mercoledì 22 giugno 2011

1)    L’UDIENZA GENERALE, 22.06.2011 - CATECHESI DEL SANTO PADRE
2)    La laicità di Benedetto di Luigi Negri, martedì 21 giugno 2011, il sussidiario.net
3)    La lezione di San Marino di Gabriele Mangiarotti*, 21-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
4)    Eutanasia, vescovi Usa contro la falsa libertà di Tommaso Scandroglio, 20-06-2011, da http://labussolaquotidiana.it
5)    Libertà religiosa? Dove non c'è si muore di Massimo Introvigne, 21-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
6)    IL CASO/ Tra supermercato e catena di montaggio, che fine hanno fatto i medici? Di Carlo Bellieni, martedì 21 giugno 2011, il sussidiario.net
7)    Le campagne pubblicitarie per l’aborto e l’eutanasia, Come si vende la morte, di Carlo Bellieni, http://carlobellieni.com/
8)    «Non c'è evangelizzazione senza adorazione» di Andrea Zambrano, 21-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
9)    PAURA DI MORIRE? I VESCOVI USA PROPONGONO UN “MODO INFINITAMENTE MIGLIORE” - Approvano una dichiarazione sul suicidio medicalmente assistito - WASHINGTON, D.C., martedì, 21 giugno 2011 (ZENIT.org)
10)                      Petrucciani, spirito indomito in un corpo disobbediente di Tommaso Scandroglio, 22-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
11)                      Dorothy e i "diritti" dei cattolici di Lorenzo Albacete, mercoledì 22 giugno 2011, il sussidiario.net
12)                      21/06/2011 – BANGLADESH - “Io, attivista cristiano per i diritti umani sequestrato e torturato” di William Gomes
13)                      Respinto dalla Camera dei rappresentanti un disegno di legge - Il Costa Rica rigetta la fecondazione in vitro (©L'Osservatore Romano 22 giugno 2011)
14)                      Bologna parla: la tradizione è fatta anche di "rotture" - Interviene nella disputa un discepolo bolognese di don Dossetti, lo storico Enrico Morini. Con un'analisi sorprendente, che piacerà forse più ai tradizionalisti che ai novatori. In un POST SCRIPTUM le repliche di Arzillo e Cavalcoli di Sandro Magister
15)                      LA STORIA/ Ha un figlio dalla moglie due anni dopo che lei è morta di tumore - INT. Nicoletta Tiliacos, mercoledì 22 giugno 2011, il sussidiario.net

L’UDIENZA GENERALE, 22.06.2011 - CATECHESI DEL SANTO PADRE

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, riprendendo il ciclo di catechesi sulla preghiera, ha incentrato la sua meditazione sul Libro dei Salmi.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con la recita del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Il Libro dei Salmi

Cari fratelli e sorelle,

nelle precedenti catechesi, ci siamo soffermati su alcune figure dell’Antico Testamento particolarmente significative per la nostra riflessione sulla preghiera.

Ho parlato su Abramo che intercede per le città straniere, su Giacobbe che nella lotta notturna riceve la benedizione, su Mosè che invoca il perdono per il suo popolo, e su Elia che prega per la conversione di Israele.

Con la catechesi di oggi, vorrei iniziare un nuovo tratto del percorso: invece di commentare particolari episodi di personaggi in preghiera, entreremo nel "libro di preghiera" per eccellenza, il libro dei Salmi. Nelle prossime catechesi leggeremo e mediteremo alcuni tra i Salmi più belli e più cari alla tradizione orante della Chiesa. Oggi vorrei introdurli parlando del libro dei Salmi nel suo complesso.

Il Salterio si presenta come un "formulario" di preghiere, una raccolta di centocinquanta Salmi che la tradizione biblica dona al popolo dei credenti perché diventino la sua, la nostra preghiera, il nostro modo di rivolgersi a Dio e di relazionarsi con Lui. In questo libro, trova espressione tutta l’esperienza umana con le sue molteplici sfaccettature, e tutta la gamma dei sentimenti che accompagnano l’esistenza dell’uomo.

Nei Salmi, si intrecciano e si esprimono gioia e sofferenza, desiderio di Dio e percezione della propria indegnità, felicità e senso di abbandono, fiducia in Dio e dolorosa solitudine, pienezza di vita e paura di morire. Tutta la realtà del credente confluisce in quelle preghiere, che il popolo di Israele prima e la Chiesa poi hanno assunto come mediazione privilegiata del rapporto con l’unico Dio e risposta adeguata al suo rivelarsi nella storia. In quanto preghiere, i Salmi sono manifestazioni dell’animo e della fede, in cui tutti si possono riconoscere e nei quali si comunica quell’esperienza di particolare vicinanza a Dio a cui ogni uomo è chiamato. Ed è tutta la complessità dell’esistere umano che si concentra nella complessità delle diverse forme letterarie dei vari Salmi: inni, lamentazioni, suppliche individuali e collettive, canti di ringraziamento, salmi penitenziali, salmi sapienziali, ed altri generi che si possono ritrovare in queste composizioni poetiche.

Nonostante questa molteplicità espressiva, possono essere identificati due grandi ambiti che sintetizzano la preghiera del Salterio: la supplica, connessa al lamento, e la lode, due dimensioni correlate e quasi inscindibili. Perché la supplica è animata dalla certezza che Dio risponderà, e questo apre alla lode e al rendimento di grazie; e la lode e il ringraziamento scaturiscono dall’esperienza di una salvezza ricevuta, che suppone un bisogno di aiuto che la supplica esprime.

Nella supplica, l’orante si lamenta e descrive la sua situazione di angoscia, di pericolo, di desolazione, oppure, come nei Salmi penitenziali, confessa la colpa, il peccato, chiedendo di essere perdonato.

Egli espone al Signore il suo stato di bisogno nella fiducia di essere ascoltato, e questo implica un riconoscimento di Dio come buono, desideroso del bene e "amante della vita" (cfr Sap 11,26), pronto ad aiutare, salvare, perdonare. Così, ad esempio, prega il Salmista nel Salmo 31: «In te, Signore, mi sono rifugiato, mai sarò deluso […] Scioglimi dal laccio che mi hanno teso, perché sei tu la mia difesa» (vv. 2.5). Già nel lamento, dunque, può emergere qualcosa della lode, che si preannuncia nella speranza dell’intervento divino e si fa poi esplicita quando la salvezza divina diventa realtà. In modo analogo, nei Salmi di ringraziamento e di lode, facendo memoria del dono ricevuto o contemplando la grandezza della misericordia di Dio, si riconosce anche la propria piccolezza e la necessità di essere salvati, che è alla base della supplica. Si confessa così a Dio la propria condizione creaturale inevitabilmente segnata dalla morte, eppure portatrice di un desiderio radicale di vita. Perciò il Salmista esclama, nel Salmo 86: «Ti loderò, Signore, mio Dio, con tutto il cuore e darò gloria al tuo nome per sempre, perché grande con me è la tua misericordia: hai liberato la mia vita dal profondo degli inferi» (vv. 12-13). In tal modo, nella preghiera dei Salmi, supplica e lode si intrecciano e si fondono in un unico canto che celebra la grazia eterna del Signore che si china sulla nostra fragilità.

Proprio per permettere al popolo dei credenti di unirsi a questo canto, il libro del Salterio è stato donato a Israele e alla Chiesa. I Salmi, infatti, insegnano a pregare. In essi, la Parola di Dio diventa parola di preghiera - e sono le parole del Salmista ispirato - che diventa anche parola dell’orante che prega i Salmi. È questa la bellezza e la particolarità di questo libro biblico: le preghiere in esso contenute, a differenza di altre preghiere che troviamo nella Sacra Scrittura, non sono inserite in una trama narrativa che ne specifica il senso e la funzione. I Salmi sono dati al credente proprio come testo di preghiera, che ha come unico fine quello di diventare la preghiera di chi li assume e con essi si rivolge a Dio.

Poiché sono Parola di Dio, chi prega i Salmi parla a Dio con le parole stesse che Dio ci ha donato, si rivolge a Lui con le parole che Egli stesso ci dona. Così, pregando i Salmi si impara a pregare. Sono una scuola della preghiera.

Qualcosa di analogo avviene quando il bambino inizia a parlare, impara cioè ad esprimere le proprie sensazioni, emozioni, necessità con parole che non gli appartengono in modo innato, ma che egli apprende dai suoi genitori e da coloro che vivono intorno a lui.

Ciò che il bambino vuole esprimere è il suo proprio vissuto, ma il mezzo espressivo è di altri; ed egli piano piano se ne appropria, le parole ricevute dai genitori diventano le sue parole e attraverso quelle parole impara anche un modo di pensare e di sentire, accede ad un intero mondo di concetti, e in esso cresce, si relaziona con la realtà, con gli uomini e con Dio. La lingua dei suoi genitori è infine diventata la sua lingua, egli parla con parole ricevute da altri che sono ormai divenute le sue parole. Così avviene con la preghiera dei Salmi.

Essi ci sono donati perché noi impariamo a rivolgerci a Dio, a comunicare con Lui, a parlarGli di noi con le sue parole, a trovare un linguaggio per l'incontro con Dio. E, attraverso quelle parole, sarà possibile anche conoscere ed accogliere i criteri del suo agire, avvicinarsi al mistero dei suoi pensieri e delle sue vie (cfr Is 55,8-9), così da crescere sempre più nella fede e nell’amore. Come le nostre parole non sono solo parole, ma ci insegnano un mondo reale e concettuale, così anche queste preghiere ci insegnano il cuore di Dio, per cui non solo possiamo parlare con Dio, ma possiamo imparare chi è Dio e, imparando come parlare con Lui, impariamo l'essere uomo, l'essere noi stessi.

A tale proposito, appare significativo il titolo che la tradizione ebraica ha dato al Salterio. Esso si chiama tehillîm, un termine ebraico che vuol dire "lodi", da quella radice verbale che ritroviamo nell’espressione "Halleluyah", cioè, letteralmente: "lodate il Signore". Questo libro di preghiere, dunque, anche se così multiforme e complesso, con i suoi diversi generi letterari e con la sua articolazione tra lode e supplica, è ultimamente un libro di lodi, che insegna a rendere grazie, a celebrare la grandezza del dono di Dio, a riconoscere la bellezza delle sue opere e a glorificare il suo Nome santo. È questa la risposta più adeguata davanti al manifestarsi del Signore e all’esperienza della sua bontà. Insegnandoci a pregare, i Salmi ci insegnano che anche nella desolazione, anche nel dolore, la presenza di Dio rimane, è fonte di meraviglia e di consolazione; si può piangere, supplicare, intercedere, lamentarsi, ma nella consapevolezza che stiamo camminando verso la luce, dove la lode potrà essere definitiva. Come ci insegna il Salmo 36: «È in Te la sorgente della vita, alla tua luce vedremo la luce» (Sal 36,10).

Ma oltre a questo titolo generale del libro, la tradizione ebraica ha posto su molti Salmi dei titoli specifici, attribuendoli, in grande maggioranza, al re Davide. Figura dal notevole spessore umano e teologico, Davide è personaggio complesso, che ha attraversato le più svariate esperienze fondamentali del vivere. Giovane pastore del gregge paterno, passando per alterne e a volte drammatiche vicende, diventa re di Israele, pastore del popolo di Dio. Uomo di pace, ha combattuto molte guerre; instancabile e tenace ricercatore di Dio, ne ha tradito l’amore, e questo è caratteristico: sempre è rimasto cercatore di Dio, anche se molte volte ha gravemente peccato; umile penitente, ha accolto il perdono divino, anche la pena divina, e ha accettato un destino segnato dal dolore. Davide così è stato un re, con tutte le sue debolezze, «secondo il cuore di Dio» (cfr 1Sam 13,14), cioè un orante appassionato, un uomo che sapeva cosa vuol dire supplicare e lodare. Il collegamento dei Salmi con questo insigne re di Israele è dunque importante, perché egli è figura messianica, Unto del Signore, in cui è in qualche modo adombrato il mistero di Cristo.

Altrettanto importanti e significativi sono il modo e la frequenza con cui le parole dei Salmi vengono riprese dal Nuovo Testamento, assumendo e sottolineando quel valore profetico suggerito dal collegamento del Salterio con la figura messianica di Davide. Nel Signore Gesù, che nella sua vita terrena ha pregato con i Salmi, essi trovano il loro definitivo compimento e svelano il loro senso più pieno e profondo. Le preghiere del Salterio, con cui si parla a Dio, ci parlano di Lui, ci parlano del Figlio, immagine del Dio invisibile (Col 1,15), che ci rivela compiutamente il Volto del Padre. Il cristiano, dunque, pregando i Salmi, prega il Padre in Cristo e con Cristo, assumendo quei canti in una prospettiva nuova, che ha nel mistero pasquale la sua ultima chiave interpretativa. L’orizzonte dell’orante si apre così a realtà inaspettate, ogni Salmo acquista una luce nuova in Cristo e il Salterio può brillare in tutta la sua infinita ricchezza.

Fratelli e sorelle carissimi, prendiamo dunque in mano questo libro santo, lasciamoci insegnare da Dio a rivolgerci a Lui, facciamo del Salterio una guida che ci aiuti e ci accompagni quotidianamente nel cammino della preghiera.

E chiediamo anche noi, come i discepoli di Gesù, «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1), aprendo il cuore ad accogliere la preghiera del Maestro, in cui tutte le preghiere giungono a compimento. Così, resi figli nel Figlio, potremo parlare a Dio chiamandoLo "Padre Nostro".
Grazie.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana



La laicità di Benedetto di Luigi Negri, martedì 21 giugno 2011, il sussidiario.net

Un evento di grazia, la visita di Benedetto XVI nella Chiesa di San Marino-Montefeltro, che ha investito tutta la società sanmarinese e feretrana. La presenza del Papa, come testimone inimitabile della fede in Gesù Cristo, mantiene ciò che promette, realizza il cambiamento dell’intelligenza e del cuore dell’uomo, e perciò pone le condizioni, come ha detto il Santo Padre, per cambiare anche le strutture del mondo.
La fede in Cristo affonda qui le sue radici in una storia che si può propriamente definire una storia benedetta. Questa fede ha creato e custodito la cultura del popolo, e per essa ha potuto realizzare quella che Giovanni Paolo II ha chiamato «la civiltà della verità e dell’amore». Non una vicenda astrattamente ideale, ma reale, storica, in cui le vicende della vita personale, familiare, dei gruppi, delle etnie, vissute e affrontate nella «radicalità» della fede, hanno forgiato un’esperienza di positività ultima della vita.
In questa terra, per secoli, la fede ha cantato il suo gloria a Dio attraverso una straordinaria esperienza estetica - quella delle infinite espressioni dell’arte popolare cristiana che gremiscono le nostre chiese, le nostre case, le nostre piazze; che accompagnavano, con la compagnia quotidiana del volto della Madonna, il cammino del viandante. Anche nelle circostanze negative, anche nelle lunghe stagioni di guerra e di fame, la vita di ogni giorno è così diventata un inno, un inno della vita quotidiana al senso più profondo di essa.
Ma la ragione, l’intelletto, la conoscenza, la capacità di manipolazione della realtà - in una parola, la cultura di questo popolo, è oggi largamente soggetta alla mentalità dominante. A quella mentalità per la quale l’unica risorsa che l’uomo ha per affrontare la sua vita è se stesso, la sua intelligenza, i suoi progetti, le sue capacità tecnologico-scientifiche.
Il Papa è entrato di schianto dentro questo dualismo tra una fede sentimentale e una ragione sostanzialmente atea per richiamare, in modo amabile ma vigoroso, che la fede è il fondamento unico di tutta la vita dell’uomo, e di questo fondamento l’uomo è chiamato ad assumersi, in prima persona, tutta la responsabilità. Quest’appello chiama l’uomo a vivere la tradizione non semplicemente come un dato sentimentale del passato, ma come un’esperienza che unifica la persona ora e le dà motivazioni per vivere, per lavorare, per soffrire, per lottare, per morire.
Il popolo di San Marino e del Montefeltro ha accolto con un crescendo di entusiasmo la presenza di un Papa che ha richiamato come presente ciò che la maggior parte riteneva al massimo un passato, per quanto dignitoso, ma pur sempre un passato. Agli adulti come ai giovani, Papa Benedetto ha riproposto l’avvenimento nella fede come appartenenza e sequela della Chiesa, come comunione vissuta, come cultura che nasce dalla fede, come carità che sgorga dal cuore stesso di Dio, come il grande evento da vivere, oggi, per sé e per il mondo.
Nei suoi interventi alla comunità politica - e penso al discorso rivolto ai Capitani Reggenti - ha indicato le vie di quella che ha chiamato una «sana laicità»: l’impegno solidale di uomini che vivendo fino in fondo la propria identità culturale e religiosa, sanno creare uno spazio sociale nel quale i diritti sono reciprocamente riconosciuti e attivati. Solo così la realtà sociale viene investita da una capacità di dialogo, di confronto e di collaborazione che rende possibile il perseguimento del bene comune, che è il bene della concreta società.
Ai giovani, il Papa ha dettato la via per un’impresa nuova. Vivere il cristianesimo come cammino di appartenenza e di obbedienza reciproca nel mistero di Cristo e della Chiesa, rende finalmente i giovani, all’opposto di quello che i mass-media propongono come modello, protagonisti della loro propria vita.
L’evento di grazia, irripetibile, di quest’ultima domenica della Trinità ha segnato in maniera indelebile la vita di un popolo. Occorre seguirlo, certi che Cristo - come ha detto il Pontefice - «è la Parola definitiva pronunciata sulla nostra storia».
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La lezione di San Marino di Gabriele Mangiarotti*, 21-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

La visita del Papa a San Marino ha avuto una notevole eco sui media soprattutto per alcuni aspetti sociali che Benedetto XVI ha toccato nei sui discorsi: famiglia, lavoro migrazione. Ma un sacerdote che ha seguito la preparazione e la visita ci racconta il senso più vero di questo evento, che è una lezione che vale per tutti.


L'hanno in molti definita una giornata indimenticabile, un evento epocale, un fatto che segnerà la storia di questa diocesi sammarinese-feretrana, un punto di non ritorno.

E certo non sono parole di circostanza, ma indicano lo stupore che la presenza del Papa ha ridestato in questo popolo, anche nelle sue componenti solitamente più critiche e distanti. Viene in mente una bella poesia del grande poeta Clemente Rebora: "E la parola zittì chiacchiere mie". Ove qui, oltre che alla parola si può fare riferimento alla presenza del Papa, alla sua capacità di testimoniare, nella chiarezza e nella umiltà, un Altro più grande, tra noi.

Ho avuto la grazia (dapprima non ritenuta tale, visto il desiderio che avevo di concelebrare la Santa Messa con il Papa, e poi di essere presente all'incontro con i giovani che avevo contribuito a preparare) di poter commentare tutta la giornata alla televisione di San Marino, cercando di cogliere gli aspetti più significativi per una trasmissione in diretta. Otto ore intense, straordinarie, con il direttore Carmen Lasorella, illustri invitati, con la preoccupazione di non perdere neanche una goccia di questo torrente impetuoso di bellezza e di bene.


Certo la ricchezza di contenuti di questa visita sarà motivo di un lavoro che deve iniziare da subito. Vorrei qui evidenziare alcuni spunti: non però con la preoccupazione di indicare il messaggio del Papa come se potesse suggerire una "ricetta" valida per tutte le necessità. A questo anno pensato altri: crisi della famiglia, problemi del lavoro, presenza dei "frontalieri", ecc...

Ma preferisco leggere il cuore del messaggio pontificio in questi semplici suggerimenti. Mi pare che l'incontro con i giovani l'abbia, tra l'altro, evidenziato mirabilmente.

1. Il Papa ha continuamente fatto riferimento alla "esperienza": guardate ciò che vi accade, guardate con simpatia l'umano che è in voi, prendetevi sul serio. Non accettate schemi di lettura di quello che siete. Voi, la vostra vita, le vostre domande, e la spinta che hanno con sé sono il primo libro da prendere in considerazione. Prendetevi sul serio!

Quando ho ascoltato questi i contenuti mi sono commosso profondamente, avvertendo in queste parole quella eco che Gesù ha destato, anni fa, ma ancora oggi, nella mia vita.


2. Il Papa ha parlato di Gesù (questo "nome" ritengo sia stato la cifra di tutti gli incontri): e lego questa parola al richiamo alla "laicità positiva". Gesù non riguarda una "devozione", non è argomento per "addetti ai lavori", Gesù è fattore reale, elemento della realtà, qualcuno con cui potere (e dovere) fare i conti. L'esperienza della Repubblica di San Marino è, in questo, esemplare: si tratta di una fede che ha creato una civiltà che dura da quasi 2000 anni, tanti sono (1700) quelli in cui questa realtà statuale ha durato nella storia.

Sana laicità, sinonimo di autentico realismo, capace di rifiutare schemi e ideologie (anche gli stereotipi ottocenteschi in cui alcuni vorrebbero ingabbiare questa straordinaria avventura storica).


3. Un'ultima parola mi ha colpito rispetto a quanto il Papa ha reso evidente: il compito che una piccola realtà come questa (la fede che diventa cultura, potremmo dire parafrasando quanto già Giovanni Paolo II affermava come responsabilità del credente e segno che tale fede è accolta, pensata e vissuta) ha una portata universale.

Le radici cristiane di San Marino non sono un retaggio di pochi, quasi un "optional" di alcuni privilegiati. Sono profezia per tutti. Sono ciò a cui ogni uomo può e deve guardare: se ci deve essere una "speranza affidabile", questa è che si dia inizio ad una "fede amica della ragione" che diventa realtà creativa di novità nel presente (del resto Benedetto XVI ha ricordato, commentando l’episodio evangelico del giovane ricco, che «La “vita eterna”, infatti, alla quale fa riferimento quel giovane del Vangelo non indica solamente la vita dopo la morte, non vuol sapere soltanto come arrivo al cielo. Vuol sapere: come devo vivere adesso per avere già la vita che può essere poi anche eterna. Quindi in questa domanda questo giovane manifesta l’esigenza che l’esistenza quotidiana trovi senso, trovi pienezza, trovi verità…».

Così ho letto questa visita, e così capisco che viene rinnovato il compito per ciascuno di noi. Con un nota bene: "Non ci si pente mai ad essere generosi con Dio!".


Eutanasia, vescovi Usa contro la falsa libertà di Tommaso Scandroglio, 20-06-2011, da http://labussolaquotidiana.it

Dal 15 al 17 giugno scorso si è svolta l’Assemblea generale della Conferenza Episcopale Statunitense, assemblea in cui è stato approvato il documento “Vivere ogni giorno con dignità” che riguarda il suicidio assistito.

Il documento si apre costatando che è desiderio di tutti vivere gli ultimi giorni in modo dignitoso e serenamente, circondati dall’affetto dei propri cari. D’altro canto ognuno di noi teme di soffrire, di perdere il controllo del proprio corpo e di diventare così un peso per gli altri. La risposta a questa umanissima paura allora può essere duplice. Da una parte c’è il prendersi cura del malato nella sua globalità: non solo cure palliative, dunque, ma anche attenzione all’anima e alla psiche dei sofferenti, non cadendo nella banale medicalizzazione del dolore bensì andando a rintracciare le sue radici più profonde, la radici della sofferenza psicologica.


Oppure si propone un’altra soluzione diametralmente opposta: il suicidio assistito, ammantando poi questo crimine con l’espressione “morire con dignità”. Eliminando il paziente, così si sostiene, si elimina il dolore e la paura. Negli USA il suicidio assistito è pratica rigettata da moltissimi medici e politici, e il cosiddetto “diritto a morire” fu negato dalla Suprema Corte in una storica sentenza del 1997, sebbene in Oregon l’eutanasia sia permessa sin dal 1994.

Però ultimamente sembra che il vento stia cambiando. Infatti il Cardinale Daniel Di Nardo, presidente del comitato per le Attività Pro-Vita della Conferenza Episcopale Statunitense, afferma che  c’è “una legge simile a quella dell'Oregon nello Stato di Washington, per referendum popolare, nel novembre 2008, e una decisione della Corte Suprema statale del Montana che dichiara essenzialmente che il suicidio assistito non è contrario alla politica pubblica, nonchè sforzi per approvare la legislazione in vari Stati del New England e dell'Ovest”.

I vescovi appuntano che il suicidio assistito spesso viene venduto come se fosse un atto di libertà, esprimente appieno il principio di autodeterminazione. In realtà così non è, sottolineano i porporati, per alcune ragioni assai evidenti.

Innanzitutto chi vuole morire lo fa perché costretto dalla sofferenza fisica e soprattutto psichica. Sotto tortura – aggiungiamo noi – non è possibile compiere alcuna scelta davvero libera. Occorre invece curare la depressione che spinge a farla finita e non incentivarla offrendo soluzioni finali che spalancano le porte alla morte del sofferente. E’ per questo motivo che i vescovi affermano che i pazienti depressi “hanno bisogno di aiuto per essere liberati da questi pensieri suicidari grazie ad attività di sostegno e ascolto, e se necessario tramite il ricorso ai farmaci. Somministrare droghe letali non è una vittoria per la libertà individuale bensì è solo la peggior forma di abbandono che esista”.

In secondo luogo le leggi che approvano il suicidio assistito trattano alcune persone come se fossero di serie B. Se il malato cronico, quello in fase terminale, quello che soffre di demenza senile, quello affetto da grave disabilità si vedono l’ “opportunità” riservata a loro e solo a loro di uscire di scena senza far troppo rumore, viene il sospetto che queste categorie di persone valgono di meno rispetto ad altre. Il suicidio assistito allora in questa prospettiva più che offrire uno strumento per vivere appieno il proprio diritto di autodeterminazione anche in punto di morte, sembra l’uscita secondaria indicata da medici e politicanti per coloro i quali sono un peso per la società. Persone socialmente non gradite, in parole povere.

Infine chi si vuole uccidere contraddice con questa intenzione il principio di libertà individuale perché è “la scelta di eliminare tutte le scelte”. La vita infatti è il presupposto di tutte le scelte, la morte pone fine alla possibilità di compiere qualsiasi opzione.

Il documento poi punta il dito contro un certo falso pietismo. Asserire che l’aiuto al suicidio è un atto di compassione è solo una mistificazione. Compassione è accompagnare all’evento morte, partecipare alle sofferenze del malato, non sopprimere il malato. Si devono “aiutare le persone vulnerabili con i loro problemi, non trattarle come se loro fossero il problema”. Agire per compassione nella prospettiva aberrante dell’eutanasia poi porta ad allargare pericolosamente il cerchio dei soggetti “bisognosi” della dolce morte, attraverso la dinamica del piano inclinato. Non più solo i malati terminali, ma anche i pazienti cronici, i disabili e persino i depressi potranno accedere all’eutanasia.

Dietro a questi scenari – così continuano i vescovi – si muovono anche interessi economici non di poco conto. E’ indubbio che tutti noi pesiamo sulle tasche dei contribuenti proprio negli ultimi anni di vita, cioè quando con buona probabilità soffriremo di qualche patologia assai seria. La scappatoia per risparmiare soldi allora è quella dell’eutanasia, soluzione poco costosa e che permette di distrarre le risorse finanziare ad altre voci di spesa.

E allora come rispondere a questa cultura necrofora? La Conferenza Episcopale Statunitense rammenta la soluzione proposta da Giovanni Paolo II: “la via dell’amore e della vera misericordia”. Cioè la vicinanza, il cum-patire, il farsi carico e il prendersi cura di chi soffre. E poi approfittare con spirito cristiano di questi ultimi istanti di vita per farsi trovare pronti all’incontro con Dio, sfruttando paradossalmente proprio il dolore fisico e la paura della morte, così come ci ha insegnato la passione di nostro signore Gesù Cristo, per convertire la sofferenza in monete di santità al fine di acquistare per sé la vita eterna.

Come chiosa a questo documento ci piace ammettere che dai vescovi americani viene una grande lezione per tutti coloro che nella società e nella politica si battono per la vita. I vescovi non propongono una legge che tenti di disciplinare il fenomeno eutanasia, una legge ritenuta ormai necessaria che finalmente ponga dei paletti, che tenti di arginare il male. Non si fanno irretire dall’etica errata del male minore, bensì puntano tutto sul bene maggiore. Propongono cioè la piena applicazione di una legge già vigente: la legge naturale, ben più efficace di qualsiasi altra legge positiva nel tutelare la vita.


Libertà religiosa? Dove non c'è si muore di Massimo Introvigne, 21-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Per la Giornata Mondiale della Pace 2011 Benedetto XVI ha scelto il tema della libertà religiosa come via necessaria per la pace e la prosperità. Senza citare Benedetto XVI, due sociologi statunitensi - Brian J. Grim e Roger Finke - dimostrano precisamente la stessa tesi in una delle opere di sociologia delle religioni più importanti degli ultimi anni, The Price of Freedom Denied. Religious Persecution and Conflict in the Twenty-First Century ("Il prezzo delle libertà negata. Persecuzione e conflitto religioso nel XXI secolo", Cambridge University Press, New York 2011).

I due sociologi applicano il metodo dell'economia religiosa, che si serve di modelli tratti dalla scienza economica per analizzare quanto avviene nel mondo delle religioni. Il problema cui si trovano di fronte è stato spesso affrontato. A parole, tutti gli Stati si dichiarano a favore della libertà religiosa, ma in pratica nella grande maggioranza dei Paesi del mondo oggi la libertà religiosa non è garantita. Le persecuzioni religiose non sono un fatto del passato. Organizzazioni non governative prestigiose ritengono che ogni anno il numero di cristiani uccisi per la loro fede vada dai 130.000 ai 160.000. I lettori più attenti ricorderanno che abbiamo già citato su La Bussola Quotidiana questa stima riportata da Grim e Finke, fermandoci a una valutazione più prudenziale di 105.000 morti cristiani all'anno, il che significa comunque uno ogni cinque minuti.

È possibile, si chiedono gli autori, elaborare una teoria generale della persecuzione e del conflitto religioso autenticamente sociologica? Per essere tale, la teoria non può limitarsi a descrivere che cosa succede. Deve anche identificare le cause e fornire delle spiegazioni, possibilmente suscettibili di applicazioni generali. Per quanto riguarda i dati, Grim e Finke hanno lavorato soprattutto sui rapporti sulla libertà religiosa prodotti da agenzie governative americane e su un ampio studio del Pew Research Center, di cui lo stesso Grim è coautore. Citano anche i rapporti annuali dell'Aiuto alla Chiesa che Soffre e, sul tema specifico delle misure contro le cosiddette "sette" in Europa, due studi del sottoscritto, di uno dei quali sono coautore con James T. Richardson. Costruiscono così una base di dati, che incrociano con una serie di variabili da identificare come possibili cause delle persecuzioni e dei conflitti religiosi. I risultati sono interessanti, perché dimostrano che molte idee correnti in materia di religione non resistono alla verifica empirica. Molte tesi esaminate nel testo si riducono a una: che la pace religiosa regna, e non c'è bisogno di persecuzioni, laddove lo Stato controlla con mano ferma le religioni, o favorendo una religione maggioritaria o comunque identificata con l'ethos delle istituzioni a danno delle altre, ovvero guardandole tutte con una più o meno malcelata ostilità.

Un complesso modello matematico mostra che questa teoria - attribuita dagli autori, forse in parte ingiustamente, anche a Samuel Huntington (1927-2008) e al suo schema dello scontro delle civiltà - è falsa. Ma alcuni esempi illustrati con dovizia di particolari non richiedono neppure molta matematica. Quando il Pakistan nacque, le minoranze religiose godevano in teoria, e con qualche limitazione anche in pratica, di un'ampia tolleranza. Il tentativo dello Stato di rispondere ai conflitti religiosi introducendo leggi che favoriscono l'islam sunnita ha moltiplicato le persecuzioni e la violenza religiosa, specie ai danni dei cristiani, anziché farle diminuire. Lo stesso è avvenuto in India, ogni volta che gli Stati dell'Unione Indiana hanno introdotto leggi contro le conversioni e contro i missionari per preservare l'identità indù della nazione. È importante notare che nel modello di Grim e Finke non importa se la libertà religiosa sia limitata in nome della preferenza per una religione, come in Pakistan o in India, o per l'ateismo, come in Cina. Nell'uno o nell'altro caso la repressione legale della libertà delle religioni genera persecuzione e conflitto e non pace religiosa. E non è neppure troppo rilevante il fatto che la grande maggioranza dei cittadini appartenga a un'unica religione. Questo accade, per esempio, in Arabia Saudita: ma anche qui ci sono minoranze sciite e immigrati cristiani, e dunque anche qui le leggi che negano la libertà religiosa generano persecuzione e conflitto.

Rovesciando la tesi corrente, Grim e Finke concludono che la causa principale della violenza e della persecuzione in materia di religione -evidentemente non l'unica, come mostra il caso esplicitamente richiamato di forme di terrorismo a base religiosa che attaccano Paesi dove la libertà religiosa è garantita - è costituita dalle leggi che limitano la predicazione e il culto. Più queste leggi sono presenti, più aumenta il numero delle vittime sia della persecuzione pubblica dello Stato - perché le religioni, invitate a cessare la loro attività, di solito non lo fanno e resistono - sia della persecuzione privata da parte si sostenitori della religione o dell'ideologia dominante, che si sentono incoraggiati dalle leggi restrittive a farsi giustizia, per così dire, da soli.

Grim e Finke prendono in considerazione molto seriamente - dedicando al tema un ampio capitolo - l'obiezione secondo cui i numeri spaventosi della persecuzione e delle violenze, che colpiscono soprattutto i cristiani, si spiegano molto più semplicemente, per quanto forse in modo non politicamente corretto, con la rinascita dell'islam e del fondamentalismo islamico. L'obiezione, scrivono gli autori, ha un suo fondamento, dal momento che nel loro modello il livello di violazione della libertà religiosa nei Paesi a maggioranza islamica è in media quatto volte più alto che in quelli a maggioranza cristiana. Non è vero però - sostengono - che questo sia dovuto alla recente crescita del fondamentalismo islamico. Grim e Finke riesumano uno studio pionieristico sulle violazioni della libertà religiosa nel mondo condotto nel 1945 da Miner Searle Bates (1897-1978), un professore con un dottorato a Yale che all'epoca insegnava a Nanchino. Da questo studio emerge che nel 1945, dunque ben prima dell'esplosione internazionale del fondamentalismo islamico, il livello di violazioni della libertà religiosa nei Paesi a maggioranza musulmana corrispondeva più o meno a quello di oggi.

La causa non è dunque il fondamentalismo, ma - suggeriscono gli autori - l'applicazione della legge islamica, la shari'a, che è intrinsecamente ostile alla libertà religiosa. Dove la maggioranza è islamica, ma la shari'a non determina né influenza la legislazione in modo significativo, la situazione non è diversa da quella dei Paesi non musulmani della stessa area geografica. La shari'a emerge così come un caso particolare della regola generale cui gli autori ritengono di essere pervenuto: le leggi che limitano la libertà religiosa sono una fabbrica di violenze religiose. È vero - suggeriscono Grim e Finke in un capitolo conclusivo - anche il contrario. Dove regna la libertà religiosa, lì le crisi che nascono dalla religione generano solo un livello moderato di conflitto sociale. Gli autori insistono sull'esempio del Giappone, dove dopo la Seconda guerra mondiale consulenti americani proposero - o forse imposero - una legge molto favorevole alla libertà religiosa. Qui nel 1995 l'orribile attentato al gas sarin nella metropolitana di Tokyo perpetrato da membri del movimento millenarista Aum Shinri-kyo ha portato a severissime condanne dei colpevoli - in un Paese dove vige la pena di morte - ma non a un conflitto sociale generale intorno ai nuovi movimenti religiosi o alle "sette". Il governo ha perfino rifiutato le richieste di sciogliere Aum Shinri-kyo, molti membri del quale non erano a conoscenza dell'attentato. In un clima dove le leggi garantiscono la libertà religiosa non ci sono state esplosioni di violenza contro le "sette" e lo stesso Aum Shinri-kyo si è ridotto a un residuo insignificante senza bisogno di misure draconiane da parte dello Stato.

Gli autori notano anche che ad alti livelli di libertà religiosa corrispondono quasi ovunque eccellenti livelli di altre libertà e anche di sviluppo economico. Si dichiarano consapevoli di non avere dimostrato che a questa correlazione corrisponda un nesso causale, per provare il quale occorrerebbero ulteriori studi. Ma le coincidenze sono troppo numerose per essere semplicemente ignorate, e sembrano confermare la teoria - cara anche a Benedetto XVI - secondo cui la libertà religiosa non è semplicemente una in una lunga lista di libertà ma la radice di tutte le altre. Grim e Finke ricordano che gli antichi minatori calavano nelle miniere di carbone, prima di entrarvi, una gabbia con una coppia di canarini. Se i canarini morivano, era il segno che l'aria era irrespirabile e non era bene che nella miniera si calassero i minatori. Gli autori citano il giurista ebreo Michael Horowitz, il quale ha sostenuto che per secoli gli ebrei sono stati gli involontari canarini nella miniera delle libertà fondamentali. Dove gli ebrei erano perseguitati, lì non c'era libertà di religione e non regnavano neppure le altre libertà.

Nel XXI secolo, ha scritto lo stesso Horowitz, i canarini nella miniera sono diventati i cristiani. Dove si uccidono i cristiani per la loro fede, lì non c'è libertà, lì - imitando la saggezza degli antichi minatori - a coloro che amano la libertà e la giustizia non conviene andare.


IL CASO/ Tra supermercato e catena di montaggio, che fine hanno fatto i medici? Di Carlo Bellieni, martedì 21 giugno 2011, il sussidiario.net

La fiducia dei pazienti verso le strutture sanitarie continua a diminuire in Italia. Dal 1996 al 2010, il numero dei sinistri denunciati alle imprese di assicurazione, infatti, è salito del 180%, passando da 6.345 del 1994 a 17.746 del 2008. È quanto emerge un recente rapporto dell’Ania, l’Associazione nazionale delle imprese assicuratrici, presentato in occasione dell’ assemblea annuale. E proprio la scorsa settimana l’Ania ha diffuso il dato secondo cui i contenziosi tra pazienti e medici, nell’ultimo decennio sono cresciuti del 145%, arrivando a costare alle casse delle aziende ospedaliere 500 milioni di euro all’anno.
Non è allora un caso che una ricerca fatta nel 2011 da Francesco D’Alessandro, un giurista dell’Università Cattolica, mostri che l’80% dei mille professionisti interpellati in Lombardia ammetta di aver fatto ricorso a strategie di medicina difensivistica (ricoveri o esami pressoché inutili fatti al fine di non rischiare recriminazioni), che vanno ben oltre la prudenza, almeno una volta nell’ultimo mese. “Sette su dieci hanno anche raccontato di aver disposto il ricovero di persone che potevano gestire tranquillamente in ambulatorio - aggiunge D’Alessandro. E un 60% ha prescritto esami diagnostici non necessari per fare una diagnosi. Evitano procedure rischiose. Perché l’obiettivo è tutelarsi dalle cause”.
Ma quale rapporto tra medico e paziente ha portato a questo livello di conflittualità? Molto probabilmente il problema sta su entrambi i lati. Da una parte i pazienti hanno una pretesa sul proprio stato di salute, che non ammette l’idea dell’insuccesso. E, anche per via delle ristrettezze economiche in cui versano certi malati per via di malattie croniche disabilitanti al lavoro, cercano in tutti i modi un indennizzo. Dall’altro lato c’è un mondo medico iperburocraticizzato, in cui gli ospedali sono diventati aziende e come tali sono vissuti in modo impiegatizio: ognuno fa il suo, rischiando il meno possibile: non una parola in più, non un atto medico in più, ricorso allo specialista per ogni minima incertezza, occhio al budget, al Drg (il prontuario dei rimborsi) e all’orario!
Tra i due poli troviamo un giusto equilibrio; ma strattonato e schiacciato troppo spesso. Il mondo della sanità oscilla tra un supermercato, dove ogni desiderio deve essere realizzato, e una catena di montaggio, dove tanti operai cercano di non darsi noia fra loro e di fare il minimo sindacale. Non sempre è così, anche perché nemmeno gli operai, pur spesso addetti a lavori con meno responsabilità legali, si comportano in questo modo. Ma l’andazzo è questo. E chi entra con impeto e voglia di fare viene presto invitato a “non fare il dottor Kildare”, e a “pararsi le spalle”, se non a parole dirette, almeno dall’ambiente che trova.
È dunque un problema di cultura e ancor prima di educazione a riscoprire da una parte un sano rapporto col proprio corpo che decade e talora non è colpa di nessuno, che non è come lo vorremmo, ma non per questo si deve pretendere il “ritocchino salvifico”. Dall’altra parte va riscoperto l’impeto del curare, messo a dura prova non solo dai pazienti che pretendono che dopo aver avuta salva la vita non resti nemmeno il ricordo dell’intervento, ma anche dal timore di essere tacciati di accanimento terapeutico, e che salvare un paziente finisca per essere additato come un danno fatto ai genitori o al neonato stesso. E dunque da rimborsare dopo anni di udienze e spese legali.
Ma, soprattutto, che si usi la parola “malasanità” quando è davvero tale: se si lucra sui ricoveri, se si incassano tangenti, se si comprano apparecchiature inutili o si spreca materiale o personale; o se c’entra la politica a farla da padrona sulle decisioni cliniche e sanitarie. Non si parli di “malasanità” per ogni errore, che in ogni professione purtroppo inevitabilmente accade. Oggi il medico è una professione in abbandono, perché i giovani hanno paura: già sono in scomparsa gli infermieri, che ancora non sono spariti grazie agli arrivi dall’estero; ma i medici gli vanno dietro a ruota, se ogni accusa si tramuta in un processo, se l’errore si tramuta automaticamente in colpa.
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Le campagne pubblicitarie per l’aborto e l’eutanasia, Come si vende la morte, di Carlo Bellieni, http://carlobellieni.com/

La comunicazione interviene sempre più pesantemente a influenzare il modo in cui percepiamo la nostra salute e giudichiamo complessi nodi bioetici quali l’aborto e l’eutanasia. Non solo si moltiplicano telefilm o dichiarazioni in tal senso da parte di star del cinema, ma si è addirittura arrivati agli spot pubblicitari a favore dell’eutanasia.

Un articolo sul mercato dei farmaci, pubblicato lo scorso marzo dall’«American Journal of Public Health», ha portato all’attenzione un fenomeno poco conosciuto ma gravissimo, il disease mongering. Questo «mercato delle malattie» è ben conosciuto in medicina: per vendere farmaci si inventano di sana pianta patologie o si trattano come tali normali caratteristiche umane, come per esempio la timidezza o la menopausa. A questo fine esiste una strategia ben codificata («Plos Medicine», 2002) in base alla quale si inizia con l’ingigantire i dati per poi creare un senso di panico. Si passa quindi ai testimonial, che sono di due tipi: prima i casi pietosi «miracolati» dal farmaco in questione, e poi gli esperti che giurano sulla bontà del farmaco stesso. È un fenomeno in auge soprattutto nei Paesi dove per comprare i farmaci non sempre è necessaria la ricetta medica, ed è inquietante perché genera un rapporto mercantilistico tra cittadino, malattia e medico.

Ma quasi con gli stessi criteri pubblicitari, accanto al mercato delle malattie, esiste il fenomeno parallelo del mercato dell’etica, che consiste nelle campagne mediatiche per introdurre nuovi criteri morali. Oggi le principali campagne sono quelle a favore dell’accettazione dei farmaci abortivi e della legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito.

L’ingresso dei farmaci abortivi sul mercato gode di un battage martellante che li dipinge come essenziali e condanna quanti sono contrari come fautori della sofferenza delle donne. Ma vari studi mostrano che l’aborto indotto da farmaci quali il mefipristone è meno «gradito» alle donne («Health Technology Assessment», novembre 2009) e più doloroso del metodo chirurgico («British Journal of Obstetrics and Gynecology», novembre 2010). A esso, inoltre, sono stati associati vari casi di decesso, uno dei quali riguardò la figlia di Didier Sicard, allora presidente del comitato di bioetica francese, («New England Journal of Medicine», aprile 2006).

Anche la campagna pubblicitaria per la legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito si avvale di testimonial famosi e di casi pietosi, e induce nella popolazione ansia per la possibilità di trovarsi un domani in coma, intubati, tenuti in vita contro il proprio interesse. In realtà viviamo in un’epoca di tagli alla sanità mondiale, e questo dovrebbe farci temere l’abbandono e non il contrario.

Le campagne a favore della pillola abortiva e dell’eutanasia vogliono in realtà vendere un’opzione culturale sulla morte. La prima punta a far sembrare la morte banale come bere un bicchiere d’acqua (che infatti nell’immaginario accompagna l’assunzione di ogni pillola); la seconda punta a «gestirla», nell’illusione di provocarla all’improvviso cancellandone così la visione. Ma entrambe nascondono l’errore di non guardare la morte in faccia e di chiamarla con un altro nome, in un’operazione psicologicamente rischiosissima di rimozione mentale.

Chi gestisce queste campagne gioca sull’ansia e la alimenta. L’ansia è un tratto fondante la società postmoderna, dove si succedono incalzanti annunci di improbabili catastrofi apocalittiche e dove la paura, l’ansia di controllo per non andare incontro a imprevisti hanno la meglio sulla voglia di progettare il futuro. Tanto è vero che questa è la prima generazione che viene descritta come caratterizzata dalla perdita di ideali, e nella quale, come cantava Bob Dylan in Masters of War, si produce «la peggiore paura, quella di mettere figli al mondo».

In questo l’ansia è favorita dagli allarmismi sulla sovrappopolazione o da innovazioni tecniche inquietanti, come il test, reso noto dall’«Independent» del 16 maggio, per sapere, attraverso l’analisi del dna, quanto ci resta da vivere. Anche le trasmissioni televisive che diffondono le immagini di persone morenti vogliono forse esorcizzare la paura della morte, ma finiscono inevitabilmente per alimentarla.

Il mercato delle malattie è riprovevole, e non vi è nulla di romantico nel mercato dell’etica, cioè nelle campagne a favore di morti o aborti definiti «dolci»: termini in apparenza suadenti, ma che, esaltando l’opzione per la morte, finiscono con il farci dimenticare che depressione, solitudine e difficoltà possono essere superate e spesso vinte. E ci fanno assimilare bisogni e comportamenti indotti, ben distanti dalle necessità reali e dalle risposte che la gente si attenderebbe. E distanti soprattutto dai bisogni dei più deboli: nel ricco occidente discutiamo su malattie immaginarie, mentre i popoli poveri soffrono per tubercolosi e malaria; rifiutiamo di avere un figlio o di essere tenuti in vita, mentre là, dove si combattono battaglie vere e drammatiche, si lotta invece per avere un figlio e per non morire. I nostri bisogni diventano così distanti dalla realtà tanto da non essere più comprensibili nemmeno a noi stessi.


«Non c'è evangelizzazione senza adorazione» di Andrea Zambrano, 21-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

L'evento straordinario è anche solo il fatto che se ne parli. Costretta per anni ad essere relegata ai margini e, come spiegherà in questa intervista Padre Justo Lo Feudo “secondo una errata ermeneutica del Concilio”, l'adorazione eucaristica sta tornando ad essere uno dei centri della vita cristiana. Vorrà pur dir qualcosa il fatto che solo in Italia negli ultimi 10 anni sono sorte oltre 50 cappelle di adorazione perpetua e oltre 3.000 in tutto il mondo. Solo 1.200 negli Stati Uniti, che dell'adorazione perpetua sono un vero e proprio propulsore.
Di questo e della straordinaria messe di grazie, conversioni e risvegli della fede che la presenza davanti al Santissimo Sacramento sta generando nel mondo cattolico, si è iniziato a parlare ieri al Salesianum di Roma in un convegno con esperti e ben sette cardinali e che troverà il suo momento clou nella messa celebrata da Papa Benedetto XVI e nella successiva processione del Corpus Domini di giovedì.

Padre Justo Lo Feudo, nato a Buenos Aires nel 1941 è tra i missionari della Santissima Eucarestia, associazione privata clericale di diritto diocesano, che ha per carisma la promozione, l’organizzazione e la creazione in tutto il mondo dell’adorazione perpetua nelle parrocchie e nelle diocesi. Associazione costituita da Mons. Dominique Rey, Vescovo di Fréjus-Toulon il 17 luglio 2007 a Paray-le-Monial e che ha organizzato il convegno confidando nel fatto che la nuova evangelizzazione parte dall'adorazione.

Padre Lo Feudo, che cosa si sta risvegliando?
Quello di cui parla il Papa quando si riferisce ad una primavera eucaristica, che sta risvegliando lo stupore davanti all'Eucarestia.

Primavera? Vuole dire che prima c'era un inverno?
Purtroppo per ragioni falsamente pastorali e per una falsa ermeneutica, l'Eucarestia si è banalizzata e si è perso questo stupore.

Perché?
Le cause sono molteplici, a cominciare dal fatto che una certa liturgia ha favorito l'indebolimento di questa pratica. A ciò si aggiunga la creatività che va contro il sacro. Invece l'Eucarestia ci rimanda al sacrificio e a un banchetto che non è solo un convivio tra uguali, ma è sacro. Ecco, l'Adorazione Eucaristica ci fa ritornare all’essenziale e prolungare questo mistero che si celebra nella messa.

Quali tappe hanno portato a questa primavera? Verrebbe da pensare all'adorazione di Benedetto XVI nella piana di Marienfeld a Colonia nel 2005.
A livello mediatico sì, ma appena prima c'erano stati l'enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucharistia e l'anno eucaristico. Nel 2004 abbiamo aperto tantissimi centri di adorazione perpetua. In generale, sono tanti ormai i documenti del Magistero che raccomandano che ogni centro urbano più o meno importante abbia almeno una cappella dell’adorazione perpetua.

Giorno e notte? Qual è il target di fedeli?
E' difficile dare una risposta organica, perché le storie sono diverse in ogni luogo. Però possiamo dire che sono tante le persone che, cominciando un cammino di conversione, si sono sentite attratte da questa presenza. A volte invece si trova maggiore resistenza presso fedeli che sono da sempre in chiesa e altre ancora succede che qualche sacerdote la rifiuti per una falsa ermeneutica secondo la quale l'Eucarestia non ci è data per essere adorata.

Fino a questo punto?
Eppure il Papa ci ricorda spesso, citando Sant'Agostino, che nessuno mangia di questa carne senza adorarla.

Che cosa dà di più l'Adorazione rispetto alla Comunione?
Non è un di più, ma è un prolungare, un approfondire il momento dell'incontro. Prendiamo ad esempio il momento della messa dopo la comunione. Giovanni Paolo II faceva dieci minuti di ringraziamento, invece spesso - anche se di questo mi accorgo soprattutto all'estero - la gente sopporta non più di tre minuti, dopo di che comincia ad agitarsi, a tossire, a muoversi.

Viviamo nella società dell'immagine. Come fate a spiegare che l'Eucarestia non è solo un simulacro?
Senza la Grazia di Dio è impossibile, eppure ho visto persone lontanissime da Dio che si dicevano atee o agnostiche e che ora sono adoratori. Chi ha fatto questo? Il Signore, mi rispondo.

E il farlo in un mondo frenetico? Continuamente alla ricerca di un luogo in cui distrarsi, evadere? Non vi sembra una sfida immensa?
Bisogna entrare nell'ottica che anche il tempo vada evangelizzato. Non ci si ferma davanti a un'immagine, ma ci si ferma davanti ad una Presenza. In fondo si tratta per ognuno di noi di trovare un’ora alla settimana da dedicare a Gesù.

Nelle adorazioni il rischio non è forse quello di pretendere di fare? Parlare, leggere o fare altro?
Spesso cadiamo nella trappola del fare, ma la nostra presenza non è passiva: è aperta alla Grazia. D'altra parte, così come non possiamo rimanere sotto il sole senza essere toccati dai raggi, non possiamo rimanere davanti al Signore, pur con tutta l'opacità della nostra fede, senza che le Grazie ci arrivino.

Qualche esempio?
Ricordo una ragazza: aveva avuto problemi con il satanismo. Ne era uscita, ma restava molto rancorosa. Un mio confratello le disse: “La so io la medicina per te. Va tutti i giorni in adorazione almeno un'ora”. Ebbene...

Ebbene?
L'ho rivista dopo tre mesi: un agnellino! Si ricordi: l'adorazione perpetua è il più potente esorcismo che una città possa avere.

Come si organizzano le comunità per questa presenza?
In genere si parte dai 400 ai 700 iscritti, con turni di un’ora alla settimana per ciascun adoratore. A volte si riesce anche ad arrivare a diecimila. Il passaparola è formidabile.

Come nasce storicamente l'adorazione?
San Pietro Giuliano Eymard è uno dei santi di riferimento, ma quello dell'adorazione è un bisogno che nasce molto presto nella Chiesa, con la presenza della riserva per i malati. Se lui è presente, allora si può adorare, perché è un bisogno insito nel cuore dell'uomo.

Parliamo di numeri in Italia.
Ci sono già 50 cappelle dell'adorazione perpetua, ma c'è ancora molto da fare. Ad esempio nelle Marche ci sono 4 centri, tra cui Senigallia, Urbino, Ascoli, ma sono in previsione altre due a Jesi e Fano.

Che bisogno c'è di adorare giorno e notte?
E' una domanda cruciale, ma la risposta è altrettanto decisiva. Si adora Gesù Cristo, Colui che non cessa mai di essere Dio e di amarci di un amore eterno, è un unirsi alla liturgia celestiale dove il Padre e il Figlio sono adorati senza sosta.

Qual è lo scoglio più difficile? Trovare adoratori per la notte?
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, no. Certo, di notte ci sono meno adoratori, ma la gente è più fedele e più responsabile.

Come si concilia l'adorazione con la devozione a Maria?
Io sono consacrato alla Madonna, in tutto il mio sacerdozio vedo la sua mano e chiediamo sempre di consacrare le cappelle alla Madonna, che è la prima adoratrice.

Che cosa immagina che vi dirà il Papa in occasione del convegno in corso?
Che ci incoraggi, lui stesso disse che l’adorazione non è un lusso ma una priorità.

Com'è la situazione nel mondo?
Ci sono ormai 3.000 cappelle di adorazione perpetua nel mondo. Quasi la metà sono negli Stati Uniti. Si pensi che nel solo Texas, nella zona di Huston, ci sono tante cappelle quante in Italia. Merito di un sacerdote che ha avuto una grande chiamata. Ricordiamo però che le adorazioni perpetue sono portate avanti da laici.

E nei Paesi dove i cristiani sono perseguitati o lo sono stati in un recente passato?
Avvengono cose strabilianti. A Mosca ad esempio, ma anche a Timisoara in Romania. L'iniziativa era partita dai greco cattolici, ma non c'erano adoratori a sufficienza per coprire l'intera settimana, allora si sono rivolti ai cattolici di rito romano e dato che non si raggiungeva ancora il numero per partire, siamo andati dal metropolita ortodosso, che ci ha benedetto e ci ha permesso di andare a predicare durante una divina liturgia. Abbiamo raggiunto il quorum e l'adorazione perpetua va avanti da cinque anni. Questo è l'ecumenismo, tenga presente che gli ortodossi non hanno l'adorazione.

Com'è la situazione in Europa?
In Francia ci sono circa 50 cappelle come in Italia, ma la situazione è molto vivace anche in Spagna dove il 30 giugno partirà l'adorazione perpetua a Saragozza. Ne è stata aperta una a Ginevra, nella patria di Calvino, al momento è molto duro introdurla in Germania o in paesi come l'Olanda, mentre in Austria c'è qualche presenza, così come in Inghilterra o in Irlanda.

E nei Paesi non cristiani di tradizione?
In Siria ad esempio, ma la storia dell'Iraq ha dell'incredibile. Quando gli inglesi hanno lasciato Bassora, sono nate due cappelle, una a Mossul e una a Bassora. Alla partenza delle truppe britanniche di notte c'era il coprifuoco, così i fedeli trasferivano il Santissimo Sacramento in un'abitazione privata dove l'adorazione andava avanti tutta notte. Al mattino, si rientrava in chiesa. Lo vede? Questa è fede.


PAURA DI MORIRE? I VESCOVI USA PROPONGONO UN “MODO INFINITAMENTE MIGLIORE” - Approvano una dichiarazione sul suicidio medicalmente assistito - WASHINGTON, D.C., martedì, 21 giugno 2011 (ZENIT.org)

WASHINGTON, D.C., martedì, 21 giugno 2011 (ZENIT.org).- Il processo della morte può spaventare, ma la società può essere giudicata da come risponde a queste paure, sostengono i Vescovi degli Stati Uniti in un nuovo documento sul suicidio medicalmente assistito.
I presuli si sono incontrati a Seattle per il loro meeting generale primaverile e hanno approvato giovedì una dichiarazione dal titolo “Vivere ogni giorno con dignità”.
“Una comunità premurosa dedica più attenzione, non meno, ai membri che affrontano il momento più vulnerabile della propria vita. Quando le persone sono tentate di vedere la propria vita sminuita in valore o significato, hanno bisogno dell'amore e dell'assistenza degli altri per essere assicurati del loro valore intrinseco”, afferma la dichiarazione.
Il documento offre una breve storia dello sviluppo dei dibattiti sul suicidio medicalmente assistito e osserva che – contrariamente alle strategie di marketing – la campagna per legalizzare questo crimine non accresce la libertà delle persone le cui condizioni di salute sono gravi.
“Le persone suicide diventano sempre più incapaci di apprezzare delle opzioni”, e hanno una “sorta di visione a tunnel che vede sollievo solo nella morte. Hanno bisogno di aiuto per essere liberate dai loro pensieri suicidi attraverso la consulenza e il sostegno, e, quando necessario e utile, le cure mediche”, hanno dichiarato i Vescovi.
“Scelte apparentemente libere possono essere indebitamente influenzate dai pregiudizi e dai desideri degli altri”, hanno avvertito. “Annullando la difesa legale della vita di un gruppo di persone, il Governo comunica implicitamente il messaggio” “che potrebbero stare meglio da morti.  In questo modo il pregiudizio di troppe persone sane contro il valore della vita per qualcuno che ha una malattia o una disabilità è incarnato in una politica ufficiale”.
I presuli hanno riconosciuto che la sofferenza per le malattie croniche o terminali è spesso grave e chiede compassione, ma hanno affermato che “la vera compassione allevia la sofferenza mantenendo allo stesso tempo la solidarietà con quanti soffrono. Non mette nelle loro mani farmaci letali o li abbandona ai loro impulsi suicidi, o ai motivi egoistici di altri che possono volerli morti. Aiuta le persone vulnerabili con i loro problemi, anziché trattarle come il problema”,
Questioni pratiche
I Vescovi hanno anche avvertito della “brutta china” che inizia quando si viene privati della vita in nome della compassione.
“I medici olandesi, che una volta limitavano l'eutanasia ai pazienti malati terminali, ora forniscono farmaci letali a persone con malattie croniche o disabilità, malattie mentali e perfino depressione”, hanno sottolineato.
“Una volta che si sono convinti che porre fine a una vita breve può essere un atto di compassione, è stato morbosamente logico concludere che porre fine a una vita più lunga può dimostrare una compassione ancor maggiore”.
“Anche psicologicamente, il medico che ha iniziato a offrire la morte come soluzione ad alcune malattie è tentato di vederla come la risposta a una gamma sempre più ampia di problemi”.
C'è anche la possibilità che i programmi governativi e le assicurazioni private possano limitare il sostegno alle cure che potrebbero allungare la vita, sottolineando la soluzione basata sull'idea di “costi-benefici” di una morte prescritta dal medico, hanno avvertito i Vescovi.
“Perché i professionisti sanitari dovrebbero trascorrere una vita a sviluppare l'empatia e le capacità necessarie per il compito difficile ma importante di fornire un'assistenza ottimale quando la società ha autorizzato per i pazienti sofferenti una 'soluzione' che non richiede alcuna abilità? Una volta che alcune persone sono diventate candidati per l'economico trattamento del suicidio assistito, anche per i contribuenti pubblici e privati per la copertura sanitaria è facile dirigere altrove le risorse che affermano la vita”.
Società premurosa
“C'è un modo infinitamente migliore per affrontare le necessità delle persone che hanno gravi malattie”, afferma il documento episcopale.
“Il rispetto per la vita non richiede di cercare di prolungarla usando cure mediche inefficaci o indebitamente gravose”, sostengono i presuli; “né significa che dovremmo privare i pazienti che soffrono delle cure per il dolore necessarie a causa di una paura fuori luogo o esagerata che possano avere l'effetto collaterale di abbreviare la vita”.
Cure palliative efficaci permettono ai pazienti di “dedicare la loro attenzione alla loro vita, di arrivare a un senso di pace con Dio, con i propri cari e con se stessi”.
“Quando invecchiamo o ci ammaliamo e siamo tentati di perdere la fiducia, dovremmo essere circondati da gente che chiede 'Come possiamo essere utili?'”, concludono i Vescovi.
“Meritiamo di invecchiare in una società che guarda alla nostra cura e alle nostre necessità con una compassione basata sul rispetto, offrendo un autentico sostegno nei nostri ultimi giorni. Le scelte che compiamo insieme ora decideranno se questo sarà il tipo di società premurosa che lasceremo alle generazioni future”.


Petrucciani, spirito indomito in un corpo disobbediente di Tommaso Scandroglio, 22-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/

Fate un esperimento. Provate a porre ad un collega, un parente o amico dalle solide idee laiciste il seguente quesito: una donna aspetta un bambino affetto da una grave patologia per cui mai supererà il metro di statura e i 30 kg di peso, che soffrirà tutta la vita per un morbo che gli procurerà continue fratture ossee e che infine morirà in giovane età. Cosa consiglieresti a questa donna? Non serve possedere le doti da oracolo della Pitia per prevedere che il più delle volte il consiglio del collega o amico sarà assai infausto per il piccolo nascituro.

Michel Petrucciani (si pronuncia alla francese: Petruccianì), grandissimo pianista jazz nato in Francia nel ‘62, era proprio questo: 97 centimetri per 27 kg di assoluto genio. Una vita tanto luminosa sui palchi di tutto il mondo quanto oscuramente dolorosa. Petrucciani infatti era affetto da osteogenesi imperfetta, morbo congenito conosciuto anche come sindrome dalle ossa di vetro. Una malattia genetica che priva le ossa del calcio necessario per poter sostenere il peso del corpo e che impedisce la crescita. E così la breve esistenza di Michel fu costellata da continue fratture anche durante le sue esibizioni. Come quella volta in cui in un recital al Donizetti di Bergamo si spezzò il braccio destro.

Già a quattro anni mette le mani sulla tastiera, grazie al padre chitarrista. Tutto il suo corpo gemeva, ma le mani al contrario sui tasti cantavano. Se ogni parte del suo fisico malato lo tradiva, le sue dieci dita invece rimasero fedeli al suo talento sino all’ultimo. E così il piccolo Michel inizia ad improvvisare al piano, genere in cui in futuro eccellerà. Poi un giorno scopre Duke Ellington: “Per me fu una specie di folgorazione. Evidentemente avevo buon gusto. Allora papà mi regalò una pianola. Ringraziai, ma mi sembrava uno strumento un po’ finto. Decisi di prenderlo a martellate. In quel momento capii che la musica vera sarebbe stata nel mio destino”. Comprende che la musica classica non è la sua vocazione, bensì il jazz. A 13 anni la svolta. Incontra Clark Terry, trombettista americano, e riesce a suonare con lui. Terry così ricorda quell’incontro: “Quando me lo vidi davanti lì per lì pensai di tutto. Michel aveva 13 anni e un fisico sfortunatissimo. Ma non appena prese possesso del pianoforte fu uno spettacolo già nelle prove. E la sera del concerto si superò addirittura”.


Da quel momento l’ascesa di questa stella non conoscerà soste e il minuto Petrucciani diventerà un gigante del pianismo jazzistico mondiale. Gli ostacoli per lui sono opportunità di perfezionarsi. Data la sua bassa statura gli viene costruito un marchingegno per arrivare ai pedali del pianoforte, altrimenti irraggiungibili. Il fatto che poi si sia abituato a non usare il pedale di risonanza – quello che permette alle corde di continuare a suonare anche dopo che non si tiene più premuto il tasto – lo ha costretto ad un suono pulitissimo e a realizzare “legati” tra le note davvero incredibili.


I suoi concerti diventano esperienze di vita, non solo happening musicali. Il sassofonista Wayne Shorter a tal proposito ricorda che “Michel proponeva ‘soli’ su tempi francamente impossibili. Cominciava a salire di tonalità per arrivare a un certo punto che la tastiera appariva sempre più lunga. Quasi irraggiungibile. Lontanissima e infinita. Si teneva al pianoforte con la mano sinistra, si immedesimava con lo strumento. Il pubblico in quei momenti non fiatava neppure, temendone il crollo inesorabile. Invece inesorabile lui proseguiva, regalando un autentico spettacolo di suoni e colori. E non sapete quanto si divertiva a far spaventare i suoi fan”.


La sua fama e bravura lo portano non solo a suonare insieme alle stelle del jazz ma anche a fare incursioni in mondi musicali a lui sconosciuti ma esteticamente sempre affini. Nel luglio del 1998 suona per due volte con Riccardo Muti e la Filarmonica della Scala in altrettanti concerti gershwiniani. Alla domanda di Petrucciani rivolta a Muti: “Ma perché ha scelto me?”, pronta arriva la risposta del maestro: “La stimo molto, la ritenevo indispensabile per le parti improvvisate”.


Suonò davanti anche a Giovanni Paolo II in occasione del Congresso Eucaristico nel 1997 a Bologna. “È stato uno choc – raccontò -. Non importa che uno sia credente o no. Suonare davanti a lui e con quattrocentomila persone presenti. Bisogna provare per rendersene conto. Anche Lucio Dalla, che mi ha chiesto di accompagnarlo in un pezzo, era impressionato. Come Dylan, anche se il cantautore americano faceva l’indifferente”.


Due figli e due mogli, una vita spesa per la musica e non certo a lagnarsi. “Non ho mai sentito Michel lamentarsi di nulla. Non si guardava allo specchio per rattristarsi di quello che vedeva. Era un grande musicista ed era un grande essere umano”, rammenta sempre Wayne Shorter. Un’esistenza che si è spenta a soli 36 anni il 6 gennaio 1999 a Manhattan per gravi complicazioni polmonari, mentre stava preparando una rilettura dei concerti per pianoforte di musica sacra di Duke Ellington. Il destino ha voluto che il testamento spirituale del compositore afroamericano fosse anche quello di Petrucciani.

Oggi, 22 giugno, esce in Italia un film documentario a lui dedicato: Michel Petrucciani – Body & Soul, che racconta tutta la sua straordinaria vita. Un omaggio ad uno spirito indomito in un corpo disobbediente. Questo era infine Michel Petrucciani: la fortezza di un genio custodito in un corpo fragilissimo. Ma, ci verrebbe da domandare, le cose più preziose non sono forse le più fragili? Quelle verso cui dobbiamo prestare più attenzione?

Petrucciani oggi sarebbe un sicuro candidato all'aborto terapeutico, dato che, secondo l’etica funzionalista, il suo fisico non sarebbe in grado di raggiungere quella minima soglia di perfezione fisica sufficiente per vedersi riconosciuto il diritto a vivere. Il maestro deforme del jazz incarna il paradosso del funzionalismo: non avrebbe dovuto nascere perché mancante di alcune abilità. Ma proprio una persona con handicap è più abile di un cosiddetto normo-dotato. E' l'autoconfutazione del salutismo eugenetico. Infatti se non fosse stato malato quasi certamente non sarebbe stato così geniale, perché l'handicap – e i ciechi lo dimostrano bene -  lo ha costretto ad affinare altre sua capacità. La disfunzione è stata per lui il crogiolo grazie al quale è stato distillato il suo talento musicale. Senza l’osteogenesi imperfetta non avremmo dunque avuto Michel Petrucciani: l’uomo di vetro dalle mani prodigiose. Davvero un diversamente abile nella musica – ci verrebbe da commentare – se pensiamo a noi comuni e normali mortali.


Lo stesso Michel interrogato sull’aborto così si espresse: “E pensare che prima che un’avventura umana, magari simile a questa, possa fiorire e dare i suoi straordinari frutti, c’è uno scienziato qualunque che in un laboratorio sta strappando cellule a un embrione. Qualora la diagnosi decretasse la nascita di un soggetto nano, gobbo e deforme, l’uomo, l’anima, il talento, la fatica, il sacrificio, l’amore, l’emozione e la dignità andrebbero a farsi fottere”.


Dorothy e i "diritti" dei cattolici di Lorenzo Albacete, mercoledì 22 giugno 2011, il sussidiario.net

Questa settimana mi hanno chiesto di partecipare a un dibattito su Dorothy Day, la fondatrice del “Catholic Worker Movement”. Il racconto della sua vita descrive come nessun altro la storia della Chiesa cattolica negli Stati Uniti nell’ultimo secolo e il giudizio che si dà sulla sua vita è significativo di come i cattolici americani guardino alle sfide e alle opportunità del ventunesimo secolo.
Dorothy Day nacque a Brooklyn, NY, l’8 novembre del 1897 e morì il 29 novembre del 1980. Devo confessare che non sapevo molto di lei negli anni ‘60 e ‘70, a parte il fatto che era una cattolica discussa, pacifista, femminista e, forse, socialista, che aveva irritato molte persone autorevoli nella Chiesa (succede tuttora di tanto in tanto). Sapevo, inoltre, della sua opposizione al bombardamento atomico di Hiroshima, ma solo di recente ho letto il suo straordinario editoriale in proposito, di cui riporto di seguito alcuni stralci per dare un’idea del suo stile:
“Mr. Truman era esultante. Il presidente Truman. Vero uomo (NdT: true man, cioè vero uomo); che strano nome, viene da pensare. Si dice di Gesù Cristo che è vero Dio e vero uomo. Truman è un vero uomo del suo tempo, poiché era esultante… hanno detto i giornali. Jubilate Deo. Abbiamo ammazzato 318.000 giapponesi…
Jubilate Deo. Il presidente Truman era esultante. Abbiamo creato. Abbiamo creato distruzione. Abbiamo creato un nuovo elemento, chiamato plutonio. La natura non ha nulla a che fare con esso… Prodotto in una caverna e poi testato in un deserto, nel mezzo di una tempesta, testato, e poi ancora alla vigilia della Festa della Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù Cristo, in una lontana isola dell’emisfero orientale, testato ancora, ‘una nuova arma che potrebbe plausibilmente spazzare via l’umanità,e forse il pianeta stesso’.
‘Abbiamo investito due miliardi nella più grande scommessa scientifica della storia e abbiamo vinto’ ha detto il presidente Truman esultante… Scienziati, militari, grandi università (inclusa Notre Dame) e capitani di industria, sono stati tutti citati nella stampa per il loro contributo alla realizzazione della bomba, e altre bombe sono ora in produzione, ci assicura il presidente…
Tutti dicono: ‘Mi chiedo cosa pensi il Papa di tutto ciò’. Tutti si rivolgono qui al Vaticano per avere un giudizio, anche se poi non sembrano ascoltarne la voce! Ma il Signore stesso ha già pronunciato il Suo giudizio sulla bomba atomica. Quando Giacomo e Giovanni (il prediletto) volevano che cadesse fuoco dal cielo sui loro nemici, Gesù disse: ‘Non sapete di che spirito voi siete. Il Figlio dell’Uomo è venuto non per distruggere le anime, ma per salvarle’. E disse anche: ‘Ciò che fate al più piccolo di questi fratelli, lo fate a me’”.
Questo era il modo in cui giudicava qualunque cosa, vedeva e sperimentava tutto dal punto di vista dei poveri, di quelli che non hanno nulla se non la loro esistenza come domanda a noi. Non era una visione basata su un’ideologia politica o economica. Era originata dalla sua conoscenza di Cristo, una conoscenza ottenuta attraverso la sua personale Via Crucis, nella ricerca di seguirLo. Basti pensare alle questioni di cui si occupava: il lavoro, la copertura assicurativa dei disoccupati, l’aiuto a madri e bambini, i problemi della salute e della casa… questioni che il Paese ha tuttora di fronte a sé.
Nel 1932, andò come giornalista a Washington in occasione di una “Marcia della fame” per richiedere il riconoscimento di questi diritti, una causa che lei sosteneva, ma non partecipò alla Marcia, perché era organizzata dai comunisti. Andò, invece, al santuario nazionale dell’Immacolata Concezione, era l’8 di dicembre, appunto la festa dell’Immacolata Concezione. “Ho detto una preghiera speciale, una preghiera accompagnata da lacrime e angoscia, che mi si aprisse una via per usare i talenti che mi erano stati dati per i lavoratori, per i poveri, miei compagni”. Il giorno dopo, tornata a New York, incontrò Peter Maurin, un immigrato francese trent’anni più vecchio di lei, che sarebbe diventato il suo compagno spirituale nella fondazione e crescita del Movimento cattolico dei lavoratori.
Molti cattolici si chiedono oggi come affrontare i problemi presenti, che rimangono fondamentalmente gli stessi, al di là di cambiamenti superficiali. Come ci muove la nostra fede per generare una società più umana, per costruire una cultura della vita? La testimonianza di Dorothy Day è lì per spingerci e guidarci.
La Santa Sede ha autorizzato l’inizio del processo che potrebbe portare alla sua canonizzazione. Una volta lei disse che non voleva essere chiamata santa, perché “non voleva essere liquidata così facilmente”. Ma è solo attraverso i Suoi santi che il Signore crea un nuovo mondo.
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21/06/2011 – BANGLADESH - “Io, attivista cristiano per i diritti umani sequestrato e torturato” di William Gomes

Alcuni uomini, forse dei servizi segreti militari, lo hanno minacciato e accusato di essere corrotto dai servizi pakistani e dall’opposizione, per gettare discredito sul governo e sull’esercito. William Gomes, un musulmano convertito, lavora per l’Asian Human Rights Commission e gestisce una sua organizzazione umanitaria, la Christian Development Alternative.

Dhaka (AsiaNews) – Il 21 maggio scorso degli uomini a bordo di una macchina scura hanno prelevato, sequestrato e torturato William Gomes, musulmano convertito al cristianesimo. L’uomo, membro dell’Asian Human Rights Commission (Ahrc) e fondatore della Christian Development Alternative (Cda – un’organizzazione umanitaria), è stato denudato, costretto a terra e interrogato per quasi cinque ore. Questi uomini, tra cui uno di madrelingua inglese, lo accusavano di essere in contatto con i servizi segreti pakistani (Isi - Inter Service Intelligence) e di ricevere mazzette per “danneggiare l’esercito del Bangladesh”. Inoltre, Khaleda Zia lo avrebbe pagato per gettare discredito sul premier Sheikh Hasina. Minacciato di morte a lui e alla sua famiglia, Gomes ha giurato di lasciare l’Ahrc ed è stato rilasciato. L’uomo è certo che si tratti dei servizi segreti bengalesi. Di seguito riportiamo la sua testimonianza.

La mattina di sabato, era il 21 maggio, ero fuori per fare alcune commissioni di lavoro. Mi trovavo vicino alla stazione degli autobus di Sayedabad, di ritorno a casa, quando un uomo più alto e più grosso di me mi ha fermato chiedendomi di raggiungere insieme la sua macchina. Ricordo quando me l’ha indicata, era una Mitsubishi Pajero nera, con i vetri oscurati. L’ho seguito, pensavo si fosse perso o avesse bisogno del mio aiuto. Invece, appena giunto vicino all’auto ho visto una portiera aperta: prima ancora di rendermene conto, ho sentito l’uomo spingermi con la forza dentro la vettura, mentre un altro dall’interno mi tirava. I due si sono seduti accanto a me, si sono assicurati se fossi o meno William Gomes: dopo avergli risposto di sì, in un attimo mi sono ritrovato bendato con del nastro adesivo, un passamontagna e ammanettato con le mani dietro la schiena. Hanno preso borsa, cellulare, portafogli e ogni effetto personale. Mi hanno puntato due pistole alle tempie, hanno intimato di non fare rumore o mi avrebbero sparato. “Abbiamo già ricevuto ordine di ucciderti”, ha detto uno dei due. Poi, l’uomo che sedeva alla mia sinistra ha ordinato all’autista di andare “al quartier generale”. La macchina è partita, ho sentito un telefono squillare e uno dei rapitori ha risposto dicendo “Signore! Signore! L’abbiamo preso!”. La macchina è partita.

Dopo circa 40 minuti ci siamo fermati, in due mi hanno trascinato fuori dall’auto, minacciando di torturarmi se non avessi camminato da solo. Siamo saliti al 9° piano – ho sentito uno dire di premere il nove –, mi hanno gettato in una stanza e spogliato completamente. Ho sentito uno dire: “È circonciso, ma ha un nome cristiano”. Hanno iniziato a spingermi per terra, “come fanno i musulmani quando pregano”. Non capivo cosa volessero che io facessi. Poi, qualcuno ha sbattuto la mia testa contro il pavimento e mi ha minacciato: “Se provi ad alzarti, t’infileremo uova bollenti nel retto. E faremo lo stesso con i tuoi padri, quando li prenderemo”. I miei “padri”, come li hanno chiamati, sono quelli dell’Asian Human Rights Commission (Ahrc). All’improvviso, l’uomo si è interrotto e ha iniziato a urlare concitato: “Signore! Signore! È pronto, il soggetto è pronto!”. Ma pronto per cosa?

Non sapevo cosa aspettarmi. Ero completamente nudo, avevo freddo, perdevo sangue dal naso. A un certo punto, questi uomini hanno iniziato a farmi molte domande: quand’era stata l’ultima volta in cui avevo lasciato il Bangladesh, se ero stato o meno a Hong Kong. Poi hanno messo in mezzo Khaleda Zia [leader dell’opposizione, ndr]. Le domande erano sempre più incalzanti: “ iniziato a chiedermi dei soldi: “Quando hai incontrato l’ultima volta Khaleda Zia? Dove sono i soldi? Dove sono i 10milioni di taka che ti hanno dato? Quanti soldi hai ricevuto da Zia per il caso di Mishu?”. Ma io Khaleda Zia non la conosco nemmeno. “Sono un liberale – ho provato a spiegargli – non ho rapporti con la gente di destra”.

La testa mi scoppiava. A un certo punto, mi hanno chiesto quando ero stato in Kashmir. Mi accusavano di avere incontrato agenti dell’Isi [Inter Service Intelligence, i servizi segreti pakistani, ndr] per distruggere il Bangladesh. “Non ho mai conosciuto nessuno dell’Isi – tentavo di dire – io sono un attivista per i diritti umani, lavoro soltanto per l’Ahrc”. Ma loro mi hanno risposto che l’Ahrc è “il più grande nemico del Paese e dell’esercito”. Il tuo capo dice di non volere l’esercito al governo? Come osa quel figlio di un cane a parlare contro l’esercito?”.

Le accuse andavano avanti. Secondo questi uomini, ero in contatto con i servizi pakistani, che insieme all’Asian Human Rights Commission mi davano mazzette per organizzare attentati e gettare discredito sull’esercito e sul premier. Ero sempre a terra. Ho sentito un cellulare squillare di nuovo, un uomo ha risposto dicendo che avevano quasi finito. Poi uno straniero, qualcuno di madrelingua inglese, mi ha chiesto informazioni sul mio “capo”, il presidente dell’Ahrc. Quando sarebbe rientrato in Bangladesh. Diverse volte hanno nominato il Rab [Rapid Action Battalion – un corpo speciale governativo, da molti considerato artefice di sparizioni e crimini su commissione, ndr]. Infatti, sono quasi certo che questi uomini facessero parte dell’ala “legale” della Rab, i servizi segreti dell’esercito.

Non sapevo cosa rispondergli. Avevo sete e così ho chiesto loro un po’ d’acqua. Ma ho bevuto qualcosa di caldo, dal sapore strano: credo mi abbiano drogato, o somministrato qualcosa di strano. Hanno iniziato a elencare una serie di episodi per i quali io sarei stato corrotto. Poi hanno messo in mezzo la Christian Development Alternative (Cda), la mia organizzazione umanitaria: “Cosa t’importa dei bengalesi rinchiusi nelle prigioni indiane? Perché cerchi di diffamare il buon operato del nostro governo, intrattenendo buoni rapporti con l’India?”. Ma tutto quello che ho fatto, attraverso la mia organizzazione, è stato scrivere delle lettere alle autorità competenti, per risolvere le controversie da un punto di vista umano.

A un certo punto lo straniero ha urlato: “È un terrorista. Uccidiamolo e diamolo in pasto ai magur machh [una specie di pesci che si nutre di carne umana, ndr]”. In quel momento, ho avuto davvero paura, ho iniziato a supplicarli di lasciarmi andare. Ero in lacrime, ho detto loro: “Vi prego, ho due figli piccoli, perdonatemi! Lascerò il mio lavoro!”. Ho promesso che non avrei più collaborato con l’Asian Human Rights Commission. Invece loro mi hanno minacciato di nuovo: “Tu non lascerai l’Ahrc. Adesso tornerai a casa, ti comporterai come se nulla fosse e non dirai a nessuno del nostro incontro”.

Di punto in bianco, è finito tutto. Mi hanno preso e rivestito. Ancora bendato e ammanettato sono salito su un’auto. Mi hanno riportato al luogo in cui mi avevano prelevato. Lo stesso uomo di quella mattina, dopo avermi restituito tutti i miei effetti personali, ha detto: “Ti teniamo d’occhio. Se apri la bocca, faremo in modo che tu venga divorato dai magur machh”. È scomparso nel nulla.

Io, invece, vivo ancora nella paura per me e per la mia famiglia.


Respinto dalla Camera dei rappresentanti un disegno di legge - Il Costa Rica rigetta la fecondazione in vitro (©L'Osservatore Romano 22 giugno 2011)

SAN JOSÉ, 21. Con 26 voti favorevoli e 25 contrari la Camera dei Rappresentanti del Costa Rica ha respinto il disegno di legge che avrebbe permesso la fecondazione in vitro nel Paese. Il progetto è stato accantonato a causa di una serie di incongruenze ravvisate nel costrutto della norma, giudicata, tra l'altro, contraddittoria e confusa. Con questa decisione, anche se con un risultato di stretta misura, il Governo del Costa Rica non si piegherà alle ripetute pressioni della Corte interamericana dei diritti dell'uomo esercitate sullo Stato centroamericano perché approvasse la fecondazione in vitro, entro il 31 luglio. Il processo appena conclusosi con tale decisione è stato avviato nel mese di agosto dello scorso anno. I vescovi del Costa Rica, in diverse occasioni, hanno espresso le loro obiezioni e opposizioni al progetto di legge, presentando in Parlamento la loro posizione riguardo al disegno di legge sulla fecondazione in vitro e sul trasferimento di embrioni, nell'intento di contribuire alla discussione parlamentare dalla prospettiva dell'antropologia cristiana, dell'etica e del magistero ecclesiale.
Nel mese di ottobre 2010, il presidente della Conferenza episcopale e arcivescovo di San José, monsignor Hugo Barrantes Ureña sollecitò il Governo a non approvare la normativa, in quanto "è una tecnica che, per raggiungere le sue finalità, elimina, nel suo processo, un grande numero di embrioni fecondati, cioè vite umane nascenti". Il presule, nell'esprimere "comprensione per gli sposi che non possono appagare il legittimo desiderio di avere figli" ha ricordato però che "un bambino è sempre un dono" e, di conseguenza, non può costituire un mero mezzo per "soddisfare un bisogno o desiderio, ma la sua inviolabile dignità di persona richiede di essere trattato sempre come un fine". Presentata con frequenza all'opinione pubblica come l'ultima opportunità per le donne con problemi di sterilità, la tecnica della fecondazione in vitro permette che esseri umani, allo stadio più debole e indifeso della loro esistenza, siano selezionati, abbandonati, assassinati o utilizzati come materiale biologico. Secondo il magistero della Chiesa, il criterio fondamentale per chiunque voglia affrontare tale tema è che "il frutto della generazione umana, fin dalla costituzione dello zigote, esige il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità corporale e spirituale: essere umano da trattare come persona dal momento del concepimento, titolare dunque da quello stesso momento dei diritti della persona, soprattutto del diritto inviolabile alla vita". La Chiesa - hanno più volte ribadito i vescovi del Costa Rica - è contraria alla fecondazione omologa in vitro, che comporta un'elevatissima perdita di embrioni e la deliberata manipolazione delle cellule. Come riconosciuto dalla Convenzione americana per i Diritti Umani, "ogni persona ha il diritto al rispetto della propria vita, diritto protetto dalla legge e, in generale, a partire dal momento del concepimento. Nessuno può essere privato arbitrariamente della vita".


Bologna parla: la tradizione è fatta anche di "rotture" - Interviene nella disputa un discepolo bolognese di don Dossetti, lo storico Enrico Morini. Con un'analisi sorprendente, che piacerà forse più ai tradizionalisti che ai novatori. In un POST SCRIPTUM le repliche di Arzillo e Cavalcoli di Sandro Magister

ROMA, 21 giugno 2011 – Nella grande disputa che si è riaccesa su come interpretare i cambiamenti del magistero della Chiesa nella storia, con una speciale attenzione alla svolta del Concilio Vaticano II, i sostenitori entusiasti della "rottura" hanno finora taciuto.

La tesi da essi sostenuta è che il Concilio, nella sua volontà di ritornare alle "origini", ha rotto con elementi importanti della tradizione della Chiesa del secondo millennio, in particolare col modello occidentale di Chiesa e di papato prodotto dal Concilio di Trento e prima ancora dalla riforma gregoriana del secolo XI.

L'intervento pubblicato più sotto interrompe il loro silenzio ed entra in pieno in questa rilettura della storia.

Ne è autore il professor Enrico Morini, uno storico che insegna all'università di Bologna, la città che ha dato il nome alla "scuola" che rappresenta la punta più avanzata, in chiave progressista, dell'interpretazione del Concilio Vaticano II come "rottura" rispetto a una parte della tradizione.

Morini è discepolo del monaco Giuseppe Dossetti (1913-1996), il fondatore di questa "scuola" nota in tutto il mondo soprattutto per la sua monumentale storia del Vaticano II tradotta in più lingue, oltre che influente protagonista dello stesso Concilio.

Non ne ripete tuttavia pari pari le tesi. Anzi, la sua interpretazione della svolta del Concilio Vaticano II a tratti scontenterà i "bolognesi" e i progressisti in genere. Ad esempio là dove egli apprezza il ripristino voluto da Benedetto XVI della messa in rito romano antico.

Nello stesso tempo, però, Morini scontenterà anche molti tradizionalisti. Ad esempio là dove scrive e spiega che il messale nuovo è ben più aderente del vecchio alla grande tradizione liturgica della Chiesa.

Il suo intervento è tutto da leggere, per l'originalità e l'acutezza delle analisi e per l'attenzione particolare ai rapporti tra occidente e oriente, oltre che per la chiarezza della scrittura.

Il professor Morini, 64 anni, è specialista in cristianesimo orientale. Insegna storia della Chiesa ortodossa nell'università statale di Bologna e nella facoltà teologica dell'Emilia Romagna. È diacono e presiede la commissione per l'ecumenismo dell'arcidiocesi di Bologna.

Un suo libro pubblicato dal Mulino nel 2002 è stato recensito a suo tempo da www.chiesa:

> L'oriente dell'occidente. Un libro d'oro sull'ortodossia


CONTINUITÀ E ROTTURA: I DUE VOLTI DEL CONCILIO VATICANO II di Enrico Morini

Caro Sandro Magister,

mi permetto di intervenire nel serrato dibattito sull’ermeneutica del Concilio Vaticano II. Mi ha incoraggiato a farlo anche il fatto che questo dibattito ha assunto di recente una connotazione legata alla mia città e alla mia Chiesa, in quanto vi sono coinvolti sia indirettamente la “scuola di Bologna” – rappresentata dallo scomparso Giuseppe Alberigo e da Alberto Melloni, esponenti della tesi cosiddetta della “rottura” – sia direttamente il pure bolognese p. Giovanni Cavalcoli OP, il quale, nella sua difesa della tesi della “continuità”, sembra discostarsi da una posizione mediana – che recentemente proprio a Bologna monsignor Agostino Marchetto ha ribadito –, auspicando un collegamento con gli "avversari tradizionalisti continuisti" (come Roberto de Mattei) per contrastare il "neo-modernismo degli anticontinuisti".

Io non ho titoli particolari per entrare in questo acceso dibattito: non sono un teologo, né ho velleità di assumerne il ruolo. Per vocazione sono piuttosto uno storico. Premetto anche che, pur essendo bolognese – per nascita, formazione, residenza, docenza – e di fervida fede dossettiana – don Giuseppe Dossetti è stato mio padre spirituale e il mio punto di riferimento religioso –, non ho alcun legame, né scientifico né accademico, con la “scuola bolognese” alberighiana.

Detto questo vengo ad esprimerle le mie riflessioni in merito all’ermeneutica del Concilio. Rottura dunque o continuità? Rispetto a che cosa, forse alla tradizione cattolica? Mi chiedo se la tradizione, anche all’interno della stessa Chiesa, sia un fatto univoco o non ci sia piuttosto una pluralità di tradizioni nella sua più che millenaria diacronia. Ora, nella mia personale ma convinta ermeneutica del Vaticano II, il Concilio è stato ad un tempo, intenzionalmente, sia continuità che rottura.

Innanzitutto esso si è posto, a mio parere, nella volontà sia del suo beato promotore Giovanni XXIII sia dei Padri che costituivano la cosiddetta maggioranza conciliare, nella prospettiva della più assoluta continuità con la tradizione del primo millennio, secondo una periodizzazione non puramente matematica ma essenziale, essendo il primo millennio di storia della Chiesa quello della Chiesa dei sette Concili, ancora indivisa. L’auspicato aggiornamento era finalizzato precisamente a questo recupero, a questo ritorno a un’epoca certo travagliata, ma felice, perché nutrita di comunione reciproca tra le Chiese. Non, si badi bene, al recupero – come purtroppo molti l’hanno inteso – di una "ecclesiae primitivae forma", che è una pura astrazione, un mito storiografico dai lineamenti estremamente nebulosi e pertanto inadatti a fondare, o rifondare, una prassi ecclesiale e, forse proprio per questo, divenuti un inconsistente modello per molte eresie e, ancor oggi, per diverse eterodossie ecclesiologiche.

La teoria e la prassi ecclesiale del primo millennio sono invece tutt’altro che un’astrazione ed un mito, documentate come sono dagli scritti del Padri e dalle delibere dei primi Concili. È molto significativo che l’annunzio del Vaticano II sia stato percepito all’inizio in alcuni settori – tra i quali figura nientemeno che il grande Atenagora, caduto anch’egli in quello che è stato definito un "equivoco ecumenico" – come espressamente finalizzato alla ricomposizione dell’unità fra i cristiani: in sostanza un Concilio d’unione. Ancor più significativo – anche al di là del valore altamente simbolico del gesto – è che il Concilio abbia chiuso i suoi lavori, il 7 dicembre 1965, con l’epocale rimozione "dalla memoria e dal mezzo della Chiesa" delle reciproche scomuniche intercorse nel 1054 tra il patriarca di Costantinopoli e i legati romani (la straordinaria valenza ecclesiologica di questo evento è stata magistralmente presentata dal cardinale Joseph Ratzinger in un artico sulla rivista “Istina” del 1975).

Questo recupero, da parte della Chiesa cattolica, della tradizione del primo millennio ha comportato di fatto un’implicita rottura – mi scuso dell’eccessiva schematizzazione – con la tradizione cattolica del secondo millennio. Non è vero, a mio parere, che nella tradizione della Chiesa non ci siano delle rotture. Uno iato c’era già stato, proprio al passaggio dal primo al secondo millennio, con la svolta impressa dai riformatori “lorenesi-alsaziani” (tale era papa Leone IX, come anche due dei tre legati a Costantinopoli nel fatidico 1054, il cardinale Umberto e Stefano di Lorena, futuro papa) e dalla cosiddetta riforma “gregoriana”, e poi da un approccio eminentemente filosofico alle verità teologiche e dal debordante interesse per la canonistica (già lamentata da Dante Alighieri), a scapito della Scrittura e dei Padri, propri della piena età medioevale. Per non parlare poi della riforma tridentina, con la rigida dogmatizzazione – andando persino oltre i presupposti della Chiesa medievale –, nonché del “sequestro” della Scrittura ai semplici fedeli, sino all’apoteosi della “monarchia” pontificia nel Concilio Vaticano I, relegando ancora più sullo sfondo il profilo della Chiesa indivisa del primo millennio. Non c’è da stupirsene: proprio perché la Chiesa è un organismo vivente, la sua tradizione è soggetta ad evoluzione, ma anche ad involuzioni.

Che sia stato veramente questo ritorno l’intento più profondo del Vaticano II lo si può cogliere da un paio di esempi. Il più immediato si situa in ambito ecclesiologico, dove l’insegnamento del Concilio in merito alla collegialità episcopale è inequivocabile. Ora precisamente la collegialità dei vescovi è un tratto proprio dell’ecclesiologia del primo millennio, anche in Occidente, dov’era perfettamente coniugata con la primazialità romana. È indicativo come nel primo millennio tutti i pronunciamenti dogmatici romani che i legati papali portavano in Oriente ai Concili ecumenici – relativi alle questioni in essi dibattute – fossero preceduti da un pronunciamento sinodale di tutti i vescovi afferenti alla giurisdizione super-episcopale di Roma. Ora se è vero che il più grande nemico del Concilio è stato il postconcilio – con le fughe in avanti di alcuni pastori d’anime e di gruppi di fedeli, che in nome dello “spirito del Concilio” hanno introdotto alcune prassi eversive proprio nei confronti della tradizione della Chiesa indivisa o almeno ne stanno chiedendo con insistenza l’introduzione –, mi sembra di poter affermare che nell’ecclesiologia è avvenuto precisamente l’opposto: le norme di applicazione sono state gravemente riduttive rispetto al deliberato conciliare, in quanto il carattere puramente consultivo attribuito al sinodo dei vescovi non trae le dovute piene conseguenze dall’insegnamento del Vaticano II in merito alla collegialità episcopale. E poi – sempre per restare nell’ambito della struttura della Chiesa – il ripristino del diaconato come grado permanente dell’ordine sacro non è stato anch’esso un recupero della tradizione del primo millennio?

Il secondo ambito, nel quale la continuità della riforma conciliare con il primo millennio è ancor più evidente – in quanto percepibile da tutti – è quello liturgico, anche se paradossalmente si tratta di un campione privilegiato dai critici del Vaticano II per accusare il Concilio di rottura con la tradizione. Il criterio ermeneutico da me assunto mi consente di affermare esattamente il contrario, sempre in base al postulato di una pluralità diacronica di tradizioni. Anche in questo caso c’è stata un’evidente rottura con la liturgia preconciliare – che era notoriamente, con interventi successivi, una creazione tridentina –, ma proprio al fine di un recupero della grande tradizione del primo millennio, quello della Chiesa indivisa. Forse non abbiamo ben presente che l’incriminato nuovo messale contiene il fantastico recupero di orazioni tratte dai più antichi sacramentari risalenti proprio al primo millennio, il Leoniano, il Gelasiano ed il Gregoriano, nonché, per l’Avvento, dal patrimonio eucologico dell’antico Rotolo di Ravenna, tesori rimasti in gran parte fuori dal messale tridentino. Lo stesso vale per il recupero, nel contesto di un’opportuna pluralità di preghiere eucaristiche, dell’antica anafora di Ippolito e di altre tratte dalla tradizione ispanica. In questo senso il messale “conciliare” è ben più “tradizionale” del precedente.

Scrivo questo, ponendovi a corollario due osservazioni, che forse non saranno condivise dai “progressisti”. La prima è che, se guardiamo allo stato attuale del rito “ordinario” della Chiesa romana, proprio questa continuità con la tradizione del primo millennio, implicita nella riforma conciliare, è stata parzialmente offuscata da tutt'altri sviluppi nel postconcilio: da una parte, a livello di base, si è prodotto il malinteso che il Concilio abbia promosso un disordinato spontaneismo liturgico e dall’altro si è proceduto, da parte dell’autorità competente, alla promulgazione di testi creati per l’occasione – relativi a nuove anafore e a nuove collette – in un linguaggio sventuratamente attualistico e modernamente esistenziale, visibilmente alieni dallo stile eucologico del primo millennio, profondamente ispirato al pensiero ed alla terminologia dei Padri.

La seconda osservazione è che il motu proprio "Summorum Pontificum" – che, com’è noto, autorizza la pratica del messale tridentino come rito “straordinario” –, documento considerato da molti come involutivo rispetto al Concilio, per me invece ha l’indubbio pregio di ristabilire nella Chiesa latina quel pluralismo liturgico proprio, ancora una volta, del primo millennio. Anche se si tratta di una pluralità rituale scandita dalla variabile del tempo, e non da quella dello spazio geografico, essa ha il pregio di introdurre anche nella Chiesa cattolica – in modo pacifico e indolore – quella presenza “vecchio-ritualista”, che è un patrimonio, sia pure acquisito in modo violento e traumatico, della tradizione ortodossa.

Mi sento invece di condividere con la “scuola bolognese” la possibilità, anzi l’opportunità, di una lettura "accrescitiva" del concilio, coerente con i suoi principi ispiratori (l’espressione è di Alberto Melloni), che consente, anzi suggerisce, al supremo magistero di assumere oggi decisioni che il Vaticano II, nella temperie storica del momento, non aveva potuto prendere in considerazione. Questo principio ispiratore – in quella che ritengo la corretta ermeneutica del Concilio – è precisamente la ripresa della tradizione del primo millennio, come ha sottolineato implicitamente il cardinale Ratzinger quando ha scritto – in un passo che l’attuale pontefice non ha mai esplicitamente contraddetto – che agli ortodossi, nella fisionomia di una Chiesa finalmente riunificata, non bisogna imporre nulla più di quanto era da loro creduto nel primo millennio di comunione.

Non è perciò assolutamente nello “spirito del Concilio” introdurre nella Chiesa sconsiderate innovazioni, nella dottrina e nella pressi teologica, quali sarebbero il sacerdozio femminile o aberranti sviluppi nell’etica e nella bioetica. Sarebbe invece perfettamente nello “spirito del Concilio” – sempre per esemplificare – l’eliminazione dal "Credo" dell’unilaterale, ingiustificata e offensiva aggiunta del "Filioque" (senza che questo implichi una negazione della tradizionale dottrina dei Padri latini – anch’essi del primo millennio – sulla processione dello Spirito Santo anche dal Figlio, come da un unico principio con il Padre). Tale malaugurata aggiunta rappresenta il frutto più evidente, dalla fortissima pregnanza simbolica, di quel processo di franco-germanizzazione teologica e culturale della Chiesa romana – avviato dai papi filofranchi della fine del primo millennio e da quelli tedeschi dell’inizio del secondo – denunciato in termini certo esasperati, ma non del tutto infondati, dallo scomparso teologo greco conservatore Ioannis Romanidis. E invece non solo l’addizione rimane, ma è stata ribadita anche in testi di composizione “postconciliare” e, per giunta – mi risulta – è ancor oggi vergognosamente imposta a una bella e fiorente Chiesa orientale unita a Roma, cioè alla Chiesa grecocattolica ucraina.

Insomma, per chiudere con una formula sintetica queste mie personali considerazioni, promuovendo il rinnovamento della Chiesa il Concilio non ha inteso introdurre qualcosa di nuovo – come rispettivamente desiderano e temono progressisti e conservatori – ma ritornare a ciò che si era perduto.

Grato dell’attenzione.


LA STORIA/ Ha un figlio dalla moglie due anni dopo che lei è morta di tumore - INT. Nicoletta Tiliacos, mercoledì 22 giugno 2011, il sussidiario.net

Due anni dopo che sua moglie è morta di tumore, Nissim Ayish ha realizzato il sogno di avere un figlio da lei. Il loro figlio è il primo israeliano a essere nato attraverso una madre surrogata dall’embrione congelato di una donna deceduta.

ULTIMO DESIDERIO - Il bambino, di cittadinanza ebraica, sarà circonciso a New York e si chiamerà con il nome scelto da Nissim e Keren quando la donna era ancora in vita. Il padre, intervistato dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, ha dichiarato: «Sono felice di essere riuscito a soddisfare l’ultimo desiderio di mia moglie». Ayish, 42 anni, ha incontrato per la prima volta Keren 14 anni fa; i due si sono sposati quattro mesi più tardi. «Avevamo molti sogni: una casa, una famiglia e, quello più importante, dei bambini», ricorda. Ma presto hanno scoperto che Keren non era adatta a concepire, e quindi hanno iniziato una serie molto pesante di trattamenti per la fertilità.

LA MALATTIA DELLA MOGLIE - Quindi a metà del 2002 il loro mondo è crollato. Un persistente mal di testa, ritenuto inizialmente un’emicrania, è stato quindi diagnosticato come un tumore al cervello. La malattia ha posto fine ai tentativi di procreazione assistita, benché il Rambam Medical Center avesse ancora due degli embrioni congelati della coppia. E nonostante nel 2003 Keren sembrasse guarita, dal 2007 ha avuto una ricaduta, proprio quando aveva ricevuto la notizia di essere incinta. La gravidanza è durata 13 settimane, ma l’embrione non si è sviluppato in modo adeguato e quindi la donna ha abortito. Per Keren è stato un colpo molto duro, ma ha continuato a sperare di guarire e di riuscire ad avere un bambino.
LIETO FINE - Quando il figlio sarà cresciuto, il padre gli racconterà della moglie, «spiegandogli di essere l’eroe di sua madre perché ha soddisfatto il suo desiderio dopo la morte». Ma c’è un altro motivo per cui quella di Nissim e del suo bambino è una storia a lieto fine. Il figlio di Keren è stato salvato infatti dal triste destino delle migliaia di altri embrioni nati attraverso fecondazione assistita, e che finiscono per essere distrutti o abbandonati per sempre in un congelatore. A spiegarlo, in un’intervista a Ilsussidiario.net, è Nicoletta Tiliacos, giornalista de Il Foglio ed esperta di fecondazione assistita.

L’ESPERTA DI FECONDAZIONE - «Da un punto di vista etico, se c’è un embrione congelato e destinato a restare per sempre in un limbo, ritengo che sia preferibile che sia accolto in un ventre femminile per avere una possibilità di diventare un essere umano fatto e finito – osserva Tiliacos -. Non vedo l’eticità di negare questa possibilità e quindi di condannare quell’embrione alla distruzione». Tiliacos ricorda quando l’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha accolto alla Casa Bianca un gruppo di madri che avevano accettato di adottare degli embrioni abbandonati, per dare loro la possibilità di crescere ed evitare che fossero distrutti o abbandonati per sempre in un congelatore. E aggiunge l’esperta: «Penso per esempio al caso dei cosiddetti “embrioni soprannumerari”, ai quali le coppie rinunciano dopo averli costruiti attraverso fecondazione assistita, mettendoli implicitamente in un limbo di cui è scontato che non si occuperanno più».
POSSIBILITA’ POSITIVA - E osserva sempre Tiliacos: «Siccome credo che un embrione è un essere umano allo stato embrionale, il cui sviluppo è stato bloccato in attesa di impianto, il fatto che esistano donne che danno a questi embrioni abbandonati la possibilità di svilupparsi e nascere significa porre rimedio a una violazione che già c’è stata, evitandone una peggiore. Preciso che si tratta della mia posizione personale, e che non è particolarmente comune neppure nel mondo cattolico».

CONSEGUENZE PSICOLOGICHE - Diverso invece il giudizio sulla fecondazione assistita in quanto tale, nei cui confronti Tiliacos si dice contraria per una doppia ragione: «Sia per il ruolo della cosiddetta madre surrogata, che di fatto è considerata come una specie di incubatrice, sia dal punto di vista dell’essere che viene al mondo e la cui identità subisce una sorta di confusione che certamente avrà delle ricadute psicologiche».

DANNI MEDICI - Per la giornalista inoltre «da un punto di vista medico-scientifico, il fatto di vivere i primi istanti della propria vita embrionale non nel ventre materno, ma in una coltura in provetta, può comportare a sua volta delle lesioni. Sono stati realizzati infatti diversi studi sui nati da fecondazione in vitro, che indicano come tra di loro certe malattie, soprattutto quelle rare, abbiano un’incidenza maggiore, a prescindere dal fatto che la fecondazione sia stata omologa o eterologa».

(Pietro Vernizzi)
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