giovedì 30 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa presenta San Germano, Patriarca di Costantinopoli - Durante l'Udienza generale del mercoledì
2) Ricordi di Ennio Morricone - Mio cognato e il finale di «Giù la testa» - di Marcello Filotei – L’Osservatore Romano, 30 aprile 2009
3) I santi e la pratica eroica delle virtù - Nell'ambito delle manifestazioni per l'ottavo centenario dell'approvazione della protoregola di san Francesco d'Assisi, mercoledì 29 si è tenuta una giornata di studio presso la Pontificia Università Antonianum. Pubblichiamo ampi stralci della relazione dell'arcivescovo prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi dedicata a Il senso della santità nella vita della Chiesa oggi. - di Angelo Amato
4) 1° MAGGIO/ Lettere dal carcere: quando il lavoro dietro le sbarre rende più liberi e più uomini - Redazione - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
5) 1° MAGGIO/ L’imprenditore: è la crisi ad insegnarci ancora qualcosa - Redazione - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
6) FILOSOFIA/ Così Ratzinger e Habermas “duellarono” sulla convivenza civile - Sante Maletta - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
7) «Liberi per vivere»: adesso si fa sul serio - di Domenico Delle Foglie – Avvenire, 30 aprile 2009
8) sul campo - di Lorenzo Schoepflin - In piena corsa la lobby pro-eutanasia - La macchina della propaganda su autodeterminazione e testamento biologico va a tutta velocità: convegni, raccolte firme, dossier giornalistici... - Tutto per diffondere l’idea 'pluralista' che «la vecchia morale non serve più» - Avvenire, 30 aprile 2009
9) cure palliative - Il vero hospice? Fra le mura domestiche - di Francesca Lozito – Avvenire, 30 aprile 2009
10) Ratzinger, teologia dell’Assoluto - DI CAMILLO RUINI – Avvenire, 30 aprile 2009

Il Papa presenta San Germano, Patriarca di Costantinopoli - Durante l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 29 aprile 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su San Germano, Patriarca di Costantinopoli.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
il Patriarca Germano di Costantinopoli, del quale vorrei parlare oggi, non appartiene alle figure più rappresentative del mondo cristiano orientale di lingua greca e tuttavia il suo nome compare con una certa solennità nella lista dei grandi difensori delle immagini sacre, stesa nel Secondo Concilio di Nicea, settimo ecumenico (787). La Chiesa Greca celebra la sua festa nella liturgia del 12 maggio. Egli ebbe un ruolo significativo nella storia complessa della lotta per le immagini, durante la cosiddetta crisi iconoclastica: seppe resistere validamente alle pressioni di un Imperatore iconoclasta, cioè avversario delle icone, quale fu Leone III.
Durante il patriarcato di Germano (715-730) la capitale dell’impero bizantino, Costantinopoli, subì un pericolosissimo assedio da parte dei Saraceni. In quell’occasione (717-718) venne organizzata una solenne processione in città con l’ostensione dell’immagine della Madre di Dio, la Theotokos, e della reliquia della Santa Croce, per invocare dall’Alto la difesa della città. Di fatto, Costantinopoli fu liberata dall’assedio. Gli avversari decisero di desistere per sempre dall’idea di stabilire la loro capitale nella città simbolo dell’Impero cristiano e la riconoscenza per l’aiuto divino fu estremamente grande nel popolo.
Il Patriarca Germano, dopo quell’evento, si convinse che l’intervento di Dio doveva essere ritenuto un’approvazione evidente della pietà mostrata dal popolo verso le sante icone. Di parere completamente diverso fu invece l’imperatore Leone III, che proprio da quell’anno (717) si insediò quale Imperatore indiscusso nella capitale, su cui regnò fino al 741. Dopo la liberazione di Costantinopoli e dopo una serie di altre vittorie, l’Imperatore cristiano cominciò a manifestare sempre più apertamente la convinzione che il consolidamento dell’Impero dovesse cominciare proprio da un riordinamento delle manifestazioni della fede, con particolare riferimento al rischio di idolatria a cui, a suo parere, il popolo era esposto a motivo dell’eccessivo culto delle icone.
A nulla valsero i richiami del patriarca Germano alla tradizione della Chiesa e all’effettiva efficacia di alcune immagini, che venivano unanimemente riconosciute come ‘miracolose’. L’imperatore divenne sempre più irremovibile nell’applicazione del suo progetto restauratore, che prevedeva l’eliminazione delle icone. E quando il 7 gennaio del 730 egli prese posizione aperta in una riunione pubblica contro il culto delle immagini, Germano non volle in nessun modo piegarsi al volere dell’Imperatore su questioni ritenute da lui determinanti per la fede ortodossa, alla quale secondo lui apparteneva proprio il culto, l’amore per le immagini. In conseguenza di ciò, Germano si vide costretto a rassegnare le dimissioni da Patriarca, auto-condannandosi all’esilio in un monastero dove morì dimenticato pressoché da tutti. Il suo nome riemerse in occasione appunto del Secondo Concilio di Nicea (787), quando i Padri ortodossi decisero in favore delle icone, riconoscendo i meriti di Germano.
Il Patriarca Germano curava molto le celebrazioni liturgiche e, per un certo tempo, fu ritenuto anche l’instauratore della festa dell’Akatistos. Come è noto, l’Akatistos è un antico e famoso inno sorto in ambito bizantino e dedicato alla Theotokos, la Madre di Dio. Nonostante che dal punto di vista teologico non si possa qualificare Germano come un grande pensatore, alcune sue opere ebbero una certa risonanza soprattutto per certe sue intuizioni sulla mariologia. Di lui sono state conservate, in effetti, diverse omelie di argomento mariano e alcune di esse hanno segnato profondamente la pietà di intere generazioni di fedeli sia in Oriente che in Occidente. Le sue splendide Omelie sulla Presentazione di Maria al Tempio sono testimonianze tuttora vive della tradizione non scritta delle Chiese cristiane. Generazioni di monache, di monaci e di membri di numerosissimi Istituti di Vita Consacrata, continuano ancora oggi a trovare in quei testi tesori preziosissimi di spiritualità.
Creano ancora adesso stupore anche alcuni testi mariologici di Germano che fanno parte delle omelie tenute In SS. Deiparae dormitionem, festività corrispondente alla nostra festa dell’Assunzione. Fra questi testi il Papa Pio XII ne prelevò uno che incastonò come una perla nella Costituzione apostolica Munificentissimus Deus (1950), con la quale dichiarò dogma di fede l’Assunzione di Maria. Questo testo il Papa Pio XII citò nella menzionata Costituzione, presentandolo come uno degli argomenti in favore della fede permanente della Chiesa circa l’Assunzione corporale di Maria in cielo. Germano scrive: "Poteva mai succedere, santissima Madre di Dio, che il cielo e la terra si sentissero onorati dalla tua presenza, e tu, con la tua partenza, lasciassi gli uomini privi della tua protezione? No. E’ impossibile pensare queste cose. Infatti come quando eri nel mondo non ti sentivi estranea alle realtà del cielo, così anche dopo che sei emigrata da questo mondo non ti sei affatto estraniata dalla possibilità di comunicare in spirito con gli uomini… Non hai affatto abbandonato coloro ai quali hai garantito la salvezza… infatti il tuo spirito vive in eterno né la tua carne subì la corruzione del sepolcro. Tu, o Madre, sei vicina a tutti e tutti proteggi e, benché i nostri occhi siano impediti dal vederti, tuttavia sappiamo, o Santissima, che tu abiti in mezzo a tutti noi e ti rendi presente nei modi più diversi…Tu (Maria) ti riveli tutta, come sta scritto, nella tua bellezza. Il tuo corpo verginale è totalmente santo, tutto casto, tutto casa di Dio così che, anche per questo, è assolutamente refrattario ad ogni riduzione in polvere. Esso è immutabile, dal momento che ciò che in esso era umano è stato assunto nella incorruttibilità, restando vivo e assolutamente glorioso, incolume e partecipe della vita perfetta. Infatti era impossibile che fosse tenuta chiusa nel sepolcro dei morti colei che era divenuta vaso di Dio e tempio vivo della santissima divinità dell’Unigenito. D’altra parte noi crediamo con certezza che tu continui a camminare con noi" (PG 98, coll. 344B-346B, passim).
E’ stato detto che per i Bizantini il decoro della forma retorica nella predicazione, e ancora di più negli inni o composizioni poetiche che essi chiamano tropari, è altrettanto importante nella celebrazione liturgica quanto la bellezza dell’edificio sacro nel quale essa si svolge. Il Patriarca Germano è stato riconosciuto, in quella tradizione, come uno di coloro che hanno contribuito molto nel tener viva questa convinzione, cioè che bellezza della parola, del linguaggio e bellezza dell’edificio e della musica devono coincidere.
Cito, per concludere, le parole ispirate con cui Germano qualifica la Chiesa all’inizio di questo suo piccolo capolavoro: "La Chiesa è tempio di Dio, spazio sacro, casa di preghiera, convocazione di popolo, corpo di Cristo… E’ il cielo sulla terra, dove Dio trascendente abita come a casa sua e vi passeggia, ma è anche impronta realizzata (antitypos) della crocifissione, della tomba e della risurrezione... La Chiesa è la casa di Dio in cui si celebra il sacrificio mistico vivificante, nello stesso tempo parte più intima del santuario e grotta santa. Dentro di essa si trovano infatti il sepolcro e la mensa, nutrimenti per l’anima e garanzie di vita. In essa infine si trovano quelle vere e proprie perle preziose che sono i dogmi divini dell’insegnamento offerto direttamente dal Signore ai suoi discepoli" (PG 98, coll. 384B-385A).
Alla fine rimane la domanda: che cosa ha da dirci oggi questo Santo, cronologicamente e anche culturalmente abbastanza distante da noi. Penso sostanzialmente tre cose. La prima: c’è una certa visibilità di Dio nel mondo, nella Chiesa, che dobbiamo imparare a percepire. Dio ha creato l’uomo a sua immagine, ma questa immagine è stata coperta dalla tanta sporcizia del peccato, in conseguenza della quale quasi Dio non traspariva più. Così il Figlio di Dio si è fatto vero uomo, perfetta immagine di Dio: in Cristo possiamo così contemplare anche il volto di Dio e imparare ad essere noi stessi veri uomini, vere immagini di Dio. Cristo ci invita ad imitarLo, a divenire simili a Lui, così che in ogni uomo traspaia di nuovo il volto di Dio, l’immagine di Dio. Per la verità, Dio aveva vietato nel Decalogo di fare delle immagini di Dio, ma questo era a motivo delle tentazioni di idolatria a cui il credente poteva essere esposto in un contesto di paganesimo. Quando però Dio si è fatto visibile in Cristo mediante l’incarnazione, è diventato legittimo riprodurre il volto di Cristo. Le sante immagini ci insegnano a vedere Dio nella raffigurazione del volto di Cristo. Dopo l’incarnazione del Figlio di Dio, è diventato quindi possibile vedere Dio nelle immagini di Cristo ed anche nel volto dei Santi, nel volto di tutti gli uomini in cui risplende la santità di Dio.
La seconda cosa è la bellezza e la dignità della liturgia. Celebrare la liturgia nella consapevolezza della presenza di Dio, con quella dignità e bellezza che ne faccia vedere un poco lo splendore, è l’impegno di ogni cristiano formato nella sua fede. La terza cosa è amare la Chiesa. Proprio a proposito della Chiesa, noi uomini siamo portati a vedere soprattutto i peccati, il negativo; ma con l’aiuto della fede, che ci rende capaci di vedere in modo autentico, possiamo anche, oggi e sempre, riscoprire in essa la bellezza divina. E’ nella Chiesa che Dio si fa presente, si offre a noi nella Santa Eucaristia e rimane presente per l’adorazione. Nella Chiesa Dio parla con noi, nella Chiesa "Dio passeggia con noi", come dice San Germano. Nella Chiesa riceviamo il perdono di Dio e impariamo a perdonare.
Preghiamo Dio perché ci insegni a vedere nella Chiesa la sua presenza, la sua bellezza, a vedere la sua presenza nel mondo, e ci aiuti ad essere anche noi trasparenti alla sua luce.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i fedeli della diocesi di Lucera-Troia, con il Vescovo Mons. Domenico Cornacchia; della diocesi di Forlì-Bertinoro, con il Vescovo Mons. Lino Pizzi; e della diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno, con il Vescovo Mons. Giuseppe Petrocchi. Cari amici, l’Apostolo Paolo sia per voi esempio di totale dedizione al Signore e alla sua Chiesa, oltre che di apertura all’umanità e alle sue culture. Saluto i fedeli di Cava dei Tirreni, con l’Ordinario diocesano il Rev.mo P. Abate Dom Benedetto Chianetta, augurando a ciascuno di vivere con fervore spirituale l’importante ricorrenza del millennio di fondazione della loro Abbazia territoriale. Saluto i fedeli provenienti dalla Sardegna, accompagnati dal Vescovo Mons. Giuseppe Mani, Presidente della Conferenza Episcopale Sarda, qui convenuti per ricambiare la visita che ho avuto la gioia di compiere in quella Regione. Cari amici, vi ringrazio per la vostra presenza e vi auguro di testimoniare con rinnovato ardore missionario Cristo e il suo Vangelo.
Il mio pensiero va, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Liturgia celebra oggi santa Caterina da Siena, Vergine domenicana e Dottore della Chiesa, nonché Compatrona d'Italia insieme con san Francesco d'Assisi. Cari giovani, specialmente voi, ministranti della "Parrocchia dei Santi Antonio e Annibale Maria", di Roma, siate innamorati di Cristo, come lo fu Caterina, per seguirlo con slancio e fedeltà. Voi, cari ammalati, immergete le vostre sofferenze nel mistero d'amore del Sangue del Redentore, contemplato con speciale devozione dalla grande Santa senese. E voi, cari sposi novelli, col vostro reciproco e fedele amore siate segno eloquente dell'amore di Cristo per la Chiesa.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


Ricordi di Ennio Morricone - Mio cognato e il finale di «Giù la testa» - di Marcello Filotei – L’Osservatore Romano, 30 aprile 2009
"Mio cognato si alzò durante una proiezione privata pensando che il film fosse finito e lui tagliò tutto quello che veniva dopo: dieci minuti di flashback. Un grande atto di modestia, l'insegnamento più grande che ho ricevuto da Sergio Leone e che ricordo ancora oggi a vent'anni dalla sua morte".

Un aneddoto che rivela una grande capacità di ascoltare, soprattutto i collaboratori stretti come lei maestro Morricone, che hanno avuto un ruolo importante nella sua cinematografia.

Lui ascoltava tutti e teneva conto di quello che dicevano gli altri. Quando quella volta portai la famiglia a vedere Giù la testa in anteprima Leone capì che qualcosa non funzionava e nell'edizione italiana fece finire il film nel punto esatto in cui mio cognato si era alzato. Aveva accettato il suggerimento, anche se involontario, e aveva tenuto conto anche delle critiche mosse a C'era una volta il West, del quale avevano detto che c'erano tre finali.

La sua carriera di compositore di colonne sonore era iniziata qualche anno prima con Il federale di Luciano Salce, ma il film che le ha portato il primo vero successo è stato proprio di Leone, Per un Pugno di dollari nel 1964.

Quel film mi ha fatto conoscere, così come Per qualche dollaro in più dell'anno successivo, ma la ribalta internazionale è arrivata con Il buono, il brutto e il cattivo, nel 1968, quando c'è stata anche la nomination al Grammy Award. Poi in realtà non è successo molto, ma quelle musiche sono state molto apprezzate in America e in Europa, specialmente in Germania.

Come era iniziato il suo rapporto con Sergio Leone?

Mi ha cercato lui, mi è venuto a trovare a casa dopo avere ascoltato le musiche di due film western che avevo scritto, uno era Le pistole non discutono di Mario Caiano, e l'altro Duello nel Texas di un regista spagnolo, Riccardo Blasco.

Non vi conoscevate prima?

In realtà c'eravamo conosciuti alle scuole elementari, ai Fratelli delle scuole cristiane a Viale Trastevere, che allora si chiamava Viale del re. Io me lo sono ricordato quando l'ho visto, l'ho riconosciuto subito. Poi mi ha portato a cena da "Checco er carettiere", perché sapeva che il proprietario aveva una fotografia della terza elementare dove c'eravamo tutti e tre.

Una conoscenza precocissima, per un rapporto lavorativo creativo e anche innovativo. Già da Per un pugno di dollari, infatti Leone presenta una visione molto originale del far west americano: violenta e moralmente complessa. In particolare introduce un marcato realismo dei personaggi e, soprattutto, usa il silenzio come strumento espressivo. La rarefazione dei dialoghi conferisce una grande responsabilità alla colonna sonora.

Lui ha dato molta importanza al silenzio e al suono, sia quello musicale, sia quello che riproduce i rumori della realtà. È stato uno dei primi a lavorare in questo modo. Secondo me c'è qualcosa di Cage nel suo silenzio. Per esempio i primi venti minuti di C'era una volta il West, senza dialoghi, sono nati da un esperimento che io gli avevo raccontato. Si trattava di un concerto al conservatorio Cherubini di Firenze con il Gruppo di improvvisazione di Nuova Consonanza: il concerto doveva cominciare alle 21, noi suonavamo con il gruppo nella seconda parte. Prima non si sapeva bene cosa sarebbe successo. A un certo punto il pubblico ha cominciato a rumoreggiare, perché non c'era niente da vedere o da ascoltare. In realtà un signore era salito sul palco, poi se ne era andato sulla balconata da dove scuoteva la scala facendogli emettere degli scricchiolii. Dopo un po' qualcuno si accorse che quello che emetteva i rumori non era un operaio e che il concerto era già iniziato, da quel momento cominciò il silenzio in sala. Appena catturata l'attenzione del pubblico il signore si rimise l'impermeabile e se ne andò: fine della prima parte. Tutti scioccati. Questo episodio lo raccontai a Sergio Leone e lui rafforzò la sua idea di lavorare con il suono decontestualizzandolo, facendogli acquistare un significato più profondo e più intenso, specialmente se manovrato dall'amplificazione. Questo è stato per me un grande insegnamento, ma l'ho capito dopo. Al momento ero arrabbiato, mi sembrava una sciocchezza.

Risultato?
Per venti minuti in C'era una volta il West si sentono solo piccoli rumori enfatizzati: il verso della gallina, il mulino, la goccia d'acqua sul cappello, poi un personaggio prende una mosca e si sente il ronzio, tutto senza dialogo. Il giorno dopo la prima, quando andai a lavorare alla Fonoroma, più o meno c'era lo stesso tipo di choc che era seguito al concerto di Firenze. La gente mi diceva che eravamo diventati matti.

Ci sono molte storie sull'influenza della musica contemporanea sulla sua produzione cinematografica. Per esempio l'uso di nastri in maniera asincrona?

Ho fatto questa esperienza nei titoli iniziali di Giù la testa, dove ho messo assieme i temi del film in maniera astratta e aritmica, fuori dal metro normale. Gli archi per esempio sono scritti in maniera puntillistica e altri elementi intervengono con molta libertà, tutto rimane sospeso, ma il pezzo regge bene.

Una decisione coraggiosa, ma lei è noto per avere un carattere deciso.

È parte del mio lavoro, se per esempio il regista non mi spiega esattamente quello che vuole non posso scrivere con chiarezza.

Sì ma anche nella vita sembra piuttosto fermo nelle sue decisioni. Per esempio in tutte le sue biografie sottolinea di esserci licenziato da un posto di lavoro il primo giorno. È successo nel 1958, quando non era ancora affermato come compositore. Perché proprio non le andava di fare l'assistente musicale in Rai?
Mi chiamò il maestro Pizzini, che allora era il direttore del centro televisivo di via Teulada, mi avvertì che non avrei avuto possibilità di carriera e inoltre, a seguito di una circolare in vigore da alcuni anni, i musicisti che facevano parte della Rai non potevano essere mai eseguiti dall'emittente pubblica. "Se è così me ne vado subito", dissi. Lui insistette, credeva fosse un errore lasciare un posto sicuro come quello. Ma io avevo studiato per fare il compositore, stare in un posto che impedisce di essere eseguiti non aveva alcun senso. Certo all'epoca non avevo un soldo.
(©L'Osservatore Romano - 30 aprile 2009)


Significato e attualità dell'universale vocazione dei battezzati
I santi e la pratica eroica delle virtù - Nell'ambito delle manifestazioni per l'ottavo centenario dell'approvazione della protoregola di san Francesco d'Assisi, mercoledì 29 si è tenuta una giornata di studio presso la Pontificia Università Antonianum. Pubblichiamo ampi stralci della relazione dell'arcivescovo prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi dedicata a Il senso della santità nella vita della Chiesa oggi. - di Angelo Amato
- L'Osservatore Romano, 30 aprile 2009
Prima di rispondere alla domanda sull'attualità della santità nella Chiesa e nel mondo, conviene premettere alcune considerazioni sul significato e sul valore della santità riconosciuta come tale dalla Chiesa e proposta ai fedeli come esempio d'imitazione di Cristo. Diciamo subito che la solenne proclamazione della santità dei fedeli mediante la canonizzazione è un atto del Magistero pontificio di altissima qualità teologica. Infatti, se al primo grado della Professio Fidei appartengono quelle dottrine di fede divina e cattolica che la Chiesa propone come divinamente e formalmente rivelate e, come tali, irreformabili, al secondo grado appartengono tutte quelle dottrine che riguardano la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo. Si tratta di verità che sono infallibilmente insegnate dal magistero ordinario e universale della Chiesa con sententia definitive tenenda. La canonizzazione appartiene a questo secondo grado di verità proposte in modo definitivo, in quanto fa parte di quelle dottrine necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede. I santi, sono quindi, pagine viventi della santità della Chiesa nei secoli. Se è alta la qualità teologica della canonizzazione, altrettanto esigente è l'invito all'adesione di fede del credente, il quale è tenuto a prestare il suo assenso fermo e saldo, fondato sulla fede nell'assistenza dello Spirito Santo al magistero della Chiesa e sulla dottrina cattolica dell'infallibilità del magistero in questo campo. La canonizzazione, quindi, non è un semplice atto di devozione o di pietà popolare, ma l'attestazione formale e solenne della santità di alcuni fedeli, proposti come modelli a tutta Chiesa per l'esaltazione della fede cattolica e l'incremento della vita cristiana (...) Rispondendo ora al titolo della nostra relazione - sul significato cioè della santità nella vita della Chiesa oggi - si può affermare con il concilio Vaticano ii che tutti i fedeli sono chiamati alla santità. La santità è la vocazione di ogni battezzato. Di conseguenza ancora oggi la santità fa parte dell'identità della Chiesa, Una Sancta, e del battezzato. Di qui la sua perenne attualità (...) La fonte originaria della santità della Chiesa e nella Chiesa è Dio Trinità: "Siate dunque perfetti - dice Gesù - come è perfetto il vostro Padre celeste" (Matteo, 5, 48) (...) La pienezza della vita cristiana e la perfezione della carità sono il traguardo di tutti i cristiani, la cui santità non è solo un ornamento spirituale della Chiesa ma anche un dono alla promozione e all'affermazione di una società umana pacificata e giusta. Affermando che "tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano", il concilio riconosce le implicanze sociali della santità cristiana. Per questo spesso i santi sono anche chiamati benefattori dell'umanità, perché, come Gesù, anch'essi sono passati su questa terra "beneficando" (Atti degli apostoli, 10, 38), operando il bene. Come nei primi secoli il sangue dei martiri fu la linfa della santità della Chiesa, così oggi non solo i santi martiri ma anche i santi confessori della fede, continuano a essere i testimoni straordinari del Vangelo di Cristo, illustrando la Chiesa, madre dei santi (...) È interessante notare che nell'apologetica post-tridentina alcuni teologi evidenziavano un significato non comune della santità della Chiesa. La qualifica sancta deriverebbe - a loro dire - da "sancire"-"stabilire" ed etimologicamente indicherebbe stabilità, indefettibilità, inviolabilità. La Chiesa è santa perché è la roccia sulla quale si infrangono le onde dei suoi nemici. La sua santità indicherebbe la sua indefettibilità, la sua stabilità. In tutto ciò in primo piano non è tanto la santità dei membri quanto la santità fontale della Chiesa, dal momento che essa è santa perché mediante i suoi sacramenti santifica continuamente i suoi figli, perdonandoli e fortificandoli con la grazia. Insomma, la Chiesa è santa perché santificatrice. E la santità dei suoi figli, in subordine a quella di Cristo, la difende dal nemico e la fa splendere di grazia. Ma questa santità soggettiva è il riflesso della santità oggettiva, costitutiva della Chiesa; ne è espansione e visibilizzazione. La Chiesa ieri come oggi è stata sempre edificata dalla presenza dei martiri e dei santi. Nei processi di canonizzazione la domanda di fondo è la seguente: il servo o la serva di Dio ha praticato in modo eroico le virtù teologali e cardinali? Il santo, infatti, non è un prodotto della cieca evoluzione cosmica, ma un dono della grazia divina (...) Ma cosa significa, in concreto, la pratica eroica della virtù? Sembra che sia stato Aristotele a parlare di virtù eroica, nella sua Etica Nicomachea. Lo Stagirita cita un brano dell'Iliade in cui Priamo piange la morte di Ettore, suo figlio prediletto, che era stato "tanto virtuoso che non crederesti che egli sia stato generato da padre mortale, ma che sia stato piuttosto della stessa natura degli dei" (...) Nel suo Commentario all'Etica Nicomachea, san Tommaso d'Aquino considera la virtù eroica come la straordinaria perfezione della parte ragionevole dell'anima. Lo stesso Tommaso, nella stesura della sua Summa, illustra il rapporto tra doni dello Spirito Santo e virtù. I doni sono indispensabili perché il battezzato raggiunga il suo traguardo soprannaturale. In questo contesto egli parla di abito eroico o divino, che indica una disposizione verso il bene più alta del comune. La virtù eroica è l'esercizio in grado eminente della virtù. Nella virtù eroica il livello morale in essa presente si eleva al di sopra del livello morale di quasi tutti gli uomini. E ciò suscita ammirazione, che costituisce anche un elemento della definizione della virtù eroica. Per il benedettino José Saenz de Aguirre (+ 1699) i segni distintivi della virtù eroica sono l'osservanza fedele dei comandamenti e l'adempimento dei consigli evangelici anche in circostanze avverse; l'ammirazione da parte degli altri uomini; qualche miracolo perpetrato da Dio per confermare l'eroismo delle virtù di una persona ritenuta santa. Per il francescano Lorenzo Brancati la persona che possiede l'abito della virtù eroica deve agire e fare il bene expedite, prompte et delectabiliter, sotto l'influenza e la guida dei doni dello Spirito Santo. La virtù eroica supera l'esercizio ordinario della virtù dal momento che suscita una più sublime maniera di fare il bene con frequenza, facilità e disinvoltura. In ogni caso, essa è sempre un grado particolarmente elevato di ogni singola virtù sia teologica sia morale. Alla domanda su come siano riconoscibili le virtù eroiche, si risponde che il grado eroico è riconoscibile, in primo luogo dalla frequenza, dalla grande prontezza e dal carattere gioioso dell'attività virtuosa; in secondo luogo dal fatto che anche ostacoli difficili, costituiti da circostanze esterne o da intralci interni, vengono superati in modo tale che l'eroe virtuoso può essere considerato capace di grandi sacrifici per il Vangelo nella totale abnegazione di se stesso. Anche per Prospero Lambertini, poi Benedetto xiv, la virtù eroica implica speditezza, prontezza e letizia in un modo superiore al comune, nell'abnegazione e nel controllo delle passioni. La virtù eroica è l'elevazione delle virtù fino all'apice della loro perfezione per l'influsso efficace dei doni dello Spirito Santo (...) Tuttavia, come non ogni terreno produce tutto, ma viene raccomandato soprattutto per un prodotto particolare, così i santi per lo più sono nobilitati dallo splendore singolare di una sola virtù. Nonostante la connessione di tutte le virtù, una sola è la virtù che in essi è eminente e prevalente. Ed è proprio l'eroismo virtuoso che suscita stupore e meraviglia, ma anche sequela e imitazione. Il Vaticano ii - Lumen gentium, n. 50 - insegna al riguardo: "Il contemplare la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr. Lettera agli Ebrei, 13, 14 e 11, 10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità. Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell'immagine di Cristo (cfr. Seconda Lettera ai Corinzi, 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr. Lettera agli Ebrei, 12, 1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati". Nella nota 155, il testo conciliare richiama un decreto di Benedetto xv il quale sottolinea che la virtù eroica può consistere anche nelle piccole cose e, più precisamente, nel fedele, continuo e costante adempimento dei compiti e degli uffici del proprio stato. Dal canto suo, Pio XII, a chi affermava che i santi sono piuttosto da ammirare che da imitare, rispondeva che la perfezione della santità e la sua eroicità si potevano raggiungere anche nella quotidiana e costante osservanza della legge divina e nella intensissima carità verso Dio e il prossimo. E ogni santo ha espresso la sua virtù in modo del tutto originale: alcuni con l'ardore dell'apostolato, altri con la fortezza del martirio, altri con lo splendore della loro verginità o con la soavità della loro umiltà. Nella virtù eroica Cristo si fa di nuovo visibile in mezzo a noi e il santo diventa lo specchio di Cristo (...) I santi, inoltre, sono i veri operatori dell'inculturazione del Vangelo, non mediante teorie elaborate a tavolino, ma vivendo e manifestando la sequela Christi nella propria cultura. I santi mostrano la verità evangelica con la loro esistenza. In essi si realizza la metamorfosi cristiana di una cultura, dal momento che rivelano come le beatitudini evangeliche tocchino e convertano al bene i cuori e le menti delle persone di ogni cultura. Nei santi l'inculturazione non avviene principalmente ab externo, nello stile delle chiese, negli atteggiamenti del corpo, nel rivestimento linguistico, ma soprattutto, ab interno, nella loro persona. Sono loro in persona il Vangelo vivente per quella cultura. Come agli inizi della Chiesa furono i santi pastori, i santi teologi e i santi martiri a evangelizzare le culture della terra, così oggi la Chiesa ha bisogno dei santi per la riuscita di ogni inculturazione. Il Vangelo infatti non è riservato a una cultura determinata, ma a tutte le culture: "Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura" (Marco, 16, 15). Ieri come oggi, questo compito è affidato soprattutto ai santi (...) In ciò consiste anche la dimensione missionaria dei santi, che costituiscono un'incarnazione personale del Vangelo. La loro esistenza è la più efficace opera di convinzione della bontà della Parola di Dio, della sua verità per l'esistenza gioiosa dell'umanità. Solo così si spiegano le conversioni al Vangelo operate dai santi missionari a cominciare dagli apostoli, che si sparsero in tutto il mondo annunciando la buona notizia della salvezza in Cristo, convertendo e battezzando (...) In conclusione, i santi sono segni concreti di speranza per un futuro di fraternità, di gioia e di pace. Talvolta ci si lamenta per il grande numero di santi che vengono canonizzati. Ma la Chiesa santa non può non generare figli santi. Sarebbe come se ci lamentassimo della grande quantità, varietà e bellezza dei fiori in primavera.
(©L'Osservatore Romano - 30 aprile 2009)


1° MAGGIO/ Lettere dal carcere: quando il lavoro dietro le sbarre rende più liberi e più uomini - Redazione - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Il primo maggio è la festa del lavoro. Spesso però ci dimentichiamo di una categoria particolare di lavoratori: i carcerati. Ma che senso ha il lavoro in carcere? È indispensabile per la ripresa umana. Lo si legge chiaramente dalle testimonianze di alcuni detenuti della Casa di Reclusione di Padova che lavorano alle dipendenze della Cooperativa sociale Giotto e del Consorzio Rebus e che pubblichiamo. Il lavoro - e quindi il confronto con gli altri - oltre a restituire dignità a chi è recluso è fondamentale per una vera presa di coscienza dei propri errori e del dolore causato agli altri, requisiti indispensabili per chi vuole intraprendere un cammino improntato al rispetto delle regole di civile convivenza. Un aspetto forse troppo trascurato quando si parla e si celebra il lavoro.
Mi è stato chiesto cosa significhi lavorare in carcere. Prima di rispondere è fondamentale precisare a quale lavoro ci si vuole riferire, perché in carcere sono quasi sempre esistiti i lavori cosiddetti “domestici”, cioè tutte quelle mansioni d’istituto che vengono svolte quotidianamente: il portavitto, lo scopino, lo spesino, insomma tutte quelle attività che non permettono di avere un riscontro con il mondo esterno, ma che si limitano al buon andamento carcerario.
Da quando invece è stata data la possibilità ad alcune aziende di portare il loro lavoro tra le mura penitenziarie, l’aspetto lavorativo ha assunto il suo vero valore e con tutte le dinamiche che lo contraddistinguono, come ad esempio la produttività e il riscontro sul mercato.
È vero, pur di non stare in cella un detenuto apprezza anche il lavoro domestico, ma senza avere i riscontri emotivi ed economici d’un vero lavoro. Quando invece ci si rende conto che il proprio operato entrerà nel circuito del mercato vero, ancora con maggior verità si potrà operare e sentirsi parte di una società che con gli anni di carcerazione si sente sempre più lontana dal proprio essere. Ecco allora che si acquisisce sempre maggior desiderio di realizzare prodotti veri, validi, che lascino soddisfatti gli utenti esterni, e questa consapevolezza fa sentire meglio anche noi che lavoriamo. Questo perché ci sentiamo in debito con la società, e se in piccola parte con il nostro lavoro possiamo soddisfare e rendere felice qualche persona è come se restituissimo a questa società una piccolissima parte di ciò che, con i nostri errori, abbiamo tolto.
Io lavoro al call center dove prenoto le visite mediche per tante persone, ognuna diversa e con le problematiche più svariate, a volte purtroppo si tratta anche di malati terminali. Cerco di fare il mio lavoro con il massimo impegno, la massima concentrazione e la massima serietà. E alla fine della prenotazione, se sento che la persona è rimasta contenta nell’ottenere ciò che mi chiedeva, a maggior ragione lo sono anch’io, perché so che parte di quella “piccolissima felicità” l’ho potuta regalare io impegnandomi ed adoperandomi al massimo per trovare una soluzione al problema, piccolo o grande che fosse. Questo mi fa sentire un po’ più leggero, con addosso meno angosce del solito, e la gioia che provo mi fa sentire veramente libero e felice.
Quindi sì al lavoro in carcere, ma che possibilmente sia un vero lavoro e che permetta ai detenuti di confrontarsi con le tematiche della società, con il mercato aziendale, con tutte le difficoltà di un lavoro reale, e che possa permetterci di sentirci ancora facenti parte della società dalla quale siamo stati giustamente esclusi.
(Alberto)
Sono cittadino croato, condannato ad una pena “esemplare” e in carcere da otto anni. I primi anni di detenzione li ho passati in un altro carcere, dove il “mondo lavoro” quasi non esisteva: un paio di posti in cucina, due spesini, due addetti alle pulizie. Cooperative o ditte esterne che offrissero lavoro agli internati? Neanche l’ombra. Allora mi è sorta spontanea una domanda: ma per una persona che ha commesso un grave errore, che funzione ha il carcere?
Nella sfortuna che mi è capitata ho però visto la luce e la speranza quando mi hanno trasferito nel carcere penale “Due Palazzi” di Padova, un istituto, uno dei pochi a dire il vero, che offre un lavoro ai carcerati grazie al Consorzio “Rebus”, che impiega oltre ottanta reclusi.
Lavoro da circa quattro anni, prima in cucina e poi in pasticceria. I dolci che produciamo sono di alta qualità, e vengono venduti a pasticcerie esterne, bar, ristoranti, mense di Padova e non solo. Un anno fa ho chiesto ai miei responsabili di transitare in pasticceria per imparare quel mestiere, e dopo poco tempo mi è stata data questa possibilità. Produrre dolci è un bel mestiere, ma è difficile e mi impegna sempre di più, giorno dopo giorno, e allo stesso tempo mi dà anche un sacco di soddisfazioni, perché col mio lavoro sto facendo qualcosa di utile anche per gli altri.
Ogni volta che creo qualcosa lo faccio al massimo delle mie possibilità: so che quel dolce deve essere di qualità, esteticamente impeccabile e soprattutto buono, perché finirà sul tavolo di una festa, magari di un battesimo o di un matrimonio, quindi sento addosso tutte le responsabilità che un lavoro come questo richiede.
Durante l’ultimo periodo prenatalizio abbiamo prodotto i 32mila famosi panettoni che hanno fatto il giro del mondo, e quasi ogni giorno il nostro laboratorio era “invaso” da giornalisti e fotografi, da personaggi del mondo politico, culturale e dello spettacolo incuriositi da come una “squadra” di detenuti, capeggiati da tre maestri pasticceri esterni, potessero fare tali prelibatezze.
È proprio questo che serve in carcere, un lavoro serio che dia la possibilità di riflettere e di cambiare, sancendo così la vittoria dello Stato che riesce a portare tanti detenuti sulla strada di un vero reinserimento sociale e umano.
(Davor)
Per me la parola “lavoro”, che ora considero fondamentale, fino a una decina di anni fa era a dir poco incomprensibile. Fin da ragazzino avevo preferito la via del guadagno facile, tanti soldi in fretta e con poca fatica, al posto di una vita onesta e regolare. Pensavo che questo stile di vita mi avrebbe reso felice, potente, apprezzato e stimato, invece alla fine ho perso tutto, e ho veramente toccato il fondo. Poi, qualche anno fa, in questo carcere mi è stata data una possibilità, e ho imparato che una vita onesta ti fa sicuramente vivere meglio, perché non c’è nulla di peggiore che fare i conti, giorno dopo giorno, con la propria coscienza.
Da alcuni anni lavoro nei capannoni di questo carcere; prima sono stato nelle lavorazioni delle valigerie Roncato, successivamente nel laboratorio di confezionamento dei gioielli Morellato, e infine, attualmente, all’assemblaggio delle biciclette. Ogni lavoro, pur nelle sue diversità e nelle varie complicazioni, mi ha dato delle soddisfazioni, soprattutto quando ho cominciato a ottenere dei permessi premio: nelle valigerie, nelle gioiellerie e nei supermercati ho trovato moltissimi dei prodotti che, col mio lavoro e con le mie mani, ho contribuito a produrre. Fino a quando non potevo uscire quasi non mi rendevo conto di tutto quello che con le mie mani potevo fare, ma ora ho la prova provata e la consapevolezza che, se ci viene data un po’ di fiducia, siamo ancora delle persone capaci di fare delle cose buone e positive.
Se rimanessi oggi senza lavoro credo che impazzirei, perché ora, quando mi sveglio al mattino rendo grazie a Dio per tutto quello che mi sta dando, scendo al lavoro col sorriso sulle labbra e affronto la giornata con serenità e soprattutto con uno spirito completamente diverso da quello che, poco più di 15 anni fa, mi aveva portato a distruggere me stesso ma soprattutto tutti coloro che mi stavano vicino. Grazie al lavoro, e ad alcune persone che frequento in questo ambiente, ho anche scoperto la gioia e la fede in Cristo, e questo ha per me più valore di qualsiasi altra cosa, perché mi ha fatto scoprire e apprezzare un modo completamente nuovo di affrontare e di vivere la vita.
(Franco)
Potrà sembrare strano, ma diversamente da quel che si pensa la prima richiesta che solitamente la maggior parte delle persone detenute rivolgono alle direzioni carcerarie è proprio quella di lavorare, così da non rimanere sempre chiusi in cella e rendersi economicamente indipendenti, in modo da non gravare più di tanto sui familiari. Almeno inizialmente, quindi, la domanda di lavoro può essere quasi esclusivamente “strumentale” a una miglior qualità della vita detentiva, ma può anche succedere, soprattutto se si ha la possibilità di svolgere un’attività concreta, vera e produttiva, che l’approccio al lavoro si modifichi e si modelli col passare del tempo.
Anch’io, come quasi tutti i miei compagni, oltre a voler stare fuori dalla cella il più possibile dopo sette anni di carcere forzatamente ozioso in cui non avevo svolto alcuna attività (nel carcere dove mi trovavo prima non c’era praticamente nulla), nel 2001 chiesi insistentemente di lavorare perché, tra le altre cose, non sopportavo più di dipendere, anche nelle centomila lire mensili per le spese minime di sopravvivenza, da mia mamma pensionata al minimo.
Quindi, quando nel 2002 ho cominciato a lavorare nel laboratorio dei manichini per l’alta moda della Cooperativa Giotto, era soprattutto a questi due elementi che pensavo, e non avevo minimamente idea di come le cose sarebbero cambiate da lì a qualche anno. Nel 2005, infatti, la Cooperativa è riuscita in un progetto veramente rivoluzionario per un carcere, aprendo in questa struttura una “cellula” dell’ufficio prenotazioni delle visite mediche specialistiche degli ospedali e delle strutture sanitarie padovane, alle quali si rivolgono cittadini da tutte le parti d’Italia.
A causa delle sopravvenute esigenze aziendali mi sono così trovato catapultato, inaspettatamente e nel giro di pochi giorni, in una realtà lavorativa completamente nuova e per certi versi dolorosa. Da una telefonata settimanale di dieci minuti a mia mamma, l’unico mio “collegamento” con il mondo esterno nei 12 anni precedenti, sono passato a 50-60 telefonate giornaliere che ancora oggi, spesso e volentieri, mi danno emozioni inaspettate. Le voci dei bambini che piangono, il rumore del traffico in sottofondo, le voci dolci dei tanti anziani che chiamano e perfino i complimenti quando cerco in tutti i modi di risolvere un problema non mi hanno mai lasciato indifferente, ed ho riscoperto quanto importante sia mettersi a disposizione di chi si trova in difficoltà a volte insormontabili.
Mi è capitato di trattenere a stento le lacrime di fronte al disperato pianto di una giovane signora che doveva prenotare una visita per il papà malato terminale, e sono rimasto molto colpito dalla struggente disperazione di una mamma che, alla notizia che la figlia di dieci anni aveva un tumore al cervello, proprio pochi giorni prima aveva perso il figlioletto che aveva in grembo.
Io, che con i miei reati la sofferenza l’ho inflitta in modo molto pesante, non posso fare a meno, ogni volta, a soffermarmi su questi episodi strazianti, e questo confronto quasi quotidiano col dolore degli altri mi fa riflettere ancora più profondamente sulle mie scelte sbagliate.
Oltre a questo, a colpirmi è stata anche la manifestazione di fiducia che mi è stata concessa.
Mi sono sempre chiesto come fosse possibile, con tutto quello che avevo fatto, che i responsabili della Cooperativa Giotto avessero cercato proprio me, che di “garanzie” non ne offrivo nemmeno una; mi sono domandato come fosse possibile che ci fosse ancora qualcuno disposto a darmi una seconda chance, seppur limitata all’ambito lavorativo, e per di più in un’attività dove il contatto con le persone esterne è continuo e particolarmente delicato, e quindi sono stato costretto a rialzare la testa, a “reagire”. La conseguenza di tutti questi interrogativi è che non voglio e non posso permettermi di sbagliare, quindi cerco di lavorare sempre al meglio delle mie capacità, come in una sorta di dimostrazione - agli altri, ma ancor di più a me stesso - che “nonostante tutto” sono ancora in grado di fare e di dare qualcosa di positivo.
Da quando lavoro la “qualità” della mia vita detentiva è indubbiamente e nettamente migliorata: non devo più chiedere soldi ai miei familiari, anzi sono io che ogni tanto mando qualcosa alle mie figlie, ma nonostante questo, e contrariamente a quel che si potrebbe pensare, l’apertura di credito di persone disposte a puntare ancora di me ha avuto un effetto spiazzante, assolutamente imprevedibile, che anziché alleviare l’insostenibile peso della mia coscienza mi ha fatto sentire, ancora più prepotentemente, tutto l’affanno dei miei errori.
(Marino)
Appena entrato in carcere mi è stato assegnato un numero, il mio numero di matricola. Da quel momento ho sentito forte la perdita della mia identità e l’adattamento a un sistema nel quale non ho molti diritti, ma soltanto alcune concessioni. Poi, come un fulmine a ciel sereno, è arrivato questo lavoro, mi è stata accordata fiducia e l’opportunità di dimostrare che IO non sono soltanto un numero di matricola, non sono soltanto il reato che ho commesso… ma molte altre cose.
IO posso aiutare gli altri, regalare un sorriso, una parola di conforto.
E tutto ciò è stato possibile soltanto grazie all’opportunità concessami e al sorriso disarmante che ho trovato negli operatori e nei miei compagni di lavoro che già da tempo vivono questa esperienza. Sento che con questo lavoro sto riacquistando la mia identità, ora non mi vergogno più con i miei familiari perché in qualche modo anch’io ho ritrovato uno spazio nella società, e giorno dopo giorno sto dimostrando che l’opportunità offertami sta dando buoni frutti.
Aiutare il prossimo mi fa stare bene perché mi sembra quasi di ripagare, almeno in parte, il torto commesso. Ora vivo meno dolorosamente e meno inutilmente la carcerazione, perché sento che tutto questo non è più tempo perso.
(Fabrizio)


1° MAGGIO/ L’imprenditore: è la crisi ad insegnarci ancora qualcosa - Redazione - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
«La crisi è forte, eccome. Tutti i mercati stanno consumando meno, le aziende produttrici di beni producono meno e quindi non investono nei macchinari», quelle macchine utensili per materie plastiche che la sua azienda produce da tre generazioni di imprenditori, dal 1954. Ma non è solo la Tria Spa di Cologno Monzese a subire un calo degli ordinativi. «I dati di Ucimu di settimana scorsa - spiega Luciano Anceschi, 47 anni, amministratore delegato - dichiarano -51 per cento di ordini, con punte di -70 e -80 per cento. Ma non ci si può fermare ai dati degli ordinativi e del fatturato, perché una crisi così grave pone tante domande. A cominciare dal perché di quello che faccio e che facciamo qui dentro, non solo io ma anche i dipendenti».
Raggiungiamo Anceschi nel pomeriggio, nel pieno di una giornata di lavoro. «Il nonno ha cominciato tutto, poi papà e ora noi fratelli. Tria ha novanta dipendenti, fatturiamo 23 milioni, abbiamo una filiale in Germania e una in Giappone. Esportiamo per l’80 per cento. Al 70 per cento lavoriamo produzioni ad alta tecnologia, i nostri competitor sono tedeschi e americani. La crisi ha colpito tutti e non ne siamo fuori. Ma fortunatamente per noi, le materie plastiche hanno una destinazione vastissima e gli ordinativi di macchine utensili sono continuati, sia pure con cali verticali».
La crisi, si diceva. «Tutti tentano di capire cosa cambierà e quando finirà. Ma qualcosa è già cambiato in noi» dice Anceschi. «Lo vedo nei miei dipendenti. È stata l’occasione per riscoprire un rapporto personale col proprio lavoro, un rapporto più diretto. Finora è prevalso l’inquadramento sindacale, non come tutela ma come modo di concepire il lavoro stesso. Ora è diverso: anche loro capiscono che se un cliente non paga si rimane a casa. Allora uno si pone delle domande, perché si scopre più fragile e si chiede che senso ha quello che fa. Vedi persone che quando finiscono nell’orario previsto, timbrano per non fare straordinario - perché in cassa integrazione straordinari non se ne possono fare - ma poi tornano sul “pezzo” a fare un’altra mezz’ora, per finire il lavoro. Questo uno lo fa se è cosciente che quel che sta facendo è importante per lui. È una riscoperta che vale per tutti, me compreso».
Anceschi si racconta. Fa l’amministratore delegato da cinque anni, ma ha iniziato in magazzino. «Ho iniziato qui, in Tria, perché era un’opportunità interessante poter lavorare dove si può cambiare, aprire nuove possibilità. Non avevo su di me l’intera responsabilità dell’azienda, ho iniziato dal basso e questo mi ha dato più libertà, mi ha permesso di lavorare con più distacco, quel distacco che mi ha fatto vedere meglio le cose. Sono arrivato a metà degli anni ’80, l’azienda esportava appena un 10 per cento. Era la fine di un clima di scontro, un periodo in cui c’era gente ai cancelli che prendeva a sassate - quando andava bene - il capannone. Una tipica azienda italiana del settore, con padri padroni molto forti, perentori, che decidevano tutto e subito». Questo è stato la fortuna dell’azienda - continua Anceschi - e l’ha salvata in anni caldi in cui ha rischiato di rimanere schiacciata. Poi quel periodo è finito. Le esigenze del mercato sono diventate più alte, più selettive, non ci poteva più essere un padre padrone, ci voleva un piccolo management.
«È stato allora che ho rischiato. Ho cominciato dal magazzino, dalla gestione materiali e dagli acquisti, poi sono passato a sviluppare i prodotti per elevarne la qualità e poter puntare sulle esportazioni. Dopo 3-4 anni ho lavorato sulle vendite, prima in Italia e poi all’estero. Ho capito che non solo fare impresa voleva dire, essenzialmente, rischiare, ma che il rischio era il cuore del lavoro stesso. Non perché si rischia di perdere qualcosa, ma perché si mette in gioco innanzitutto se stessi».
Non tutti, però, hanno la fortuna di passare dal magazzino alla direzione. «È vero, ma la crisi mi ha fatto capire che, in realtà, non c’è alcuna differenza. Mettere tempo in azienda, investire, oppure stare “sul pezzo”, come si suol dire, qualunque esso sia… perché lo faccio, mi chiedo? In tutto questo scopro me stesso, altrimenti non lo farei. Lavorare per se stessi e per il pezzo non è in contraddizione, perché se lavorare fa scoprire di più cosa si è e cosa si vale, allora è vero per tutti e per tutto quello che uno fa».
Che fine hanno fatto, allora, le lotte tra capitale e lavoro, l’ideologia del lavoro espropriato che ha condizionato intere generazioni? Anceschi, anche su questo, è perentorio. «Il senso del mio lavoro devo essere io a conoscerlo, non può stare in una formula. Quando viaggio in Brasile, o in Asia, il dualismo che c’è da noi non lo vedo. Il fatto che nel lavoro uno scopre sé e si realizza, là è molto più evidente. Le persone lavorano con entusiasmo, non sono frammentate come da noi, divise tra lavoro, tempo libero e famiglia per esempio. Lavorare è una scoperta di sé in cui danno tutto senza remore, senza pensare al quarto d’ora in più o in meno. E la sera gli operai che ho conosciuto fanno la scuola serale. Non i dirigenti, gli operai».
Ed è nel lavoro, ci tiene a sottolineare Anceschi, che uno fa esperienza del limite. «Lavorando ho capito quali sono i miei limiti e cosa posso fare. Amministratore delegato di un’azienda di 3 mila persone non lo sarò mai, ma questo dopo tutto non mi interessa. Impari non ad accontentarti, ma ad impegnarti di più con quello che hai davanti e a fare i conti con le situazioni date. Prima dividevo gli ambiti, la famiglia da una parte e il lavoro dall’altra, ma così non sei libero, sei determinato. Non sei libero perché l’azienda prima o poi la perderai, te ne andrai tu o se ne andrà l’azienda. Ma non lavori nemmeno per i figli, perché quando dirai loro: l’ho fatto per te, essi ti risponderanno che non te lo hanno mai chiesto e che, in fondo, da te volevano altro, non l’azienda. Il lavoro mi ha fatto capire che sono imprenditore, marito e padre. Tre grandi circostanze che sollecitano le stesse domande e urgono nella stessa direzione: chi sono davvero e qual è il senso di tutto. A cominciare dal lavoro, naturalmente».
E il primo maggio? «Guardi, fino a ieri avrei detto che la festa del lavoro l’avrei ricordata lavorando. Poi mi sono detto che sarebbe bello se fosse un’occasione per recuperare il senso del lavoro. Come? Dandoci da fare per superare la crisi. La crisi da questo punto di vista è stata un richiamo fortissimo. Da dove viene, mi sono chiesto? Da un’ingordigia profonda, dall’ansia di guadagno del mondo finanziario. È il concetto di un uomo esclusivamente consumatore, che tende alla sazietà. Ma chi è sazio non si fa domande. Vede, c’è stato un periodo in cui avevo quasi più gusto ad occuparmi del mondo associativo dei costruttori anziché dell’azienda, dando per scontato che le cose vanno avanti da sole. Ma quando gli ordini calano del 50, del 70 per cento nulla diventa più scontato. La crisi è venuta per questo, per “denudarci”, tutti, per portare le domande sopite allo scoperto».


FILOSOFIA/ Così Ratzinger e Habermas “duellarono” sulla convivenza civile - Sante Maletta - giovedì 30 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Il libro del Papa che è uscito da due giorni da Cantagalli col titolo L’elogio della coscienza ripropone questioni di estrema attualità su cui abbiamo avuto già occasione di soffermarci.
Ratzinger coglie con grande lucidità la questione essenziale che determina il dibattito filosofico e politico oggi. Una questione che è efficacemente sintetizzata nel cosiddetto Dilemma di Böckenförde già al centro di un celebre dibattito svoltosi a Monaco di Baviera nel 2004 tra l’allora cardinale e il grande filosofo tedesco Jürgen Habermas: Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire. In altre parole, ciò che tale dilemma intende indicare è che nessuna convivenza civile è possibile prescindendo da quelle esigenze ed evidenze morali che la tradizione religiosa conserva e veicola in maniera più o meno critica. E se lo Stato prova a sostituirsi a essa ponendosi come fonte di verità morale, esso si trasforma in Stato etico, vale a dire assume una fisionomia autoritaria.
L’intento di Ratzinger sembra essere quello di difendere la dimensione etico-civile della tradizione religiosa cristiana in un Occidente dove le tendenze laiciste, se non esplicitamente anti-cristiane, sono sempre più aggressive soprattutto all’interno delle istituzioni politiche internazionali (Onu, Unione Europea). Ma egli non cessa mai di ammonire i cristiani a non cedere alla tentazione fondamentalistica di ogni teologia politica, quella di costruire un ordine politico e sociale perfettamente giusto mediante l’identificazione della legge divina con quella civile. Ritorna qui l’idea filosoficamente più pregnante del Ratzinger-pensiero, quella della sinergia tra fede e ragione, dell’opera di purificazione reciproca che esse sono chiamate a svolgere per evitare di cadere nel fideismo da un lato e nel razionalismo dall’altro.
Il cristianesimo in Occidente ha contribuito a formare l’ethos civile e continua a svolgere tale opera in dialogo con altre tradizioni religiose e culturali. Lo spazio pubblico costituito da tale dialogo non può e non deve essere neutralizzato dal punto di vista religioso – come vorrebbero molti laicisti. Lo ha affermato con grande chiarezza lo stesso Habermas: non si può chiedere ai cittadini credenti di rinunziare alle proprie esigenze ed evidenze morali nel dibattito pubblico, altrimenti li si porrebbe in una condizione di minorità, divenendo cittadini di serie B. Non solo: lo stesso dibattito pubblico sarebbe impoverito da questo forzata neutralizzazione, visto che ci sono dimensioni morali della realtà che non si riescono a cogliere senza un punto di vista e un linguaggio religiosi.
In ultima istanza, al cuore della questione sta una parola, quella che compare nel titolo del volume: coscienza. Lo Stato moderno nasce dallo choc delle guerre civili a sfondo religioso con l’intento di neutralizzare il più possibile lo spazio pubblico da ogni forma di convinzione religiosa. Da questo punto di vista la coscienza rappresenta un fattore di rischio, un elemento di turbamento dell’ordine sociale e politico. Ma la storia del ’900 ha mostrato che tale tendenza neutralizzante conduce lo Stato verso forme totalitarie che hanno cercato di eliminare nel terrore dei lager di vario colore ideologico l’essere umano con il suo carico di spontaneità e di libertà. A tale terrore totalitario hanno saputo resistere coloro la cui coscienza morale si è saputa opporre come un’istanza di assolutezza e con una disponibilità al sacrificio estremo.
Il compito teorico oggi è quello di ripensare la nostra convivenza civile considerando la coscienza come risorsa e non più come problema.


«Liberi per vivere»: adesso si fa sul serio - di Domenico Delle Foglie – Avvenire, 30 aprile 2009
Provate a consultare un motore di ricerca, cliccando due paroline in inglese: ' no limits'. Troverete ben 109 milioni (ribadiamo centonovemilioni) di pagine da sfogliare. Tanto che ci viene facile concludere che questo è davvero il tempo del no limits. Di sicuro, non è un caso che questo slogan abbia avuto una fortuna sfacciata nel mondo della pubblicità.
Questa osservazione preliminare, che attiene allo spirito del tempo in cui siamo immersi, rende ancor più intrigante la sfida lanciata con l’operazione «Liberi per vivere». In questo tragitto i promotori hanno pensato di munirsi anche di un dépliant che contiene un testo suddiviso in tre parti. Qui ci soffermiamo sulla sezione che ha un più spiccato impianto antropologico e che reca il titolo «La forza del limite». Un concetto che si mette subito di traverso al 'politicamente corretto'.

Procediamo con ordine. Il testo parte da un’affermazione che è difficile contestare: «Il limite appartiene alla condizione umana».
Eppure, si osserva, è forte nella «nostra generazione» la tentazione di non tenere conto di questa evidenza.
C’è dunque la consapevolezza di non poter dare per scontato che l’accettazione della finitezza umana sia condivisa. È appena il caso di ricordare l’illusione prometeica che insidia l’uomo moderno o di evocare alcune immagini esemplari, come quella del volo di Icaro. O di richiamare la denuncia dei limiti dello sviluppo, legati soprattutto alla rarefazione delle risorse naturali, lanciata negli anni Settanta dal Club di Roma. E ricordare che, se c’è un limite allo sviluppo in prospettiva economica, è altrettanto realistico ipotizzare un limite in àmbito sociale. O saccheggiare tanta pubblicistica, anche recente, in cui vengono rilanciati i princìpi della rivoluzione dei Lumi (libertà, fraternità, uguaglianza) come 'assoluti' che giustificano le scelte individuali declinate esclusivamente nell’ottica dell’autodeterminazione totale.
Esattamente quel principio che pensa di potersi erigere a solo ed esclusivo metro di giudizio per le scelte individuali.

Qui appare in tutta evidenza la sostanziale alternatività delle scelte di chi si rifà a un’antropologia di relazione. Nel cui orizzonte s’incardina la «forza del limite» che ci viene proposta. Ma per capire meglio, usiamo le stesse parole, semplici quanto efficaci, del dépliant: «Il senso del limite, però, più che un ostacolo può rivelarsi, alla prova dei fatti, una inattesa risorsa. Infatti proprio perché finiti e contingenti, siamo e ci sperimentiamo in relazione, bisognosi cioè di essere-con-l’altro». Ma anche questo processo non avviene in una forma automatica. Bensì necessita di percorsi educativi che portino ciascuno a percepirsi in relazione con l’altro, dentro le forme sociali che il tempo offre (prima fra tutte la famiglia), ma anche all’interno di quella trama fitta di socialità diffusa che è l’associazionismo di base o il volontariato. In tutti questi spazi, il portare gli uni i pesi degli altri è lo sbocco naturale di una tessitura interpersonale in cui nessuna soggettualità viene affievolita. Anzi, ogni individuo è considerato un bene prezioso. In questi àmbiti appare quanto meno improbabile quella cultura 'machista' che è l’altra faccia, forse la più impresentabile anche per il mondo del politicamente corretto, dell’autodeterminazione muscolare.

Ulteriore traccia di riflessione è quella inscritta nel rapporto del soggetto con la malattia. Ecco cosa suggerisce il dépliant: «...la sofferenza, oltre a conferire una singolare intimità con se stessi, offre pure una sorprendente opportunità: quella di aprirsi agli altri. A pensarci bene, sta qui una risorsa che si sprigiona dal dolore: ci stana dall’isolamento per ricordare a noi e agli altri il bisogno reciproco di solidarietà». Ci limitiamo a sottolineare il passaggio sulla «singolare intimità con se stessi» che suggerisce una più profonda consapevolezza del nostro io. La sofferenza, dunque, si porge come occasione per «darsi del tu», come suggeriscono psicologi e psicoterapeuti.
C’è poi la parola latina 'limes' che noi interpretiamo come soglia o confine, ma in un’accezione essenzialmente negativa.
È appena il caso di ricordare che a una percezione più profonda, quello stesso termine evoca il passaggio a un territorio nuovo. Piuttosto che a un divieto, esso allude a una nuova frontiera forse inesplorata dell’umano.

Infine il rifiuto del 'dolorismo', che troppe volte viene addossato con superficialità all’antropologia cristiana.
Anzi, qui si denuncia che «la riduzione del dolore fisico, accanto alla cura e alla consolazione, è ancora oggi purtroppo, un traguardo da raggiungere, se è vero che si registra una vistosa differenza tra quanto sarebbe doveroso fare e quanto in pratica viene compiuto». Speriamo che queste parole, così impegnative, facciano fischiare le orecchie a quanti, soprattutto nelle stanze della politica, sono in grado di garantire le cure palliative a tutti i cittadini, in ossequio a un principio di eguaglianza. È appena il caso di osservare che qui si annida una profonda ingiustizia sociale: da una parte i ricchi che possono comprare la medicina palliativa e dall’altra i poveri, condannati a morire nel dolore.
In conclusione: se nel nostro piccolo, leggendo quelle venti righe su «La forza del limite», abbiamo individuato alcune piste di riflessione, non osiamo immaginare cosa possa scaturire dalla cultura e dall’inventiva degli italiani.
Credenti e non credenti, non importa. Buon discernimento a tutti.
Prende il via in questi giorni con la diffusione di dépliant e manifesti la campagna nazionale promossa da un reticolo di associazioni, da Scienza & Vita a Forum delle Famiglie Uno sforzo senza precedenti per una grande opera di riflessione e di educazione sui temi del 'fine vita' affrontando una cultura che rimuove il senso del limite


sul campo - di Lorenzo Schoepflin - In piena corsa la lobby pro-eutanasia - La macchina della propaganda su autodeterminazione e testamento biologico va a tutta velocità: convegni, raccolte firme, dossier giornalistici... - Tutto per diffondere l’idea 'pluralista' che «la vecchia morale non serve più» - Avvenire, 30 aprile 2009
Se qualcuno pensa che, con la morte di Eluana, la macchina della propaganda su autodeterminazio­ne, testamento biologico ed eutanasia si sia fermata, si sbaglia. Al contrario, l’attività di coloro che più o meno direttamente hanno sostenuto la battaglia di Beppino Englaro continua freneticamente. Tra i protagonisti delle varie iniziative disseminate su tutto il territorio italiano, spiccano i nomi legati alla Consulta di bioetica, l’associazione che dal 1995 è stata al fianco del padre di Eluana, e numerosi rappresentanti dei Radicali e dell’Associazione radicale Luca Coscioni.
Molto significativo il convegno tenutosi a Lecce, il 24 aprile, al quale hanno partecipato tra gli altri Beppino Englaro, Mario Riccio, l’anestesista che si occupò del caso Welby, e Maurizio Mori, presidente della Consulta.
Quest’ultimo ha parlato chiaramente di quale sia il progetto ad ampio respiro dell’associazione da lui presieduta: la proposta di «valori morali nuovi per la società italiana»: «Noi riteniamo che sia stato morale ed etico sospendere l’alimentazione e l’idratazione perché Eluana non avrebbe mai voluto continuare così», ha detto Mori dopo aver auspicato «l’accettazione del pluralismo etico» nel dibattito pubblico. Quali siano le idee che dovrebbero animare tale pluralismo (che però giudica aspramente ogni dissenso) lo si può capire dai riferimenti culturali della Consulta che lo stesso Mori ha citato, come ad esempio Peter Singer, autore del libro Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più. Come pluralismo non c’è male.

Radicali italiani e Associazione Luca Coscioni, come detto, non stanno con le mani in mano: il 23 aprile Marco Cappato, che per i Radicali è parlamentare europeo e della Coscioni è segretario, assieme a Marco Pannella ed Emma Bonino, ha partecipato alla consegna delle firme, raccolte durante due mesi di intensa campagna, per la presentazione al Comune di Roma della delibera popolare per l’istituzione di un registro dei testamenti biologici. Cappato ha parlato di una «lotta per il riconoscimento legale del diritto a decidere delle cure e quindi del testamento biologico». Emma Bonino ha invitato a usare «ogni giorno, ogni ora, ogni minuto perché cresca una consapevolezza che riesca a evitare una legge barbara», con riferimento al testo già discusso al Senato, per evitare di dover ricorrere a un referendum e affinché non si ripetano gli «orrori della legge 40». Chi ancora esita di fronte a un impegno culturale a difesa della vita prenda nota.

Un grande attivismo culturale sta caratterizzando anche Micromega, il bimestrale diretto da Paolo Flores d’Arcais, che il 21 febbraio scorso ha organizzato la manifestazione «Sì al testamento biologico. No alla tortura di Stato» a Roma. Il numero di aprile della rivista è dedicato a questo tema e ospita numerosi interventi. Tra essi, quelli di Beppino Englaro e di Carlo Alberto Defanti, il neurologo che ha seguito Eluana fino alla sua morte, già presidente della Consulta di bioetica. Un intreccio di nomi e associazioni che sta intensificando il proprio impegno per la promozione del testamento biologico e dell’eutanasia in Italia.
Loro non stanno a guardare. E noi?



cure palliative - Il vero hospice? Fra le mura domestiche - di Francesca Lozito – Avvenire, 30 aprile 2009
La medicina di base come ponte tra le cure specialistiche e la casa del malato. Secondo Pierangelo Lo­ra Aprile, bresciano, responsabi­le nazionale Simg (Società di Me­dicina generale) per l’area cure palliative e medicina del dolore, è que­sta la prospettiva futura per costruire una valida assistenza domiciliare per chi si trova in una situazione di termina­lità.
Ma non solo.
Dottore, perché proprio i medici di famiglia dovreb­bero rivestire un ruolo di cerniera tra l’ospedale e la casa?
«Perché è quello che più propriamente compete loro. Og­gi questo settore può costituire un’opportunità nel mo­mento in cui il modello ospedale non funziona più per tut­to e si sceglie di stare sul territorio. Il medico di famiglia è capace di percepire i bisogni delle persone lì dove nasco­no, in casa. Quando ciò accade, in gran parte questi si ri­solvono nell’ambito delle mura domestiche».
Questo accade anche per i malati terminali?
«Nei mesi scorsi la Simg ha presentato una ricerca a livello nazionale secondo cui il 93% dei medici di famiglia è pron­to a gestire il paziente terminale a casa, ma chiede di poter essere aiutato da un’equipe formata dall’esperto in cure pal­liative e dall’infermiere professionale. E quando serve, an­che da chi si occupa di fornire aiuto psicologico. Così fa­cendo sarà possibile invertire la tendenza che vede in Ita­lia ogni anno solo il 20% delle 300.000 persone che ne­cessitano di un programma di cure palliative godere di un’assistenza domiciliare di qualità».
Quanto è lunga la strada per arrivare a una vera e propria «umanizzazione» della medicina?
«Prima di tutto si deve raggiungere un equilibrio tra la ne­cessità dei ricoveri e la possibilità della cura a domicilio. E per fare questo occorre rassicurare il paziente e la sua fa­miglia che questa scelta non vorrà dire abbandonarlo, ma, piuttosto, fare tutto il possibile per lui. Vuol dire fare in modo che non abbiano ansie e paure ingiustificate».
Si dice che la grande sfida, una volta fatta partire la rete degli hospice, sia completarla con l’assistenza domiciliare. È d’accordo?
«L’hospice è il luogo ideale di cura per questi pazienti solo in quelle situazioni in cui non è possibile farlo a casa. De­ve essere però un’alternativa, un’opzione. Perché la prefe­renza è sempre quella di morire a casa, in condizioni di­gnitose. Ma a casa deve esserci un supporto, soprattutto se la persona che assiste, il cosiddetto care giver, è anziana, di­sabile, oppure non ha il sostegno economico necessario. Il bisogno di hospice, quantificato in 0,6 posti letto ogni 10.000 abitanti, è importante, ma non è su queste struttu­re che deve focalizzarsi il problema delle cure palliative. Che si incentrano sulla domiciliarità, il curare a casa, ga­rantendo lo stesso livello di cure erogate in un hospice».
Costa molto curare a domicilio?
«Curare a casa per il sistema sanitario è economicamente vantaggioso: ogni paziente seguito costa infatti meno di 100 euro al giorno rispetto ai 200/250 euro richiesti dal­l’assistenza in un hospice e oltre i 350 euro in media del ri­covero in ospedale».
Perché allora non si potenzia l’assistenza domicilia­re?
«Perché da una parte c’è una resistenza di tipo culturale, dal­l’altra di investimenti. In Italia si sono verificate situazioni paradossali: solo nel Lazio e in Campania si sono registra­te 1 milione di giornate di degenza di malati morti in o­spedale per ricevere cure palliative (che invece avrebbero de­siderato morire a casa). Queste due Regioni hanno sper­perato i fondi erogati per costruire gli hospice, spendendo il 94% delle risorse e realizzando solo 0,16 posti letto ogni 10.0000 abitanti. Non solo in questi casi non si è offerto un servizio alla popolazione (che non è assistita né a casa né in hospice), ma i pazienti sono stati costretti a morire in ospedale consumando risorse per malati acuti (costando molto di più che non nell’hospice o a casa). Altre Regioni (ad esempio Lombardia, Emilia Romagna e Toscana) in­vece hanno utilizzato razionalmente i loro budget, realiz­zando gli 0,6 posto letto ogni 10.000 abitanti».
Si può stimare quante persone coinvolge un discor­so di assistenza domiciliare?
«I dati di cui attualmente disponiamo riguardano solo la mortalità per cancro, che può essere quantificata in circa 180.000 persone ogni anno: l’80% potrebbe usufruire di cure domiciliari e il 20% di cure in hospice».
Pierangelo Lora Aprile, responsabile della Società di medicina generale: «La struttura per pazienti terminali è importantissima ma dovrebbe essere un’alternativa: le persone preferiscono morire a casa propria. Rendiamogli possibile questa scelta»


Ratzinger, teologia dell’Assoluto - DI CAMILLO RUINI – Avvenire, 30 aprile 2009
L’analisi di Camillo Ruini: «Il pensiero di Benedetto XVI si occupa in modo approfondito delle grandi problematiche etiche e storiche del nostro tempo»
Il teologo e poi cardinale Joseph Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, si è occupato di teologia praticamente per tutta la sua vita ed è certamente una delle voci più alte e significative della teologia contemporanea, che con l’elezione al soglio pontificio ha acquisito un ulteriore, straordinario motivo di autorevolezza. È buona norma, quando cerchiamo di cogliere il senso complessivo di una grande impresa intellettuale e umana, informarci anzitutto di come la concepisca il suo autore. Assai indicative al riguardo sono due brevi affermazioni di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. La prima è contenuta nel libro La mia vita (pp. 92-93): differenziando la sua teologia da quella di Karl Rahner, Ratzinger scrive: «Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico». Molto più recente è la seconda affermazione, che si può leggere nella prefazione di Benedetto XVI al primo volume della sua Opera omnia: «La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita, ed è diventata […] anche il centro del mio lavoro teologico.
Come materia specifica ho scelto la teologia fondamentale, perché volevo innanzitutto andare fino in fondo alla domanda: perché crediamo? Ma in questa domanda era inclusa fin dall’inizio l’altra sulla giusta risposta da dare a Dio, e quindi anche la domanda sul servizio divino». Sacra Scrittura, Padri della Chiesa e liturgia sono dunque l’humus vitale della riflessione teologica di Ratzinger, ma proprio a partire da qui egli affronta, senza sconti, la questione della verità – e della bellezza e «vivibilità» – della fede cristiana, nell’attuale situazione storica e in rapporto alle forme di razionalità e ai modi di intendere la vita oggi prevalenti. Fin dalla sua prima prolusione accademica, tenuta all’Università di Bonn nel giugno 1959 e dedicata al Dio della fede e al Dio dei filosofi, Ratzinger dà forma ed espressione al nucleo fondamentale della sua teologia: l’Assoluto, che i filosofi greci avevano in qualche modo riconosciuto, ritenendolo però inaccessibile agli uomini, è in realtà il Dio degli uomini, il Dio che ci parla e ci ascolta, il Dio che in Gesù Cristo si è dato totalmente per noi. Tra fede e ragione vige pertanto un rapporto profondo e indistruttibile, e il cristianesimo può a buon diritto presentarsi come la «religione vera». Inoltre, come il Logos divino è identicamente l’Agape, l’Amore originario e la misura dell’amore autentico, così la verità cristiana trova la sua espressione concreta nell’etica dell’amore del prossimo, nella cura dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni differenza di condizioni sociali.
La forza che ha permesso l’espansione missionaria del cristianesimo risiede dunque nella sintesi che esso ha saputo realizzare tra ragione, fede e prassi della vita. Questa sintesi, e la connessa rivendicazione di verità del cristianesimo, hanno retto attraverso i secoli e il passaggio delle culture, ma con l’epoca moderna sembrano sempre più superate. «Al termine del secondo millennio – scriveva il cardinale Ratzinger in Fede Verità Tolleranza (p. 170) – il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua diffusione originaria, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa di verità». L’impegno centrale del lavoro teologico dell’attuale Pontefice è essenzialmente rivolto a uscire da questa crisi. A tal fine egli ha analizzato a più riprese le ragioni storiche delle attuali difficoltà, non nascondendo affatto quelle interne al cristianesimo e alla Chiesa: con il passare dei secoli, infatti, il cristianesimo era purtroppo diventato in larga misura tradizione umana e religione di Stato, contrariamente alla propria natura. È pertanto merito dell’Illuminismo aver riproposto, per lo più in polemica con la Chiesa, quei valori di razionalità e libertà che trovano alimento nella fede cristiana. Ma lo sguardo di Ratzinger, più che all’analisi del passato, è rivolto ad aprire alla fede le strade del futuro.
«Allargare gli spazi della razionalità» è la formula che indica la fondamentale direzione di marcia. La razionalità scientifica, basata sull’esperimento e sul calcolo, e la critica storica, per quanto importanti e irrinunciabili, da sole non bastano infatti a soddisfare il nostro desiderio di conoscere e a dare un senso e una direzione alla nostra esistenza. In concreto Ratzinger contesta sia la pretesa di fare della teoria dell’evoluzione una spiegazione almeno potenzialmente universale e autosufficiente di tutta la realtà sia la tendenza della critica storica a ridurre la figura di Gesù a un’evanescente sommatoria di ipotesi storiografiche. È necessario invece aprirsi, in un atteggiamento di «ascolto umile», a Dio che ci interpella attraverso la creazione e che, soprattutto, ci ha manifestato il suo volto in Gesù Cristo. Anche oggi, inoltre, il cristianesimo deve mostrarsi come proposta di vita buona e autentica, come la migliore opportunità che è offerta all’uomo di trovare speranza, felicità e gioia. Perciò la teologia di Ratzinger-Benedetto XVI si occupa in modo approfondito delle grandi problematiche etiche e storiche del nostro tempo. Le sue analisi del relativismo e della sua «dittatura», che minaccia di essiccare la linfa vitale della civiltà europea, e d’altra parte l’impegno a proporre in termini idonei al contesto attuale la grande eredità morale e culturale che ci viene dalla nostra storia, rappresentano un contributo straordinariamente rilevante offerto non solo ai credenti ma a chiunque voglia affrontare responsabilmente le sfide che stanno davanti a noi. Quanto mai suggestiva e feconda è in particolare la proposta formulata da Ratzinger nella relazione tenuta a Subiaco il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II.
Egli cioè propone a coloro che non riescono a credere di «vivere come se Dio esistesse»: «Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno». Abbiamo visto come la liturgia sia sempre stata per Benedetto XVI l’attività centrale della sua vita e il centro del suo lavoro teologico. Anche nel trattare le problematiche etiche e storiche egli non indulge mai a un moralismo che affiderebbe il superamento delle difficoltà principalmente allo sforzo morale del singolo o della collettività. Decisiva rimane sempre l’azione gratuita di Dio, la presenza nella nostra vita del suo amore e della sua misericordia. Perciò la preghiera, in particolare la preghiera liturgica in cui la Chiesa unita a Cristo prega e loda Dio, rimane la risorsa più grande di cui, anche oggi, l’umanità possa disporre.