «liberare» non lei, ma se stesso, da una situazione che non può tollerare. Dal suo «inferno» di padre accanto a una ragazza incosciente da 16 anni. Reazione umana, in cui facilmente ci si può immedesimare – e infatti molti si immedesimano, dicendo: farei anche io lo stesso. L’equivoco radicale però è che tutta la battaglia attorno a Eluana involontariamente si svela, in quelle parole stampate, come battaglia per sé, per ricominciare a vivere, per «tornare ad essere uno qualunque». Ma per questo, occorre che i riflettori si spengano. E che la figlia dunque venga lasciata morire – nessuna “spina” da staccare (espressione che lui non ama), ma solo le sonde del nutrimento e dell’acqua: finché l’organismo non ceda.
Con tutta la pena che la vicenda Englaro suscita, davanti a certe parole bisogna però privilegiare la ragione, piuttosto che un pericoloso emozionismo. Perché è ben diverso rivendicare una libertà di essere lasciati morire, dal chiedere quella libertà per un altro, perché in realtà a non farcela più è la persona che assiste. È evidente come un principio simile avrebbe esiti drammatici su una popolazione di dementi, disabili, vecchi non autosufficienti, le cui famiglie vivono quotidiane fatiche e anche calvari, e non tutte con il sostegno di un ospedale in cui il familiare viene assistito notte e giorno.
Così nel momento in cui continuiamo a dirci sinceramente solidali con le sofferenze del signor Englaro, sentiamo il dovere di lealmente annotare, a margine di quel titolo scritto a caratteri cubitali, che se il movente vero della battaglia attorno a Eluana non fosse quello continuamente ripetuto della morte data in ossequio alla presunta quanto controversa determinazione del paziente, ma l’intollerabilità, per chi assiste, di malattie che prolungano la invalidità e la incoscienza per anni, allora la prospettiva vera di questo scontro diverrebbe fatalmente un’altra. Nel nome della libera scelta, a venir liberate in realtà sarebbero le persone sulle cui spalle il malato pesa. Il che segnerebbe una profondissima differenza.
Certo, tutti tendiamo a immedesimarci nell’angoscia che assistere certi malati comporta. Forse è per questo che tanti sembrano appoggiare la battaglia di Beppe Englaro, e tremano all’idea di subire un simile destino. Ma allora la domanda è: questa battaglia è nell’interesse dei malati, o dei sani? (Però, dobbiamo aggiungerlo, abbiamo conosciuto mogli di uomini in stato vegetativo da anni che lo vanno a trovare in ospedale e dicono: è vivo, io gli parlo ogni sera. L’inferno, a volte, è anche una condizione interiore).
1) Benedetto XVI e la relazione di San Paolo con il Gesù storico - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
2) Omelia del Papa nella Messa per i 50 anni dalla morte di Pio XII
3) Comincia il conto alla rovescia per uccidere Eluana - I cattolici mobilitati per impedire l’eutanasia
4) Una vita per l’annuncio del Vangelo - ROMA, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di monsignor Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, apparso sul numero di ottobre della rivista “Paulus”.
5) Ebrei testimoniano di essere stati salvati da Pio XII - Tra loro il figlio del rabbino di Genova durante la guerra - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Alcuni ebrei italiani hanno testimoniato davanti alle telecamere di essere stati salvati durante la persecuzione nazista da membri della Chiesa con l'appoggio di Papa Pio XII.
6) 09/10/2008 15:10 – IRAQ - Fondamentalisti islamici: “cacciamo i cristiani da Mosul”
7) Di fronte alla crisi è urgente che il G8 imbocchi una nuova strada - Roberto Fontolan - giovedì 9 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
8) ELUANA/ Dopo il fallimento dei ricorsi di Camera e Senato la strada è una sola: colmare il vuoto legislativo - Assuntina Morresi - giovedì 9 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
9) IL DESTINO DI ELUANA E DEGLI ALTRI NELLA TRAPPOLA DI UN TITOLO DI GIORNALE - Mettere fine al loro «inferno» o a quello di chi li assiste? - MARINA CORRADI – Avvenire, 10 ottobre 2008
Benedetto XVI e la relazione di San Paolo con il Gesù storico - Catechesi all'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 8 ottobre 2008 (ZENIT.org).-Pubblichiamo il testo della catechesi tenuta da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale del mercoledì svoltasi in piazza San Pietro, dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, continuando il ciclo di catechesi sulla figura di San Paolo, il Papa si è soffermato sul tema "La relazione con il Gesù storico".
* * *
Cari fratelli e sorelle,
nelle ultime catechesi su san Paolo ho parlato del suo incontro con il Cristo risorto, che ha cambiato profondamente la sua vita, e poi della sua relazione con i dodici Apostoli chiamati da Gesù – particolarmente con Giacomo, Cefa e Giovanni – e della sua relazione con la Chiesa di Gerusalemme. Rimane adesso la questione su che cosa san Paolo ha saputo del Gesù terreno, della sua vita, dei suoi insegnamenti, della sua passione. Prima di entrare in questa questione, può essere utile tener presente che san Paolo stesso distingue due modi di conoscere Gesù e più in generale due modi di conoscere una persona. Scrive nella Seconda Lettera ai Corinzi: "Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così" (5,16). Conoscere "secondo la carne", in modo carnale, vuol dire conoscere in modo solo esteriore, con criteri esteriori: si può aver visto una persona diverse volte, conoscerne quindi le fattezze ed i diversi dettagli del comportamento: come parla, come si muove, ecc. Tuttavia, pur conoscendo uno in questo modo, non lo si conosce realmente, non si conosce il nucleo della persona. Solo col cuore si conosce veramente una persona. Di fatto, i farisei e i sadducei hanno conosciuto Gesù in modo esteriore, hanno appreso il suo insegnamento, tanti dettagli su di lui, ma non lo hanno conosciuto nella sua verità. C’è una distinzione analoga in una parola di Gesù. Dopo la Trasfigurazione, egli chiede agli apostoli: "Che cosa dice la gente che io sia?" e "Chi dite voi che io sia?". La gente lo conosce, ma superficialmente; sa diverse cose di lui, ma non lo ha realmente conosciuto. Invece i Dodici, grazie all’amicizia che chiama in causa il cuore, hanno almeno capito nella sostanza e cominciato a conoscere chi è Gesù. Anche oggi esiste questo diverso modo di conoscenza: ci sono persone dotte che conoscono Gesù nei suoi molti dettagli e persone semplici che non hanno conoscenza di questi dettagli, ma lo hanno conosciuto nella sua verità: "il cuore parla al cuore". E Paolo vuol dire essenzialmente di conoscere Gesù così, col cuore, e di conoscere in questo modo essenzialmente la persona nella sua verità; e poi, in un secondo momento, di conoscerne i dettagli.
Detto questo rimane tuttavia la questione: che cosa ha saputo san Paolo della vita concreta, delle parole, della passione, dei miracoli di Gesù? Sembra accertato che non lo abbia incontrato durante la sua vita terrena. Tramite gli Apostoli e la Chiesa nascente ha sicuramente conosciuto anche dettagli sulla vita terrena di Gesù. Nelle sue Lettere possiamo trovare tre forme di riferimento al Gesù pre-pasquale. In primo luogo, ci sono riferimenti espliciti e diretti. Paolo parla della ascendenza davidica di Gesù (cfr Rm 1,3), conosce l'esistenza di suoi "fratelli" o consanguinei (1 Cor 9,5; Gal 1,19), conosce lo svolgimento dell'Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,23), conosce altre parole di Gesù, per esempio circa l'indissolubilità del matrimonio (cfr 1 Cor 7,10 con Mc 10,11-12), circa la necessità che chi annuncia il Vangelo sia mantenuto dalla comunità in quanto l'operaio è degno della sua mercede (cfr 1 Cor 9,14 con Lc 10,7); Paolo conosce le parole pronunciate da Gesù nell’Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,24-25 con Lc 22,19-20) e conosce anche la croce di Gesù. Questi sono riferimenti diretti a parole e fatti della vita di Gesù.
In secondo luogo, possiamo intravedere in alcune frasi delle Lettere paoline varie allusioni alla tradizione attestata nei Vangeli sinottici. Per esempio, le parole che leggiamo nella prima Lettera ai Tessalonicesi, secondo cui "come un ladro di notte così verrà il giorno del Signore" (5,2), non si spiegherebbero con un rimando alle profezie veterotestamentarie, poiché il paragone del ladro notturno si trova solo nel Vangelo di Matteo e di Luca, quindi è preso proprio dalla tradizione sinottica. Così, quando leggiamo che "Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto..." (1 Cor 1,27-28), si sente l'eco fedele dell'insegnamento di Gesù sui semplici e sui poveri (cfr Mt 5,3; 11,25; 19,30). Vi sono poi le parole pronunciate da Gesù nel giubilo messianico: "Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli". Paolo sa - è la sua esperienza missionaria – come siano vere queste parole, che cioè proprio i semplici hanno il cuore aperto alla conoscenza di Gesù. Anche l'accenno all'obbedienza di Gesù "fino alla morte", che si legge in Fil 2,8 non può non richiamare la totale disponibilità del Gesù terreno a compiere la volontà del Padre suo (cfr Mc 3,35; Gv 4,34) Paolo dunque conosce la passione di Gesù, la sua croce, il modo in cui egli ha vissuto i momenti ultimi della sua vita. La croce di Gesù e la tradizione su questo evento della croce sta al centro del Kerygma paolino. Un altro pilastro della vita di Gesù conosciuto da san Paolo è il Discorso della Montagna, del quale cita alcuni elementi quasi alla lettera, quando scrive ai Romani: "Amatevi gli uni gli altri... Benedite coloro che vi perseguitano... Vivete in pace con tutti... Vinci il male con il bene...". Quindi nelle sue Lettere c’è un riflesso fedele del Discorso della Montagna (cfr Mt 5-7).
Infine, è possibile riscontrare un terzo modo di presenza delle parole di Gesù nelle Lettere di Paolo: è quando egli opera una forma di trasposizione della tradizione pre-pasquale alla situazione dopo la Pasqua. Un caso tipico è il tema del Regno di Dio. Esso sta sicuramente al centro della predicazione del Gesù storico (cfr Mt 3,2; Mc 1,15; Lc 4,43). In Paolo si può rilevare una trasposizione di questa tematica, perché dopo la risurrezione è evidente che Gesù in persona, il Risorto, è il Regno di Dio. Il Regno pertanto arriva laddove sta arrivando Gesù. E così necessariamente il tema del Regno di Dio, in cui era anticipato il mistero di Gesù, si trasforma in cristologia. Tuttavia, le stesse disposizioni richieste da Gesù per entrare nel Regno di Dio valgono esattamene per Paolo a proposito della giustificazione mediante la fede: tanto l’ingresso nel Regno quanto la giustificazione richiedono un atteggiamento di grande umiltà e disponibilità, libera da presunzioni, per accogliere la grazia di Dio. Per esempio, la parabola del fariseo e del pubblicano (cfr Lc 18,9-14) impartisce un insegnamento che si trova tale e quale in Paolo, quando insiste sulla doverosa esclusione di ogni vanto nei confronti di Dio. Anche le frasi di Gesù sui pubblicani e le prostitute, più disponibili dei farisei ad accogliere il Vangelo (cfr Mt 21,31; Lc 7,36-50), e le sue scelte di condivisione della mensa con loro (cfr Mt 9,10-13; Lc 15,1-2) trovano pieno riscontro nella dottrina di Paolo sull’amore misericordioso di Dio verso i peccatori (cfr Rm 5,8-10; e anche Ef 2,3-5). Così il tema del Regno di Dio viene riproposto in forma nuova, ma sempre in piena fedeltà alla tradizione del Gesù storico.
Un altro esempio di trasformazione fedele del nucleo dottrinale inteso da Gesù si trova nei "titoli" a lui riferiti. Prima di Pasqua egli stesso si qualifica come Figlio dell'uomo; dopo la Pasqua diventa evidente che il Figlio dell’uomo è anche il Figlio di Dio. Pertanto il titolo preferito da Paolo per qualificare Gesù è Kýrios, "Signore" (cfr Fil 2,9-11), che indica la divinità di Gesù. Il Signore Gesù, con questo titolo, appare nella piena luce della risurrezione. Sul Monte degli Ulivi, nel momento dell’estrema angoscia di Gesù (cfr Mc 14,36), i discepoli prima di addormentarsi avevano udito come egli parlava col Padre e lo chiamava "Abbà – Padre". E’ una parola molto familiare equivalente al nostro "papà", usata solo da bambini in comunione col loro padre. Fino a quel momento era indispensabile che un ebreo usasse una simile parola per rivolgersi a Dio; ma Gesù, essendo vero figlio, in questa ora di intimità parla così e dice: "Abbà, Padre". Nelle Lettere di san Paolo ai Romani e ai Galati sorprendentemente questa parola "Abbà", che esprime l’esclusività della figliolanza di Gesù, appare sulla bocca dei battezzati (cfr Rm 8,15; Gal 4,6), perché hanno ricevuto lo "Spirito del Figlio" e adesso portano in sé tale Spirito e possono parlare come Gesù e con Gesù da veri figli al loro Padre, possono dire "Abbà" perché sono divenuti figli nel Figlio.
E finalmente vorrei accennare alla dimensione salvifica della morte di Gesù, quale noi troviamo nel detto evangelico secondo cui "il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (Mc 10,45; Mt 20,28). Il riflesso fedele di questa parola di Gesù appare nella dottrina paolina sulla morte di Gesù come riscatto (cfr 1 Cor 6,20), come redenzione (cfr Rm 3,24), come liberazione (cfr Gal 5,1) e come riconciliazione (cfr Rm 5,10; 2 Cor 5,18-20). Qui sta il centro della teologia paolina, che si basa su questa parola di Gesù.
In conclusione, san Paolo non pensa a Gesù in veste di storico, come a una persona del passato. Conosce certamente la grande tradizione sulla vita, le parole, la morte e la risurrezione di Gesù, ma non tratta tutto ciò come cosa del passato; lo propone come realtà del Gesù vivo. Le parole e le azioni di Gesù per Paolo non appartengono al tempo storico, al passato. Gesù vive adesso e parla adesso con noi e vive per noi. Questo è il modo vero di conoscere Gesù e di accogliere la tradizione su di lui. Dobbiamo anche noi imparare a conoscere Gesù non secondo la carne, come una persona del passato, ma come il nostro Signore e Fratello, che è oggi con noi e ci mostra come vivere e come morire.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli della diocesi di Savona-Noli, venuti insieme con il loro Pastore, Mons. Vittorio Lupi, e con sacerdoti ed Autorità civili, per ricambiare la visita che ho avuto la gioia di compiere nel maggio scorso, nel ricordo sempre vivo della presenza dell’illustre mio Predecessore Pio VII, a cui la popolazione savonese tributò ripetute testimonianze di affetto. Cari amici, grazie ancora per l’accoglienza che mi avete riservato: vi esorto a proseguire nell’essere generosi testimoni di Cristo.
Rivolgo ora un cordiale pensiero ai partecipanti al pellegrinaggio promosso dalla diocesi di Vigevano e dalle Suore Missionarie dell’Immacolata Regina Pacis, in occasione della beatificazione del sacerdote Francesco Pianzola. Sapiente predicatore, egli seppe rinnovare i cuori con la luce del Vangelo e la forza dell’Eucaristia, dalla quale attinse quell’ardore di carità che lo fece attento specialmente alle necessità dei giovani, divenendo per loro amico, fratello e padre. Cari amici, imitate l’esempio del nuovo Beato e siate anche voi, come lui, segni luminosi della presenza di Cristo, mediante una convinta fedeltà alla Chiesa. Saluto altresì gli alunni delle Scuole materne della Provincia dell’Aquila e li ringrazio per la loro gioiosa e nutrita presenza.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari fratelli e sorelle, il mese di ottobre, dedicato al Santo Rosario, costituisca un’occasione preziosa per valorizzare questa tradizionale preghiera mariana. Vi esorto tutti a recitare il Rosario ogni giorno, abbandonandovi fiduciosi nelle mani di Maria.
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Omelia del Papa nella Messa per i 50 anni dalla morte di Pio XII
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere, questo giovedì mattina, nella Basilica di San Pietro, la Santa Messa nel 50° anniversario della morte di Pio XII.
* * *
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
Il brano del libro del Siracide ed il prologo della Prima Lettera di san Pietro, proclamati come prima e seconda lettura, ci offrono significativi spunti di riflessione in questa celebrazione eucaristica, durante la quale facciamo memoria del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Pio XII. Sono passati esattamente cinquant’anni dalla sua morte, avvenuta nelle prime ore del 9 ottobre 1958. Il Siracide, come abbiamo ascoltato, ha ricordato a quanti intendono seguire il Signore che devono prepararsi ad affrontare prove, difficoltà e sofferenze. Per non soccombere ad esse – egli ammonisce - occorre un cuore retto e costante, occorre fedeltà a Dio e pazienza unite a inflessibile determinazione nel proseguire nella via del bene. La sofferenza affina il cuore del discepolo del Signore, come l’oro viene purificato nella fornace. "Accetta quanto ti capita - scrive l’autore sacro – e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiolo del dolore" (2,4-5).
San Pietro, per parte sua, nella pericope che ci è stata proposta, rivolgendosi ai cristiani delle comunità dell’Asia Minore che erano "afflitti da varie prove", va anche oltre: chiede loro di essere, ciò nonostante, "ricolmi di gioia" (1 Pt 1,6). La prova è infatti necessaria, egli osserva, "affinché il valore della vostra fede, assai più preziosa dell’oro - destinato a perire e tuttavia purificato col fuoco -, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà" (1 Pt 1,7). E poi, per la seconda volta, li esorta ad essere lieti, anzi ad esultare "di gioia indicibile e gloriosa" (v. 8). La ragione profonda di questo gaudio spirituale sta nell’amore per Gesù e nella certezza della sua invisibile presenza. E’ Lui a rendere incrollabile la fede e la speranza dei credenti anche nelle fasi più complicate e dure dell’esistenza.
Alla luce di questi testi biblici possiamo leggere la vicenda terrena di Papa Pacelli e il suo lungo servizio alla Chiesa iniziato nel 1901 sotto Leone XIII, e proseguito con san Pio X, Benedetto XV e Pio XI. Questi testi biblici ci aiutano soprattutto a comprendere quale sia stata la sorgente da cui egli ha attinto coraggio e pazienza nel suo ministero pontificale, svoltosi negli anni travagliati del secondo conflitto mondiale e nel periodo susseguente, non meno complesso, della ricostruzione e dei difficili rapporti internazionali passati alla storia con la qualifica significativa di "guerra fredda".
"Miserere mei Deus, secundum magnam misericordiam tuam": con questa invocazione del Salmo 50/51 Pio XII iniziava il suo testamento. E continuava: "Queste parole, che, conscio di essere immeritevole e impari, pronunciai nel momento in cui diedi, tremando, la mia accettazione alla elezione a Sommo Pontefice, con tanto maggior fondamento le ripeto ora". Mancavano allora due anni alla sua morte. Abbandonarsi nelle mani misericordiose di Dio: fu questo l’atteggiamento che coltivò costantemente questo mio venerato Predecessore, ultimo dei Papi nati a Roma ed appartenente ad una famiglia legata da molti anni alla Santa Sede. In Germania, dove svolse il compito di Nunzio Apostolico, prima a Monaco di Baviera e poi a Berlino sino al 1929, lasciò dietro di sé una grata memoria, soprattutto per aver collaborato con Benedetto XV al tentativo di fermare "l’inutile strage" della Grande Guerra, e per aver colto fin dal suo sorgere il pericolo costituito dalla mostruosa ideologia nazionalsocialista con la sua perniciosa radice antisemita e anticattolica. Creato Cardinale nel dicembre 1929, e divenuto poco dopo Segretario di Stato, per nove anni fu fedele collaboratore di Pio XI, in un’epoca contrassegnata dai totalitarismi: quello fascista, quello nazista e quello comunista sovietico, condannati rispettivamente dalle Encicliche Non abbiamo bisogno, Mit Brennender Sorge e Divini Redemptoris.
"Chi ascolta la mia parola e crede… ha la vita eterna" (Gv 5,24). Questa assicurazione di Gesù, che abbiamo ascoltato nel Vangelo, ci fa pensare ai momenti più duri del pontificato di Pio XII quando, avvertendo il venir meno di ogni umana sicurezza, sentiva forte il bisogno, anche attraverso un costante sforzo ascetico, di aderire a Cristo, unica certezza che non tramonta. La Parola di Dio diventava così luce al suo cammino, un cammino nel quale Papa Pacelli ebbe a consolare sfollati e perseguitati, dovette asciugare lacrime di dolore e piangere le innumerevoli vittime della guerra. Soltanto Cristo è vera speranza dell’uomo; solo fidando in Lui il cuore umano può aprirsi all’amore che vince l’odio. Questa consapevolezza accompagnò Pio XII nel suo ministero di Successore di Pietro, ministero iniziato proprio quando si addensavano sull’Europa e sul resto del mondo le nubi minacciose di un nuovo conflitto mondiale, che egli cercò di evitare in tutti i modi: "Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo. Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra", aveva gridato nel suo radiomessaggio del 24 agosto 1939 (AAS, XXXI, 1939, p. 334).
La guerra mise in evidenza l’amore che nutriva per la sua "diletta Roma", amore testimoniato dall’intensa opera di carità che promosse in difesa dei perseguitati, senza alcuna distinzione di religione, di etnia, di nazionalità, di appartenenza politica. Quando, occupata la città, gli fu ripetutamente consigliato di lasciare il Vaticano per mettersi in salvo, identica e decisa fu sempre la sua risposta: "Non lascerò Roma e il mio posto, anche se dovessi morire" (cfr Summarium, p.186). I familiari ed altri testimoni riferirono inoltre delle privazioni quanto a cibo, riscaldamento, abiti, comodità, a cui si sottopose volontariamente per condividere la condizione della gente duramente provata dai bombardamenti e dalle conseguenze della guerra (cfr A. Tornielli, Pio XII, Un uomo sul trono di Pietro). E come dimenticare il radiomessaggio natalizio del dicembre 1942? Con voce rotta dalla commozione deplorò la situazione delle "centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento" (AAS, XXXV, 1943, p. 23), con un chiaro riferimento alla deportazione e allo sterminio perpetrato contro gli ebrei. Agì spesso in modo segreto e silenzioso proprio perché, alla luce delle concrete situazioni di quel complesso momento storico, egli intuiva che solo in questo modo si poteva evitare il peggio e salvare il più gran numero possibile di ebrei. Per questi suoi interventi, numerosi e unanimi attestati di gratitudine furono a lui rivolti alla fine della guerra, come pure al momento della morte, dalle più alte autorità del mondo ebraico, come ad esempio, dal Ministro degli Esteri d’Israele Golda Meir, che così scrisse: "Quando il martirio più spaventoso ha colpito il nostro popolo, durante i dieci anni del terrore nazista, la voce del Pontefice si è levata a favore delle vittime", concludendo con commozione: "Noi piangiamo la perdita di un grande servitore della pace".
Purtroppo il dibattito storico sulla figura del Servo di Dio Pio XII, non sempre sereno, ha tralasciato di porre in luce tutti gli aspetti del suo poliedrico pontificato. Tantissimi furono i discorsi, le allocuzioni e i messaggi che tenne a scienziati, medici, esponenti delle categorie lavorative più diverse, alcuni dei quali conservano ancora oggi una straordinaria attualità e continuano ad essere punto di riferimento sicuro. Paolo VI, che fu suo fedele collaboratore per molti anni, lo descrisse come un erudito, un attento studioso, aperto alle moderne vie della ricerca e della cultura, con sempre ferma e coerente fedeltà sia ai principi della razionalità umana, sia all’intangibile deposito delle verità della fede. Lo considerava come un precursore del Concilio Vaticano II (cfr Angelus del 10 marzo 1974). In questa prospettiva, molti suoi documenti meriterebbero di essere ricordati, ma mi limito a citarne alcuni. Con l’Enciclica Mystici Corporis, pubblicata il 29 giugno 1943 mentre ancora infuriava la guerra, egli descriveva i rapporti spirituali e visibili che uniscono gli uomini al Verbo incarnato e proponeva di integrare in questa prospettiva tutti i principali temi dell’ecclesiologia, offrendo per la prima volta una sintesi dogmatica e teologica che sarebbe stata la base per la Costituzione dogmatica conciliare Lumen gentium.
Pochi mesi dopo, il 20 settembre 1943, con l’Enciclica Divino afflante Spiritu stabiliva le norme dottrinali per lo studio della Sacra Scrittura, mettendone in rilievo l’importanza e il ruolo nella vita cristiana. Si tratta di un documento che testimonia una grande apertura alla ricerca scientifica sui testi biblici. Come non ricordare quest’Enciclica, mentre sono in svolgimento i lavori del Sinodo che ha come tema proprio "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa"? Si deve all’intuizione profetica di Pio XII l’avvio di un serio studio delle caratteristiche della storiografia antica, per meglio comprendere la natura dei libri sacri, senza indebolirne o negarne il valore storico. L’approfondimento dei "generi letterari", che intendeva comprendere meglio quanto l’autore sacro aveva voluto dire, fino al 1943 era stato visto con qualche sospetto, anche per gli abusi che si erano verificati. L’Enciclica ne riconosceva la giusta applicazione, dichiarandone legittimo l’uso per lo studio non solo dell’Antico Testamento, ma anche del Nuovo. "Oggi poi quest’arte - spiegò il Papa - che suol chiamarsi critica testuale e nelle edizioni degli autori profani s’impiega con grande lode e pari frutto, con pieno diritto si applica ai Sacri Libri appunto per la riverenza dovuta alla parola di Dio". Ed aggiunse: "Scopo di essa infatti è restituire con tutta la possibile precisione il sacro testo al suo primitivo tenore, purgandolo dalle deformazioni introdottevi dalle manchevolezze dei copisti e liberandolo dalle glosse e lacune, dalle trasposizioni di parole, dalle ripetizioni e da simili difetti d’ogni genere, che negli scritti tramandati a mano pei molti secoli usano infiltrarsi" (AAS, XXXV, 1943, p. 336).
La terza Enciclica che vorrei menzionare è la Mediator Dei, dedicata alla liturgia, pubblicata il 20 novembre 1947. Con questo Documento il Servo di Dio dette impulso al movimento liturgico, insistendo sull’"elemento essenziale del culto", che "deve essere quello interno: è necessario, difatti, - egli scrisse - vivere sempre in Cristo, tutto a Lui dedicarsi, affinché in Lui, con Lui e per Lui si dia gloria al Padre. La sacra Liturgia richiede che questi due elementi siano intimamente congiunti… Diversamente, la religione diventa un formalismo senza fondamento e senza contenuto". Non possiamo poi non accennare all’ impulso notevole che questo Pontefice impresse all’attività missionaria della Chiesa con le Encicliche Evangelii praecones (1951) e Fidei donum (1957), ponendo in rilievo il dovere di ogni comunità di annunciare il Vangelo alle genti, come il Concilio Vaticano II farà con coraggioso vigore. L’amore per le missioni, peraltro, Papa Pacelli lo aveva dimostrato sin dall’inizio del pontificato quando nell’ottobre 1939 aveva voluto consacrare personalmente dodici Vescovi di Paesi di missione, tra i quali un indiano, un cinese, un giapponese, il primo Vescovo africano e il primo Vescovo del Madagascar. Una delle sue costanti preoccupazioni pastorali fu infine la promozione del ruolo dei laici, perché la comunità ecclesiale potesse avvalersi di tutte le energie e le risorse disponibili. Anche per questo la Chiesa e il mondo gli sono grati.
Cari fratelli e sorelle, mentre preghiamo perché prosegua felicemente la causa di beatificazione del Servo di Dio Pio XII, è bello ricordare che la santità fu il suo ideale, un ideale che non mancò di proporre a tutti. Per questo dette impulso alle cause di beatificazione e canonizzazione di persone appartenenti a popoli diversi, rappresentanti di tutti gli stati di vita, funzioni e professioni, riservando ampio spazio alle donne. Proprio Maria, la Donna della salvezza, egli additò all’umanità quale segno di sicura speranza proclamando il dogma dell’Assunzione durante l’Anno Santo del 1950. In questo nostro mondo che, come allora, è assillato da preoccupazioni e angosce per il suo avvenire; in questo mondo, dove, forse più di allora, l’allontanamento di molti dalla verità e dalla virtù lascia intravedere scenari privi di speranza, Pio XII ci invita a volgere lo sguardo verso Maria assunta nella gloria celeste. Ci invita ad invocarla fiduciosi, perchè ci faccia apprezzare sempre più il valore della vita sulla terra e ci aiuti a volgere lo sguardo verso la meta vera a cui siamo tutti destinati: quella vita eterna che, come assicura Gesù, possiede già chi ascolta e segue la sua parola. Amen!
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Comincia il conto alla rovescia per uccidere Eluana - I cattolici mobilitati per impedire l’eutanasia
ROMA, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Ha destato preoccupazione e sconcerto la decisione della Consulta che, mercoledì 8 ottobre, ha dichiarato “inammissibili i ricorsi per conflitto di attribuzione sollevati da Senato e Camera”, in merito al caso di Emanuela Englaro.
Questo significa che la Corte di Cassazione, quando si riunirà l’11 novembre prossimo, potrà decidere se dare seguito all’interruzione dell’idratazione e alimentazione di Eluana.
In un comunicato diffuso in serata, l’associazione “Scienza & Vita” parla di “un mercoledì nero per chi ama la vita”, perchè la data dell’11 novembre “è troppo vicina affinché il Parlamento possa legiferare per difendere la vita di Eluana, di tutti colro che si trovano nelle stesse condizioni e di quanti vi si potrebbero trovare”.
Scienza & Vita teme che “dopo la condanna a morte di Eluana per mano di un giudice, e l’offesa portata alla coscienza di quella parte maggioritaria dell’opinione pubblica alla quale ripugna questo esito nefasto, sarà ancor più difficile, per il Parlamento, costruire una legge di autentica tutela della vita umana”.
Il comunicato di Scienza & Vita conclude denunciando quella parte della magistratura italiana “particolarmente aggressiva sui temi della vita e talvolta malata di onnipotenza”.
Nell’esprimere la propria “inquietudine” per quanto sta accadendo, il Movimento per la Vita (MpV) ha annunciato uno studio dal titolo “Eluana: una legge per tutti noi. Perché no al testamento biologico” che verrà diffuso ai giudici della Cassazione ed ai parlamentari.
Carlo Casini, presidente del MpV, ha affermato che “le dolorose nebbie dell’inquietudine devono ora essere risolte facendo irrompere senza riserve la luce della dignità umana, che per definizione non consente di distinguere tra vite umane degne o non degne di vivere, che determina l’assoluta indisponibilità della vita umana, propria o altrui”.
“Una luce – ha continuato – che deve illuminare i magistrati e la società nel suo insieme”.
Casini ha concluso sostenendo che “solo la prospettiva della dignità umana potrà salvare la vita di Eluana attraverso la nuova decisione della Corte di Cassazione. Ma sarà anche preciso compito del Parlamento chiudere gli eccessivi spazi di ambiguità e discrezionalità entro i quali hanno dovuto finora muoversi i giudici”.
Una vita per l’annuncio del Vangelo - ROMA, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di monsignor Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, apparso sul numero di ottobre della rivista “Paulus”.
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Cosa può dire l’apostolo Paolo può dire agli uomini e alle donne di oggi? Gli elementi sono certamente tanti, ma credo che il tutto possa essere sintetizzato in due termini: conversione e apostolato. Prima di tutto Paolo ci dice che incontrare Gesù Cristo è possibile, come è possibile poter parlare con Lui. Come conseguenza di questo, siamo chiamati a cambiare vita. In At 9,17-18 apprendiamo che all’Apostolo, che si trovava davanti ad Anania, uscirono dagli occhi come delle squame. Non sappiamo in cosa consistessero, sappiamo però che, simbolicamente, qualcosa della sua vita era realmente cambiata. La stessa cosa la troviamo descritta in 2Cor 5,16-17: «anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove». L’invito di Paolo a ciascun cristiano è di conoscere Cristo secondo lo spirito: anche per noi oggi vi è la possibilità di un cambiamento nella possibilità di incontrare Gesù di Nazareth il Signore.
Siamo chiamati, dunque, come primo passo a cambiare vita. Ora passiamo al secondo termine, alla seconda dimensione a cui abbiamo fatto riferimento, quella che rende Paolo tanto conosciuto fino ai nostri giorni, cioè l’apostolato. “Apostolo” è una parola greca che significa: “colui che è inviato”. Paolo è un missionario e questo non per un caso. Chi incontra Cristo è portato a diventare un evangelizzatore. Secondo la mia esperienza, sono convinto che per conoscere l’Apostolo dobbiamo leggere innanzitutto la lettera ai Galati. Qui Paolo parla della sua vita, dice in che cosa è consistita questa rivelazione, di cui molto sinteticamente ci ha dato una sua versione (cfr. Gal 1,13-18). In questi versetti scopriamo subito chi era l’Apostolo e vorremmo avere tutti i dettagli su ciò che è accaduto sulla via di Damasco. Nella nostra immaginazione, anche a motivo di tante rappresentazioni pittoriche, ci raffiguriamo Paolo che cade da cavallo... ma né nelle lettere né negli Atti degli Apostoli si menzionano cavalli nei racconti della conversione.
Forse Paolo adoperò un animale da trasporto, ma è molto più probabile che andasse anche a piedi: a quei tempi era comune percorrere circa trenta km al giorno. Paolo, dunque, non si preoccupa di dirci cos’è avvenuto, ma com’è avvenuto; a lui interessa dirci l’essenziale: Dio «si compiacque di rivelare a me suo Figlio». Come questo sia avvenuto appartiene alla dimensione del mistero che ci rimanda al giorno di Pasqua. Quando gli evangelisti lo raccontano, usano lo stesso linguaggio per dire che Gesù “si è fatto vedere”. Non siamo stati noi a vedere Lui, Lui si è fatto vedere a noi. Secondo il linguaggio biblico, questa condizione è diversa: non sono le nostre categorie, ma è Lui che si fa vedere e chiama a entrare nella sua dimensione. Chi è all’interno della visione e della rivelazione non riesce a esprimere nulla. Paolo sperimenta tutta l’incapacità del linguaggio di poter esprimere l’esperienza fatta, e questo può valere anche per ognuno di noi non alle prese con una visione, ma chiamati a cambiare la nostra vita dall’annuncio del vangelo.
Nella stessa lettera ai Galati ci viene descritto anche il carattere di Paolo, un uomo che non conosceva mezze misure e andava là dove era chiamato senza consultare nessuno e senza andare a Gerusalemme da chi aveva conosciuto direttamente il Signore, ma subito andò in Arabia per annunciare il vangelo e poi di nuovo a Damasco e poi così via per tutta la vita. Paolo è il missionario, l’evangelizzatore per eccellenza. Da un calcolo approssimativo delle date possiamo vedere che Paolo incontra Gesù sulla via di Damasco intorno all’anno 33, tre anni dopo la morte di Gesù e, dal 33 fino al 65-67, Paolo è sempre e soltanto in viaggio per annunciare il vangelo. Pensiamo solo ai viaggi di Paolo: 16.500 km! Duemila per il primo viaggio, cinquemila per il secondo, seimila per il terzo, tremilacinquecento da Gerusalemme a Roma.
In 2Cor 11,23-28 Paolo racconta della sua ansia missionaria ed elenca con passione cosa abbia significato annunciare il vangelo nelle molte fatiche, prigionie, percosse, naufragi... ciò che ha vissuto in questi trent’anni di evangelizzazione è tutto vero. Paolo ha dato gli anni più belli della sua vita per annunciare il vangelo di Gesù Cristo fino ad arrivare a Roma, dove l’accoglienza non fu tra le migliori.
Paolo aveva scritto la lettera ai Romani per preparare la sua visita. Ma i Romani erano autonomi: la loro era una bella comunità e non era stata fondata da Paolo, bensì da Pietro. Paolo veniva visto quasi come un intruso. Perché? Perché aveva detto che la legge era una preparazione, ma quello che Gesù aveva portato era l’amore. Avrebbe dovuto rallegrare il cuore di tutti, e invece non era così, perché nei primi tempi sottostare alla legge era ancora una tentazione molto forte.
Paolo, però, con forza, andando fino a Gerusalemme e discutendo con Pietro e con Giacomo, ha voluto far capire che Gesù era arrivato ed era veramente il Messia; per questo la legge di Mosè era completamente superata. Per questo l’Apostolo è stato tanto osteggiato. Alcuni pensavano che bisognava andare adagio senza urtare la mentalità di quelli che si erano convertiti dal giudaismo. Anche noi tante volte facciamo attenzione a come parliamo, nel dire tutta la verità perché qualcuno si può scandalizzare, perché si può essere intolleranti e allora è meglio smussare gli angoli, e magari rinunciare alla nostra identità. Se Paolo sentisse tanti ragionamenti simili che oggi vengono fatti...! La verità è Cristo, dice l’Apostolo, in lui siamo stati battezzati, in lui tutti siamo peccatori come nel primo Adamo, ma nel secondo Adamo, il Cristo, tutti siamo stati salvati, perché Dio ha rinchiuso tutti nel peccato per portare tutti alla salvezza nella morte e nella risurrezione di suo Figlio.
Per concludere possiamo dire che questo richiamo, questo appassionato annunzio dell’amore ha portato a vedere Paolo in alcuni ambienti anche con un certo sospetto. Fino al secondo secolo le lettere di Paolo venivano lette, ma non in tutte le comunità. Si deve arrivare a Ireneo e ad altri discepoli, che incominciano a mettere insieme gli scritti di Paolo e a scoprire la profonda ricchezza presente nel suo insegnamento a cui tutti noi possiamo oggi attingere.
Penso infine agli ultimi momenti della vita di Paolo, a quel 30 giugno di ormai duemila anni fa in cui i protomartiri di Roma morirono a causa di Cristo e della fede. E tra loro c’erano anche Pietro e Paolo. Paolo nell’avvicinarsi a questo momento supremo, scrive una delle pagine più dense e toccanti dei suoi scritti: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6-7). Da questo tutti possiamo comprendere chi è Paolo per noi, cosa ci dice ancora oggi; da questi versetti comprendiamo chi è l’apostolo di oggi: è colui che per tutta la vita annuncia il vangelo e conserva la fede fino alla fine.
Rino Fisichella
Presidente della Pontificia Accademia per la Vita
Ebrei testimoniano di essere stati salvati da Pio XII - Tra loro il figlio del rabbino di Genova durante la guerra - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Alcuni ebrei italiani hanno testimoniato davanti alle telecamere di essere stati salvati durante la persecuzione nazista da membri della Chiesa con l'appoggio di Papa Pio XII.
Tra loro c'è Emanuele Pacifici, figlio di Riccardo, che nella Seconda Guerra Mondiale era rabbino capo di Genova, che assieme ad altri sopravvissuti lo rivela in un reportage video prodotto dal mensile Inside the Vatican e dall'agenzia H2onews.org.
Pacifici, che durante la guerra era un bambino, ricorda il momento in cui i nazisti chiesero alla comunità ebraica di Roma 50 chili d'oro.
"Era impossibile riunire 50 chili d'oro nelle poche ora che avevamo. Senza averne fatto pubblicità con nessuno, la città di Roma collaborò in tutti i modi che poté: con denti d'oro - perché prima si portavano denti d'oro -, con un anello, con quello che avevano... Si raccolsero i 50 chili d'oro", ha ricordato.
"Ma la promessa di sicurezza non si mantenne - ha aggiunto - e gli ebrei si videro obbligati a nascondersi per cercare di scappare da una morte sicura. L'azione del Papa Pio XII fu fondamentale in quei momenti difficili".
Un altro dei sopravvissuti, Settimio Di Porto, ha ricordato: "Avevamo perso i diritti civili. Non potevamo fare nulla. Non avevamo neanche tessere per il razionamento".
"Il 16 ottobre fu una mattinata tremenda. Sto ancora vedendo quella scena. Se li portavano via tutti nei camion, fu una gran razzia, entravano nelle case e si portavano via le famiglie: donne, vecchi, bambini, malati...".
"Qui a Roma aprirono le porte tutti i conventi", ha sottolineato Di Porto.
E Pacifici ha aggiunto: "Il Vaticano era pieno. C'era gente che dormiva anche nei corridoi".
Claudio Della Sera ha ricordato di essere stato salvato dai Fratelli Maristi del Collegio di San Leone Magno.
Per questo motivo nello Yad Vashem, il museo e archivio dell'Olocausto a Gerusalemme, si ricordano alcuni di questi uomini e donne che strapparono alla morte tanti ebrei e li si onora con il titolo di "Giusti tra le Nazioni".
Il giornalista del quotidiano "Il Giornale" Andrea Tornielli sottolinea che "agirono per salvare gli ebrei in un momento in cui non si sapeva quale sarebbe stato l'esito della guerra, e pertanto come un atto totalmente disinteressato".
Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia all'Università del Molise, testimonia che "i documenti dei servizi segreti statunitensi ci dicono anche il motivo per il quale Hitler odiava il Papa: perché stava nascondendo ebrei. Poiché dava ordini ai conventi, ai santuari e nascondendoli nello stesso Vaticano".
Le religiose, ricorda Emanuele Pacifici, cercarono di salvare le donne ebree nascondendole nei conventi.
"I tedeschi entrarono dentro e deportarono da questo convento 33 donne, tra le quali c'era anche mia madre. Capisci? La Madre Superiora, suor Ester Busnelli, venne arrestata perché aveva fatto qualcosa che non doveva fare".
"Bisogna capire il rischio che era... Il rischio che corse Pio XII salvando 8.000 persone", ha concluso.
Il reportage "Pio XII e l'Olocausto" è disponibile su www.h2onews.org
09/10/2008 15:10 – IRAQ - Fondamentalisti islamici: “cacciamo i cristiani da Mosul”
Ieri è stato freddato a colpi di pistola un caldeo di 38 anni, ma le vittime potrebbero essere tre. Per la città girano auto che lanciano slogan contro i cristiani, minacciando altre stragi e violenze. Dal comando Usa la conferma che Mosul è diventata l’ultima roccaforte dei militanti di al Qaeda.
Mosul (AsiaNews) – Jalal Moussa, 38 anni, è l’ultima vittima della campagna di odio lanciata dai fondamentalisti islamici contro i cristiani a Mosul, teatro di un “martirio senza fine” nel silenzio dei media e della comunità internazionale. Jalal, cristiano di rito caldeo, è stato ucciso a colpi di pistola davanti alla sua abitazione nel quartiere di al Noor, lo stesso in cui nel giugno 2007 venne ammazzato P. Ragheed Gani assieme a tre diaconi e dove è stato rapito mons. Paulo Farj Rahho. Il sequestro del vescovo di Mosul alla fine di febbraio si è poi concluso in maniera tragica, due settimane più tardi, con il ritrovamento del cadavere in un terreno abbandonato fuori città.
Fonti di AsiaNews rivelano che “vi potrebbero essere altre due vittime”, ma al momento non si hanno ulteriori dettagli sulla loro identità e sulle modalità con le quali è avvenuto l’agguato.
Non si ferma la striscia di sangue a Mosul: in meno di una settimana sono morte nove persone perché fedeli di religione cristiana. Dalla cittadina della provincia di Ninive arrivano drammatici appelli in cui si chiede “di non far calare il silenzio” sulle continue stragi. “C’è in atto una campagna per far fuggire i cristiani dalla zona – rivela la fonte ad AsiaNews – tanto che ieri una macchina con altoparlante girava per le vie del quartiere di Sukkar, ordinando ai cristiani di andarsene”. “Cristiani via dalla città – urlavano le persone a bordo – altrimenti sarete vittima di altri attacchi”.
La persecuzione contro i cristiani potrebbe nascondere risvolti di carattere politico ed economico, che si intrecciano con l’elemento confessionale alla base delle violenze commesse da parte del mondo islamico fondamentalista e jihadista. Alcune fra le vittime dei giorni scorsi erano proprietari di negozi e attività commerciali a Mosul, chiaro segnale lanciato dai terroristi che mirano ad azzerare le attività economiche dei cristiani, costringendo la popolazione ad andarsene. Ma non si esclude nemmeno un movente politico: secondo alcune testimonianze, prima di sparare i terroristi accusano i cristiani di “voler creare un’enclave a Ninive” e poi procedono con l’esecuzione a sangue freddo. Una conferma della pericolosità della città, nella quale operano bande di terroristi legate ad al Qaeda, arriva anche dal comando militare americano: “Al Qaeda sta cercando di mettere piede in Iraq – rivela il generale Mark Hertling, comandante delle truppe Usa nel nord dell’Iraq – e Mosul è la base operativa che hanno scelto per lanciare i loro attacchi”, infiltrando militanti stranieri dall’Arabia Saudita, dalla Giordania, dallo Yemen e dal Pakistan attraverso il confine con la Siria.
Mosul, del resto, è una delle località escluse dalla tornata elettorale in programma a gennaio e solo in un secondo momento dovrebbe svolgersi un referendum, in cui si dovrà stabilire il destino di tutta la regione, al centro di una lotta fra la comunità curda e la controparte araba. Un fattore non di poco conto, se si considerano gli ingenti quantitativi di petrolio racchiusi nel sottosuolo e in attesa di essere sfruttati; il voto dei cristiani potrebbe risultare decisivo per far pendere l’ago della bilancia da una o dall’altra parte.
Il progetto inerente alla "piana di Ninive" - dove si vorrebbe creare una enclave in cui trovino rifugio i cristiani dell’Iraq - è stato al centro di strumentalizzazioni e polemiche ed è osteggiato dalla maggioranza della Chiesa irachena; l'enclave potrebbe infatti trasformarsi in una sorta di ghetto dove rinchiudere i profughi in fuga da Baghdad, Mosul, Kirkuk e Bassora. Il pericolo è che diventi “un ghetto per cristiani – così mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, definiva il progetto nel giugno del 2007 – e un focolaio di rivolte, scontri e tensioni sociali come avviene oggi in Palestina”. Per questo la Chiesa ha sempre promosso una “convivenza all’insegna della pace e del rispetto reciproco”, fra popolazioni che sono "radicate per storia e tradizione alla patria irachena".
Le violenze delle ultime settimane a Mosul hanno spinto sempre più persone ad abbandonare la città. Secondo stime dei cristiani locali, “ogni settimana più di 20 famiglie decidono di fuggire”. Un esodo che “ha svuotato interi quartieri” dalla presenza cristiana, “nell’indifferenza dei media e dei governi occidentali”.(DS)
Di fronte alla crisi è urgente che il G8 imbocchi una nuova strada - Roberto Fontolan - giovedì 9 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
Presto, ci vuole un vertice. Dateci un G8 straordinario, un Summit europeo, un’Assemblea dell’Onu, un Dialogo Nord-Sud, un Forum a Davos, un Colloquio a Dubai, almeno uno straccio di Incontro euro-mediterraneo… Qualcosa che faccia capire che i Grandi si danno da fare per arginare la valanga, che si mettano d’accordo su due o tre punti, o anche uno solo. E’ piuttosto paradossale che nel momento del quasi-disastro ci si voti a un santo che ha l’immaginetta di una tavola rotonda. Se il capitalismo finanziarizzato si sta trasformando in un incubo peggiore di quello di Osama, da dove ci verrà l’aiuto - direbbe il salmista? Da anni non sentiamo che rovesciare anatemi contro gli organismi internazionali. Non senza ragione, e anzi con molte ragioni, ci siamo avventati contro la mostruosa paralisi delle Nazioni Unite, l’esaurimento psico-fisico dell’Unione Europea, la scandalosa burocratizzazione di tutte le agenzie possibili e immaginabili, la semivuota grancassa del G8, persino dell’insensibilità dell’Opec e della inanità dell’Oua. Ora, in che modo congressi e convegni e convocazioni urgenti potrebbero riuscire a fare ciò che non hanno fatto per molti anni? Anche la recente rimpatriata di quattro “piccoli grandi europei” non ha prodotto altro se non “la necessità di rivedersi e di parlare ad una voce sola”? E qualcuno ricorda che solo due settimane fa si è aperta in pompa magna l’Assemblea generale delle Nazioni Unite? Di che si è parlato? Che cosa stanno facendo? Prendiamo il G8. Proprio all’assemblea di New York il presidente francese Sarkozy ha illustrato in un magnifico discorso (come solo i francesi sanno fare) la necessità di dare una svolta alle relazioni tra gli Stati, l’urgenza di una strada nuova. Ha aggiunto che anche il G8, che tempo fa era il G7, è ormai anacronistico, che dovrebbe diventare G14 o G16, inglobando Cina, India, Brasile etc. etc. Una prospettiva che ha riscosso l’entusiasmo del nostro ministro Giulio Tremonti, il quale ne ha scritto sul Corriere della Sera. Ma quale dovrebbe essere il contenuto unificante del nuovo G alla ennesima? Il Pil, la bilancia dei pagamenti, le riserve auree o petrolifere? O forse c’è qualcosa d’altro da mettere sul documento fondativi del nuovo club: trasparenza, diritti, regole democratiche, pluralismo?
Qualche anno fa, sull’onda delle discussioni occidentali seguite all’11 settembre, dall’America era stata posta una questione nuova e finalmente “impolitica” (nel senso del politicamente corretto) e “a-economica”, e cioè per un momento non schiava degli interessi dell’import-export: c’è una differenza sperimentabile tra democrazie reali e altri regimi? I diritti umani e le libertà della società civile dove sono tutelati? Queste differenze hanno un valore misurabile, tracciano dei confini, fanno capire delle dinamiche? Quali conseguenze ne traiamo nella vita degli organismi internazionali? Per qualche tempo un’aria fresca e pungente era circolata nelle capitali, come un tentativo di risveglio dal sonno del mondo “onusiano”, ma poi, quando gli enigmi che avrebbero richiesto tanto lavoro e tanta pazienza sono stato risolti nello slogan “esportiamo la democrazia in Irak”, siamo tornati a sonnecchiare: insofferenti verso la foresta pietrificata degli acronimi planetari e impotenti ad agire per ridarle vita, vita vera. Intanto gli altri, i “regimi” di vario colore e natura, hanno ripreso la marcia per occupare presidenze, comitati ristretti, direzioni esecutive.
Ora, sommersi dalla crisi finanziaria, si pensa a vertici e a nuovi G8. Ma se le democrazie non riprendono a pensare, a se stesse e al loro contenuto, prima ancora (o almeno in contemporanea) che ai mutui, ci baloccheremo con la solita scatola vuota e costosa.
ELUANA/ Dopo il fallimento dei ricorsi di Camera e Senato la strada è una sola: colmare il vuoto legislativo - Assuntina Morresi - giovedì 9 ottobre 2008 – IlSussidiario.net
I giudici che hanno stabilito che Eluana può essere lasciata morire di fame e di sete non hanno interferito con il parlamento, ma si sono pronunciati come spettava loro: in fin dei conti il caso giudiziario non è ancora concluso, e niente impedisce al parlamento di varare una legge in materia che sia “fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti'.
Questa in buona sostanza la motivazione con cui la Corte Costituzionale ha respinto il ricorso di Camera e Senato, che avevano ipotizzato uno sconfinamento dei giudici della Cassazione nelle competenze del parlamento: con la sentenza dell’ottobre scorso avevano stabilito che ad Eluana possono essere sospese idratazione e alimentazione se il suo stato vegetativo è diagnosticato come irreversibile, e qualora sia accertata, a posteriori, in base a testimonianze e ricostruita dagli “stili di vita”, la sua volontà di non essere sottoposta a nutrimento artificiale.
L’ennesima conferma del fatto che solo una legge in materia – come andiamo ripetendo da mesi – può arginare il crescente potere giudiziario: non c’è altro modo. D’altra parte la sentenza che lascia morire di stenti Eluana non nasce dal nulla, non è il risultato di un’improvvisa e isolata presa di posizione di un manipolo di giudici particolarmente spregiudicato. Ha origine invece da una interpretazione consolidata del consenso informato e dell’articolo 32 della Costituzione, intesi nel senso di una totale autodeterminazione del malato, che arriva fino al diritto a morire.
Questa è l’interpretazione che va corretta, e riportata nei termini di garanzie di tutela del malato nel pieno rispetto delle sue volontà, con una normativa dedicata.
Ieri mattina, inoltre, non è stata accolta la richiesta della Procura di Milano di sospensiva dell’autorizzazione a staccare il sondino con cui Eluana viene alimentata: non c’è nessuna urgenza, hanno stabilito i giudici, e poi il padre si è impegnato a non interrompere alcunché fino alla sentenza definitiva della Cassazione. E’ anche vero che finora Beppino Englaro non è riuscito a trovare dove far morire di fame e di sete sua figlia: nessuna struttura si è dichiarata disponibile a rendere esecutiva la sentenza, in Lombardia e altrove, e d’altra parte i giudici non hanno obbligato il padre a staccare il sondino a sua figlia, ne hanno solamente dato l’autorizzazione.
Intanto nei giorni scorsi alla Commissione Igiene e Sanità del Senato è iniziata la discussione sulle proposte di legge presentate fino ad ora. La rapidità con cui la maggioranza parlamentare si è dichiarata disposta ad una legge sul fine vita, grazie anche ad una chiara posizione di gran parte del mondo cattolico –favorevole ad una normativa in proposito solo dopo la sentenza Englaro – ha letteralmente spiazzato l’opposizione, che fino alla fine non ha dato credito alla reale volontà della maggioranza di legiferare a riguardo.
Fermo restando che, per essere efficace e non permettere più nuovi casi Englaro la legge dovrà entrare nel merito delle dichiarazioni anticipate, e non limitarsi a vietare espressamente l’eutanasia, fin da ora sono chiari i punti critici del confronto: idratazione ed alimentazione artificiale e obbligatorietà o meno per il medico di seguire le indicazioni del paziente.
Che la nutrizione artificiale sia un sostegno vitale, e non una terapia medica (e che quindi non può essere inclusa nelle dichiarazioni anticipate), e che le dichiarazioni anticipate non siano vincolanti per il medico, ma solo delle indicazioni di cui tenere conto: queste le due condizioni necessarie alla futura normativa per evitare nuovi casi Englaro.
IL DESTINO DI ELUANA E DEGLI ALTRI NELLA TRAPPOLA DI UN TITOLO DI GIORNALE - Mettere fine al loro «inferno» o a quello di chi li assiste? - MARINA CORRADI – Avvenire, 10 ottobre 2008
L a Corte di Appello di Milano non si è pronunciata: si è scelto di attendere il giudizio della Cassazione, fissato per l’11 novembre. Beppe Englaro si è impegnato a non sospendere intanto l’alimentazione della figlia Eluana, strada che d’altra parte la Regione Lombardia gli aveva per suo conto precluso.
Ma nel giorno in cui i giudici milanesi si fermano, il padre di Eluana rilascia un’intervista. Titolo: «Mia figlia deve morire, così finirà il mio inferno». Un titolo forzato, una infelice sintesi giornalistica?
Nel testo quell’espressione, fra virgolette, non c’è. C’è però ampiamente il senso di sedici anni di sofferenza, poi aggravati dalla malattia della moglie. Il senso di un «non esserci più giorno né notte», di ogni equilibrio saltato. «Non c’è più Natale, Pasqua né Ferragosto per noi. Non ci sono più compleanni, né anniversari da festeggiare. La nostra vita è un inferno». E il pensiero, oltre che a lui, va alle suore che hanno concretamente in consegna Eluana, e la curano da anni. L’assillo costante, dice Englaro, «è dar voce al patto che c’era fra Eluana e me. Devo liberare mia figlia». E chi legge non può non confrontarsi con la sofferenza di quest’uomo, dentro a un tunnel che non finisce: tra la malattia della moglie e quella figlia 'addormentata', Englaro sembra incalzato, tallonato dal dolore e dalla morte. «Un inferno», dice, la sua vita. Ed è sicuro che questo «inferno» finirà, quando «libererà» la figlia.
Ma nell’intervista si affaccia evidente un equivoco certo non voluto, forse solo giornalistico. Il padre sembra chiedere la sospensione dell’alimentazione della figlia per «liberare» non lei, ma se stesso, da una situazione che non può tollerare. Dal suo «inferno» di padre accanto a una ragazza incosciente da 16 anni. Reazione umana, in cui facilmente ci si può immedesimare – e infatti molti si immedesimano, dicendo: farei anche io lo stesso. L’equivoco radicale però è che tutta la battaglia attorno a Eluana involontariamente si svela, in quelle parole stampate, come battaglia per sé, per ricominciare a vivere, per «tornare ad essere uno qualunque». Ma per questo, occorre che i riflettori si spengano. E che la figlia dunque venga lasciata morire – nessuna “spina” da staccare (espressione che lui non ama), ma solo le sonde del nutrimento e dell’acqua: finché l’organismo non ceda.
Con tutta la pena che la vicenda Englaro suscita, davanti a certe parole bisogna però privilegiare la ragione, piuttosto che un pericoloso emozionismo. Perché è ben diverso rivendicare una libertà di essere lasciati morire, dal chiedere quella libertà per un altro, perché in realtà a non farcela più è la persona che assiste. È evidente come un principio simile avrebbe esiti drammatici su una popolazione di dementi, disabili, vecchi non autosufficienti, le cui famiglie vivono quotidiane fatiche e anche calvari, e non tutte con il sostegno di un ospedale in cui il familiare viene assistito notte e giorno.
Così nel momento in cui continuiamo a dirci sinceramente solidali con le sofferenze del signor Englaro, sentiamo il dovere di lealmente annotare, a margine di quel titolo scritto a caratteri cubitali, che se il movente vero della battaglia attorno a Eluana non fosse quello continuamente ripetuto della morte data in ossequio alla presunta quanto controversa determinazione del paziente, ma l’intollerabilità, per chi assiste, di malattie che prolungano la invalidità e la incoscienza per anni, allora la prospettiva vera di questo scontro diverrebbe fatalmente un’altra. Nel nome della libera scelta, a venir liberate in realtà sarebbero le persone sulle cui spalle il malato pesa. Il che segnerebbe una profondissima differenza.
Certo, tutti tendiamo a immedesimarci nell’angoscia che assistere certi malati comporta. Forse è per questo che tanti sembrano appoggiare la battaglia di Beppe Englaro, e tremano all’idea di subire un simile destino. Ma allora la domanda è: questa battaglia è nell’interesse dei malati, o dei sani? (Però, dobbiamo aggiungerlo, abbiamo conosciuto mogli di uomini in stato vegetativo da anni che lo vanno a trovare in ospedale e dicono: è vivo, io gli parlo ogni sera. L’inferno, a volte, è anche una condizione interiore).