mercoledì 15 giugno 2011

1)    CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA - Il Profeta Elia - UDIENZA GENERALE, 15.06.2011
2)    Lettera di Padre Aldo Trento del 10 giugno 2011
3)    Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Insisto: bisogna rispondere al Papa e ai vescovi che chiamano all’impegno (e anche alla nostra vocazione di cristiani, come c’insegna la nostra storia) - Da “Libero”, 12 giugno 2011 - L’appello del Papa e del presidente dei vescovi italiani ai cattolici per l’impegno in politica (in tutte le sue accezioni sociali, culturali e civili) è insistente e accorato. 
4)    EMILIO ARTIGLIERI - Rilevanza della fede nella costruzione della vita etica e sociale di Emilio Artiglieri, http://www.lostato.net
5)    San Marino in attesa del Papa di Gabriele Mangiarotti, 14-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
6)    Diplomatici vaticani: ecco perché sono preti di Massimo Introvigne, 14-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
7)    Angelo Minotti, il martire dimenticato di Antonio Giuliano, 13-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
8)    Il genetista George Church: «il rapporto tra scienza e fede è vasto e fertile», 13 giugno, 2011, http://www.uccronline.it
9)    La ricerca sugli embrioni umani - Con le bugie non si alimenta la speranza di AUGUSTO PESSINA - Università di Milano (©L'Osservatore Romano 13-14 giugno 2011)
10)                      «La fede va proposta non presupposta» di Massimo Introvigne, 15-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
11)                      Chesterton contro la superstizione del divorzio di Marco Respinti, 14-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
12)                      PERCHÈ, NONOSTANTE TUTTO, VALE LA PENA METTER SU FAMIGLIA - Un libro che riesce a far amare i coniugi al di là dei loro difetti di Antonio Gaspari
13)                      L'ultima zampata di Zapatero di Julio J. Gòmez, 15-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
14)                      Avvenire.it, 15 giugno 2011 - FACCIAMOLI NASCERE - Aborti e abbandoni di neonati - C'è una rete per le madri sole di Viviana Daloiso
15)                      Avvenire.it, 15 giugno 2011 – INTERVISTA - Il primario: «La disinformazione c’è ma sui servizi alla vita» di Lucia Bellaspiga
16)                      Il cervello dei nostri avi era più grande. E allora? di Marco Respinti, 15-06-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA - Il Profeta Elia - UDIENZA GENERALE, 15.06.2011

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, riprendendo il ciclo di catechesi sulla preghiera, ha incentrato la sua meditazione sulla figura del profeta Elia.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con la recita del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA - Il Profeta Elia

Cari fratelli e sorelle!

nella storia religiosa dell’antico Israele, grande rilevanza hanno avuto i profeti con il loro insegnamento e la loro predicazione.

Tra di essi, emerge la figura di Elia, suscitato da Dio per portare il popolo alla conversione. Il suo nome significa «il Signore è il mio Dio» ed è in accordo con questo nome che si snoda la sua vita, tutta consacrata a provocare nel popolo il riconoscimento del Signore come unico Dio.

Di Elia il Siracide dice: «E sorse Elia profeta, come un fuoco; la sua parola bruciava come fiaccola» (Sir 48,1). Con questa fiamma Israele ritrova il suo cammino verso Dio. Nel suo ministero, Elia prega: invoca il Signore perché riporti alla vita il figlio di una vedova che lo aveva ospitato (cfr 1Re 17,17-24), grida a Dio la sua stanchezza e la sua angoscia mentre fugge nel deserto ricercato a morte dalla regina Gezabele (cfr 1Re 19,1-4), ma è soprattutto sul monte Carmelo che si mostra in tutta la sua potenza di intercessore quando, davanti a tutto Israele, prega il Signore perché si manifesti e converta il cuore del popolo. È l’episodio narrato nel capitolo 18 del Primo Libro dei Re, su cui oggi ci soffermiamo.

Ci troviamo nel regno del Nord, nel IX secolo a.C., al tempo del re Acab, in un momento in cui in Israele si era creata una situazione di aperto sincretismo. Accanto al Signore, il popolo adorava Baal, l’idolo rassicurante da cui si credeva venisse il dono della pioggia e a cui perciò si attribuiva il potere di dare fertilità ai campi e vita agli uomini e al bestiame. Pur pretendendo di seguire il Signore, Dio invisibile e misterioso, il popolo cercava sicurezza anche in un dio comprensibile e prevedibile, da cui pensava di poter ottenere fecondità e prosperità in cambio di sacrifici. Israele stava cedendo alla seduzione dell’idolatria, la continua tentazione del credente, illudendosi di poter «servire a due padroni» (cfr Mt 6,24; Lc 16,13), e di facilitare i cammini impervi della fede nell’Onnipotente riponendo la propria fiducia anche in un dio impotente fatto dagli uomini.

È proprio per smascherare la stoltezza ingannevole di tale atteggiamento che Elia fa radunare il popolo di Israele sul monte Carmelo e lo pone davanti alla necessità di operare una scelta: «Se il Signore è Dio, seguiteLo. Se invece lo è Baal, seguite lui» (1Re 18, 21). E il profeta, portatore dell’amore di Dio, non lascia sola la sua gente davanti a questa scelta, ma la aiuta indicando il segno che rivelerà la verità: sia lui che i profeti di Baal prepareranno un sacrificio e pregheranno, e il vero Dio si manifesterà rispondendo con il fuoco che consumerà l’offerta. Comincia così il confronto tra il profeta Elia e i seguaci di Baal, che in realtà è tra il Signore di Israele, Dio di salvezza e di vita, e l’idolo muto e senza consistenza, che nulla può fare, né in bene né in male (cfr Ger 10,5). E inizia anche il confronto tra due modi completamente diversi di rivolgersi a Dio e di pregare.

I profeti di Baal, infatti, gridano, si agitano, danzano saltando, entrano in uno stato di esaltazione arrivando a farsi incisioni sul corpo, «con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue» (1Re 18,28). Essi fanno ricorso a loro stessi per interpellare il loro dio, facendo affidamento sulle proprie capacità per provocarne la risposta. Si rivela così la realtà ingannatoria dell’idolo: esso è pensato dall’uomo come qualcosa di cui si può disporre, che si può gestire con le proprie forze, a cui si può accedere a partire da se stessi e dalla propria forza vitale.

L’adorazione dell’idolo invece di aprire il cuore umano all’Alterità, ad una relazione liberante che permetta di uscire dallo spazio angusto del proprio egoismo per accedere a dimensioni di amore e di dono reciproco, chiude la persona nel cerchio esclusivo e disperante della ricerca di sé. E l’inganno è tale che, adorando l’idolo, l’uomo si ritrova costretto ad azioni estreme, nell’illusorio tentativo di sottometterlo alla propria volontà. Perciò i profeti di Baal arrivano fino a farsi del male, a infliggersi ferite sul corpo, in un gesto drammaticamente ironico: per avere una risposta, un segno di vita dal loro dio, essi si ricoprono di sangue, ricoprendosi simbolicamente di morte.

Ben altro atteggiamento di preghiera è invece quello di Elia. Egli chiede al popolo di avvicinarsi, coinvolgendolo così nella sua azione e nella sua supplica. Lo scopo della sfida da lui rivolta ai profeti di Baal era di riportare a Dio il popolo che si era smarrito seguendo gli idoli; perciò egli vuole che Israele si unisca a lui, diventando partecipe e protagonista della sua preghiera e di quanto sta avvenendo.

Poi il profeta erige un altare, utilizzando, come recita il testo, «dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei figli di Giacobbe, al quale era stata rivolta questa parola del Signore: "Israele sarà il tuo nome"» (v. 31). Quelle pietre rappresentano tutto Israele e sono la memoria tangibile della storia di elezione, di predilezione e di salvezza di cui il popolo è stato oggetto. Il gesto liturgico di Elia ha una portata decisiva; l’altare è luogo sacro che indica la presenza del Signore, ma quelle pietre che lo compongono rappresentano il popolo, che ora, per la mediazione del profeta, è simbolicamente posto davanti a Dio, diventa "altare", luogo di offerta e di sacrificio.

Ma è necessario che il simbolo diventi realtà, che Israele riconosca il vero Dio e ritrovi la propria identità di popolo del Signore. Perciò Elia chiede a Dio di manifestarsi, e quelle dodici pietre che dovevano ricordare a Israele la sua verità servono anche a ricordare al Signore la sua fedeltà, a cui il profeta si appella nella preghiera. Le parole della sua invocazione sono dense di significato e di fede: «Signore, Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho fatto tutte queste cose sulla tua parola. Rispondimi, Signore, rispondimi, e questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!» (vv. 36-37; cfr Gen 32, 36-37). Elia si rivolge al Signore chiamandolo Dio dei Padri, facendo così implicita memoria delle promesse divine e della storia di elezione e di alleanza che ha indissolubilmente unito il Signore al suo popolo. Il coinvolgimento di Dio nella storia degli uomini è tale che ormai il suo Nome è inseparabilmente connesso a quello dei Patriarchi e il profeta pronuncia quel Nome santo perché Dio ricordi e si mostri fedele, ma anche perché Israele si senta chiamato per nome e ritrovi la sua fedeltà. Il titolo divino pronunciato da Elia appare infatti un po’ sorprendente. Invece di usare la formula abituale, "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe", egli utilizza un appellativo meno comune: «Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele».

La sostituzione del nome "Giacobbe" con "Israele" evoca la lotta di Giacobbe al guado dello Yabboq con il cambio del nome a cui il narratore fa esplicito riferimento (cfr Gen 32,31) e di cui ho parlato in una delle scorse catechesi. Tale sostituzione acquista un significato pregnante all’interno dell’invocazione di Elia. Il profeta sta pregando per il popolo del regno del Nord, che si chiamava appunto Israele, distinto da Giuda, che indicava il regno del Sud. E ora, questo popolo, che sembra aver dimenticato la propria origine e il proprio rapporto privilegiato con il Signore, si sente chiamare per nome mentre viene pronunciato il Nome di Dio, Dio del Patriarca e Dio del popolo: «Signore, Dio […] d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele».

Il popolo per cui Elia prega è rimesso davanti alla propria verità, e il profeta chiede che anche la verità del Signore si manifesti e che Egli intervenga per convertire Israele, distogliendolo dall’inganno dell’idolatria e portandolo così alla salvezza. La sua richiesta è che il popolo finalmente sappia, conosca in pienezza chi davvero è il suo Dio, e faccia la scelta decisiva di seguire Lui solo, il vero Dio. Perché solo così Dio è riconosciuto per ciò che è, Assoluto e Trascendente, senza la possibilità di mettergli accanto altri dèi, che Lo negherebbero come assoluto, relativizzandoLo.

È questa la fede che fa di Israele il popolo di Dio; è la fede proclamata nel ben noto testo dello Shema‘ Israel: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze» (Dt 6,4-5).

All’assoluto di Dio, il credente deve rispondere con un amore assoluto, totale, che impegni tutta la sua vita, le sue forze, il suo cuore. Ed è proprio per il cuore del suo popolo che il profeta con la sua preghiera sta implorando conversione: «questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!» (1Re 18,37). Elia, con la sua intercessione, chiede a Dio ciò che Dio stesso desidera fare, manifestarsi in tutta la sua misericordia, fedele alla propria realtà di Signore della vita che perdona, converte, trasforma.

Ed è ciò che avviene: «Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l’acqua del canaletto. A tal vista, tutto il popolo cadde con la faccia a terra e disse: "Il Signore è Dio, il Signore è Dio"» (vv. 38-39). Il fuoco, questo elemento insieme necessario e terribile, legato alle manifestazioni divine del roveto ardente e del Sinai, ora serve a segnalare l’amore di Dio che risponde alla preghiera e si rivela al suo popolo. Baal, il dio muto e impotente, non aveva risposto alle invocazioni dei suoi profeti; il Signore invece risponde, e in modo inequivocabile, non solo bruciando l’olocausto, ma persino prosciugando tutta l’acqua che era stata versata intorno all’altare. Israele non può più avere dubbi; la misericordia divina è venuta incontro alla sua debolezza, ai suoi dubbi, alla sua mancanza di fede. Ora, Baal, l’idolo vano, è vinto, e il popolo, che sembrava perduto, ha ritrovato la strada della verità e ha ritrovato se stesso.

Cari fratelli e sorelle, che cosa dice a noi questa storia del passato?

Qual è il presente di questa storia? Innanzitutto è in questione la priorità del primo comandamento: adorare solo Dio.

Dove scompare Dio, l'uomo cade nella schiavitù di idolatrie, come hanno mostrato, nel nostro tempo, i regimi totalitari e come mostrano anche diverse forme del nichilismo, che rendono l'uomo dipendente da idoli, da idolatrie; lo schiavizzano.

Secondo. Lo scopo primario della preghiera è la conversione: il fuoco di Dio che trasforma il nostro cuore e ci fa capaci di vedere Dio e così di vivere secondo Dio e di vivere per l'altro.

E il terzo punto. I Padri ci dicono che anche questa storia di un profeta è profetica, se - dicono – è ombra del futuro, del futuro Cristo; è un passo nel cammino verso Cristo. E ci dicono che qui vediamo il vero fuoco di Dio: l'amore che guida il Signore fino alla croce, fino al dono totale di sé.

La vera adorazione di Dio, allora, è dare se stesso a Dio e agli uomini, la vera adorazione è l'amore. E la vera adorazione di Dio non distrugge, ma rinnova, trasforma. Certo, il fuoco di Dio, il fuoco dell'amore brucia, trasforma, purifica, ma proprio così non distrugge, bensì crea la verità del nostro essere, ricrea il nostro cuore. E così, realmente vivi per la grazia del fuoco dello Spirito Santo, dell'amore di Dio, siamo adoratori in spirito e in verità.
Grazie.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana


Lettera di Padre Aldo Trento del 10 giugno 2011

Carissimi, prendendo sul serio quanto Carrón ci dice, facendo un lavoro permanente, verificando ogni momento la ragionevolezza della fede, il dubbio sparisce lasciando il posto a una certezza granitica che neanche la peggiore condizione in cui uno può trovarsi lo fa tremare. Questo non significa e lo sperimento tutti i giorni da più di 20 anni che mi sia risparmiata l´esperienza di solitudine, di dolore che Gesù stesso ha vissuto nel Getsemaní o sulla croce.

Quante volte ho gridato e grido “Padre se possibile passi da me questo calice”, o quante volte ho cercato inutilmente una compagnia che “vegliasse” con me! Pero dentro questo deserto, questa battaglia il lumino della fede ha sempre vinto e anche se in certi momenti il grido di Gesù si fa vivo “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” è come che immediatamente vinca la posizione della fede: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta” o “Nelle tue mani affido me stesso”.

Vedere ogni giorno persone morire o tanto dolore innocente mi permette di vivere continuamente questa esperienza. Dico esperienza perché sempre più chiaro risulta che Dio è tutto, che Dio si occupa di me e di ognuno di noi con una tenerezza infinita.

Ieri è morta Domenica, una bellissima ragazza ammalata di AIDS. La sua giovane vita era stata distrutta dalla prostituzione cui era stata obbligata dal suo convivente, un tedesco, sparito quando si è ammalata. Leggere la sua cartella clinica è da infarto nel vedere a cosa può arrivare una persona quando sul suo cuore non c´è Dio. In questi ultimi mesi viveva in una casa le cui pareti erano di cartone e di celofan. L´abbiamo trovata abbandonata nel pavimento di terra, sola. Viveva con un uomo, nella miseria assoluta. L´abbiamo portata alla Clinica, ma lei già aveva deciso di morire. Non voleva sapere niente del mangiare, né dei medicamenti. In un momento di crisi ha avuto una reazione brutta con una infermiera che si è punta un dito con una siringa con la quale le aveva applicato una iniezione. Un dramma nel dramma.

L' infermiera, una bella ragazza, madre di quattro bambini, di cui tre sono gemelli, dopo un primo momento di paura e messasi in contatto con il medico responsabile del reparto a cui tempo fa era successo la stessa cosa, scrive queste parole: “appena mi sono resa conto dell´accaduto mi sono tolta i guanti, mi sono lavata, ho chiamato il medico per vedere cosa fare e ho provato una forte angustia. Ma subito ho consegnato tutto a Dio e mi sono ricordata ciò che mi era stato detto in un incontro di catechesi: ’Il demonio favorisce queste cose perché nasca in noi il dubbio: perché Dio permette queste cose?’ Ma io ho la certezza che anche questa prova è una Grazia di Dio che mi ama per cui lascio tutto nelle sue mani, perché si faccia la sua volontà e questo mi dona tanta pace”.

Domenica, guardandola con amore, incominciò a calmarsi, a prendere le medicine e quando le chiedevo: “Vuoi un gelato?”,mi rispondeva: “Si padre, lo voglio alla vaniglia”.

La depressione sembrò calmarsi un po’ e fu bello quando chiese il Battesimo e la Prima Comunione. Fu un momento che anche il suo stato di salute migliorò. Ricevette l´Eucarestia fino alla mattina del giorno in cui morì. La guardai, era ancora più bella. Il suo corpo mai amato e sempre usato aveva ritrovato un’armonia soppressa da anni di prostituzioni. Ancora una volta Dio ha vinto, ancora una volta l’evidenza che Dio non abbandona i suoi figli per quanto disperati siano si impone agli occhi di tutti.

Era il riaccadere del fatto dell’adultera, della Samaritana. Allora, come non arrendersi all´evidenza, alla ragionevolezza della fede?

E tutti i giorni è così, amici. Davvero siamo i viventi, davvero Cristo ha già vinto tutto. Amici vedo come Dio è attento a chi non ha niente, vedo come Dio ama e raccoglie quelli che il mondo chiama i rifiuti umani. Davvero per Dio non esiste il figlio buono o cattivo, esiste solo il figlio.

P. Aldo


Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Insisto: bisogna rispondere al Papa e ai vescovi che chiamano all’impegno (e anche alla nostra vocazione di cristiani, come c’insegna la nostra storia) - Da “Libero”, 12 giugno 2011 - L’appello del Papa e del presidente dei vescovi italiani ai cattolici per l’impegno in politica (in tutte le sue accezioni sociali, culturali e civili) è insistente e accorato. 

Possibile che associazioni, parrocchie e movimenti lo lascino cadere nell’indifferenza?

Possibile che si disperda un secolo di storia del movimento cattolico che ha letteralmente salvato la libertà in Italia, ha ricostruito il Paese, la sua coesione sociale e l’ha reso uno dei più prosperi e civili del mondo?

Eppure anche oggi ci sarebbe bisogno di buona politica e buone classe dirigenti: la Germania è tornata ad essere la locomotiva dell’Europa, il paese leader, grazie al governo cristiano-democratico (che l’aveva anche portata alla riunificazione).

Da noi la Dc non c’è più, ma i cattolici sì.

A volte sembra quasi che manchi loro la coscienza di una storia. Mi sono chiesto, per esempio, perché nessuno si sia indignato quando – nel programma cult di quest’anno, davanti a dieci milioni di persone – Fazio e Saviano hanno avuto la faccia di presentare, come i depositari dei “valori” del futuro, il (post) fascista e il (post) comunista.

Al di là di Fini e Bersani – che, poverini, non hanno nemmeno le spalle per portare quelle terribili storie – le due ideologie che hanno devastato questo Paese meritano il marchio d’infamia, non possono certo essere proposte come il positivo della storia italiana.

Eppure tale condanna morale oggi sembra toccare invece a chi ha salvato e ricostruito questo Paese.

Sembra che un certo De Gasperi sia stato del tutto dimenticato. Pure nelle celebrazioni del 150° anniversario dell’Italia unita nessuno ha ricordato che si deve a lui (e all’impegno dei cattolici del 18 aprile 1948, in primis Pio XII e Luigi Gedda) se l’Italia è rimasta, dal dopoguerra, un Paese libero, indipendente e unito. Tutto questo è stato censurato e rimosso.

Ma la colpa è anzitutto di noi cattolici che forse, negli ultimi anni, ci siamo ritirati nelle sacrestie, che abbiamo cancellato una memoria e una presenza sociale e che – come dimostrano anche le recenti elezioni e il referendum – rischiamo di tornare alla subalternità degli anni Settanta, quando il mondo cristiano, frantumato, disperso e impaurito, era succube di ogni vento di dottrina, come ebbe a dire il cardinale Ratzinger.

Eppure proprio lo stesso Ratzinger, da Papa, ha pronunciato parole chiare. La sua chiamata all’impegno – per i credenti – è stata accorata.

Cito solo uno dei suoi ultimi discorsi, quello del 7 maggio, ad Aquileia:

“Raccomando anche a voi, come alle altre Chiese che sono in Italia, l’impegno a suscitare una nuova generazione di uomini e donne capaci di assumersi responsabilità dirette nei vari ambiti del sociale, in modo particolare in quello politico.

Esso ha più che mai bisogno di vedere persone, soprattutto giovani, capaci di edificare una ‘vita buona’ a favore e al servizio di tutti.

A questo impegno infatti non possono sottrarsi i cristiani, che sono certo pellegrini verso il Cielo, ma che già vivono quaggiù un anticipo di eternità”.

Il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, il 23 maggio, nella sua prolusione all’assemblea dei vescovi italiani, ha ribadito:

“La politica che ha oggi visibilità è, non raramente, inguardabile, ridotta a litigio perenne, come una recita scontata e – se si può dire – noiosa.

È il dramma del vaniloquio, dentro – come siamo – alla spirale dell’invettiva che non prevede assunzioni di responsabilità.

La gente è stanca di vivere nella rissa e si sta disamorando sempre di più…

La nostra opzione di fondo, anche per il conforto dei ripetuti appelli del Papa resta quella di preparare una generazione nuova di cittadini che abbiano la freschezza e l’entusiasmo di votarsi al bene comune, quale criterio di ogni pratica collettiva. Più che un utopismo di maniera, serve una concezione della politica come ‘complessa arte di equilibrio tra ideali e interessi’ (Benedetto XVI, 21 maggio 2010), concezione che per questo, cioè per il suo saper evitare degenerazioni ciniche, si fa intelligenza amorosa della realtà e cambiamento positivo della stessa”.

Bagnasco ha poi aggiunto:

“Quale che sia l’ambito in cui si collocano − professionale, associativo, cooperativistico, sociale, mediatico, sindacale, partitico, istituzionale… − queste persone avvertono il dovere di una cittadinanza coscienziosa, partecipe, dedita all’interesse generale.

Affinché l’Italia goda di una nuova generazione di politici cattolici, la Chiesa si sta impegnando a formare aree giovanili non estranee alla dimensione ideale ed etica, per essere presenza morale non condizionabile”.

Alla conclusione dell’assemblea dei vescovi, il Papa, presiedendo la preghiera di affidamento dell’Italia alla Madonna, ha ripreso il tema (tanto gli sta a cuore) e ha affermato:

“Incoraggiate le iniziative di formazione ispirate alla dottrina sociale della Chiesa, affinché chi è chiamato a responsabilità politiche e amministrative non rimanga vittima della tentazione di sfruttare la propria posizione per interessi personali o per sete di potere.

Sostenete la vasta rete di aggregazioni e di associazioni che promuovono opere di carattere culturale, sociale e caritativo”.

Perché questo pressante appello sembra cadere nel vuoto? Eppure è reso urgente dalla situazione del Paese, da una crisi economica e sociale che sembra diventare drammatica, dalla confusione di una classe politica che appare spesso inadeguata.

Cerchiamo di capire allora cosa significhi in concreto questo appello della Chiesa.

Certamente esso non significa cercare individualmente una candidatura (ovvero una poltrona) mettendosi il distintivo di “cattolico”.

Tanto è vero che da Vendola a Forza nuova, il panorama politico è pieno di singoli politici che si dicono cattolici e che si contrappongono gli uni agli altri, con contenuti antitetici. No.

L’impegno dei cattolici è sempre fiorito da un “noi”, da un’appartenenza ecclesiale e da realtà di popolo che vivono la dottrina sociale della Chiesa.

Nella storia del cattolicesimo del Novecento il punto di partenza è sempre stato anzitutto l’educazione alla fede, che si riceve nelle parrocchie, nei movimenti, nelle associazioni e che – se è autentica – spinge a dare giudizi culturali, a fare iniziative sociali, educative e caritative, a proporre una concezione della città e del Paese in cui si vive.

I cattolici arrivano alla politica insieme, non individualmente, attraverso realtà prepolitiche dove – fra l’altro – si impara uno sguardo cristiano sulla realtà, si rende la dottrina sociale della Chiesa un giudizio sul presente e si comincia ad assumersi delle responsabilità pubbliche, vivendole come servizio.

Così è stato dagli anni Settanta il Movimento popolare che raggruppava non solo ciellini, ma persone provenienti da altre realtà cattoliche come Azione cattolica, Cisl, Acli, cooperative bianche. Per certi versi è stato un tentativo che ha anticipato il pontificato di Giovanni Paolo II. Oggi la situazione è simile a quella degli anni Settanta e quell’esperienza merita di essere ripensata e ripresa.

Nei giorni scorsi, su “Tempi”, ho lanciato (anzitutto ai miei amici di CL) l’idea di riprendere il cammino del Movimento popolare, proprio perché mi pare che possa essere la via giusta per cominciare a realizzare quanto ci chiede la Chiesa.

Oltre alla risposta cordiale di Formigoni – che del Mp fu uno dei fondatori – ho ricevuto centinaia e centinaia di mail e telefonate entusiastiche di persone comuni, padri, madri, insegnanti, intellettuali, studenti, imprenditori.

Tanti di loro mi hanno detto: era ora, è quello che stavamo aspettando.

Ci sono molti altri argomenti a sostegno di questa proposta e li ho elencati nella mia lettera a “Tempi”.

Ovviamente si può ritenerla sbagliata, ma – se si è cattolici – si ha il dovere di spiegarne le ragioni e di dire in quale altro modo si pensa di rispondere alla “chiamata” della Chiesa.

Perché in questo momento i cattolici mancano all’appello.


EMILIO ARTIGLIERI - Rilevanza della fede nella costruzione della vita etica e sociale di Emilio Artiglieri, http://www.lostato.net

Non ogni fede produce gli stessi effetti nella vita etica e sociale.
Su questo punto è stato molto esplicito Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate, dove ha, tra l’altro, messo in evidenza che, mentre, ad esempio, “la Rivelazione cristiana sull’unità del genere umano presuppone una interpretazione metafisica dell’humanum in cui la relazionalità è un elemento essenziale”, non mancano “atteggiamenti religiosi e culturali in cui non si assume pienamente il principio dell’amore e della verità e si finisce così per frenare il vero sviluppo umano o addirittura per impedirlo. Il mondo di oggi – continua il Papa – è attraversato da alcune culture a sfondo religioso, che non impegnano l’uomo alla comunione, ma lo isolano nella ricerca del benessere individuale, limitandosi a gratificarne le attese psicologiche. Anche una certa proliferazione di percorsi religiosi di piccoli gruppi o addirittura di singole persone, e il sincretismo religioso possono essere fattori di dispersione e di disimpegno…….Contemporaneamente – continua il Papa -  permangono talora retaggi culturali e religiosi  che ingessano la società in caste sociali statiche, in credenze magiche  irrispettose della dignità della persona, in atteggiamenti di soggezione a forze occulte. In questi contesti, l’amore e la verità trovano difficoltà ad affermarsi, con danno per l’autentico sviluppo. Per questo motivo, se è vero, da un lato che lo sviluppo ha bisogno delle religioni e delle culture di diversi popoli, resta pur vero, dall’altro, che è necessario un adeguato discernimento. La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali. Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità e della verità” (n. 55).
Sono due i criteri che, in qualche modo, ci aiutano a distinguere la Fede cattolica dalle altre fedi o credenze, con riferimento all’influsso sulla vita etica e sociale.
Il primo criterio è quello dell’apertura alla razionalità.
E’ questo un tema particolarmente caro a Benedetto XVI e che caratterizza il suo Magistero, a partire dal celebre discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, in cui ricordava il dialogo tra Manuele II Paleologo, imperatore bizantino, e un persiano colto.
Spiegava l’Imperatore: “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”.
Tale principio è alla base dell’incontro tra la fede biblica e il pensiero greco, incontro che rappresenta proprio quell’equilibrio cattolico che, avvalendosi anche del patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e – notava il Papa – “rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa”.
Il Papa, riprendendo l’insegnamento di Manuele II Paleologo, aveva evidentemente di mira l’Islam, in cui la figura di Dio appare sganciata da qualsiasi limite, anche intrinseco, e quindi pure dalla categoria della ragionevolezza.
Secondo la teologia islamica, “Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria”.
Questo rifiuto del criterio di ragionevolezza a favore di una volontà pura, assoluta non è proprio solo dell’Islam, ma in qualche misura si è introdotto anche nel pensiero cristiano, ad esempio in certe correnti volontaristiche medievali
Con la riforma protestante iniziava poi la prima tappa della cosiddetta richiesta di deellenizzazione del Cristianesimo (spogliare il Cristianesimo della veste del pensiero greco).
La seconda tappa si aveva con la teologia liberale del XIX e del XX secolo, mentre la terza tappa è quella attualmente diffusa, e che vorrebbe una nuova inculturazione nei diversi contesti ambientali.
Il Papa ci ricorda invece come nella stessa formazione del Nuovo Testamento sia imprescindibile l’apporto della cultura, o per meglio dire, dello spirito greco.
Il rapporto equilibrato tra Fede e ragione umana porta ad evitare gli scogli di un duplice estremismo, del fondamentalismo da una parte e del laicismo dall’altra.
Riprendendo ancora dalla Caritas in Veritate, troviamo affermato che “nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la Fede religiosa. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla Fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità” (n. 56).
Una ragione che non sia illuminata dalla Fede è una ragione ridotta, impoverita, immiserita, così come una religione senza il controllo della ragione porta alla violenza ed al fanatismo.
Uno dei racconti più noti “La croce azzurra” si conclude con un dialogo interessante tra il ladro Flambeau e Padre Brown.
Alla domanda del primo, su come avesse potuto riconoscere che, nonostante il travestimento, non era un vero sacerdote, ma appunto un ladro, Padre Brown rispose: “ha attaccato la ragione. E questa è cattiva teologia”.
Ricordiamo sempre, cari amici, che chi attacca la ragione fa una cattiva teologia.
E comunque fa una teologia non cattolica.
Qualche anno fa è uscito un libro di un noto sociologo Rodney Stark, intitolato: “La vittoria della ragione”, con il sottotitolo “Come il Cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza”.
Nonostante una certa semplificazione, è assolutamente condivisibile la tesi fondamentale del libro secondo cui “se il successo dell’Occidente si fonda sulle vittorie della ragione, allora l’ascesa del Cristianesimo fu senza dubbio l’evento più importante della storia europea. Fu infatti la Chiesa a dare costante testimonianza del potere della ragione e della possibilità di progresso, secondo il principio che ‘potremo un giorno’……” (p. 62).
Questa espressione: “lo potremo un giorno” è tratta da una più ampia citazione agostiniana: Sant’Agostino osservava che, nonostante ci fossero “verità concernenti la dottrina della salvezza che non possiamo ancora comprendere con la ragione…… lo potremo un giorno” (p. 31).
Con ciò egli sottolineava la possibilità del progresso teologico, ma Sant’Agostino riconosceva anche la possibilità del progresso terreno e materiale: “le grandiose e innumerevoli arti scoperte e utilizzate dall’ingegno umano, in parte per le sue necessità, in parte per mero piacere sono tutte testimonianze della straordinaria capacità e della bontà naturale della mente fornita di ragione” (La città di Dio,  libro 22, cap. 24).
Rodney Stark, dopo aver passato in rassegna il pensiero di vari teologi (oltre Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino ed altri minori), osserva che “il cristiano immagina Dio come un essere razionale che crede nel progresso umano e che rivela se stesso più a fondo quando gli uomini acquistano la capacità di capire meglio. Inoltre, dal momento che Dio è un essere razionale e l’universo è la sua personale creazione, esso possiede necessariamente una struttura razionale, legittima e stabile che attende maggiore comprensione umana. Questa fu la chiave di molte imprese intellettuali, tra cui la nascita della scienza” (p. 34).
Qui ci troviamo di fronte ad una prima grande manifestazione della rilevanza della Fede cristiana nella vita culturale, ma di riflesso anche sociale: ossia la nascita della scienza moderna.
In effetti, la vera scienza si è sviluppata solo in Europa: la Cina, il mondo islamico, l’India, l’antica Grecia e l’Antica Roma avevano una alchimia molto avanzata, ma solo in Europa l’alchimia si evolvette in chimica.
Allo stesso modo molte società svilupparono elaborati sistemi di astrologia, ma solo in Europa l’astrologia condusse all’astronomia.
Le idee fondamentali, che consentirono la nascita della scienza nell’Europa cristiana e in nessun altro luogo, si possono così riassumere: la natura esiste perché è stata creata da Dio. Per amare ed onorare Dio, è necessario apprezzare a fondo le meraviglie del suo operato. Essendo Dio perfetto, il suo Creato funziona secondo principi immutabili, principi che dovrebbe essere possibile scoprire utilizzando appieno i poteri della ragione e della osservazione che Dio ci ha donato (cfr. p. 49).
Nello stesso senso si esprime Francesco Agnoli in un suo recente libro (“Perché non possiamo essere atei”, PIEMME-2009): “già Sant’Agostino – scrive Agnoli – con le sue considerazioni, compie un passaggio decisivo: se Dio è autore, trascendente, del mondo, e non è parte del mondo, ciò significa che magia e astrologia, in quanto fondate sull’animismo, e il politeismo panteista sono solo superstizioni irrazionali e deprecabili. Proprio in questa de-divinizzazione del mondo, nell’idea cioè che l’universo sia una ‘creatura’ e non un insieme di divinità, si colloca l’origine del pensiero scientifico, cioè la convinzione che il cosmo sia studiabile, indagabile, conoscibile, secondo la ragione, come un ‘orologio’, una mundi machina (Grossatesta), e non come un ‘grande animale’ divino (greci e neoplatonici)” (p. 104).
Antonio Zichichi, nel suo recente libro, Galilei Divin Uomo, ci ricorda che la scienza non è stata scoperta da un ateo, la scienza nasce a casa nostra, quando Galileo Galilei dice: “voglio cercare nella pietra le impronte del Creatore”, dove per “impronte del Creatore” intende le leggi fondamentali della natura. Sino a quel momento nessuna persona al mondo, di nessuna civiltà e di nessuna cultura aveva scoperto una sola legge fondamentale della natura. Così nasce la scienza: per un atto di fede in Colui che ha fatto il mondo.
Che il cristianesimo sia all’origine della scienza moderna e della sua applicazione lo si evince, d’altra parte, anche dalle critiche dei suoi oppositori, degli ambienti ecologisti, animalisti e verdi.
Agnoli ricorda come uno dei maestri di questi movimenti, Lynn White, abbia accusato apertamente il cristianesimo di essersi imposto sul paganesimo, considerato molto più rispettoso della natura (in quanto divinizzata), proprio tramite l’invenzione della scienza e delle tecniche moderne (cfr. p. 107).
Si tratta di concetti oggi spesso ricorrenti nella cosiddetta galassia ecologista, che vorrebbe eguagliare diritti umani e diritti animali, a tutto vantaggio dei secondi.
Ma i meriti – perché, con buona pace di ecologisti ed animalisti, tali sono per noi -  di una teologia razionale, propria del Cristianesimo e – ribadiamo – soprattutto del Cattolicesimo, non sono confinati alle scienze.
Il Cristianesimo infatti ha esercitato ed esercita un determinante influsso nel concepire la natura umana e nell’affrontare le questioni della morale.
Tra queste spiccano proposizioni riguardanti i diritti fondamentali dell’uomo, come la libertà.
Rodney Stark ha sottolineato che “l’idea occidentale di individualismo (inteso come rivendicazione della dignità della singola persona, in opposizione al collettivismo ed al fatalismo) fu sostanzialmente una creazione cristiana” (p. 52).
Sin dagli albori, il Cristianesimo ha insegnato che il peccato è una questione personale, che non appartiene in modo principale al gruppo, ma ciascun individuo deve occuparsi della propria salvezza.
Nulla è più significativo della dottrina del libero arbitrio, che trova una icastica espressione in un dialogo di una tragedia di Shakespeare, Giulio Cesare, dialogo in cui Cassio dice a Bruto: “la colpa, caro Bruto, non è delle nostre stelle, ma di noi stessi”.
Se la colpa è “di noi stessi”, ciò avviene perché crediamo di avere la possibilità di scegliere, e la responsabilità di scegliere bene.
A differenza dei greci e dei romani, le cui divinità mancavano notevolmente di virtù e non si preoccupavano della cattiva condotta degli umani, il Dio cristiano è un giudice che premia la “virtù” e punisce il “peccato”.
Una tale concezione di Dio è incompatibile con il fatalismo.
Insinuare il contrario significherebbe incolpare Dio dei propri peccati.
L’ammonizione: “va e non peccare più” sarebbe assurda se noi fossimo prigionieri del nostro fato.
Il Cristianesimo si fonda piuttosto sulla dottrina secondo la quale gli uomini sono dotati della capacità e, di conseguenza della responsabilità di determinare le loro azioni.
Ciò non contrasta con la dottrina secondo la quale Dio conosce in anticipo quali scelte faremo.
Scrive Sant’Agostino: “affermiamo la conoscenza in Dio di ogni cosa prima che accada, e la libera volontà delle nostre azioni”
Insomma  Dio sa come decideremo di agire liberamente, ma Egli non interferisce.
Per questo rimane a noi la scelta tra la virtù e il peccato.
Molto bello è il concetto espresso da San Tommaso d’Aquino, secondo cui l’uomo “può anche dirigere e governare i propri atti. Dunque la creatura ragionevole partecipa alla Divina Provvidenza non solo in quanto ne è governata, ma anche in quanto governa” (Somma contro i Gentili, libro 3, cap. CXIV).
Se alla base della dignità dell’uomo, del singolo uomo, vi è la sua stessa natura di creatura ragionevole e libera, sappiamo che questa dignità è stata ancor più elevata dall’Incarnazione, dalla Redenzione e dalla Grazia.
Come recitiamo nel simbolo niceno-costantinopolitano, il Credo, il Figlio di Dio si è fatto uomo “propter nos homines et propter nostram salutem”.
Come spiegava il Cardinale Siri “si è fatto uomo anche per ‘noi singoli’, perché è detto che è venuto ‘per la nostra salvezza’, e la salvezza è un fatto anzitutto personale, ossia dei singoli. Lo scopo – non ultimo – di questa divina avventura, la quale colla Incarnazione porta ineffabili altre meraviglie, investe dunque ogni singolo uomo. Poi anche la comunità. Il dito di Dio, stupendo ed eterno donatore, nel fatto più grande della storia umana ed impegnando il corteggio di tutti i fatti, è puntato sul singolo uomo.
Ogni singolo uomo è un mondo.
Se Dio ha fatto così, deve assolutamente rispettarsi la persona umana…..Il principio del rispetto alla persona umana si erge e si impone all’assoluto rispetto” (La strada passa per Cristo, p. 22).
La dignità della persona è collegata alla sua autonomia, ossia innanzitutto alla distinzione da quello che non è essa.
Scrive ancora il Cardinale Siri: “può pensare, volere, sentire – salva la dipendenza da Dio Creatore e conservatore – in modo indipendente da qualsivoglia altro essere” (p. 22).
Dalla autonomia della persona discendono tra le altre conseguenze la libera iniziativa e il diritto di proprietà: infatti “la libertà che, senza ombra di dubbio, compete alla persona umana, si riduce ad una invereconda beffa, allorchè nel soddisfacimento dei suoi bisogni, nella cultura delle sue indefinite possibilità un uomo deve dipendere come un orfano in un collegio dal volere e dalla grazia altrui in modo abituale ed irreformabile. La libertà non sussiste senza proprietà e per salvare libertà e personalità, bisogna salvare la proprietà” (p. 23).
La persona umana, come è descritta dalla ragione e dalla Rivelazione divina, mette dei chiari limiti – così ancora insegnava il Cardinale Siri – a tutte le altre istituzioni umane, la famiglia, le società intermedie, lo stato.
“L’autorità della famiglia deve anche con forza condurre l’uomo, lo deve difendere dalla sua stessa debolezza anche nel modo più energico, ma non deve irragionevolmente mortificarlo……Se la famiglia non può irragionevolmente mortificare l’uomo, tanto meno lo possono fare le società intermedie, siano esse commerciali, culturali, sociali o politiche”.
Ugualmente, “lo Stato non può mai diventare un tiranno e peggio un mortificatore e distruttore della persona umana e di quanto è necessario perché essa sia rispettata come tale”.
Non possiamo sviluppare tutte le conseguenze che sul piano sociale discendono dal rispetto della persona umana, ma penso che non sia difficile per ciascuno di voi coglierle adeguatamente, ad esempio nei rapporti di lavoro ed in generale nell’economia.
Da quanto detto, o meglio solo necessariamente accennato, si può comprendere il fondamento di quanto osserva l’attuale Arcivescovo di Monaco, Rehinard Marx, nel suo Il Capitale (Rizzoli 2009), “scegliere di credere è una questione privata. Ma è nel contempo una decisione di interesse pubblico molto elevato, così come lo è la decisione di formare una famiglia e di improntare la propria esistenza a determinate regole morali.
Naturalmente lo Stato non deve governare con la Bibbia in mano. Ma non deve essergli indifferente il fatto che ci siano persone che credono in Dio. Non è irrilevante per lo Stato e la società se si crede che l’uomo abbia una dignità che non si è creato da sé, che c’è un futuro, che non tutto è nelle mani dell’uomo. Non è una cosa di poco conto che ciò venga annunciato e che vi si creda” (p. 59).
Abbiamo visto qualcosa circa il primo criterio distintivo della Fede cristiana, ossia l’apertura alla razionalità, o meglio alla dignità razionale della persona umana, elevata dalla Grazia.
Ma esiste un altro grande criterio, ossia quello della carità.
E’ lo stesso Benedetto XVI a unire questi due criteri quando nel discorso tenuto a Verona in occasione del IV Convegno Ecclesiale Nazionale ha detto: “la forte unità che si è realizzata nella Chiesa nei primi secoli tra una Fede amica dell’intelligenza (ecco il primo criterio) e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri ed ai sofferenti (ecco il secondo criterio) ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del Cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l’Evangelizzazione: il Signore ci guida a vivere questa unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l’Evangelizzazione dell’Italia e del mondo di oggi”.
Per il Papa quindi esiste, come in effetti è storicamente esistita e deve continuare ad esistere, una forte unità tra questi due aspetti, ossia una Fede amica dell’intelligenza, una Fede amica della ragione, e una prassi di vita caratterizzata dalla carità.
Anche sotto quest’ultimo aspetto possiamo cogliere la rilevanza del Cattolicesimo nella costruzione della vita sociale.
Al tema della carità, come ben sapete, Benedetto XVI ha dedicato la sua prima Enciclica, Deus Caritas est.
In essa si spiega che “tutta l’attività della Chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo: cerca la sua evangelizzazione mediante la Parola e i Sacramenti, impresa tante volte eroica nelle sua realizzazioni storiche; e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana” (n. 19).
Secondo il Pontefice, l’amore del prossimo, radicato nell’amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma anche un compito per l’intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella sua globalità…..conseguenza di ciò è che l’amore ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato” (n. 20).
Circa questo servizio ben ordinato, il Papa ne vede la prima realizzazione nell’istituzione dell’ufficio diaconale di cui parlano gli Atti degli apostoli, con la designazione di sette uomini, “pieni di Spirito e di saggezza” (At. 6,1-6).
Abbiamo così la “diaconia” come servizio dell’amore del prossimo esercitato comunitariamente e in modo ordinato.
Il Papa giunge ad affermazioni molto forti su cui dovremo riflettere: “praticare l’amore verso le vedove e gli orfani, verso i carcerati, i malati e i bisognosi di ogni genere appartiene all’essenza della Chiesa tanto quanto il servizio dei Sacramenti e l’annuncio del Vangelo. La Chiesa non può trascurare il servizio della carità così come non può tralasciare i Sacramenti e la Parola” (n. 22).
La premura dei cristiani verso ogni genere di bisognosi suscitava la meraviglia dei pagani, come racconta Tertulliano, e addirittura, con Giuliano l’Apostata, un tentativo di concorrenza, di emulazione proprio su questo piano.
La storia della Chiesa ci indica come non siano mai mancati splendidi esempi di realizzazione dell’attività caritativa, ad esempio con le grandi strutture di accoglienza, di ricovero e di cura sorti accanto ai Monasteri, con le ingenti iniziative di promozione umana e di formazione cristiana, destinate innanzitutto ai più poveri, di cui si sono fatti carico dapprima gli Ordini monastici e mendicanti e poi i vari Istituti religiosi maschili e femminili.
Pensiamo alla luce che all’interno della storia hanno portato i cosiddetti santi della carità sociale: Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola, Giovanni di Dio, Camillo de Lellis, Vincenzo de Paoli, Luisa de Marillac, Giuseppe B. Cottolengo, Giovanni Bosco, Luigi Orione, Teresa di Calcutta e tanti altri meno noti ma davanti a Dio forse non meno grandi.
Lo slancio di dedizione al servizio dei poveri e degli ammalati che percorre tutta la storia della Chiesa trova il suo principale impulso senz’altro nell’esempio di Cristo che si è fatto uomo e ha dato la vita per noi, ma c’è un altro aspetto che deve essere evidenziato: la cura del corpo umano è frutto di una nuova visione teologica dello stesso, portata dal Cristianesimo e che - come ben spiega Francesco Agnoli nel suo libro citato - rompe i ponti “con la visione negativa della materia, presente nel mondo greco……occorreva che il corpo divenisse il tempio di Dio stesso, destinato alla resurrezione eterna. Una delle grandi rivoluzioni del Cristianesimo è consistita proprio nel proporre un Dio che prende carne, un Dio che si incontra ‘materialmente’ con l’uomo, tramite l’Eucarestia, e tramite il rapporto con gli altri uomini in carne ed ossa” (p. 265).
Sappiamo che per Platone, per la cultura greca il corpo era essenzialmente prigione: il mondo pagano non riusciva a comprendere la resurrezione dei corpi e proprio su questo punto, come ricorderete, si interruppe il dialogo di San Paolo all’Areopago.
La valorizzazione del corpo introdotto dal Cristianesimo era comunque mantenuta in un rapporto di grande equilibrio con la dimensione spirituale, con l’anima.
Questo equilibrio ha portato all’epopea della carità medioevale e controriformista, creatrice unica ed originale dell’istituzione ospedaliera.
Oggi purtroppo questo equilibrio, a livello di cultura generale, si è rotto e siamo passati ad un vero e proprio materialismo che trascura la componente spirituale.
Il corpo viene esaltato nella ricerca di una perfezione sempre maggiore, nel culto dell’immagine e dell’apparenza, nella ricerca di tutte le possibili modalità per essere sani, belli, fisicamente ‘felici’.
Contemporaneamente l’attenzione morbosa al corpo genera ansia, complessi, difficoltà ad accettarsi così come si è, e crescono patologie come l’anoressia, la bulimia e addirittura la tendenza a lacerare e ferire il proprio corpo, oppure a deturparlo con piercing e tatuaggi.
Anima e corpo vengono nuovamente scissi ed entrano in conflitto tra loro: si pensi all’idea del gender, che separa sessualità biologica e sessualità culturale; al transessualismo e a tanti altri fenomeni che la cronaca ci riporta.
Prima di lasciare il tema della carità, vorrei ricordare un’obiezione che ogni tanto ricorre e che lo stesso Papa cita nella sua Enciclica Deus Caritas est, ossia l’affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità (n. 28).
In realtà, come spiega il Papa, l’amore “sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine……Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno: l’amorevole dedizione personale…..Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale” (n. 28).
Insomma, l’uomo, al di la della giustizia ha e avrà sempre bisogno dell’amore.
La rilevanza della Fede cristiana nella vita etica e sociale passa attraverso questi due aspetti fondamentali del progresso di evangelizzazione di ieri di oggi e di sempre, aspetti peraltro strettamente connessi: la proposizione di una Fede amica della ragione, dell’intelligenza, che valorizzi la dignità della concreta persona umana, creatura libera e razionale, redenta dal sacrifico del Figlio di Dio, e la pratica della carità, cuore che sa vedere e provvedere a tutti i bisogni, materiali e spirituali, qui e ora, senza la folle pretesa ideologica di instaurare un “mondo nuovo”, una “città futura”.
Sono questi i pilastri di una civiltà degna dell’uomo, alla cui costruzione, o meglio ricostruzione, tutti possiamo e dobbiamo collaborare.


San Marino in attesa del Papa di Gabriele Mangiarotti, 14-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Il prossimo 19 giugno il Papa si recherà in visita nella diocesi di San Marino-Montefeltro. Raccogliamo una testimonianza che spiega come ci si prepara per fare in modo che un evento così importante vada oltre l'emozione del momento per costruire una più solida comunità cristiana e per rendere incontrabile per tutti l'avvenimento cristiano. 

Già dal primo annuncio, l’avvenimento della visita del Papa ad una realtà così piccola, seppur con una grandissima tradizione come San Marino (e tutta la diocesi del Montefeltro), ha segnato un clima di attesa grata e stupita.

L’incontro con il Papa è, per ogni credente, un fatto con cui fare i conti: «Signore, accresci in noi la fede» è diventato il grido con cui attendere questo incontro. Che, peraltro, secondo le indicazioni di Luigi Negri, Vescovo di San Marino – Montefeltro, ha un orizzonte che vuole coinvolgere tutti gli uomini, credenti o meno che siano. Qui sta infatti la grande caratteristica della fede, che non è un particolare per pochi, un «interesse» di alcuni, ma un evento che, come la realtà tutta intera, sta di fronte a tutti. Poi la loro libertà si muoverà…

Per capire questo evento mi rifaccio alla esperienza recente, in una scuola superiore della zona. A Sassocorvaro si sono incontrati 250 studenti del triennio delle superiori, coinvolti dal loro insegnante di religione, don Fabio Bricca, e da una brava insegnante, Loretta Bravi, che ha portato una botta di vita nelle aule di quella scuola. I ragazzi si sono preparati all’incontro, preludio di quello col Papa a Pennabilli (sarà appunto l’occasione di trovare tutti i giovani) con una serie di domande che hanno dato il clima. Segno che c’è una fame e sete di parole che rispondano alla fame di vita e bellezza e significato. Un incontro durato più di due ore, in un silenzio insolito e senza quel via-vai che spesso caratterizza le tante assemblee scolastiche in orario di lezione. Incontro così sintetizzato da Loretta: «I ragazzi, precedentemente avevano raccolto le “loro” domande: “Perché dopo la Cresima si fugge dalla Chiesa… perché Gesù ha voluto vicino a sé un Pietro peccatore o una Maddalena… perché l’uomo di oggi non avverte più il senso religioso che lo struttura e ritiene indifferente credere o meno in Dio… perché la pedofilia…quale la posizione della Chiesa sui temi di bioetica…”.

I ragazzi chiedono ciò che l’apostasia dilagante, da se stessi prima che da Dio, non osa o non sa più domandare! Aiutati dalla lettura di alcuni brani de “La bottega dell’orefice” di Wojtyla, dalla Lettera ai vescovi d’Irlanda  e dal Discorso di Ratisbona di Papa Ratzinger, dalle immagini di piazza Tienanmen (un gesto che simboleggia un’umanità cambiata possibile per alcuni), dal “mi corriggerete” di Giovanni Paolo all’appello alla “verità” di Benedetto, la parola e l’immagine hanno guidato i ragazzi in un percorso di conoscenza e memoria, avviandoli ad una “esperienza culturale” (don Fabio), a scoprire “l’attualità più profonda che è il cuore e non le notizie tragiche delle quali ogni giorno ci riempie il mondo” (don Gabriele), ad attendere il Papa con curiosità “avvertendo la storicità di questa visita alla nostra Diocesi” (don Rousbell). Dall’incontro sono emersi, con naturalezza, grandi temi: il legame di amicizia tra i due pontefici, il valore del “pontificato” che non è la “sfida della successione”, le due differenti personalità unite dalla ragionevolezza della fede, le urgenze storiche mutate, il tema del male che non emerge solo come dittatura o ideologia ma si annida nell’uomo come limite, errore, ferita. Don Gabriele ha tenuto costantemente vive due provocazioni: a che serve all’uomo “guadagnare la vita se poi perde se stesso” e la “solitudine giovanile” di una generazione illusa e abbandonata nei modelli drammatici del fruire e non dell’essere.»

L’altro elemento, per capire l’importanza dell’evento, è racchiuso nelle parole della preghiera che il Vescovo ha voluto che si recitasse in ogni chiesa della Diocesi per preparare la visita: « O Signore nostro Gesù Cristo, concedi a noi tuoi fedeli della Chiesa di San Marino-Montefeltro di comprendere e accogliere nella fede l’inestimabile dono della Visita che il Santo Padre Benedetto XVI compirà alla nostra Chiesa Particolare. Aumenta in noi, o Signore per mezzo di questa Visita la nostra fede in Te, la nostra testimonianza di discepoli che amano Te e i fratelli, il nostro senso di appartenenza alla santa Chiesa Cattolica, e fa’ che scopriamo in essa il tuo amoroso disegno di Padre che guida la nostra vita. Benedici, o Signore, il Ministero del Successore di Pietro al quale ci uniamo con tutto il nostro affetto e la nostra docilità di figli che nella Chiesa sono uniti al loro Padre e Pastore. Tutto ciò che Egli ti chiede oggi, anche noi te lo chiediamo con Lui. Se Egli piange o si rallegra, spera o si offre vittima di carità per il suo Popolo, noi vogliamo essere con Lui, desideriamo che la voce della nostra anima si confonda con la Sua, perché l’incontro con Pietro, per intercessione di Maria Santissima madre delle Grazie, dei santi Patroni Leo e Marino, sia pegno di un incontro con Te o Signore, nel tempo e nell’eternità. Amen».

L’attesa ci trovi fratelli, e sia anche l’occasione per scoprire, con Benedetto XVI, come le radici cristiane di una nazione possono, se vivificate e ritrovate, ridare dignità a un popolo e speranza a tanti.


Diplomatici vaticani: ecco perché sono preti di Massimo Introvigne, 14-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Spesso ci si chiede perché i diplomatici pontifici, unanimemente apprezzati nel corpo diplomatico internazionale, siano sacerdoti. In tempo di scarsità di clero la Santa Sede non potrebbe servirsi di laici? A questa obiezione, sempre più ricorrente, Benedetto XVI ha voluto rispondere il 10 giugno 2011 ricevendo alunni e docenti della Pontificia Accademia Ecclesiastica, la scuola che prepara i diplomatici vaticani.

Il Papa ha anzitutto rivendicato con orgoglio che «la diplomazia pontificia, come viene comunemente chiamata, ha una lunghissima tradizione e la sua attività ha contribuito in maniera non irrilevante a plasmare, in età moderna, la fisionomia stessa delle relazioni diplomatiche tra gli Stati». Ha quindi offerto una vera e propria lezione sulla natura della diplomazia, difendendone anche il cerimoniale, che può sembrare antiquato ma ha un profondo significato simbolico.

«Nella concezione tradizionale, già propria del mondo antico, l’inviato, l’ambasciatore - ha detto il Papa - è essenzialmente colui che è stato investito dell’incarico di portare in maniera autorevole la parola del Sovrano e, per questo, può rappresentarlo e trattare in suo nome. La solennità del cerimoniale, gli onori tradizionalmente resi alla persona dell’inviato, che assumevano anche tratti religiosi, sono, in realtà, un tributo reso a colui che rappresenta e al messaggio di cui si fa interprete. Il rispetto verso l’inviato costituisce una delle forme più alte di riconoscimento, da parte di un’autorità sovrana, del diritto ad esistere, su di un piano di pari dignità, di soggetti altri da sé».

Perché la parola della diplomazia possa essere ascoltata, ha sottolineata il Papa, ci vogliono veri diplomatici, la cui professionalità non s'improvvisa. «Si tratta di un ruolo delicato, che richiede, da parte dell’inviato, la capacità di porgere tale parola in maniera al tempo stesso fedele, il più possibile rispettosa della sensibilità e dell’opinione altrui, ed efficace. Sta qui la vera abilità del diplomatico e non, come talora erroneamente si crede, nell’astuzia o in quegli atteggiamenti che rappresentano piuttosto delle degenerazioni della pratica diplomatica. Lealtà, coerenza, e profonda umanità sono le virtù fondamentali di qualsiasi inviato, il quale è chiamato a porre non solo il proprio lavoro e le proprie qualità, ma, in qualche modo, l’intera persona al servizio di una parola che non è sua».

«Le rapide trasformazioni della nostra epoca hanno riconfigurato in maniera profonda la figura e il ruolo dei rappresentanti diplomatici; la loro missione rimane tuttavia essenzialmente la stessa». Ma, si è chiesto il Pontefice, «come si pongono, in tutto ciò, la persona e l’azione del diplomatico della Santa Sede, che, ovviamente, presenta aspetti del tutto particolari?».

La scelta della Santa Sede è stata sempre chiara, e Benedetto XVI la riconferma: formare un diplomatico che sia anzitutto un sacerdote, «Egli, in primo luogo - come si è sottolineato più volte - è un sacerdote, un vescovo, un uomo che ha già scelto di vivere al servizio di una Parola che non è la sua. Infatti, egli è un servitore della Parola di Dio, è stato investito, come ogni sacerdote, di una missione che non può essere svolta a tempo parziale, ma che gli richiede di essere, con l’intera vita, una risonanza del messaggio che gli è affidato, quello del Vangelo. Ed è proprio sulla base di questa identità sacerdotale, ben chiara e vissuta in modo profondo, che si viene ad inserire, con una certa naturalezza, il compito specifico di farsi portatore della parola del Papa, dell’orizzonte del suo ministero universale e della sua carità pastorale, nei confronti delle Chiese particolari e di fronte alle istituzioni nelle quali viene legittimamente esercitata la sovranità nell’ambito statale o delle organizzazioni internazionali». Non si tratta dunque di una semplice scelta funzionale. Una vera ragione teologica fa scegliere alla Chiesa, per portare nell'agone diplomatico la parola della Santa Sede, il sacerdote, che è già l'uomo della Parola di Dio.

Ne consegue, ha aggiunto il Papa, che il buon diplomatico dovrà essere anzitutto un buon sacerdote. E si comprende «come, nell’esercizio di un ministero tanto delicato, la cura per la propria vita spirituale, la pratica delle virtù umane e la formazione di una solida cultura vadano di pari passo e si sostengano reciprocamente. Sono dimensioni che permettono di mantenere un profondo equilibrio interiore, in un lavoro che esige, fra l’altro, capacità di apertura all’altro, equanimità di giudizio, distanza critica dalle opinioni personali, sacrificio, pazienza, costanza e talora anche fermezza nel dialogo verso tutti».

Meno ancora di qualunque altro sacerdote, il diplomatico vaticano non dovrà esprimere le proprie opinioni ma quelle del Papa e della Chiesa. Infatti «il servizio alla persona del Successore di Pietro, che Cristo ha costituito quale principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione (cfr. Conc. Vat. I, Pastor Aeternus, Denz. 1821 (3051); Conc. Vat. II, Lumen Gentium, 18), consente di vivere in costante e profondo riferimento alla cattolicità della Chiesa. E laddove c’è apertura all’oggettività della cattolicità, lì c’è anche il principio di autentica personalizzazione: la vita spesa al servizio del Papa e della comunione ecclesiale è, sotto questo profilo, estremamente arricchente».

Un'orgogliosa difesa, dunque, di questa splendida e straordinaria istituzione, la diplomazia vaticana. Ma, insieme, un richiamo a riscoprire le ragioni e le radici che la rendono da secoli così ammirata ed efficace: ragioni che non sono semplicemente naturali, ma che hanno a che fare con la divina grandezza del sacerdozio.


Angelo Minotti, il martire dimenticato di Antonio Giuliano, 13-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Abituati purtroppo alle notizie di cristiani perseguitati negli angoli più remoti del pianeta, si fa fatica a credere che anche in Italia, nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle, si poteva morire per fede su una pubblica piazza. Ecco perché è finita nel dimenticatoio la storia di Angelo Minotti, che ritorna ora alla luce grazie a un prezioso libretto Martirio al Santuario (D'Ettoris Editori, pp.100, euro 11,90) di Roberto Marchesini, con prefazione di Marco Invernizzi (verrà presentato lunedì 13 giugno alle 20 a Rho presso il Collegio dei Padri Oblati Missionari).

Nato a Rho nel 1890, Santino Angelo Minotti, di professione materassaio, fu chiamato alle armi allo scoppio della prima guerra mondiale. Catturato dall’esercito austriaco nel 1916, fu inviato nel campo di concentramento di Mathausen, in Austria. E già qui dimostrò una fede tenace e limpida, come dimostrano le lettere che scrisse alla madre, alla sorella e al parroco don Giulio Rusconi. Rientrato a casa dopo trenta mesi di prigionia e otto anni di servizio militare, ricominciò a impegnarsi nell’Unione giovani cattolici di Rho e nel servizio di catechista presso l’oratorio San Luigi. Ma il suo attivismo aveva i giorni contati.

Il 13 giugno del 1920, domenica del Corpus Domini, i fedeli di Rho si trovavano sul piazzale del Santuario della Beata Vergine Addolorata. Un gruppo di socialisti arrivati da Milano fece irruzione con insulti e bestemmie, bruciando lo stendardo del comune. Quelli che tentarono di reagire furono presi a bastonate. Un oblato, padre Rebuzzini, venne ferito gravemente con un colpo di bastone sul capo. Partirono dei colpi di rivoltella. Uno centrò Natale Schieppati ma l’orologio da tasca deviò il colpo e riuscì a salvarsi. L’altro prese in pieno Angelo Minotti, che morì dopo mezz’ora di agonia.

Il clamore fu enorme in città. Il giorno dopo una folla immensa prese parte al funerale. E Minotti, dicono le poche testimonianze, fu sepolto in terra comune perché era un pover’uomo. Le cronache dei giornali furono beffarde. Il quotidiano socialista L’Avanti e quello anarchico L’Umanità Nuova accusarono i cattolici di aver aggredito con le armi la manifestazione socialista. Non ci fu alcuna inchiesta sull’omicidio. Perché tanta intolleranza e perché fu scelto come bersaglio proprio Minotti che tutti descrivevano come giovane «pio e laborioso, incapace di male»? Il libro riapre il caso ricostruendo il contesto infuocato di quegli anni, senza del quale la vicenda risulterebbe davvero incomprensibile.

Alla fine della prima guerra mondiale si era aperto uno dei periodi più difficili per il nostro paese, passato alla storia come Biennio Rosso (1919-1921). La disastrosa situazione economica post conflitto aveva provocato gravi disordini sociali con scioperi e occupazioni delle terre, e regnava un clima di forti contrapposizioni identitarie tra liberali, fascisti, socialisti e cattolici. In particolare, era diffusa tra i socialisti la convinzione che fosse ormai replicabile la rivoluzione russa. Si accesero così gli animi dei rossi contro i cattolici: frequenti erano gli assalti alle chiese e numerosi i tentativi di incendio dei circoli e delle sedi delle associazioni, soprattutto nella diocesi di Milano.

I credenti vivevano nel terrore di manifestare pubblicamente la propria fede. Già però nel 1906, il cardinale Ferrari aveva dato vita all’Unione giovani cattolici milanesi, di cui faceva parte anche Minotti. Questo gruppo di ragazzi, a cui il cardinale chiese di porre un freno alle violenze, fu il primo nucleo dell’Avanguardia Cattolica, una singolare associazione di cattolici con «la spada dietro l’armadio», secondo una definizione del cardinal Montini (poi Paolo VI), una realtà che il libro di Marchesini ha il merito di rispolverare.

Contro ogni ideologico pacifismo moderno questo gruppo ammetteva anche l’uso della forza per difendere la propria fede. Si diventava "avanguardisti" in base all’intensa vita spirituale e anche a una certa prestanza fisica. Il loro compito principale era la difesa fisica delle celebrazioni religiose, delle processioni e delle istituzioni cattoliche, sempre con un occhio alla formazione culturale e spirituale dei candidati. «O Cristo, o morte!» era il loro esplicito motto. Negli anni l’Avanguardia si diffonderà anche fuori dal Milanese arrivando a contare anche 70 gruppi e circa 1500 iscritti. E il loro impegno si distinguerà poi contro lo squadrismo fascista, nell’ambito delle formazioni partigiane cattoliche o a fianco dei Comitati Civici di Gedda nelle elezioni del 1948 per far vincere la Dc contro il Fronte Popolare (Pci e Psi). Fino all’ultima apparizione pubblica dell’Avanguardia nel 1957.

A testimonianza del loro generoso impegno, non solo l’incoraggiamento di Papa Pio XII in udienza nel 1948. Ma soprattutto Montini che ancora nel 1955 li incitava: «Vorremmo che voi deste tuttora l’esempio di una affermazione di coraggio, di coerenza cristiana, di forza o di vittoria sulle inibizioni interne, sulla viltà, sul rispetto umano, a tanta parte della gioventù d’oggi, stanca e dubbiosa. Buona cosa quindi, che voi siate il sale di questa gioventù; che facciate vedere il vigore col quale bisogna combattere le battaglie di Cristo; come la Chiesa abbia bisogno di avere dei figli che le si donano completamente, pronti ad esporre le proprie persone senza domandare nulla, desiderose del rischio e dell’affermazione pubblica». Proprio come Angelo Minotti, un martire italiano. Una storia d’altri tempi, più forte dell’odio, antico e ancora vivo, per chi ha scelto di seguire Gesù di Nazaret.


Nuova ricerca: il preservativo ha aumentato l’AIDS, la fedeltà e l’astinenza no,  12 giugno, 2011, http://www.uccronline.it/

Il fatto che la Chiesa, opponendosi alla diffusione massiccia del preservativo, promuovi la diffusione dell’AIDS è un altro luogo comune molto diffuso. Tuttavia anche prestigiose riviste mediche come The Lancet, hanno rilevato l’efficacia della strategia ABC: “L’astinenza”, “la fedeltà” e il preservativo, in caso di inadempienza dei primi due. La Chiesa chiede di non concentrarsi esclusivamente su quest’ultimo aspetto, ma di privilegiare l’educazione dei comportamenti.

Matthew Hanley, ricercatore in Sanità Pubblica alla Emory University di Atlanta (USA) ed esperto in bioetica, con diretta esperienza sul campo in diversi paesi africani, ha recentemente pubblicato per l’American Public Health una relazione intitolata “The Catholic Church and the Global AIDS Crisis”, in cui quantifica il numero di infezioni che avrebbero potuto essere evitate in Africa se si fossero attuate politiche per promuovere l’astinenza e la fedeltà, piuttosto che attuare politiche per la distribuzione di massa di preservativi. Poiché la malattia è stata identificata nella metà degli anni Ottanta, si stima che abbia ucciso 25 milioni di persone in tutto il mondo, e oggi ci sono 65 milioni di portatori del virus.

«Non nascondiamolo: le politiche di distribuzione del condom non sono riuscite a invertire il segno delle epidemie più gravi in ​​Africa, quello che è servito è stato cambiare i comportamenti», ha detto Hanley. «I funzionari della sanità pubblica dovrebbero riconoscere questo. Ma la maggior parte di essi rifiutano gli approcci basati sul comportamento e prediligono soluzioni tecniche, come il preservativo». Eppure, tra il 1991 e il 2001 l’Uganda è riuscita a ridurre del 10% il numero di persone infette, seguendo un programma basato su “fedeltà” e “castita” e senza alcuna distribuzione del condom. Tuttavia, quando le agenzie mediche hanno insistito sul fatto i fondi sarebbero dovuti essere applicati per la distribuzione di preservativi, il numero di casi è aumentato di nuovo (cfr. Religion En Libertad) . La Chiesa rimane il più grande fornitore unico di assistenza sanitaria e sostegno per coloro che soffrono di malattie correlate all’AIDS in tutto il mondo.


Il genetista George Church: «il rapporto tra scienza e fede è vasto e fertile», 13 giugno, 2011, http://www.uccronline.it

Il genetista molecolare americano George Church, docente di Genetica presso la Harvard Medical School e uno dei migliori scienziati americani, noto anche per aver contribuito a progettare il primo “metodo” diretto di sequenziamento del DNA, è intervenuto dando la sua opinione sul tema “scienza e fede”.

Ha risposto infatti ad una domanda diretta di un suo lettore, su www.reddit.com, circa l’evidenza dell’esistenza di Dio dal punto di vista scientifico.

Non ha preso direttamente in considerazione l’assurda domanda, ma ha parlato del rapporto tra “scienza e fede”: «Alcune persone pensano che la scienza e la fede non abbiano nulla in comune. Ma una notevole quantità di fede guida la scienza tutti i giorni -e spesso la religione affronta anche tematiche scientifiche (ad esempio, la fisica / biologia dei miracoli, antiche divinità, Galileo). Se la fede non avesse incidenza sul nostro cervello fisico, allora attraverso quali meccanismi essa ha impatto sulle nostre conversazioni? Miliardi di esseri umani (in senso molto realmente scientifico), hanno fede. La sovrapposizione è vasta e fertile. Come impariamo molte informazioni circa la natura, per molti di noi, questo rafforza notevolmente, e non diminuisce, il nostro timore».


La ricerca sugli embrioni umani - Con le bugie non si alimenta la speranza di AUGUSTO PESSINA - Università di Milano (©L'Osservatore Romano 13-14 giugno 2011)

Mentre si aspetta che la Corte di giustizia europea si pronunci sul problema dei brevetti di linee cellulari prodotte con embrioni umani e in Germania, a seguito della morte di un bambino trattato con cellule staminali, viene chiuso un centro, in Francia il Senato ha ristabilito il divieto dell'uso di embrioni umani a scopo di ricerca. Subito si sono levate proteste che tacciano la decisione come oscurantista e contraria alla libertà di ricerca.
Pur non esente da incongruenze e contraddizioni, nell'attuale situazione della ricerca biologica - dove sembra vigere solo il principio che è lecito fare tutto quanto è tecnicamente possibile - la legge francese rappresenta una scelta a suo modo coraggiosa e rivolta alla salvaguardia della dignità della persona umana. Certo, si tratta di un "divieto con deroghe": dal primo varo della legge bioetica francese nel 2004 a oggi, l'Agenzia di biomedicina ha autorizzato ricerche con embrioni umani di ben 58 progetti su 64 (il 90,6 per cento), dimostrando che sono gli organismi deputati alla concessione di deroghe ad avere l'ultima parola. Le norme però incidono sul costume e hanno sempre anche una valenza educativa, e dunque è sicuramente più accettabile una legge che vieta con deroghe di una normativa, come quella britannica, che liberalizza con qualche limite le ricerche su embrioni umani.
Nella biomedicina delle cellule staminali sono molte le cattive informazioni e le bugie, sia sulle reali conoscenze biologiche che sulle applicazioni cliniche. Situazione che contribuisce ad alimentare quella mentalità acritica che demonizza come antiscientifico e avverso al progresso ogni tentativo di regolamentazione. E "staminale" è diventata una sorta di parola magica che produce valore aggiunto (progressista) a tutto: dai cosmetici alle più assurde proposte terapeutiche.
Navigando in rete con parole chiave come "terapie cellulari" si incontrano centinaia di siti, la maggior parte dei quali con promesse irreali, se non addirittura con truffe. Eppure questi siti esibiscono anche nomi altisonanti di istituzioni scientifiche con staff medici in grado di curare qualsiasi patologia (anche con l'utilizzo di cellule embrionali umane). Dietro queste istituzioni si celano spesso interessi economici, talvolta con intonazioni filosofiche, pseudo-religiose, magiche. Nel migliore dei casi si tratta di terapie ancora non approvate, in altri casi inutili o addirittura dagli effetti negativi sulla salute. Il Committee for Advanced Therapies, nell'ambito dell'European Medicines Agency, è di recente intervenuto su "Lancet", denunciando il turismo medico verso cliniche che propongono terapie inefficaci, talvolta pericolose e sempre comunque molto costose.
Per quanto limitato, il fenomeno è presente anche in Europa, contribuendo a creare un alone di discredito anche su ricerche cliniche conformi a corrette norme etiche. Di recente, in Germania le terapie con cellule staminali sono state messe sotto accusa per il caso del centro X-Cell di Düsseldorf, meta ambita del turismo medico a causa della reputazione di cui gode il Paese anche sul piano scientifico e medico e che invece operava senza aver mai prodotto documentazione.
Per non incrementare fenomeni simili, occorrono controlli e verifiche, ma anche una corretta e onesta informazione. Succede infatti che anche enti di ricerca pubblici siano tentati di enfatizzare presunte scoperte per giustificare e ottenere finanziamenti. D'altra parte, i media giocano spesso sul sensazionalismo senza occuparsi di verificare la bontà e il valore di notizie che le agenzie di stampa lanciano acriticamente. Accade spesso che l'enfatizzazione di certe informazioni biomediche venga recepita in modo errato, generando in pazienti e familiari speranze infondate e successive amare delusioni. Tutti, e in particolare i pazienti, hanno il diritto di essere informati dei progressi in campo medico, ma anche quello di non essere illusi. Non è infatti con le bugie che si alimenta la speranza dei malati.
(©L'Osservatore Romano 13-14 giugno 2011)


«La fede va proposta non presupposta» di Massimo Introvigne, 15-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Nella serata del 13 giugno nella Basilica di San Giovanni in Laterano Benedetto XVI ha inaugurato il Convegno ecclesiale che conclude l’anno pastorale della Diocesi di Roma, in svolgimento dal 13 al 16 giugno sul tema «"Si sentirono trafiggere il cuore" (At 2, 37). La gioia di generare alla fede nella Chiesa di Roma».

Senza dubbio tenendo conto anche di recenti inchieste sociologiche secondo cui va diminuendo, anche in Italia, il numero di coloro - soprattutto giovani - che conoscono le verità fondamentali della fede, dell'ampio dibattito in corso anche nella Chiesa sulle nuove forme di ateismo che non tanto negano la religione ma le rimangono indifferenti,  e di tanti segni di decadenza civile e morale, il Pontefice ha proposto ancora una volta la nuova evangelizzazione come unico rimedio alla crisi. Non ci sono scorciatoie: o si ricomincia a formare cristiani, partendo dai bambini e dai giovani, o la crisi attuale non conoscerà vie di uscita.

«Mi torna alla mente - ha detto il Pontefice - che proprio in questa Basilica, in un intervento durante il Sinodo Romano, citai alcune parole che mi aveva scritto [il teologo svizzero] Hans Urs von Balthasar [1905-1988]: "La fede non deve essere presupposta ma proposta". È proprio così. La fede non si conserva di per se stessa nel mondo, non si trasmette automaticamente nel cuore dell’uomo, ma deve essere sempre predicata».

Dopo la Pentecoste, Pietro inizia subito a predicare. E «a quell’annuncio tutti "si sentirono trafiggere il cuore". Questa reazione fu generata certamente dalla grazia di Dio: tutti compresero che quella proclamazione realizzava le promesse e faceva desiderare a ciascuno la conversione e il perdono dei propri peccati». Prima oscuramente, poi sempre più chiaramente il popolo che ascoltava Pietro comprese che finalmente era svelato il senso della vita umana ed era mostrata la strada verso la vera felicità. Comprese «che la risurrezione di Gesù era in grado di illuminare l’esistenza umana. E in effetti da questo evento è nata una nuova comprensione della dignità dell’uomo e del suo destino eterno, della relazione fra uomo e donna, del significato ultimo del dolore, dell’impegno nella costruzione della società. La risposta della fede nasce quando l’uomo scopre, per grazia di Dio, che credere significa trovare la vita vera, la "vita piena"». Il Papa ha ricordato l'esempio di «uno dei grandi Padri della Chiesa, Sant’Ilario di Poitiers [ca. 315-367], [il quale] ha scritto di essere diventato credente quando ha compreso, ascoltando il Vangelo, che per una vita veramente felice erano insufficienti sia il possesso, sia il tranquillo godimento delle cose e che c’era qualcosa di più importante e prezioso: la conoscenza della verità e la pienezza dell’amore donati da Cristo (cfr De Trinitate 1,2)».

Oggi, precisamente, lo stesso «annuncio deve risuonare nuovamente nelle regioni di antica tradizione cristiana. Il beato Giovanni Paolo II [1920-2005] ha parlato della necessità di una nuova evangelizzazione rivolta a quanti, pur avendo già sentito parlare della fede, non apprezzano più la bellezza del Cristianesimo, anzi, talvolta lo ritengono addirittura un ostacolo per raggiungere la felicità. Perciò oggi desidero ripetere quanto dissi ai giovani nella Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia: "La felicità che cercate, la felicità che avete diritto di gustare ha un nome, un volto: quello di Gesù di Nazareth, nascosto nell’Eucaristia"!».

Per converso, anche la crisi ha un nome: è la negazione, esplicita o implicita, che quel Gesù di Nazareth sia Dio. «Se gli uomini dimenticano Dio è anche perché spesso si riduce la persona di Gesù a un uomo sapiente e ne viene affievolita se non negata la divinità. Questo modo di pensare impedisce di cogliere la novità radicale del Cristianesimo, perché se Gesù non è il Figlio unico del Padre allora nemmeno Dio è venuto a visitare la storia dell’uomo».

È un fatto: le indagini sociologiche ci mostrano una preoccupante crescita del numero di coloro che, pur dicendosi genericamente cattolici, non hanno più una chiara nozione della divinità di Cristo. Chi è chiamato a porre rimedio a questo stato di cose? La risposta del Papa è chiara: «soprattutto lo sono i genitori». «Tutti i papà e le mamme sono chiamati a cooperare con Dio nella trasmissione del dono inestimabile della vita, ma anche a far conoscere Colui che è la Vita. Cari genitori, la Chiesa, come madre premurosa, intende sostenervi in questo vostro fondamentale compito. Fin da piccoli, i bambini hanno bisogno di Dio ed hanno la capacità di percepire la sua grandezza; sanno apprezzare il valore della preghiera e dei riti, così come intuire la differenza fra il bene ed il male. Sappiate, allora, accompagnarli nella fede sin dalla più tenera età».

Ma - ha aggiunto il Pontefice - «come coltivare poi il germe della vita eterna a mano a mano che il bambino cresce? San Cipriano [210-258] ci ricorda: "Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre"». Il ragazzo che cresce dev'essere guidato alla scoperta della Chiesa, perché «la parola della fede rischia di rimanere muta, se non trova una comunità che la mette in pratica, rendendola viva ed attraente». Dopo avere esortato a dedicarsi «con passione» alla riscoperta dell'importanza della Cresima, il Papa ha aggiunto che «è necessario che la conoscenza di Gesù cresca e si prolunghi oltre la celebrazione dei Sacramenti. È questo il compito della catechesi, come ricordava il beato Giovanni Paolo II: "La specificità della catechesi, distinta dal primo annuncio del Vangelo, che ha suscitato la conversione, tende al duplice obiettivo di far maturare la fede iniziale e di educare il vero discepolo di Cristo mediante una conoscenza più approfondita e più sistematica della persona e del messaggio del nostro Signore Gesù Cristo" (Esort. ap. Catechesi tradendae, 19)».

Ma, perché questo sia possibile, c'è bisogno - e c'è talora carenza - di catechisti fedeli all'insegnamento della Chiesa, il che oggi significa formati sul Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 e capaci di trasmetterne il contenuto. «La catechesi - ha ricordato il Papa - è azione ecclesiale e pertanto è necessario che i catechisti insegnino e testimonino la fede della Chiesa e non una loro interpretazione. Proprio per questo è stato realizzato il Catechismo della Chiesa Cattolica, che idealmente questa sera riconsegno a tutti voi, affinché la Chiesa di Roma possa impegnarsi con rinnovata gioia nell’educazione alla fede. La struttura del Catechismo deriva dall’esperienza del catecumenato della Chiesa dei primi secoli e riprende gli elementi fondamentali che fanno di una persona un cristiano: la fede, i Sacramenti, i comandamenti, il Padre nostro».

Non basta ancora. La nuova evangelizzazione avrà successo solo se sarà capace di «educare al silenzio e all’interiorità» e diventare scuola di preghiera. Tutto questo non è facile ma, come Benedetto XVI ha detto molte volte, un aiuto può venire - tanto più a Roma - dal fatto che molte persone, pure lontane dalla Chiesa, sono affascinate dallo splendore dell'arte cristiana. «Il patrimonio di storia e arte che Roma custodisce - ha ripetuto il Pontefice - è una via ulteriore per avvicinare le persone alla fede. Invito tutti a fare tesoro nella catechesi di questa "via della bellezza" che conduce a Colui che è, secondo S. Agostino [354-430] la Bellezza tanto antica e sempre nuova». Il tema è stato approfondito in un documento del Pontificio Consiglio della Cultura, «La Via pulchritudinis» del 2006, e oggi non va mai sottovalutato. In mezzo a tante brutture, la via della bellezza può essere la prima strada della nuova evangelizzazione.


Chesterton contro la superstizione del divorzio di Marco Respinti, 14-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/

Nel 1920, Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) pubblicò un gran bel libro, La superstizione del divorzio (trad. it., a cura di Pietro Federico, San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2011), sviluppato a partire da cinque articoli usciti su The New Witness, il settimanale che il polemista inglese diresse dal 1916 al 1923. Fu infatti su quelle pagine che prese forma la visione politica ed economica che accomunava Chesterton al suo grande amico e sodale Hilaire Belloc (1870-1953) - il padre del periodico, fondato nel 1911 con il titolo The Eye-Witness -, la quale trovò poi piena espressione nell’ulteriore riformulazione del giornale, dal 1925 chiamato G.K.’s Weekly. Chesterton lo diresse fino alla morte e  lì nacquero alcuni dei saggi più riusciti e significativi della sua produzione, fra cui quel “manifesto” del suo pensiero che fu, nel 1927, The Outline of Sanity, edito in italiano come Il profilo della ragionevolezza (trad. it., Lindau, Torino 2011).

La superstizione del divorzio fu scritto e pubblicato prima della conversione di Chesterton al cattolicesimo, avvenuta nel 1922, ed è un’appassionata tanto quanto ragionevole apologia del vincolo matrimoniale e della famiglia in gran parte basata su argomentazioni di tipo naturale  e razionale. Il suo nucleo centrale è la difesa dell’amore tra uomo e donna come realizzazione piena dell’umanità della persona contro le forze disgregatrici dell’antiumanesimo, un baluardo di civiltà che si erge a difesa dell’umano contro ogni potere avverso e che quindi - è quasi una premessa culturale alla conversione religiosa di Chesterton - trova la sua massima espressione nella dimensione sacramentale. Di più: in Chesterton il matrimonio e la famiglia sono persino un “programma” poltico-economico contro - mai titolo è più azzeccato - le superstizioni  alimentate dalle ideologie che, nessuna esclusa, prospettano un uomo falsamente bastevole a se stesso, anarchico, disordinato, misura solipsistica del creato, solo.

Per questo sorprende che in una recensione apparsa su Avvenire l’11 giugno sia attribuita a Chesterton l’idea (così il titolo) che il divorzio è «roba di destra». Quasi che difendere matrimonio e famiglia fosse “roba di sinistra”. Stigmatizzando la «distorsione ideologica» che ne fa «un autore conservatore, “di destra”, araldo di visioni “reazionarie” su temi quali l’islam, la bioetica, l’economia», l’autore sostiene che tutto sta in questa frase di Chesterton: «Se è vero che il Socialismo attacca la famiglia in teoria, è ancor più sicuro che il Capitalismo lo fa nella pratica».

Ora, a parte il fatto che nei quasi cent’anni intercorsi tra il 1920 britannico in cui lo scrittore inglese pubblicava questo suo aureo libro e il 2011 globalizzato in cui esso esce finalmente in italiano “il socialismo” ha dimostrato di essere capacissimo di passare dalle parole ai fatti, è l’identificazione acritica fra spirito conservatore ed economia capitalista che va stretta a Chesterton.

Senza dubbio a Chesterton il termine “capitalismo” piaceva ben poco. Generico, di origine marxista, sostanzialmente denigratorio, esso concentra tutta l’attenzione sulla produzione  dimenticandosi del produttore: la persona umana che delle transazioni “capitaliste” è l’attore.

Ne Il profilo della ragionevolezza, dove più compiutamente che altrove egli ragiona di economia politica, Chesterton scrive che «capitalismo è una bruttissima parola». Ma questo soprattutto «perché altre persone la usano intendendo altro». C’è per esempio chi pensa «che si riferisca a qualsiasi cosa comporti l’uso di capitale. Ma se quest’uso è troppo letterale, il termine capitalismo diventa troppo generico e pertanto troppo ampio». Infatti, «se l’uso del capitale è capitalismo, allora tutto quanto lo è. Il bolscevismo è capitalismo e il comunismo anarchico è capitalismo; e ogni disegno rivoluzionario, per quanto estremo, è sempre capitalismo».

Per contro, c’è chi invece sembra «servirsene per indicare semplicemente la proprietà privata», di cui Chesterton, fedele al magistero cattolico, era uno strenuo difensore.  Tanto da spiegarsi così: «Se capitalismo significa proprietà privata, io sono un capitalista. Se capitalismo significa capitale, tutti sono capitalisti». Infatti, «la verità è che ciò che chiamiamo capitalismo dovrebbe essere chiamato proletarismo».

Ciò che Chesterton denuncia nei sistemi politico-ideologici è cioè sempre la riduzione economicistica dell’uomo, la visione materialistica dei rapporti sociali, la schiavizzazione del lavoro umano mediante concentrazione dei beni e della proprietà nelle mani di pochi, siano questi le cricche (eventualmente anche assistenzialistiche) dello Stato (servile, come lo definiva Belloc) o i colossi privati che negano l’essenza stessa dell’uomo proprietario e signore del creato, nonché la mercificazione delle interazioni umane che hanno - appunto - nel matrimonio e nella famiglia il primo e l’ultimo nemico.

Quando Chesterton scrive che l’illusione prometeica della liberazione divorzista è un cavallo di battaglia della dottrina e della prassi socialcomunista e liberalcapitalista espone una raffinata endiadi: utilizza due espressioni sorelle che rafforzano il medesimo concetto con toni da gran conservatore della dottrina cattolica sull’uomo e sul creato. Chesterton e i suo amici - il citato Belloc e il padre domenicano irlandese Vincent McNabb (1868-1943) – lo chiamavano distributismo (o “distribuzionismo”) e si fondava sull’idea che la proprietà privata andasse diffusa fra gli uomini a macchia d’olio: «Troppo capitalismo non significa troppi capitalisti - osservava Chesterton in The Uses of Diversity: A Book of Essays (1920) -, ma troppo pochi capitalisti». Difensori, grazie alla diffusione delle proprietà privata, di quei grandi antidoti naturali alle ideologie socio-politiche che sono il matrimonio e la famiglia.


PERCHÈ, NONOSTANTE TUTTO, VALE LA PENA METTER SU FAMIGLIA (I) - Un libro che riesce a far amare i coniugi al di là dei loro difetti di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 14 giugno 2011 (ZENIT.org).- E’ arrivato il libreria un volumetto scritto da Pierluigi Bartolomei, con il titolo “Mogli, mariti e figli come so’…te li pigli” (Il Castello editore) (www.ilcastelloeditore.it).
Si tratta di una raccolta di storie matrimoniali di vita vissuta, storie vere, dove ciascuno potrebbe ritrovare una propria esperienza personale e magari cominciare, se non l’ha mai fatto, a ridere di se stesso, vedendo le vicende della propria vita in una dimensione diversa, più ironica.
Il comico e eonduttore televisivo Pippo Franco scrive nell’introduzione: “'Come in Cielo così in Terra' è una visione della realtà che presuppone l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Questo lavoro di Pierluigi Bartolomei si basa sulle piccole cose della Terra proprio per esprimere quelle grandi che si possono sintetizzare nel concetto di amore”.
Vista attraverso il suo lato ironico infatti, “l’esperienza umana e, in modo particolare, quella della famiglia, è sempre paradossale. Se poi consideriamo l’aspetto quotidiano della vita, il paradosso diventa una chiave di lettura fondamentale per comprendere”.
Alla fine del libro capiremo che il momento in cui ci siamo innamorati davvero di nostra moglie o di nostro marito è stato forse quando abbiamo imparato ad amare i suoi difetti.
In un momento in cui sembra che la famiglia naturale venga insidiata da tutte le parti, con un numero di separazioni e divorzi che solo in Italia sta raggiungendo la soglia dei 400 al giorno, il libro di Bernabei è un toccasana, perchè riesce a disinnescare con ironia e affetto quel meccanismo infernale che è la drammatizzazione.
Come ha sottolineato Pippo Franco, l’autore è riuscito a montare “un simpatico mosaico di avvenimenti divertenti e imprevedibili, che ti fanno capire che le piccole cose, cioè i piccoli fatti di una famiglia di gente che si vuole bene, sono regolati da un’inevitabile scontro che finisce sempre con un’amorevole quanto ironica intesa”.
E’ vero che in molti casi, passato il tempo dell’innamoramento, sembra che nel matrimonio non funzioni più niente, ma come hanno scritto Riccardo & Benedetta due lettori che hanno anche messo su famiglia, nelle conclusioni al libro: “pare che la percentuale di divorzi aumenti considerevolmente nelle seconde nozze e ancora di più nelle terze e così via. Ciò significa che il problema non si risolve cambiando coniuge”.
A questo proposito, la madre di Pierluigi, romana de Roma, dice: “Se devo cambià Peppe co’ Peppe, allora me tengo Peppe mio”.
Per conoscere la parte lieta della vita matrimoniale, ZENIT ha intervistato Pierluigi Bartolomei, 49 anni, laurea in Economia e commercio, cinque figli, “romano de Roma”, figlio di un poliziotto, Gregorio, e della sora Margherita, un passato da aspirante attore cinematografico e una forte passione per il teatro, specialmente per il cabaret.
È  Direttore della Scuola di Formazione Elis e per le edizioni Ares ha già pubblicato I ragazzi di via Sandri, storie ordinarie di alcuni allievi della scuola professionale della periferia romana. Attualmente sta portando in tutta Italia uno spettacolo di cabaret che riguarda l’amore tra i coniugi (www.ilform-attore.it).
Come mai oggi basta niente per vedere coppie sposate andare dall’avvocato per chiedere la separazione?
Bartolomei: Un mio amico è stato costretto a divorziare per un giudizio poco elegante sulla camicetta della sua giovane consorte in presenza di alcune amiche di lei.
“Ma questa camicetta non era la stessa che hai indossato lo scorso anno?” diceva il malcapitato.
La moglie per tutta risposta gli fece scrivere dal suo avvocato e alla fine si sono separati.
E’ come se uno non va a lavorare perchè pioviggina, oppure decide di non studiare perchè non ne ha voglia e magari pretende di fare tredici senza aver giocato la schedina.
Quel famoso atto della volontà si chiama “Un amore per sempre” e richiede un mix tra ossessione, istinto e razionalità.
Il tutto sostenuto da una certa disciplina.
Ma se non ti sei mai allenato prima rischi lo strappo, una lesione o peggio ancora qualche frattura, magari pure scomposta.
L’allenamento deve essere giorno per giorno senza farlo somigliare ad un tour de force ma lieve e costante come fosse una dieta alimentare equilibrata.
E’ più debole il legame matrimoniale, sono più fragili le persone o è limitato il senso dell’ironia e dell’ottimismo?
Bartolomei: Il legame matrimoniale è sempre lo stesso perchè fatto davanti a Dio.
Le persone sono sempre più fragili perchè il benessere è talmente abbondante e in costante crescita che nessuno ha più tanta voglia di fare sacrifici se non per se stesso.
Work life balance anzichè work family balance.Vi è il predominio dell’io e la cura esasperata per la propria persona, per l’estetica.
Stando ai fatti è un processo irreversibile ma speriamo che sia come per i pantaloni a campana e che prima o poi la moda giri e si torni a ragionare convenientemente.
Di sicuro noi cristiano non possiamo stare più in silenzio facendo finta di non vedere, lascianado cadere o peggio ancora assecondando certi ragionamenti.
Poi pregare molto sicuramente di più di quanto stiamo facendo. Sull’ironia esiste una bella frase di Hermann Hesse "Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell'uomo a prendere sul serio la propria persona". Noi ci sentiamo spesso invincibili e troppo autoreferenziali. Senza Gesù al centro della nostra vita e senza il suo perdono frequente non possiamo far nulla.
Quali sono le ragioni per cui vale la pena metter su famiglia?
Bartolomei: Se siamo veramente sinceri fino in fondo non ci sono ragioni vere e proprie.
Non riesco ad immaginare un uomo e una donna che ragionano a tavolino non si sa bene quando, a che età e se fissano degli obiettivi come farebbe qualsiasi manager o un buon politico nelle proprie agende di lavoro.
La molla che scatena tutto compresa la famosa scintilla è l’amore che nasce innanzitutto da una forte attrazione il più delle volte accompagnata da una discreta consapevolezza di quello che si sta facendo e della meta verso la quale si è destinati con il matrimonio.
“Purtroppo” nella nostra vita Nostro Signore si è divertito prevedendo l’insorgere di un periodo più o meno lungo che si chiama adolescenza e che può durare in alcuni casi anche fino alla mezza età.
Ci innamoriamo e non vogliamo ascoltare nessuna ragione, non siamo disposti a farci consigliare neanche dai nostri cari.
L’innamoramento ahimè dura due anni, è scientificamente provato, in alcuni casi può durare qualcosa in più ma poi si torna inevitabilmente con i piedi per terra e si deve scegliere necessariamente con un atto della volontà.
Il fidanzamento è la fase più critica e infatti le parrocchie destinano molta attenzione ai fidanzati.
Lo stesso dovrebbero fare i genitori.
Meglio presidiare tale periodo che ostinarsi a stressare i figli facendo i compiti che assegna la scuola al loro posto.
Le ragioni per cui vale la pena metter su famiglia le scopriamo dopo a gara iniziata e forse è giusto così.
Prima del fischio di inizio bisogna soltanto avere molto coraggio e sperare che il mondo non finirà mai nonostante le previsioni più disastrose dei vari cialtroni opinionisti.
[Mercoledì 15 agosto, la seconda parte dell'intervista]

PERCHÈ, NONOSTANTE TUTTO, VALE LA PENA METTER SU FAMIGLIA (II) - Un libro che riesce a far amare i coniugi al di là dei loro difetti di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 15 giugno 2011 (ZENIT.org).- Ilteatro può anche essere un'occasione per mogli e mariti per ridere delle loro miserie personali e incontrare Dio. E' quanto affermaPierluigi Bartolomei, autore del volume “Mogli, mariti e figli come so’…te li pigli” (Il Castello editore), che ha portato in scena uno spettacolo di cabaret sull’amore tra i coniugi (www.ilform-attore.it).
Nella seconda parte di questa intervista Bartolomei descrivele virtù della famiglia e racconta una storia divertente tratta dal suo libro.
La prima parte è stata pubblicata il 14 giugno.
Lei sta portando in tutta Italia uno spettacolo di vabaret che riguarda l’amore tra i coniugi. Ce ne parli? Perché lo fa? Quali sono gli obiettivi che intende raggiungere?
Bartolomei: Tutto nasce dal mio lavoro di Preside in una scuola border line, la Scuola Professionale del Centro ELIS di Roma. Ogni volta che ascolto le confidenze dei miei alunni mi accorgo che i loro problemi esistenziali nascono per il 90% in famiglia o meglio tra le mura domestiche perchè di famiglia vera e propria ce n'è molto poca. La percentuale di separazioni e divorzi è in velocissimo aumento e ha secondo me oltrepassato abbondantemente il 50% dei matrimoni almeno in Europa.
Nella mia scuola è difficile trovare famiglie unite e dove i rapporti interpersonali sono spesso conflittuali i figli sono i primi a restare segnati per il resto dei loro giorni di vita.
La vera emergenza è perciò la famiglia ed io spesso mi commuovo immaginando i loro pesi spesso poggiati sulle fragili spalle di ragazzini con appena 14 anni di età e già in quello stato da diversi anni. Non godere di alcun affetto tattile da parte dei genitori impegnati soltanto a discutere con i loro avvocati dev’essere un’esperienza atroce che ti taglia le gambe.
Perchè devo andare a scuola, perchè devo prendere dei bei voti se poi nessuno mi chiede com’è andata o mi incoraggia e mi consiglia? Perchè? Il mondo è nelle nostre mani diceva san Josemaria, fondatore dell’Opus Dei, e noi in qualche modo ne siamo complici e sono certo dovremo rendere conto alla fine della fiera. Gli obiettivi che mi prefiggo sono semplicemente quelli di creare un’occasione attraverso il teatro affinchè mogli e mariti ridano delle loro miserie personali e incontrino Dio per convertirsi.
Quali sono, secondo le, le virtù umane e sociali della famiglia? 
Bartolomei: Non ci sono virtù della famiglia ma esistono virtù dei singoli all’interno della famiglia. Ma dove vogliamo che uno impari lo spirito di servizio se non sperimentandolo a tavola servendo l’acqua o tagliando il pane prima di tutto per i propri familiari e poi per se stesso. Perchè sono così importanti le vacanze attive piuttosto che quelle orizzontali dove si sta anche un mese consecutivo in posizione orizzontale passiva, sdraiato sotto il sole al mare, magari indossando la canottiera e il pantaloncino con l’infradito per tutto il mese di agosto come un barbone per poi tornare al lavoro o a scuola ridotti come fossimo dei poveri rottami.
La famiglia è il luogo principe dell’apprendimento i cui maestri dovrebbero essere i genitori che grazie all’affetto per i loro figli hanno tutto l’interesse di dimostrare sul campo come ci si dovrebbe comportare. I genitori non hanno altra strada che il loro esempio senza parlare troppo. Anzi direi che più parlano più non fanno il loro dovere di maestri. Devono però prendere la decisione di sforzarsi per essere coerenti e questo lo debbono fare ogni giorno in proprio e per se stessi non basta averlo dichiarato un giorno d’estate di tanti anni fa.
Ci racconti una storia, tra quelle scritte nel libro, che possa ispirarci allegria e riso.
Bartolomei: Il matrimonio di una mia amica, una storia veramente accaduta. Finalmente stava tornando nuovamente l’estate, il clima si era addomesticato e con la bella stagione i miei pensieri erano ormai andati in ferie. Una mattina, citofona il portiere che mi avvisa di una lettera in carta pergamena. Scendo e la apro insieme a mia moglie scoprendo che si trattava di una partecipazione ad un matrimonio.
“Ma proprio a noi doveva capità, chi saranno e perché ce vogliono rovinà, ma che javemo fatto de male”. Mia moglie: “E adesso che mi metto? Non ho niente. E tu che ti metti?”. Le rispondo: “Io ho il fresco di lana che va bene anche d’estate. Piuttosto la lista di nozze pare che stia a Roma nord mentre noi siamo a sud, bisogna sbrigasse così troviamo ancora tutto e ce la caviamo con 'na cornicetta d’argento. Altrimenti toccherà comprargli la statua del moro di Venezia o i servizi in oro zecchino”. Nella partecipazione siamo addirittura testimoni di nozze della sposa mentre per lo sposo vengono indicati due amici carissimi, lui un ingegnere di quelli che spaccano il capello in quattro parti.
La destinazione è Subiaco, un paesino a pochi chilometri da Roma, al Sacro Speco, una delle principali mete di pellegrinaggio per tantissimi devoti. Telefono a Roberto, l’ingegnere, per mettermi d’accordo sulla partenza da Roma che si dimostra subito poco conciliante sul programma: “Dobbiamo partire alle 5,45 se vogliamo arrivare in tempo e con leggero anticipo su tutti essendo i testimoni”. Rispondo: “Alle 5,45 di mattina? Ma non sarà un pò presto? In fondo Subiaco è a una trentina di chilometri da Roma. Mica dovemo annà a caccia”. La replica di Roberto è fulminea: “Ma sei pazzo? Devi calcolare la varianza, lo scostamento quadratico medio se proprio vuoi star tranquillo”. Gli dico: “ Non ho capito……., che dovemo fa?” Mi dice: “Ma Pierluigi mi meraviglio di te, possibile che non prevedi nulla, proprio nulla…e se per esempio quando arrivi al casello non hai i soldi spicci e magari a quell’ora il casellante non ha il resto? Oppure se dovessi forare una gomma e magari non sei pratico per non parlare che potresti non ricordare dov’è collocato il cric nella tua macchina, se non l’hai mai usato prima? O se per esempio subisci un tamponamento e devi fare il cid ma non ce l’hai e magari l’altro non concilia e vuole chiamare la municipale che arriva non prima di un’ora? Insomma potrebbe capitare di tutto e sono cose normali, ti assicuro”. Gli dico: “ma lo sai che non ci avevo pensato, hai proprio ragione, forse dovremo anticipare di una mezz’ora per stare proprio tranquilli”.
Partimmo alle 5,45 puntuali ed io avevo i soldi spicci, il cid a portata di mano e i piedi sciolti e pronti ad una frenata morbida per evitare eventuali tamponamenti. Non successe nulla e alle 6,20 eravamo a Subiaco. “E mò che famo? Annamo a svejà la sposa?”. Ci siamo addormentati in macchina fino alle 12 poi dopo una veloce sistemata eravamo in posizione, inginocchiati e con lo sguardo fisso verso l’altare aspettando l’ingresso degli sposi che non tardò ad arrivare.
Si udì dapprima la classica marcia nuziale e quindi l’ingresso dalla navata centrale dello sposo, un ufficiale di marina in alta uniforme, accompagnato dalla madre, una donna sui 75 anni con un vestito celeste di seta morbida e un cappello di colore intonato  a falde larghe. Lei fiera e visibilmente commossa, cammina con scarsa sicurezza anche perché indossa un paio di scarpe con dei tacchi altissimi che probabilmente non è abituata a portare. Arrivata in prossimità dell’altare deve scendere tre scalini, particolarmente levigati e poco regolari tra loro. L’ultimo gradino le risulta fatale e all’improvviso prende un volo staccandosi dal suolo e ricadendo di peso sulla povera schiena.
Dico a mia moglie: “Manuela, è cascata la vecchia”. Lei impietrita mi risponde: “Non ti muovere, siamo testimoni”. Gli dico: “Ma si sarà fatta male, magari è pure morta, qui ce danno omissione de soccorso e annamo a finì pure in galera”. Mia moglie: “Pierluigi, ti ripeto fermo, possibile non ti rendi conto? Siamo i testimoni di matrimonio”. Io: “Siamo i testimoni di una sciagura, io vado e cerco di metterla in salvo”. Dico alla signora: “Si è fatta male?”. Mi risponde: “Mi ha visto qualcuno?”. Replico: “A Signò, ce stanno almeno 500 persone in basilica”.
La cerimonia ha il suo epilogo e gli sposi sono pronti ad uscire dalla chiesa per ricevere gli applausi di tutti gli invitati. Il picchetto d’onore è pronto e i marinai hanno innalzato le loro spade formando un tunnel entro il quale i  novelli sposi devono passare così come vuole la tradizione. Alla fine del picchetto due energumeni subbiacensi pronti con dei sacchi di riso da 50 chili per “festeggiare” il matrimonio come da usanza popolare. I due poveretti vengono impallinati a tal punto da sembrare due supplì maxi farciti. Alla fine si va tutti al ristorante e qui l’ultima sorpresa.
Il papà della sposa prega i camerieri di entrare con la torta, una palazzina di 10 piani di morbidezza che viene posta al centro del tavolo nuziale. Uno dei portantini apre il tetto ma non succede nulla e allora viene scosso il baldacchino per cercare di recuperare, ma ancora nulla. A questo punto un cameriere infila una mano all’interno della torta e tira fuori con fatica due piccioni che sarebbero dovuti volare in alto provocando lo stupore dei commensali. I piccioni raggiungono invece un’altitudine piuttosto modesta, poco al di sopra delle nostre teste e si capisce guardandoli che non avevano una gran voglia di farsi il solito giretto. Erano ormai giunti al loro trecentesimo matrimonio e se avessero potuto ci avrebbero mandato tutti a quel paese.
Le feste, le tradizioni e tutto quello che c’è intorno al matrimonio non finirà mai di stupirci. Sono quelle occasioni che ti fanno parlare per altri dieci anni ed è così bello riconoscersi tra le tantissime testoline nelle famose foto di gruppo assieme alla zia Cornelia, zio Paolino, il cuginetto Franco e i nonni vestiti sempre fuori moda. Tu, lei, magari eravate gli sposi oppure come in questo caso i testimoni, più giovani di adesso. E quel pranzo che non finiva mai e non ti potevi nemmeno alzare o magari toglierti la cravatta. Riuscivi soltanto ad allentarti un po la cinta dei pantaloni dopo la sedicesima portata e con molta prudenza, di nascosto, senza essere visti. Le macchine fiammanti, lucidate per l’occasione e con il nastrino bianco fissato sull’antenna e poi tutti perfettamente in fila, guai a perdere la posizione. Peee, peeeee, pepeee, i clacson a palla e in barba ai regolamenti della strada, “siamo al matrimonio di Francesca e Peppino”. Ma c’eravamo davvero o eravamo semplici figuranti ingaggiati per la realizzazione di una scena di massa?


L'ultima zampata di Zapatero di Julio J. Gòmez, 15-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/

Il ministro della Sanità Leire Pajín, visto ormai che il tempo di Zapatero al governo sta per scadere, ha presentato in via di urgenza il progetto di “Legge per l'Uguaglianza e la Non Discriminazione”, in modo tale che i termini legali si riducano della metà e la legge possa essere approvata in questa legislatura.

L'opposizione di centro destra e i nazionalisti catalani e baschi, però, hanno respinto la via veloce per la norma, e perciò sarà difficile che venga varata sotto il governo attuale. Il ministro Pajin, cha ha assunto le competenze dello scomparso ministero dell'Uguaglianza, ritiene che questa legge è la ciliegina sulla torta di una legislatura in cui il governo socialista ha approvato la legge sull'aborto libero, ha voluto modificare la legge sulla libertà religiosa e sta elaborando la legge per la “morte degna”.

«Il Governo, invece di risolvere gli infiniti problemi reali dei cittadini, continua a farsi la guerra da solo e crea più problemi», secondo il parlamentare navarro Carlos Salvador. La ragioni per cui deputati hanno rifiutato l’approvazione veloce della legge è semplice: si tratta di una norma complessa e c'è di più tempo per studiarla, soprattutto quando organi diversi e importanti hanno espresso la propria perplessità davanti a una legge che potrebbe limitare alcune libertà fondamentali ed è stata “battezzata” come “Legge Grande Fratello”. L’articolo 14 della Costituzione spagnola riconosce il reato di discriminazione per “ragione di nascita, razza, sesso, religione, opinione o qualsiasi altra condizione o circostanza personale o sociale”.

La nuova legge di Zapatero pretende di aggiungere altri motivi come “l’aspetto fisico, l’obesità, la brutezza, la malattia, la pelle scura, la disabilità, l’età e l’orientamento o l’identità sessuale”. L’intenzione della legge è “prevenire e sradicare qualsiasi motivo di discriminazione e proteggere le vittime, cercando di coniugare la prevenzione con la repressione, ed estendere la tutela contro la discriminazione per ogni motivo e in tutti gli ambiti”, con lo scopo di creare una società “diversa e plurale”. Nonostante, ci sia il sospetto che l’obiettivo ultimo di questa legge sia dotare il Governo socialista di uno strumento per il controllo ideologico dei cittadini e della loro libertà di espressione, e per l’estensione dell’ideologia di genere e per gli interessi della lobby gay.

Il Governo nominerà, inoltre, dei funzionari incaricati di vigilare sull’attuazione della norma. Questa era una delle richieste principali della lobby gay, che ritiene la legge di uguaglianza sterile se non è accompagnata da figure in grado di vigilare e sanzionare i comportamenti e le opinioni eterodosse. Le multe saranno dai 300€ ai 500.000€. Non c'è praticamente nessun spazio della vita sociale in grado di sfuggire alla legge di uguaglianza: occupazione, affitto, associazioni, educazione, sanità, servizi sociali, mezzi di comunicazione… Il progetto di legge resuscita anche metodi illiberali: l’inversione dell'onere di prova, cioè, la scomparsa della presunzione di innocenza. L’accusato dovrà provare la sua innocenza, invece di essere l’accusatore a provare la sua colpevolezza. Il ruolo di inquirente ricadrà su una nuova figura chiamata “Autorità per l’uguaglianza del trattamento e la non discriminazione”, che nasce con funzioni precise: sostenere i discriminati, ricercare, per proprio conto, l’esistenza di eventuali situazioni di discriminazione, esercitare delle azioni giudiziarie, sollicitare l’intervento delle Pubbliche Amministrazioni e vigilare sull'attuazione della norma. I cittadini, da parte loro, dovranno “prestare la necessaria collaborazione con le autorità, portando ogni tipo di informazione e di dati, perfino dati di persone senza il loro consenso”.

Il punto su cui la legge ha provocato maggiori polemiche è, senz’altro, l’ambito educativo. Si prevede di ritirare il finanziamento pubblico ai collegi di educazione differenziata, cioè, le scuole in cui i bambini e le bambine studiano separatamente. Il Consiglio di Stato, il Tribunale Supremo e il Ministero dell'Educazione, hanno però avvertito che questa misura sarebbe illegale, perché infrange una legge superiore, la Legge Organic di Educazione del 2006, e una sentenza del Tribunale Supremo, secondo la quale “non si può associare l’insegnamento separato di bambini e bambine con la discriminazione per ragione di sesso”. In Spagna ci sono circa 170 centri educativi, con 85.000 allievi, che educano bambini e bambine in aule separate. Il modello di educazione differenziata ha una sua base scientifica e pedagogica: due neuro scienziati israeliani, Reuwen e Anat Achiron, hanno rilevato con uno scanner che la parte del cervello delle bambine di quattro anni equivale in termini di maturità a quella di un bambino di sei anni. Per il loro sviluppo naturale, le bambine scrivono prima e meglio, dispongono di un vocabolario più ricco e leggono con più facilità, avendo un grande vantaggio nei primi anni della scuola. I bambini, però, recuperano nell’adolescenza sotto l’influsso del testosterone nel cervello, come spiega Maria Calvo, insegnante di Diritto Amministrativo all’università Carlos III e preside in Spagna dell’ European Association Single-Sex Education: “A partire dalle Medie, i bambini mostrano una capacità più grande per il pensiero logico-matematico e per i ragionamenti astratti. Ciò spiega la loro preferenza per gli studi tecnici, come l’architettura e l'ingegneria”.

Argomenti insopportabili per i promotori dell’ideologia di genere, secondo i quali le differenze tra i sessi sono costruzioni sociali e culturali. L’educazione differenziata è un'opzione pedagogica in aumento in molti paesi. Obama ha aumentato le sovvenzioni a più di 450 scuole pubbliche che separano gli allievi per sessi, per i loro migliori risultati accademici. Nel Regno Unito ci sono 1902 scuole differenziate, e 416 ricevono soldi pubblici. E dei 100 collegi con migliori risultati in questo paese, 81 sono centri differenziate. Capita lo stesso nel Canada, dove 10 delle 16 scuole con migliori voti erano differenziate, e in Australia, paese in cui gli allievi dell’educazione differenziata ottengono risultati tra il 15% e il 22% migliori delle scuole miste. Secondo l’associazione “Hazte Oír”, la legge per l'Uguaglianza e la Non Discriminazione attacca alcuni diritti fondamentali come la libertà dei genitori di scegliere l'educazione dei loro figli. La stessa opinione è stata manifestata da esperti come il cattedratico di Diritto Jesus María Santos Vijande: “Il progetto ha una concezione così espansiva del diritto all’uguaglianza che potrebbe invadere altri diritti fondamentali. Come si può conciliare la previsione della legge di ritirare il finanziamento pubblico dei centri che escludono i loro allievi in funzione del loro sesso, con il diritto fondamentale alla libertà di creazione di centri educativi e il diritto ad avere un’ideologia propria, secondo l’articolo 27.6 della Costituzione?”

In un’intervista concessa al giornalista Suso del Toro nel 2007, il presidente Zapatero dichiarò: “Se c’è qualcosa che caratterizza questo governo è che c’è un progetto. Proprio perche c’è un progetto, c’è una resistenza inutile e attiva della destra più dura. Si sono resi conti che c’è un progetto grande con dei valori culturali, e perciò ideologici, che può definire l’identità sociale e storica della Spagna moderna per molto tempo”. Non c’è dubbio che il progetto di legge per l'Uguaglianza e la Non Discriminazione, con le altre leggi approvate da Zapatero negli ultimi sette anni, sono parte di questo progetto di ingegneria sociale orientato a cambiare i valori culturali della Spagna.


Avvenire.it, 15 giugno 2011 - FACCIAMOLI NASCERE - Aborti e abbandoni di neonati - C'è una rete per le madri sole di Viviana Daloiso

In Rete, l’allarme lanciato venerdì scorso da un’ampia inchiesta di Repubblica s’è già trasformato in un fenomeno globale. Basterà digitare "madre segreta" o "bimbi abbandonati" ed ecco la scoperta: l’Italia «è il Paese dei parti anonimi». E – pare – trattasi di un altro primato da dimenticare. Con «oltre 400 casi e un aumento del 20% ogni anno» gli abbandoni di bimbi (vivi) negli ospedali sono l’ennesimo dramma di cui ci siamo macchiati. Perché? Per un motivo su tutti, secondo il quotidiano (o almeno per il suo referente, Pilar Saradia, responsabile immigrazione della Uil del Lazio): le straniere, protagoniste indiscusse del fenomeno, «ignorano che l’aborto è legale, così la nascita non voluta è l’unica alternativa».

E qui – almeno secondo noi – occorre ricominciare da capo. Dai numeri, intanto.
Parlare di oltre 400 abbandoni di bambini in ospedale (la fonte non è citata, ma è quella del ministero della Giustizia, che ogni anno stila un rapporto e che per il 2011 ha stimato i casi in 445) come di un “allarme” pare davvero eccessivo, almeno rispetto alle cifre registrate negli anni passati: per capirci meglio, lo stesso numero di oltre 400 è stato rilevato, per esempio, nel 1995, nel 1997, nel 2000, nel 2003, mentre negli intervalli di tempo i casi calavano, di volta in volta, a 300, 320, 340. Il fenomeno, in termini statistici, non ha disegnato cioè negli ultimi quindici anni una curva ascendente, ma s’è presentato piuttosto come disomogeneo.

Senza contare che le cifre ci vedono in una situazione decisamente migliore rispetto ai nostri vicini di casa: in Francia la media di casi di abbandono ogni anno si aggira attorno ai 600; in Germania attorno ai 100, ma in compenso sono quasi 10mila i bimbi tra i 3 e i 5 anni – come confermato dal ministero della Famiglia – lasciati soli da genitori "problematici"; in Russia una tragedia, con 100mila abbandoni ogni anno.

Quell’aumento del 20% non è poi affatto un dato nazionale o stabile. Si riferisce, in realtà, allo specifico caso di Roma e provincia, dove soltanto l’anno scorso s’è registrato – secondo il Policlinico Casilino – un numero "record" di abbandoni: 60 e tutti (pare) nella stessa struttura. Ebbene, negli ospedali di Milano e provincia, di Monza e di tutta la Brianza, l’anno scorso i casi sono stati 24 e si sono dimezzati rispetto a tre anni fa: a questa stregua, prendendo in esame solo Milano, dovremmo poter dire che gli abbandoni nel nostro Paese sono diminuiti del 50% (e non lo facciamo).

Ma anche ragionando in termini di persone, e non di numeri – come pure ad Avvenire piace fare –, qualcosa non torna. Quale “allarme” o “contraddizione” possono costituire 400 donne in gravissime difficoltà che invece di rinunciare a una gravidanza decidono di offrire un futuro alla vita che portano in grembo? E questo a costo dell’immenso dolore di vedersela “portare via”, quella vita. Un lutto che nei consultori, nei Cav e nelle sedi delle associazioni conoscono molto bene: «Si tratta di una sofferenza indicibile – spiega Marta Malinverno di Madre Segreta, il servizio "ad hoc" attivo dal 1996 grazie alla collaborazione tra Provincia e volontariato –, un evento che le segnerà tutta la vita».

Le madri segrete sono ragazze straniere, sì, ma non solo: sempre a Milano e provincia, per esempio, l’anno scorso erano 12 e 12. Identikit del tutto diversi: una minorenne, una decina tra i 18 e i 24, le altre sopra i 30. Motivazioni, pure, diversissime: familiari, psicologiche, economiche. Un solo punto in comune: «Nessuna si presenta in ospedale col desiderio di abortire, all’opposto – continua la Malinverno –. Ed è più facile che le madri segrete siano “disinformate” sui servizi di appoggio che esistono per la loro gravidanza che sull’aborto».

Servizi che rappresentano una conquista di civiltà per il nostro Paese. Come le 36 "culle per la vita" presenti sul territorio, i 10.070 bambini nati l’anno scorso nei 205 (dei 331) Centri di aiuto alla vita (una media di 49 bimbi “salvati” a struttura), le 14.614 donne gestanti assistite. E come i 2.600 consultori, le centinaia di servizi pubblici e privati che li appoggiano, le numerose iniziative delle amministrazioni territoriali a favore della maternità (dal progetto lombardo Nasko ai fondi inaugurati recentemente da Comuni come Modena e Correggio). Unico obiettivo: evitare l’aborto, che è una sconfitta per tutti, e che è l’unico vero allarme "trasversale" che si può lanciare nel Paese – questo sì – delle culle vuote. A causa di quella scelta, l’anno scorso, sono state 116mila in più.
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Avvenire.it, 15 giugno 2011 – INTERVISTA - Il primario: «La disinformazione c’è ma sui servizi alla vita» di Lucia Bellaspiga

Le chiamano “madri segrete”: mettono al mondo un figlio e poi spariscono, lasciandolo in ospedale, alle cure di chi saprà allevarlo meglio di loro. Di solito evitano di guardarlo, sanno che un incrocio di sguardi potrebbe bastare per farle tornare sui propri passi e non se lo possono permettere. O almeno ne sono convinte, perché invece spesso basterebbe un aiuto economico e una presenza amica per rendere possibile l’impossibile. Così «se ne vanno, curve su se stesse, sole come sono arrivate», scriveva la Repubblica il 10 giugno, per arrivare infine al proprio assioma: tutto ciò avviene perché nessuno le informa del fatto che possono abortire. «L’informazione non è sufficiente», denunciava il giornale, «molte straniere arrivano da Paesi dove l’aborto è fuorilegge» come il Perù, così se quei bambini riescono a vedere la luce è “colpa” dell’«informazione che non c’è, non passa»...
Alessandra Kustermann è primario al Pronto soccorso ostetrico e ginecologico della Mangiagalli di Milano, nonché responsabile del Soccorso violenza sessuale e domestica. Medico laico e non obiettore.

Perché queste giovani donne scelgono di dare il proprio figlio in adozione, anziché abortirlo? Davvero per ignoranza?
Secondo me le donne che scelgono di affidarlo ad altri non sono le stesse che potrebbero anche scegliere di abortire: hanno caratteristiche psicologiche, sociali e culturali diverse. Possono essere state lasciate dal padre del bambino durante la gravidanza, oppure si sono accorte di non essere in grado di far fronte economicamente e psicologicamente alla nascita di un bambino. Sono donne fragili, insomma, ed è la fragilità a impedire loro di divenire madri in quella fase particolare della loro vita, ma non pensano di ricorrere all’aborto.

Preferiscono abbandonare il figlio, piuttosto...
Non è giusto parlare di “abbandono”, è un termine che spesso non le descrive. Di fatto sono donne – almeno molte di loro – che provano un forte amore per quel bambino e pensano che la famiglia che lo adotterà saprà garantirgli un futuro migliore e più equilibrato di quanto non sarebbero in grado di fare loro. Sono persone in qualche modo eroiche. Vorrei far passare un messaggio di apprezzamento per la loro scelta.

Una scelta comunque sofferta. E l’alternativa o addirittura la via preferibile non è certo indurle all’aborto. Che fare dunque?
Sarebbe molto utile se in tutte le lingue venissero pubblicizzati i punti in cui è possibile lasciare un bambino in sicurezza, ad esempio.

Per evitare l’orrore dei cassonetti, dove alcune vite appena nate vengono gettate come un rifiuto?
Certamente, anche se quelli sono casi rari, dovuti alle donne più disperate o probabilmente a pazienti psichiatriche: in genere le madri che non hanno la forza di tenersi i propri bambini li lasciano vicino a un supermercato o sui gradini di una chiesa. La maggior parte di loro li vestono bene, li coprono e li mettono bene in vista, dove saranno facilmente trovati e presto accuditi.

Che cosa ne pensa dell’ipotesi che non ricorrano all’aborto perché ne ignorano la possibilità?
Da millenni le donne hanno sempre conosciuto le tecniche abortive, anche quando la legge lo vietava e lo facevano in clandestinità. Sanno bene di avere accesso all’interruzione di gravidanza, ma queste di cui parliamo hanno scelto un’altra strada. Il problema allora non è far sapere che in Italia l’aborto è gratuito e anonimo e vi possono accedere anche le donne irregolari: per le madri che vorrebbero tenere il figlio è molto più importante pubblicizzare ovunque, sui treni, nei metrò, le possibilità di aiuti economici dallo Stato e dalle singole Regioni, per le altre, invece, il loro diritto a non riconoscerlo e quindi all’anonimato, con la possibilità di cambiare idea entro un certo arco di tempo.

C’è chi le possa guidare in questo percorso, chi le supporta affinché non si debbano presto pentire della rinuncia fatta?
In Mangiagalli può essere attivato un servizio che offre il consulto di assistenti sociali, psicologi e uno psichiatra, che le consigliano e informano su tutto il novero delle possibilità.


Il cervello dei nostri avi era più grande. E allora? di Marco Respinti, 15-06-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Negli ultimi 10mila anni il cervello dell’uomo si è ridotto del 10%. Lo afferma la professoressa Marta Lahr, biologa e antropologa, condirettore del Leverhulme Centre for Human Evolutionary Studies dell’Università di Cambdridge. Il passaggio dell’uomo dalla condizione di cacciatore-raccoglitore (nomadica, o comunque caratterizzata da forte mobilità) a quella di agricoltore ha infatti prodotto modifiche profonde negli stili di vita in grado di incidere non meno radicalmente sulla sua struttura fisica e ha pure dato origine a quegli insediamenti stabili che, fra l’altro, hanno favorito una diffusione maggiore e più rapida delle patologie responsabili della diminuzione della sua dimensione corporea (come documenta uno studio di Amanda Mummert, antropologa della Emory University di Atlanta, di cui ha parlato anche il Sunday Times) a cui corrisponde appunto la riduzione della massa cerebrale. «Forse dipende dal fatto», dice la professoressa Mahr, «che il cervello assorbe circa un quarto dell’energia prodotta dal corpo. Calando le dimensioni fisiche calano anche quelle cerebrali».

Ora, che tra preistoria e storia l'uomo di Cro-Magnon sia andanto rimpicciolendosi e che le dimensioni del cerebro umano siano cosneguentemente passate dai circa 1500 centimetri cubici di ieri agli attuali 1350 potrebbe sembrare una notizia per pochi specialisti; ma quando la cosa finisce sulla prima pagina di un grande quotidiano nazionale, La Stampa del 13 giugno, significa che le sue implicazioni sono universalmente rilevanti (anche perché, di per sé, la notizia non è nuovissima).

Infatti la scoperta di Cambridge anzitutto mostra - per via osservabile e sperimentale, cioè a norma di metodo scientifico - che l’intelligenza dell’uomo non deriva dall’aumento delle dimensioni del suo cervello, che le sue qualità specifiche non sono né riducibili né relative alle sue quantità materiali, insomma che una delle caratteristiche specifiche e ineguagliabili che fanno l’uomo quel che esso è (e irriducibilmente diverso dal resto dei viventi) non dipende solo dalla materia.

In secondo luogo la ricerca della professoressa Lahr sottolinea bene che ciò che oggi la scienza ci propone di credere come verità incontrovertibile può essere il contrario esatto della verità che altrettanto incontrovertibilmente ci proponeva di credere ieri o ci proporrà di credere domani.