venerdì 10 giugno 2011

Nella rassegna stampa di oggi:

  1. MEDICINA/ Silenzio in sala (operatoria) – Redazione - giovedì 9 giugno 2011, il sussidiario.net
  2. Avvenire.it, 9 giugno 2011 - Una sentenza di Cassazione, strani giubili, problemi serissimi Quegli incredibili applausi alla bigamia di , di Francesco Riccardi
  3. Le campagne per la liberalizzazione della droga - La vera cura è la prevenzione di Carlo Bellieni, http://www.osservatoreromano.va, 9 giugno 2011
  4. I cattolici dell'acqua di Riccardo Cascioli, 10-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
  5. Referendum sul nucleare, ci provano anche col Papa di Riccardo Cascioli, 09-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
  6. «L'Omofobia? Una grande bufala» Parola di ex gay militante di Raffaella Frullone, 10-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
  7. DON RICCI/ Negri: fedele alla verità, costruttore di ponti di Luigi Negri, venerdì 10 giugno 2011, il sussidiario.net
  8. 7 Giugno 2011 - SCIENZA & VITA DI PISA E LIVORNO: NO ALLA LEGGE SULLE D.A.T. - Un documento spiega perché la legge sul fine vita apre le porte all'eutanasia
  9. Eutanasia? No: «Suicidio medicalmente assistito» - I vescovi americani stanno per pubblicare un documento per fermare la deriva delle leggi suicidarie. I medici tedeschi votano a grande maggioranza il no a ogni aiuto reso a chi vuole togliersi la vita. In Spagna le norme regionali usano abili giri di parole... Il fronte della «morte procurata» si sposta su quella «a richiesta» - Dossier, di Lorenzo, Avvenire, 10 giugno 2011
  10. Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Lettera a Tempi / Cari amici (di CL e non solo), occorre rifare il Movimento Popolare ! - Posted: 09 Jun 2011 - Rifare il Movimento popolare. Questa è la mia proposta. La spiegherò fra poco, prima voglio premettere che per noi cattolici non è possibile e non è giusto lasciar cadere nel vuoto il ripetuto, insistente appello del Papa e del presidente della Cei.
  11. Francia - Modello Zurigo? - «Togliersi la vita non è un diritto» - Avvenire, 9 giugno 2011


 

La convivenza? Un pessimo test di Giacomo Samek Lodovici, 09-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


 

«La convivenza è un buon test per verificare la compatibilità reciproca e per prepararsi al matrimonio».

Sono davvero moltissimi coloro che lo pensano (anche tra i preti, che non di rado consigliano la convivenza ai fidanzati), e in buona fede.


 

Ma le cose non stanno così, per (almeno) tre motivi.


 

1) I conviventi esercitano atti sessuali e questi possono, non di rado, avere un effetto deformante rispetto alla conoscenza reciproca. Infatti, in forza del piacere intenso che spesso provoca, l'atto sessuale può condurre ad attribuire all'altra persona delle caratteristiche positive, può portare ad idealizzarla in modo (più o meno) entusiastico e/o può indurre a minimizzare i difetti altrui o anche semplicemente le differenze (riguardanti il carattere, gli interessi, la visione della vita, ecc.) esistenti e/o può far credere e sperare che le divergenze siano facilmente superabili.


 

Talvolta inoltre l'atto sessuale diventa il tema dominante del rapporto, diviene ciò attorno a cui ruota tutta la relazione, e finisce per spostare in secondo piano tutto il lavoro di reciproca conoscenza, doverosa tra due persone che si frequentano per verificare se il loro rapporto potrà approdare al matrimonio.


 

Se durante questa fase idealizzante i conviventi si sposano, c'è dunque un considerevole rischio che non si siano conosciuti in modo realistico e ciò rischia di fondare il matrimonio su elementi fragili, lo espone a crollare col tempo.


 

Se invece l'iniziale entusiasmo si affievolisce e i conviventi non si sono sposati, le divergenze e le incompatibilità (se ci sono) emergono, ma è per loro più arduo lasciarsi – anche se essi si rendono conto di non essere fatti l'uno per l'altro – a causa del legame profondo che si è instaurato tra loro e per il fatto di dover rinunciare alla piacevole dimensione sessuale del rapporto.


 

Insomma, l'atto sessuale prematrimoniale può non di rado impedire una vera e profonda conoscenza, può portare persone molto diverse (talvolta finanche incompatibili) a continuare a vivere insieme e magari a sposarsi e dunque aumenta il rischio di sfacelo dell'unione matrimoniale.


 

In altri termini, l'atto sessuale può cementare il rapporto tra un uomo e una donna, ma solo se si svolge al termine di un lungo percorso di conoscenza reciproca e di elaborazione di un progetto, altrimenti può, a volte (non necessariamente, non sempre) avere un effetto contrario, cioè può portare a far poggiare il rapporto su qualcosa di fragile. Se faccio una colata di cemento sui muri in mattone di una casa in costruzione irrobustisco la casa stessa, ma se faccio la colata di cemento sui muri di paglia di una capanna distruggo la capanna.


 


 

Così, per esempio, da uno studio condotto su 6.577 donne americane risulta che: se una donna ha avuto rapporti sessuali prematrimoniali con uomini diversi da quello che è poi diventato suo marito, il rischio di fallimento del matrimonio aumenta fino al 114 % (J. Teachman, Premarital Sex, Premarital Cohabitation, and the Risk of Subsequent Marital Dissolution among Women, «Journal of Marriage and Family», 65 [2003], p. 452).


 

Certo, i motivi del fallimento sono molteplici e non riducibili ai soli rapporti prematrimoniali, ma questi rapporti sicuramente incidono in modo significativo.


 

Certo, falliscono anche alcuni matrimoni di chi vi è arrivato casto, ma in misura clamorosamente minore; anche qui il tasso di minor fallimento dipende da vari fattori, ma l'assenza di rapporti fisici è un fattore molto rilevante della buona scelta del coniuge e quindi della successiva tenuta del matrimonio.


 


 

2) Inoltre, chi ha convissuto, quando poi si sposa divorzia più facilmente, perché nel corso della convivenza si è abituato (magari inconsapevolmente) all'idea che i rapporti e le relazioni tra uomo e donna siano esperienze "a termine", "con clausola di rescissione" e che quindi possano cessare.


 


 

3) Ancora, come spiega bene lo psicanalista francese Tony Anatrella (Felici e sposati. Coppia, convivenza, matrimonio, ESD, Bologna 2007, pp. 64-68 e 82), sulla scorta di una lunga esperienza maturata attraverso l'ascolto e la psicoterapia, alcune dinamiche ed abitudini che si sono formate durante la convivenza impediscono facilmente (sebbene non necessariamente) ad un convivente di sentirsi davvero del tutto libero, di fronte all'altro, di decidere se sposarlo oppure no. Vivendo insieme, i conviventi rischiano di ostacolarsi nella scoperta di ciò che desiderano veramente, perché la risposta a molte delle domande su di sé e sulla solidità della coppia deve essere cercata anche da soli, invece che nella vita che trascorre continuamente insieme, dove la persistente presenza dell'altro e il flusso continuo dei sentimenti non aiutano la conoscenza dell'altro, dei propri desideri, della persona che davvero fa per noi, ecc. Anche Pascal rilevava l'importanza, per autoconoscersi bene, di riflettere su se stessi nella propria camera, cioè in solitudine. Ma stare da soli nella propria camera è evidentemente precluso quando si convive.


 

Senza la possibilità di riflettere da soli – prosegue lo psicanalista francese – le domande di ciascuno rischiano di restare senza risposta, e il convivente rischia di trovarsi in una situazione in cui non è più davvero libero di scegliere. Non a caso, ci sono alcuni conviventi che si separano volutamente per alcuni mesi, per cercare di riflettere da soli. Ma quelli che invece stanno insieme, rischiano, a volte, di sposarsi senza essere veramente fatti l'uno per l'altra, corrono il rischio di costruire dei matrimoni fragili, dato che non hanno potuto alternare i momenti dello stare insieme e dello stare presso di sé, di cui è invece fatto il fidanzamento.


 


 

Dell'inimicizia tra convivenza e matrimonio, di cui abbiamo scritto alcune motivazioni, si trovano ormai diverse conferme in varie ricerche sociologiche: per esempio, uno studio di due ricercatori della Bowling State University (USA) ha documentato che il rischio di naufragio del matrimonio aumenta del 46 % quando i coniugi hanno precedentemente convissuto (cfr. A. De Maris – K. Vaninadha Rao, Premarital Cohabitation and Subsequent Marital Instability in the United States, «Journal of Marriage and the Family», 54 [1992], pp. 178-190: da notare che questo studio ne passa in rassegna diversi altri, che hanno dato risultati simili; più recentemente cfr., per citare solo due studi tra i tanti possibili, Le Bourdais e altri, The changing face of coniugal relationships, «Canadian Social Trends», 56 [2000], http://www.statcan.gc.ca/pub/11-008-x/11-008-x1999004-eng.pdf, pp. 15-16 e M. McManus – H. McManus, Living Together. Myths, Risks & Answers, Howard Books, New York 2008, p. 61).


 


 

Insomma, con buona pace di tanti preti che consigliano la convivenza e che affermano (erroneamente) che la Chiesa non biasima la convivenza e non biasima i rapporti sessuali prematrimoniali se c'è il matrimonio in vista, le precedenti righe valgono come motivazioni laiche (insieme a diversi altri motivi che qui non possiamo aggiungere) di sostegno all'affermazione fatta da Benedetto XVI in Croazia il 5 giugno 2011: «Care famiglie, siate coraggiose! Non cedete a quella mentalità secolarizzata che propone la convivenza come preparatoria, o addirittura sostitutiva del matrimonio! Mostrate con la vostra testimonianza di vita che è possibile amare, come Cristo, senza riserve, che non bisogna aver timore di impegnarsi per un'altra persona!».


 

Ps: gli studi citati sono solo di supporto (e molti altri simili se ne potrebbero citare); le argomentazioni (la cui ragionevolezza verrà giudicata da chi legge) 1 , 2 e 3 sono ciò che conta davvero.


 


 

Avvenire.it, 9 giugno 2011 - Una sentenza di Cassazione, strani giubili, problemi serissimi Quegli incredibili applausi alla bigamia di , di Francesco Riccardi


 

Una sentenza della Cassazione, terza sezione civile – che ha esaminato un ricorso per la liquidazione del danno morale, derivante dalla morte di un uomo in un incidente stradale – è stata accolta ieri come una «svolta storica». Ridando fiato e motivazioni a chi sostiene la parificazione tra la famiglia basata sul matrimonio – così come scolpita nella Costituzione all'articolo 29 – e le unioni di fatto.


 

C'è chi, come il presidente dell'associazione degli avvocati matrimonialisti (divorzisti?), si spinge ad affermare, non si sa in base a quali statistiche, che le convivenze, «quando nascono i figli hanno una tenuta maggiore rispetto alle famiglie legate dal matrimonio». Derivandone la necessità di modifiche al Codice civile per dare tutela giuridica alle «famiglie di fatto», «sodalizi familiari strutturati al pari di quelle legittime». Nel caso specifico, infatti, i giudici della Suprema Corte hanno statuito il risarcimento danni in egual misura «in favore della ex consorte e dei figli legittimi nonché in favore della convivente e dei figli naturali» (del deceduto), scrive l'avvocato Gassani. Peccato, però, che in questo caso non ci sia alcun "ex" moglie, giacché dalla lettura delle carte non risulta alcun divorzio e neppure separazione legale, mentre i giudici continuano a definire la ricorrente semplicemente come «moglie». Secondo quanto è possibile ricostruire, infatti, in questo caso ci si trova davanti a un uomo che conviveva more uxorio con una donna, dalla quale aveva avuto anche una figlia, senza però riconoscerla legalmente. Contemporaneamente, intratteneva regolari rapporti con la moglie e i figli legittimi, «provvedendo economicamente ad ambedue i nuclei». I giudici di appello, confermati da quelli di Cassazione, hanno «parificato ai fini del risarcimento del danno morale la famiglia legale e la famiglia di fatto» e hanno poi «tenuto conto della diversa intensità del vincolo familiare, moglie convivente e figli, e della effettiva convivenza, liquidando alla figlia sposata un importo inferiore». L'unica alla fine in qualche modo "penalizzata".


 

Ora, da tempo si è stratificata una giurisprudenza che tutela in diversi ambiti le convivenze, a riprova che non ci sono discriminazioni tali da richiedere immediati interventi o vuoti legislativi sostanziali da colmare. Ma proprio la particolarità di questo caso fa sollevare seri dubbi sulla scelta dei giudici e sulla strumentalizzazione di chi oggi "cavalca" la sentenza per chiedere una legge a favore delle coppie di fatto. I magistrati, com'è ovvio, non entrano nel merito delle scelte personali del defunto, ma la parificazione di fatto che avallano finisce per mettere sullo stesso piano qualsiasi tipo di comportamento e di vincolo, sia esso meramente affettivo, stabile oppure di legge.


 

Avere due famiglie contemporaneamente, alla luce di una giurisprudenza siffatta, diventa una sorta di bigamia legalizzata, mentre si fa decadere il valore di qualsiasi obbligo legale, di quelle norme che non servono solo a regolare i rapporti tra cittadino e Stato, ma anzitutto a tutelare i soggetti più deboli attraverso l'assunzione di responsabilità del singolo. Se infatti non c'è differenza alcuna tra moglie (non ex, si badi bene) e convivente; se non c'è differenza tra un figlio legittimo e uno neppure riconosciuto, perché mai un uomo (o una donna) dovrebbe assumersi la responsabilità di sposarsi? E perché mai dovrebbe riconoscere un figlio naturale, dandogli il cognome? E un domani come verrà liquidato il danno alle 4 mogli di un immigrato musulmano? Verrà di fatto riconosciuta la poligamia anche nel nostro Paese?


 

Non si tratta di penalizzare i conviventi o i figli naturali, ma se tutto alla fine può essere ricondotto al solo vincolo affettivo soggettivo e non a quello stabilito nel patto sociale, quest'ultimo rischia di decadere del tutto. È davvero ciò che vogliamo?


 


 

Le campagne per la liberalizzazione della droga - La vera cura è la prevenzione di Carlo Bellieni, http://www.osservatoreromano.va, 9 giugno 2011


 

I ragazzi che usano droga ben presto si rendono conto sulla loro pelle dei danni che ne derivano e li sanno descrivere con esattezza: è quanto emerge da uno studio svizzero appena pubblicato su «Swiss Medical Weekly», che analizza i disturbi di relazione o di ordine sessuale provocati dagli stupefacenti.

I giovani pagano, ma alcuni «maestri» predicano ancora la legalizzazione della droga, magari usandone in televisione l'immagine per attirare audience. Altri — come hanno sostenuto in un documento recenti ex capi di Stato, uomini politici e personalità pubbliche — pensano che liberalizzando si sottragga il mercato alla delinquenza.

Sbagliano entrambi: i primi perché speculano in malafede sulla debolezza dell'adolescenza, i secondi perché la liberalizzazione non ha, per esempio, fatto sparire il gioco d'azzardo clandestino e non ha ridotto l'uso dell'alcol. La droga infatti non è in primis un problema di delinquenza, ma di vuoto di speranza e di progettazione, colmato da una felicità artificiale che distrugge il cervello.

Già, perché la droga fa male. E lo mostra la scienza. Uno studio in uscita questo mese sul «British Journal of Psychiatry» mostra che prima si inizia a drogarsi e peggiori sono le conseguenze neurocognitive future. A conferma di quanto già era noto, e cioè che le capacità mnemoniche e di attenzione escono malconce dal contatto con la droga anche a distanza di anni («Journal of Psychopharmachology», gennaio 2010). La conseguenza pratica è che per chi si droga non basta evitare di farlo durante il lavoro per non provocare gravi danni, come nel caso di autisti o di categorie simili.

Per non parlare poi dei legami della cannabis con l'insorgenza della schizofrenia, una psicosi gravissima, messa in relazione alla tanto decantata «droga leggera»: il «Lancet» nel luglio 2007 mostrava che eliminando la marijuana, le psicosi nella popolazione diminuirebbero del 14 per cento. Per questi motivi, e per l'insuccesso delle politiche depenalizzanti, l'American Academy of Pediatrics si è pronunciata chiaramente contro la liberalizzazione della cannabis. A causa dei suoi effetti sui ragazzi, non ultimo il rischio di tumori, e contro l'idea di una cannabis terapeutica, che in ultima analisi si rivela solo una porta aperta alla liberalizzazione piuttosto che un'arma reale contro il dolore.

In questo scenario da emergenza sanitaria, è patetico il tentativo di intorbidare le acque mettendo nel calderone delle classificazioni delle droghe un po' di tutto — dal vino all'Lsd — per dire che in fondo nella droga basta sapersi regolare, senza evidentemente ricordare che il vino è un alimento, e che il tabacco non fa andare fuori di testa ma la marijuana sì. Siamo noi i primi a restare scandalizzati per l'accesso precoce dei ragazzi a tabacco e alcol, e chiediamo forti restrizioni per i giovani e chiare campagne di dissuasione contro il binge drinking o la nicotina; ma questo non significa che a due sciagure si deve aggiungere una terza, soprattutto in un momento in cui la lotta alle prime due sta riscuotendo successi.

La liberalizzazione di una sostanza nociva finisce col far sentire ingiusta la lotta alle altre. E può essere voluta solo da un'ideologia stantia, quella dei reduci degli anni della contestazione, che ancora predicano la mancanza di responsabilità. Trascurando i pianti delle vittime degli incidenti automobilistici causati da giovani drogati, i lamenti dei parenti dei suicidi o le lacrime degli intossicati finiti, quando va bene, in comunità di recupero.

È l'ideologia di chi, come scriveva Pier Paolo Pasolini, ha giocato a fare il rivoluzionario e, arrivato ormai alla vecchiaia, si accorge di «aver servito il mondo contro cui con zelo ha portato avanti la lotta» (Trasumanar e organizzar, 1971). E regala ai giovani solo solitudine, rimpianti e droga, cioè «folletti di vetro, che ti spiano davanti e ti ridono dietro», come Fabrizio De André scriveva, con immagine efficace nel Cantico dei drogati (1968). È un'ideologia zoppa, che fallisce anche nella lotta allo spaccio, come sottolinea l'apposita task force dell'amministrazione statunitense, dalla quale apprendiamo che in Olanda, dall'apertura dei «marijuana bar» nel 1976, si è triplicato non solo l'uso di quella droga, ma anche dell'eroina. Senza parlare degli esperimenti svizzeri, miseramente falliti, dei parchi riservati ai tossicodipendenti. La sete di significato e di amore non si colma dando alcol e droga. Così si crea soltanto emarginazione.


 


 


 

I cattolici dell'acqua di Riccardo Cascioli, 10-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


 

Ci eravamo ripromessi, dopo l'editoriale di ieri, di non ritornare sulla questione referendum. Ma il fiume di interventi a favore dei quesiti sull'acqua da parte di vescovi, preti, associazioni cattoliche, giornali, per non parlare della carnevalata di padre Zanotelli e soci in piazza San Pietro, ci costringe a tornare sull'argomento. Non tanto per ribadire che consigliamo di non andare a votare, quanto per rilevare questa deriva di una parte considerevole del mondo cattolico, che nell'occasione ha messo in rilievo soprattutto due aspetti: l'evidente malafede nel citare la Dottrina sociale della Chiesa e l'ignoranza sull'oggetto dei referendum.


 

Tutti abbiamo sentito diversi vescovi, preti, la presidenza dell'Azione Cattolica, quella delle Acli, addirittura l'Unitalsi, la presidenza della Federazione Italiana Settimanali Cattolici (Fisc) che, per giustificare i sì ai due referendum, hanno citato la Bibbia e i discorsi dei Papi che mettono in evidenza come l'acqua sia un diritto inalienabile, un bene comune di cui a tutti deve essere garantito l'accesso, e così via. Il bello è che nessuno ha mai messo in dubbio questi princìpi, non c'è alcuna legge in Italia che consenta di "privatizzare" la proprietà di un bene comune come l'acqua. Si può benissimo essere legittimamente a favore dell'abrogazione dell'attuale legge in materia, ma si giustifichi questa posizione con delle motivazioni tecniche, amministrative, giuridiche. Cosa c'entra continuare a citare a sproposito perfino i testi sacri, arrivando fin quasi alla bestemmia (c'è anche chi ha tirato in ballo la sete di Gesù sulla Croce per dare più forza alla campagna dei "sì")? Siamo certi che molti, in buona fede, non sappiano davvero cosa dice la legge e cosa intendano i referendum, ma non è una buona scusa per seguire l'onda dominante come utili idioti.


 

La cosa più preoccupante è però la malafede di tanti altri che vogliono far credere – mentendo sapendo di mentire – che "la destinazione universale dei beni" in cui rientra anche l'acqua, per il Magistero della Chiesa coincida con la gestione statale – e statalista – dei beni stessi. Non staremo qui a dilungarci sull'importanza e i limiti della proprietà privata o del principio della sussidiarietà, che la Dottrina sociale considera fondamentali nell'ottica della destinazione universale dei beni. Per venire al punto che ci interessa, prendiamo come esempio una lettera inviata nei giorni scorsi a tutti i sacerdoti della diocesi di Brescia dall'Ufficio della pastorale sociale della stessa diocesi, che porta le firme di don Raffaele Donneschi, don Mario Benedini, don Umberto Dell'Aversana e don Gabriele Scalmana, che è anche docente di Etica ambientale all'Università Cattolica di Brescia.


 

Il documento è interessante perché è un condensato di tutti gli slogan e i luoghi comuni sentiti in questi giorni sull'acqua e – invitando i sacerdoti a promuovere momenti di informazione e sensibilizzazione sul tema dell'acqua – presenta una piccola summa di frasi sull'argomento tratte dal Magistero. La nostra attenzione si è fermata sulla citazione del no. 485 del Compendio di Dottrina sociale della Chiesa, che viene presentato così: "L'acqua non può essere trattata come una merce tra le altre e il suo uso deve essere razionale e solidale. La sua distribuzione rientra, tradizionalmente, fra le responsabilità di enti pubblici, perché l'acqua è sempre stata considerata un bene pubblico". Cosa si capisce? Ovviamente che tutto ciò che riguarda l'acqua deve essere gestito in modo diretto dall'ente pubblico. E' quello che hanno capito anche i vescovi del Molise, che infatti vengono citati subito dopo: "La gestione sia sempre ad impostazione pubblica, perché è un bene di tutti. E di tutti deve restare. Non ci sia una gestione privatistica, ma un affido ai comuni e agli enti locali, in modo diretto".


 

Peccato che i vescovi del Molise, così come il docente di Etica ambientale dell'Università Cattolica abbiano troncato a metà la frase contenuta nel no. 485 del Compendio che in realtà dice così: "La sua distribuzione rientra, tradizionalmente, fra le responsabilità di enti pubblici, perché l'acqua è stata sempre considerata come un bene pubblico, caratteristica che va mantenuta qualora la gestione venga affidata al settore privato". Sbaglio o letta integralmente la frase del Compendio assume tutt'altro significato? Possiamo dire che è lo stesso Compendio di Dottrina Sociale a prevedere che la gestione della rete idrica possa essere affidata legittimamente a privati pur rimanendo l'acqua un bene pubblico? Certo che sì. Ed è esattamente ciò che prevede la legge che si vorrebbe abrogare. Ed è per questo che, in perfetta malafede, vengono censurati dei brani del Magistero della Chiesa. Che i vescovi del Molise farebbero invece bene a ripassare, così come i vescovi di Locri, di Sessa Aurunca e di Trani, tanto per citarne alcuni tra i più esagitati. E comunque chi si rende protagonista di operazioni truffaldine come questa tutto dovrebbe insegnare meno che Etica, pur se solo quella ambientale.


 


 

Referendum sul nucleare, ci provano anche col Papa di Riccardo Cascioli, 09-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


 

Il Papa scende in campo contro il nucleare? Così sembrerebbe a leggere i siti dei principali giornali italiani, che riportano il discorso rivolto a sei nuovi ambasciatori presso la Santa Sede. E ovviamente c'è subito uno stuolo di cattolici zelanti che, quando il Papa parla di aborto, famiglia, libertà di educazione, morale sessuale, si distraggono salvo poi vestirsi da guardie svizzere quando tocca temi ecologici. E così eccoli a scrivere alla nostra redazione trionfanti: "Visto? Il Papa è contro di voi", "Adesso non avete il coraggio di riportare il suo discorso, eh!", "Citate il Papa solo quando vi fa comodo", e via di questo passo.


 

Cari amici zelanti, non solo non censuriamo l'intervento del Papa, ma ve lo riportiamo integrale, (in fondo a questo articolo) così almeno sarete tentati di leggere per intero il suo discorso una volta nella vita, magari cercando di capire quello che dice invece di fargli dire quello che pare a voi.


 

Lo so, non è solo colpa vostra, voi leggete i grandi giornali e quello che dice il Papa vi arriva attraverso questo filtro. Così se il Corriere della Sera all'occhiello "Nucleare", aggiunge il titolo "Il Papa: le fonti d'energia non siano pericolose per l'uomo e l'ambiente" e poi nel sommario aggiunge: "L'appello di Benedetto XVI nell'imminenza della tornata referendaria…", certamente si è portati a pensare che il Papa, sulla scia di Napolitano, abbia sentito l'insopprimibile necessità di dire la sua sui referendum che si svolgono in Italia. Se poi si va sul sito di Repubblica, punto di riferimento dei cattolici adulti, il messaggio attribuito al papa è ancora più chiaro: "Il Papa: il Giappone faccia riflettere". Non è da meno il sito di Avvenire che, non brillando per originalità, così inizia l'articolo dedicato al discorso del Papa: "Benedetto XVI ha evocato oggi l'emergenza della centrale nucleare di Fukushima in un discorso ai nuovi ambasciatori ricevuti per la presentazione delle credenziali".


 

Ora qualcuno ci dovrebbe spiegare perché mai il Papa dovrebbe mettersi a parlare della centrale di Fukushima, del Giappone e della tornata referendaria in Italia rivolgendo un discorso ai nuovi ambasciatori di: Moldavia, Guinea Equatoriale, Belize, Siria, Ghana e Nuova Zelanda (perché questi erano gli ambasciatori che gli presentavano le credenziali). Così fosse si dovrebbe dire, come minimo, che il Papa ha mancato di rispetto ai suoi interlocutori, al limite dell'incidente diplomatico. Come se cogliesse l'occasione di un incontro con l'ambasciatore italiano per esprimere le proprie preferenze alla vigilia delle elezioni in Germania. Chi nelle ultime ore si è scoperto grande estimatore del Papa, gli dovrebbe almeno riconoscere la capacità – più volte dimostrata – di saper dire le cose giuste all'interlocutore corretto.


 

E allora cosa ha detto il Papa? A voi il piacere di leggerlo integralmente, ma state tranquilli che non ha mai citato né Fukushima né il nucleare né i referendum in Italia. Ha semplicemente svolto una riflessione a partire dalle "innumerevoli tragedie" che "nei primi sei mesi dell'anno" "hanno riguardato la natura, la tecnica e i popoli". Fra queste c'è certamente anche il terremoto in Giappone che non può essere ristretto all'incidente di Fukushima, visto che i 27mila morti con la centrale nucleare non c'entrano un bel nulla. Ma visto che si parla di "innumerevoli", siamo portati a pensare che magari si riferisse anche ai terremoti in Thailandia e in Indonesia oltre che alle alluvioni in Australia e in Europa nonché alla siccità in Africa.


 

Quindi ha messo l'uomo al centro di ogni riflessione sulla natura e sulla tecnologia affermando chiaramente che "l'ecologia umana è un imperativo". Ripeto: "ecologia umana", non l'ecologismo antiumano a cui volentieri si accodano tanti cattolici. E qui l'invito, tra l'altro, a "sostenere la ricerca e lo sfruttamento di energie adeguate che salvaguardino il patrimonio della creazione e non comportino pericolo per l'uomo".


 

Vi sembra contro il nucleare? Se proprio dovessimo tirarlo per la giacchetta dovremmo dire il contrario. Che del resto sarebbe in linea con quanto detto dallo stesso Papa il 29 luglio 2007 nel discorso in occasione del 50° anniversario dell'Agenzia Atomica Internazionale (Aiea), quando lanciò un appello al disarmo nucleare e all'«uso pacifico e sicuro della tecnologia nucleare per un autentico sviluppo , rispettoso dell'ambiente e sempre attento alle popolazioni più svantaggiate». E in linea con quanto il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, citando due discorsi di Giovanni Paolo II, dice al no. 470, afferma a proposito di risorse energetiche, quando invita la comunità scientifica "a identificare nuove fonti energetiche, a sviluppare quelle alternative e a elevare i livelli di sicurezza dell'energia nucleare".


 

Cari amici cattolici zelanti, leggetelo il Papa, ma leggetelo tutto.


 

Ed ecco il testo integrale pronunciato il 9 giugno ai nuovi ambasciatori che gli hanno presentato le credenziali.


 

È con gioia che vi ricevo questa mattina nel Palazzo Apostolico per la presentazione delle Lettere che vi accreditano come Ambasciatori Straordinari e Plenipotenziari dei vostri rispettivi Paesi presso la Santa Sede: Moldova, Guinea Equatoriale, Belize, Repubblica Araba di Siria, Ghana e Nuova Zelanda. Vi ringrazio per le cortesi parole che mi avete rivolto da parte dei vostri rispettivi Capi di Stato. Vogliate trasmettere loro in cambio i miei deferenti saluti e miei voti rispettosi per la loro persona e per l'alta missione che svolgono al servizio del loro Paese e del loro popolo. Desidero anche salutare attraverso di voi tutte le autorità civili e religiose delle vostre nazioni, come pure tutti i vostri concittadini. Le mie preghiere e i miei pensieri si rivolgono naturalmente anche alle comunità cattoliche presenti nei vostri Paesi.


 

Poiché ho l'opportunità di incontrare ciascuno di voi singolarmente, desidero ora parlare in maniera più generale. I primi sei mesi di quest'anno sono stati caratterizzati da innumerevoli tragedie che hanno riguardato la natura, la tecnica e i popoli. L'entità di tali catastrofi ci interpella. È l'uomo che viene per primo, ed è bene ricordarlo. L'uomo, al quale Dio ha affidato la buona gestione della natura, non può essere dominato dalla tecnica e divenirne il soggetto. Una tale presa di coscienza deve portare gli Stati a riflettere insieme sul futuro a breve termine del pianeta, di fronte alle loro responsabilità verso la nostra vita e le tecnologie. L'ecologia umana è una necessità imperativa.


 

Adottare in ogni circostanza un modo di vivere rispettoso dell'ambiente e sostenere la ricerca e lo sfruttamento di energie adeguate che salvaguardino il patrimonio del creato e non comportino pericolo per l'uomo devono essere priorità politiche ed economiche. In questo senso, appare necessario rivedere totalmente il nostro approccio alla natura. Essa non è soltanto uno spazio sfruttabile o ludico. È il luogo in cui nasce l'uomo, la sua "casa", in qualche modo. Essa è fondamentale per noi. Il cambiamento di mentalità in questo ambito, anzi gli obblighi che ciò comporta, deve permettere di giungere rapidamente a un'arte di vivere insieme che rispetti l'alleanza tra l'uomo e la natura, senza la quale la famiglia umana rischia di scomparire. Occorre quindi compiere una riflessione seria e proporre soluzioni precise e sostenibili. Tutti i governanti devono impegnarsi a proteggere la natura e ad aiutarla a svolgere il suo ruolo essenziale per la sopravvivenza dell'umanità. Le Nazioni Unite mi sembrano essere il quadro naturale per una tale riflessione, che non dovrà essere offuscata da interessi politici ed economici ciecamente di parte, così da privilegiare la solidarietà rispetto all'interesse particolare.


 

Occorre inoltre interrogarsi sul giusto posto che deve occupare la tecnica. I prodigi di cui è capace vanno di pari passo con disastri sociali ed ecologici. Estendendo l'aspetto relazionale del lavoro al pianeta, la tecnica imprime alla globalizzazione un ritmo particolarmente accelerato. Ora, il fondamento del dinamismo del progresso corrisponde all'uomo che lavora e non alla tecnica, che non è altro che una creazione umana. Puntare tutto su di essa o credere che sia l'agente esclusivo del progresso o della felicità comporta una reificazione dell'uomo, che sfocia nell'accecamento e nell'infelicità quando quest'ultimo le attribuisce e le delega poteri che essa non ha. Basta constatare i "danni" del progresso e i pericoli che una tecnica onnipotente e in ultimo non controllata fa correre all'umanità.


 

La tecnica che domina l'uomo lo priva della sua umanità. L'orgoglio che essa genera ha fatto sorgere nelle nostre società un economismo intrattabile e un certo edonismo, che determina i comportamenti in modo soggettivo ed egoistico. L'affievolirsi del primato dell'umano comporta uno smarrimento esistenziale e una perdita del senso della vita. Infatti, la visione dell'uomo e delle cose senza riferimento alla trascendenza sradica l'uomo dalla terra e, fondamentalmente, ne impoverisce l'identità stessa. È dunque urgente arrivare a coniugare la tecnica con una forte dimensione etica, poiché la capacità che ha l'uomo di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo per mezzo del suo lavoro, si compie sempre a partire dal primo dono originale delle cose fatto da Dio (Giovanni Paolo II, Centesimus annus n. 37).


 

La tecnica deve aiutare la natura a sbocciare secondo la volontà del Creatore. Lavorando in questo modo, il ricercatore e lo scienziato aderiscono al disegno di Dio, che ha voluto che l'uomo sia il culmine e il gestore della creazione. Le soluzioni basate su questo fondamento proteggeranno la vita dell'uomo e la sua vulnerabilità, come pure i diritti delle generazioni presenti e future. E l'umanità potrà continuare a beneficiare dei progressi che l'uomo, per mezzo della sua intelligenza, riesce a realizzare.


 


 

Consapevoli del rischio che corre l'umanità dinanzi a una tecnica vista come una "risposta" più efficiente del volontarismo politico o dello sforzo paziente educativo per civilizzare i costumi, i Governi devono promuovere un umanesimo rispettoso della dimensione spirituale e religiosa dell'uomo. Infatti, la dignità della persona umana non cambia con il fluttuare delle opinioni. Il rispetto della sua aspirazione alla giustizia e alla pace consente la costruzione di una società che promuove se stessa quando sostiene la famiglia o quando rifiuta, per esempio, il primato esclusivo delle finanze. Un Paese vive della pienezza della vita dei cittadini che lo compongono, essendo ognuno consapevole delle proprie responsabilità e potendo far valere le proprie convinzioni. Inoltre, la tensione naturale verso il vero e verso il bene è fonte di un dinamismo che genera la volontà di collaborare per realizzare il bene comune.


 

Così, la vita sociale può arricchirsi costantemente, integrando la diversità culturale e religiosa attraverso la condivisione di valori, fonte di fraternità e di comunione. Dovendo considerare la vita in società anzitutto come una realtà di ordine spirituale, i responsabili politici hanno la missione di guidare i popoli verso l'armonia umana e verso la saggezza tanto auspicate, che devono culminare nella libertà religiosa, volto autentico della pace.


 


 

Mentre iniziate la vostra missione presso la Santa Sede, desidero assicurarvi, Eccellenze, che troverete sempre presso i miei collaboratori l'ascolto attento e l'aiuto di cui potrete avere bisogno. Su di voi, sulle vostre famiglie, sui membri delle vostre Missioni diplomatiche e su tutte le nazioni che rappresentate invoco l'abbondanza delle Benedizioni divine.


 


 

«L'Omofobia? Una grande bufala» Parola di ex gay militante di Raffaella Frullone, 10-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


 

Cinquecentomila persone per le strade, 41 linee del trasporto pubblico deviate, entusiasmo crescente. L'EuroPride 2011, che va in scena nelle strade della capitale, si prepara a vivere il suo culmine domani sera, quando una sfavillante Lady Gaga, invitata nientepopo di meno che dall'ambasciatore statunitense, si scatenerà sulle note di «Born this way», inno alla naturalità della diversità.


 

La manifestazione dell'orgoglio omosessuale, si legge nello statuto politico, sottolinea che «Essere orgogliosi significa scegliere a testa alta i propri percorsi di vita con consapevolezza e libertà, nel riconoscimento del medesimo spazio di libertà di qualunque altra persona». Ma questa definizione non convince, soprattutto chi l'ha frequentata per 20 anni, come Luca di Tolve. Oggi quarantenne e sposato con Teresa, Di Tolve oggi getisce il gruppo Lot, associazione che difende l'identità di genere e offre supporto a chi porta dentro di sè ferite e dipendenze a livello emotivo. Nel suo libro «Ero gay. A Medjugorje ho ritrovato me stesso», edito da Piemme, racconta la sua storia e la sua esperienza all'interno di Arcigay, storica associazione che, si legge nel suo statuto «si propone di promuovere e tutelare il diritto all'uguaglianza tra ogni persona sia essa gay, bisessuale, lesbica, transessuale o eterosessuale».


 

Di Tolve, che cosa è Europride ?


 

«Una manifestazione egocentrica, una pura ostentazione, una giornata di folle divertimento. Tutti quello che si fa normalmente nei punti di ritrovo la notte, viene riproposto nelle strade di giorno. Non è, come si vuol far credere, una battaglia sociale, ma solo un mettersi in mostra attorno all'unico elemento di coesione: il sesso. Per capirlo basta accedere al sito di arcigay.it, si trova una serie di locali, sparsi in tutta Italia, con la denominazione cruising, ovvero ricerca e offerta di sesso causale, anonimo e vario. Nessuna associazione che promuove diritti si sognerebbe mai di organizzare una mai un maxi festino per le strade, tranne i movimenti omosessualisti. Il loro unico scopo è sdoganare un modello di pensiero, negando tutti quelli che lo contraddicono».


 

In che senso?


 

«Non prendono nemmeno in considerazione l'ipotesi che una persona in un dato momento abbia un problema con la proprie identità sessuale, danno per scontato che la strada sia quella dell'omosessualità, e su quella indirizzano tutti, soprattutto i più giovani e i più fragili. Noi crediamo che l'essenza della persona non sia omosessuale, che ci possano essere delle tendenze, dei problemi psicologici, delle ferite, ma non se ne può parlare. Non si può dire nulla se non nel modo in cui Arcigay propone, perchè subito si è tacciati di omofobia. Ma lo spettro dell'omofobia è una grande, gigantesca bufala. Omofobia significa avere paura, io non ho paura dell'omosessualità e nemmeno degli omosessuali: lo sono stato per 20 anni! Questo è soltanto un tentativo di zittire chiunque si permetta di esprimere un'opinione diversa».


 

Qualcuno potrebbe obiettare che alcune persone non si riconoscono nella propria identità sessuale biologica...


 

«Conosco bene questo stato d'animo, per averlo provato. Porta cosn sè un carico di dolore, di rabbia, di sofferenza inimmaginabile. Di fronte a questa sensazione di freddo smarrimento viene naturale avvicinarsi al mondo gay, e poi ne si viene travolti. Noi vogliamo offrire un'alternativa, con il gruppo Lot vogliamo dare voce alle persone che non si sentono in sintonia con quello che provanno, andare incontro agli adolescenti che chiedono di capire cosa sta succedendo. Il percorso è lungo e complesso, ma bisogna essere chiari: siamo maschi o femmine. E la normalità è essere eterosessuali».


 

Quindi secondo Lei non ci sono diritti da tutelare per quanto riguarda gli omosessuali attraverso i GayPride?


 

«L'unico risultato di queste manifestazioni è il proliferare di locali dove si offre sesso. A me dispiace tantissimo perchè so che i ragazzi più giovani ci credono davvero, e il loro entusiasmo viene alimentato di continiuo, facendo loro credere che si cambierà il mondo, ma non è cosi' e ai vertici lo sanno bene. E' il sesso il motore del mondo gay, come in una sorta di cannibalismo ci si nutre di una cosa che non si ha. Ed è questo che personalmente ha fatto scattare in me un campanello d'allarme. Il sesso. Perchè non esiste la fedeltà nel mondo gay, esiste la ricerca compulsiva di qualcosa che si vuole possedere, ma non la si ottiene perche' ci si ostina a cercare nell'uguale a noi. Non esistono persone serene, o piene, nel mondo gay. Al contrario quando l'individuo scopre il mistero della complementarità, tutto acquista una luce diversa… ».


 

Quale è stata la molla che Le ha fatto pensare che qualcosa non andava nel mondo gay?


 

«Ad un certo punto, dopo anni di ricerca sfrenata, non solo non avevo trovato nulla, ma non avevo nemmeno capito bene cosa stavo cercando, e nemmeno se lo avrei trovato mai. Esausto, mi sono fermato, ho staccato. Poi ho scoperto che c'erano altre possibilità: con grandissimo stupore e altrettanta sofferenza ho scoperto una cosa che nessuno, in 20 anni di Arcigay mi aveva mai detto, e cioè che potevo diventare eterosessuale. Perchè non me lo avevano detto? Mi hanno rubato 20 anni di vita. Ho cominciato a leggere i libri di Ncolosi, psicoterapeuta americano, che da anni negli Stati Uniti si occupava di terapia riparativa. Non sono stato convinto da subito, ma ho voluto tentare anche quella strada. Ho capito che la mia vita era cambiata quando ho cominciato a percepire la profondità del mistero della complementarità, e ho sentito dentro di me un desiderio, che nessuno mi aveva detto che avrei potuto sentire: quello di essere padre. Fino ad allora nessuno mi aveva mai detto che avrei potuto generare una vita».


 


 

DON RICCI/ Negri: fedele alla verità, costruttore di ponti di Luigi Negri, venerdì 10 giugno 2011, il sussidiario.net


 

Caro direttore,


 

ho incontrato don Luigi Giussani a 17 anni, e l'incontro con il suo carisma è stato per me l'incontro determinante della mia vita: plasmando la mia intelligenza e il mio cuore, mi ha fatto diventare quello che sono oggi. Ma don Francesco Ricci ha incontrato don Giussani quando era già un prete, e non alle prime armi. Don Francesco era certamente l'insegnante di religione più conosciuto della sua diocesi, con responsabilità precise sul piano culturale e pastorale; responsabile dei giovani di Azione cattolica, aveva ottenuto riconoscimenti espliciti anche dalla direzione nazionale di Roma.

Eppure, io l'ho visto immedesimarsi integralmente nell'incontro con don Giussani e seguirlo con l'ardore di un ragazzo, lo stesso ardore che in quella grande esperienza mettevamo noi giovani; seguirlo con passione, cercando di identificarsi con le sfumature del suo pensiero e della sua personalità, ma al tempo stesso seguirlo con tutta la grandezza della propria intelligenza e del proprio cuore, implicando e rinnovando in questo incontro tutta la sua tradizione culturale e religiosa di provenienza.

È stato per me, per anni e anni, un esempio di quello che significa la sequela: la sequela come condizione di creatività personale e di creazione ecclesiale, culturale e sociale. Altri due amici sono stati testimoni di questo, e li ricordo anch'essi con tanta commozione: don Francesco Ventorino, di Catania, e don Pino De Bernardis, di Chiavari.

Il "carisma", se così si può dire, di don Francesco Ricci era la sua straordinaria capacità di svolgere, attuandole, tutte le implicazioni culturali e sociali contenute nell'esperienza della fede e nella vita della comunità e del movimento di Cl. Era capace di portare alla luce, sviluppandolo con assoluta chiarezza, tutto ciò che era implicito; lo faceva diventare consapevolezza critica, movimento dell'intelligenza e del cuore, fino a determinare forme nuove di conoscenza e di azione. In questo continuo lavoro, Ricci aveva una straordinaria capacità di dialogo e di incontro con le posizioni anche tematicamente distinte, quando non ostili all'esperienza cristiana.

Egli è passato come un ciclone su tre continenti. L'Europa: fu il primo ad intessere rapporti sistematici con quella che allora veniva chiamava «la Chiesa del silenzio» e ad aprire a noi, giovani dell'occidente, il «grande polmone» - come lo avrebbe chiamato Giovanni Paolo II - con cui abbiamo respirato la grandezza di quella teologia della sofferenza e di quel sacrificio del silenzio. Abbiamo avuto modo di conoscere una nuova e inedita capacità di presenza cristiana, una testimonianza preziosa e capace di rianimare la nostra Chiesa d'occidente, così chiusa in se stessa e così timida nei confronti del mondo laicista.

E poi l'America latina, nella quale don Ricci ha acceso possibilità di incontro e di dialogo con i maggiori intellettuali e sindacalisti cattolici, realizzando una trama di rapporti che sono serviti a costruire una maggiore consapevolezza da parte di tutti: in loro, e in tutti quelli che in Italia incominciavano a interessarsi da cristiani della vita privata e pubblica, del lavoro e della società.

E poi ancora, da ultimo ma in modo non meno importante e significativo, seppe incontrare i bonzi giapponesi, che portò più volte al Meeting di Rimini e con i quali riuscì ad intessere un dialogo basato sul senso religioso, ma aperto, come auspicava don Giussani, alla possibilità dell'incontro con Cristo.

In questa instancabile capacità di realizzare cultura e su di essa di operare incontri, dialoghi e collaborazioni, fioriva innanzitutto un rispetto assoluto per la verità che gli era stata consegnata nelle mani e nel cuore dall'esperienza della Chiesa. Ma proprio in forza di questa assoluta fedeltà alla verità, era capace di un rispetto incondizionato della persona con cui dialogava e di cui si faceva carico, fino ad assumersene anche i bisogni materiali. Ricordo certi viaggi, fatti insieme a lui al di là della «cortina di ferro» - in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria - nei quali, in compagnia di appassionati uomini di cultura, fiorivano alla sera, dopo cena, imprevedibili possibilità di nuovi rapporti; ma questo poteva avvenire, il più delle volte solo perché don Francesco aveva portato con sé dall'Italia le vivande di cui nessuno, là, poteva disporre. Non poteva esserci dialogo senza una convivenza, e non poteva esserci convivenza senza la possibilità di sedersi attorno a un tavolo e mangiare insieme. E per i nostri ospiti era magari la prima volta che mangiavano dignitosamente dopo mesi...

Una grande personalità quella di don Ricci, che ha potuto esplicitare in maniera assolutamente significativa la forza culturale della fede, la sua capacità di giocare nel mondo di oggi la sua originale e specifica responsabilità. Egli fu per questo creatore di infiniti ponti culturali, che hanno segnato la ricchezza e l'esperienza del movimento e della Chiesa occidentale e l'hanno messa in rapporto con chiese che altrimenti sarebbero rimaste chiuse in una lontananza che non poteva essere superata. Questo è stato Francesco Ricci per la nostra generazione.

Il convegno che abbiamo proposto due anni fa, e di cui gli atti hanno appena visto la luce, è certamente un vigoroso tributo di memoria e di gratitudine, ma insieme è anche un tentativo di servire le nuove generazioni, che rischiano di affrontare il presente senza un'adeguata coscienza del nostro passato. Chi non conosce il nostro passato e i suoi protagonisti, rimarrà certo più debole e vulnerabile da parte della mentalità anticattolica che condiziona, in maniera così rilevante, la società in cui viviamo.
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7 Giugno 2011 - SCIENZA & VITA DI PISA E LIVORNO: NO ALLA LEGGE SULLE D.A.T. - Un documento spiega perché la legge sul fine vita apre le porte all'eutanasia


 

Svolta epocale all'interno dell'Associazione Scienza & Vita: i membri che fanno capo alla sede di Pisa e Livorno hanno preso pubblicamente posizione contro la legge che vuole introdurre le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento in Italia. In un documento che reca la data del 16 maggio – e che alleghiamo integralmente a questo comunicato stampa – l'Associazione Scienza & Vita di Pisa e Livorno esprime "netta contrarietà rispetto al ddl riguardante "DISPOSIZIONI IN MATERIA DI ALLEANZA TERAPEUTICA, DI CONSENSO INFORMATO E DI DICHIARAZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO", al vaglio della Camera, così come formulato". Si tratta dunque di una dichiarazione molto esplicita, in palese disaccordo con la posizione espressa da Scienza & Vita a livello nazionale, che in questi mesi è stata tetragona sostenitrice della bontà della legge sulle Dat. Gli esponenti di Scienza & Vita di Pisa e Livorno – un pool di qualificati medici, bioeticisti e appassionati pro life – spiegano la loro posizione precisando che le disposizioni contenute nella proposta di legge riguardanti i trattamenti sanitari di fine-vita "nonostante il solenne preambolo all'art. 1, a nostro giudizio, non offrono, in realtà, alcuna garanzia di efficace contrasto nei confronti di condotte mediche di tipo eutanasico o di interpretazioni giudiziarie distorte e/o ingiuste.".


 

In sostanza, secondo gli estensori del documento questa legge otterrebbe l'effetto opposto alle intenzioni dichiarate, e aprirebbe la strada all'eutanasia: tesi, questa, sostanzialmente identica a quella sostenuta ininterrottamente da Verità e Vita.


 

Il documento si fa apprezzare anche per la chiarezza con cui denuncia gli elementi negativi del disegno di legge. Secondo Scienza & Vita di Pisa e Livorno "le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, pensate per difendere la dignità delle persone negli stadi terminali della loro vita o nelle condizioni di estrema fragilità perché incapaci di intendere e di volere, sono uno strumento intrinsecamente inadeguato a tale scopo, se non addirittura inutile e pericoloso, perché il consenso alle cure, con esse espresso, non può mai essere realmente "informato", in quanto proviene da soggetto che non conosce la particolare condizione sanitaria in cui potrebbe trovarsi in futuro, né è in grado di comprendere e valutare con cognizione di causa le innumerevoli e imprevedibili situazioni in cui potrebbe versare e di fronte alle quali cambiare radicalmente il suo giudizio." .


 

Il documento mette in rilievo uno dei punti più gravi della legge sul testamento biologico: "Il testo normativo è improntato alla regola generale secondo cui, salvo limitate e rigorose eccezioni, non sia possibile attivare nessun atto medico senza il previo esplicito consenso del paziente, ma (v. art. 2 c. 1; art. 2 c. 2) enfatizza oltre il dovuto un (astratto) principio di "autodeterminazione" del paziente, la cui incidenza, nella prassi, è molto marginale, affidandosi, piuttosto, il malato al buon consiglio dello specialista, e rischia di ledere l'autonomia professionale del medico il quale dovrebbe sentirsi sempre libero di seguire scelte coerenti con i valori della propria professione. Il ddl in esame, dunque, intacca l' imprescindibile alleanza terapeutica, costitutiva della relazione medico-paziente, già ampiamente messa in crisi dalla giurisprudenza, aprendola prevedibilmente all'abbandono terapeutico nei confronti dei soggetti più fragili.".


 

Critiche ulteriori e circostanziate riguarda il fatto che l'articolo 2 c. 5 del testo si colloca in contrasto con l'art. 579 del Codice Penale, che punisce l'uccisione della persona consenziente non sarebbe più punibile: "i futuri casi come quello di Welby, che richiese ai medici che gli fosse disattivato il respiratore, non porterebbero neppure all'apertura di un fascicolo da parte della Procura per il reato previsto e punito all'art. 579 c.p. Ciò equivarrebbe a legalizzare l'eutanasia - della quale, non a caso, non viene data alcuna definizione nel DDL – purché praticata in ospedale. Ma è facile intravedere un ampliamento della platea di coloro che, obbedendo alla richiesta del malato, senza correre alcun rischio, lo "accontenteranno" ".


 

Altri note critiche riguardano lo svilimento dell'arte medica e del ruolo del singolo medico e l'introduzione della figura ibrida del "fiduciario".


 

Secondo Scienza & Vita di Pisa e Livorno, il disegno di legge sulle DAT contiene inquietanti analogie con la legge 194/1978, che legalizza ampiamente l'aborto muovendo dalla dichiarazione che "lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio". E altrettante analogie con la legge 40/2004, resa lettera morta dai numerosi interventi della magistratura creativa.


 

Scienza & Vita di Pisa e Livorno conclude auspicando "una profonda revisione del testo legislativo affinché sia efficacemente, e non solo come mero enunciato formale, protetto e rafforzato il principio - radicato nell'ordinamento ma indebolito da una parte della giurisprudenza – dell' "indisponibilità della vita umana" e ritiene che debba essere comunque abbandonata la strada scivolosa del riconoscimento giuridico delle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento".


 

Comitato Verità e Vita


 

Link al testo del documento http://www.scienzaevita.info/public/site/articles.asp?id=71


 


 

Eutanasia? No: «Suicidio medicalmente assistito» - I vescovi americani stanno per pubblicare un documento per fermare la deriva delle leggi suicidarie. I medici tedeschi votano a grande maggioranza il no a ogni aiuto reso a chi vuole togliersi la vita. In Spagna le norme regionali usano abili giri di parole... Il fronte della «morte procurata» si sposta su quella «a richiesta» -
Dossier, di Lorenzo, Avvenire, 10 giugno 2011


 

Eutanasia? Una parolaccia, ormai. Meglio ricorrere all'antilingua: «Suicidio medicalmente assistito». Perché, si sa, il suicidio viene sempre più culturalmente valutato come una forma – certo tragica – di esercizio della propria libertà e dell'assoluta autodeterminazione di se stessi ("della mia vita sono io solo a decidere cosa fare"). E se serve una "mano" medica, beh, di aiuto alla libertà pur sempre si tratta.

Questa è ormai, globalmente, la strategia delle lobby eutanasiche, consce che nell'opinione pubblica il termine «eutanasia» non fa breccia. Molto il «suicidio assistito», che fa leva sulla "dignità" e la "compassione".

Ne sono ben consapevoli i vescovi degli Stati Uniti che stanno per rendere pubblico un documento – «Vivere ogni giorno con dignità» –, primo pronunciamento ufficiale sul tema. A Seattle, dal 15 al 17 giugno, la Conferenza episcopale Usa lancerà il suo appello contro il suicidio medicalmente assistito, pratica legale dal 1994 nello Stato dell'Oregon. «Il movimento pro-suicido ha mostrato una forte crescita nella sua attività – nota il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di GalvestonHouston e presidente del Comitato episcopale per le attività pro-life –. Questo sforzo ha portato nello Stato di Washington a una legge stile-Oregon con il referendum del 2008; ma anche alla dichiarazione della Corte suprema del Montana sul fatto che tale pratica "non è contraria alla politica pubblica"». Inoltre, segnala il porporato, «vi sono tentativi per far passare una legislazione simile in diversi Stati dell'Ovest, come il New England».

er questo, sostiene DiNardo, «la Chiesa ha bisogno di rispondere in modo tempestivo e visibile per affrontare questa sfida che sarà sicuramente presente in diversi Stati negli anni a venire». Anche perché le lobby eutanasiche sanno scegliersi bene sponsor, patrocini e testimonial. È il caso di HealthTalkOnline, ente promosso in Gran Bretagna da Ann McPherson, attivista pro-suicidio assistito deceduta la scorsa settimana.

Presidente onorario dell'associazione è Hugh Grant, il celebre attore inglese del film Quattro matrimoni e un funerale. Che, al quotidiano The Independent, ha definito «una formidabile forza in favore del bene» la campagna pluriennale della McPherson per il riconoscimento del suicidio legalmente assistito da un medico.

E anche la "patria" europea della morte a richiesta, la Svizzera, ha ormai scelto questa strada: il 15 maggio scorso gli abitanti del Cantone di Zurigo hanno votato a favore del diritto al "turismo della morte" di quegli stranieri che giungono nella Confederazione per farsi uccidere da un medico. L'articolo 115 del Codice penale svizzero infatti permette tale prassi purché «non per motivi egoistici» da parte dei camici bianchi. Dalla sua creazione (1998) l'associazione eutanasica Dignitas ha favorito la "dolce morte" di 1138 persone, di cui ben 76% stranieri. Nel 2010 gli svizzeri morti per mano di tramite Dignitas sono stati 257. Secondo le stime dell'associazione pro-eutanasia Exit Italia, sono stati una trentina finora gli italiani recatisi in Svizzera per farsi suicidare. Il presidente Emilio Coveri ha riferito di «un aumento delle richieste» negli ultimi tempi parlando di 2-3 nostri connazionali al mese, ma il dato è solo autocertificato.

Anche in Spagna il termine «eutanasia» è sparito dalle campagne mediatiche.

La legge dell'Aragona firmata il 24 marzo, con la quale la regione iberica è diventata la seconda comunità autonoma ad approvare una legislazione simile (dopo l'Andalusia), si rifà infatti ai «diritti e alle garanzie della dignità della persona nel processo della morte». In Canada nel 2009 una campagna dell'Euthanasia Prevention Coalition ha smascherato il tentativo di introdurre l'eutanasia nell'ordinamento legale del Paese tramite il cavallo di Troia del diritto al «suicidio assistito». Il risultato del voto parlamentare (228 contrari contro 59 voti a favore dell'eutanasia) ha sancito la vittoria del movimento popolare guidato dall'attivista pro-life Alex Schadenberg, presidente della Coalition.

In Francia le elezioni del 2012 hanno offerto lo spunto all'Alleanza per i diritti alla vita (Adv) per organizzare una tournée di conferenze su «Governare la morte» mostrando che la pratica eutanasica è «ingiusta e regressiva». La tournée si chiude domani a Bruxelles dopo aver toccato le città di Amiens, Caen, Metz, Perpignan e Parigi. Infine, la Germania: il congresso dei medici tedeschi, tenutosi a Kiel il 1° giugno, si è espresso contro l'aiuto al suicidio anche per malati terminali con 166 delegati a fronte di 56 favorevoli e 7 astenuti.


 


 

Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Lettera a Tempi / Cari amici (di CL e non solo), occorre rifare il Movimento Popolare ! - Posted: 09 Jun 2011 - Rifare il Movimento popolare. Questa è la mia proposta. La spiegherò fra poco, prima voglio premettere che per noi cattolici non è possibile e non è giusto lasciar cadere nel vuoto il ripetuto, insistente appello del Papa e del presidente della Cei.


 

Da mesi e anche in questi giorni (tanto più oggi, nell'attuale sommovimento politico) Benedetto XVI e il cardinale Bagnasco hanno chiamato i cattolici alla necessità di un impegno politico diretto.


 

Ora, questo caldo invito non può essere interpretato come un'esortazione all'impegno individuale, magari alla ricerca di una candidatura in qualche organismo politico.


 

Sarebbe meschino, fallimentare e ridicolo (del resto riguarderebbe pochissimi)


 

Ci sono almeno tre motivi che portano in un'altra direzione.


 

Primo: l'impegno individuale di cattolici in politica c'è già e non è un bello spettacolo.


 

C'è su tutto l'arco dei partiti, da Rifondazione comunista e da Vendola (che si definisce cattolico) fino all'estrema destra di Forza Nuova.


 

Mi pare evidente che non è a questo che la Chiesa chiama: così infatti ognuno mette l'etichetta di "cattolico" a qualsiasi posizione, in un soggettivismo che finisce per opporre i sedicenti cattolici che rivendicano tutti quell'identità però contrapponendosi gli uni agli altri.


 

Secondo: storicamente l'impegno politico dei cattolici non è mai stato individuale, ma è sempre stato legato a un "noi", a soggetti sociali portatori di una cultura, di una visione dei problemi del Paese legata alla dottrina sociale della Chiesa (prima venne l'Opera dei Congressi, vennero cooperative e sindacati, venne un'elaborazione culturale e politica matura e poi fu fondato il Partito popolare).


 

In terzo luogo la politica non è solo quella fatta professionalmente dalla "casta" politica e lo vediamo bene oggi che proprio i movimenti sociali rubano l'iniziativa al Palazzo.


 

E lo vediamo soprattutto quando scopriamo una classe politica costituita da personaggi improvvisati, a digiuno di politica e di cultura, di problemi sociali e di consapevolezza civile.


 

Oltretutto per noi cattolici è impegno politico anche l'attività culturale e sociale, quella educativa, lo sono perfino le responsabilità familiari e occorre un luogo che "ospita" tutta questa presenza di laici cattolici e che educhi a una loro responsabilità pubblica, facendo diventare la dottrina sociale della Chiesa un giudizio sul presente, sui problemi concreti, sulle scelte contingenti.


 

La politica diretta infatti sboccia dall'impegno sociale.


 

Aggiungo che oggi un impegno dei laici cattolici – come soggetti con una precisa identità, che può anche dialogare con diversi partiti – è necessaria alla Chiesa stessa non solo per difendere i valori irrinunciabili dei cristiani, ma anche per difendere se stessa, per evitare alla gerarchia un'esposizione troppo diretta in un ambito che è proprio dei laici.


 

Negli scorsi anni, dopo la fine della Dc, c'è stata una sorta di "supplenza" dei vescovi che, anche grazie al genio politico del cardinale Ruini, ha orientato la politica, trasformando un tempo di debolezza dei cattolici (per la fine della Dc) addirittura in un momento di forza e di incidenza pubblica.


 

Ma questa fase, del tutto straordinaria, ha anche esposto la Chiesa alla malevola accusa di ingerenza clericale e di conseguenza ha scatenato un anticlericalismo e un anticattolicesimo che – così espliciti – non si vedevano da molto tempo.


 

Oggi è cambiata la scena politica e anche quella ecclesiale e il Papa e i vescovi chiamano all'impegno dei laici perché è fisiologico che siano i laici cattolici – soprattutto dopo il Concilio Vaticano II – a giocarsi direttamente sulla scena pubblica. Questo evita anche pericolose e improprie esposizioni della Chiesa.


 

Faccio un esempio: la scuola o le coppie di fatto.


 

Se sono i vescovi a trattare della scuola privata o delle "famiglie di fatto" con ministri e capi di governo, immediatamente si scatenano allarmi sulla laicità dello Stato e si mettono in discussione il Concordato l'otto per mille, l'ora di religione e via dicendo.


 

Ma se è un movimento laico, un movimento di popolo, di padri e madri, di italiani che pagano le tasse e che votano, che in forza della Costituzione italiana chiedono il rispetto della libertà di educazione e del valore sociale della famiglia, tutto cambia.


 

E magari trovano anche la simpatia o la collaborazione di non cattolici, per queste battaglie che sono del tutto laiche.


 

Dunque è tempo – secondo me - di rifare il Movimento popolare.


 

Fu uno strumento prezioso in una certa stagione, negli anni Settanta, in cui i cattolici dovevano riconquistare il diritto di cittadinanza nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro e perfino in politica (perché la Dc aveva subito le degenerazioni che sappiamo).


 

In seguito, negli anni Ottanta, come è naturale per gli strumenti, mutate le circostanze, il MP fu giudicato non più adeguato.


 

Ma oggi siamo di nuovo nella necessità di trovare un luogo come quello che – fra l'altro – ha il merito di aver selezionato una classe dirigente che ha mostrato di valere (il problema della "selezione della classe politica" – come si dice con orrida espressione – è una delle urgenze più evidenti).


 

Ma il motivo fondamentale che mi induce a fare questa proposta voglio dirlo per ultimo: a me è capitato, anche di recente, di fare delle testimonianze a raduni di preghiera nei palazzetti dello sporto di Bologna e di Firenze, rispettivamente davanti a 7 mila e 4 mila persone.


 

Oggi c'è tanta gente che riscopre o comincia un cammino di fede, nelle modalità più diverse, ed è un mondo sommerso di cui i media non si accorgono o non vogliono parlare.


 

E' una realtà meravigliosa, che deve mantenere la sua natura perché una realtà ecclesiale ha il compito dell'educazione alla fede, ma che restando relegata – passatemi l'espressione – alla sola esperienza religiosa rischia di essere poi culturalmente subalterna a culture dominanti estranee o di essere condannata all'irrilevanza.


 

Mi pare invece che la Chiesa ci inviti a far sì che l'intelligenza della fede diventi intelligenza della realtà.


 

In questo senso il Movimento popolare potrebbe essere uno strumento oggi adeguato: potrebbe infatti aiutare le più diverse esperienze ecclesiali (e anche tanti singoli cristiani) a far crescere uno sguardo cattolico sulla vita pubblica.


 

E anche a far diventare la dottrina sociale della Chiesa una realtà sociale e culturale su cui possano convenire anche dei non cattolici.


 

Antonio Socci


 

Lettera a Luigi Amicone, direttore di Tempi


 


 

Francia - Modello Zurigo? - «Togliersi la vita non è un diritto» - Avvenire, 9 giugno 2011


 

Se esiste una «libertà di suicidio», un «diritto» a togliersi la vita non sta in piedi, né filosoficamente né giuridicamente. Parola del «padre» della legge bioetica in Francia, il laico Jean Leonetti, parlamentare dell'Ump, il partito del presidente Sarkozy.

Leonetti, nella postfazione a un libro di recente uscito in Svizzera, spiega le sue ragioni per il «no» al suicidio medicalmente assistito. «Ogni società ha un approccio particolare alla morte – scrive Leonetti in L'incitation et l'aide au suicide del prete-studioso Michel Salamolard (Saint Augustin), sul "modello svizzero" di eutanasia e la situazione transalpina –. Ma le società occidentali hanno oggi spesso lo stesso sguardo sulla morte e la sofferenza. Dal momento che i nostri contemporanei non sono stati capaci di superare la morte, preferiscono schivarla e fuggirla. Essi vivono la sofferenza come un male inaccettabile tanto più quanto la medicina dispone oggi nella maggior parte dei casi di modi per alleviare il dolore. La congiunzione di questo rifiuto della morte e dell'angoscia della fine della vita, in un mondo in cui le solidarietà collettive si incrinano davanti alle rivendicazione sempre più forti di autonomia dell'individuo, spiegano l'eco di una corrente di opinione che spinge al suicidio assistito».

Ma di fronte a questa deregulation etica, Leonetti puntualizza: «La società francese non ha reso la libertà di suicidio un diritto. Impegnarsi in questa via avrebbe significato perdere la sfera privata nella quale viene posto il suicidio per domandare alla collettività di offrire delle prestazioni che garantiscano un diritto a morire». Da tale constatazione scaturiscono alcuni interrogativi che il deputato-bioeticista giudica "formidabili": «La domanda di morire dell'ammalato traduce una volontà senza costrizione o è l'espressione di pressioni esterne, come l'immagine di un peso che la persona rappresenta per la società, una risposta disperata rispetto alle altre persone intorno a lei, cioè un appello al soccorso?». E, infine, l'implicito contrasto tra un modello di vita efficientista e il paradosso del dolore: «Questa angoscia della fine della vita non è provocata dall'esaltazione permanente dell'efficacia e della bellezza, il culto della giovinezza in cui siamo immersi?». (L.Faz.)