mercoledì 1 giugno 2011

Nella rassegna stampa di oggi:

  1. Avvenire.it, 29 maggio 2011 - L'INTERVENTO - Fede e ragione: la sconfitta di Heidegger
  2. Sogno americano di Lorenzo Albacete, mercoledì 1 giugno 2011, il sussidiario.net
  3. Lo psicanalista Risè parla dei problemi dei figli di coppie omosessuali - 31 maggio, 2011, http://www.uccronline.it
  4. Il filosofo Richard Schröder contro gli argomenti di Richard Dawkins, 31 maggio, 2011, da http://www.uccronline.it
  5. «Effetto nebbia» contro la vita di Tommaso Scandroglio, 31-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
  6. Sposarsi fa bene al portafogli di Marco Respinti, 01-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
  7. NUOVI STUDI SUGLI STATI VEGETATIVI: UN AIUTO PER CAPIRE I DISTURBI DI COSCIENZA - il 31 maggio 2011, da http://www.blogscienzaevita.org/
  8. "Indovina: è dolce o salato?" - TUTTOSCIENZE - "Per gli studi sugli inganni del gusto sono stato premiato da Obama" di MARTA PATERLINI – http://www3.lastampa.it/


 

L'UDIENZA GENERALE, 01.06.2011 - CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA - Mosè


 

Cari fratelli e sorelle!


 

leggendo l'Antico Testamento, una figura risalta tra le altre: quella di Mosè, proprio come uomo di preghiera. Mosè, il grande profeta e condottiero del tempo dell'Esodo, ha svolto la sua funzione di mediatore tra Dio e Israele facendosi portatore, presso il popolo, delle parole e dei comandi divini, conducendolo verso la libertà della Terra Promessa, insegnando agli Israeliti a vivere nell'obbedienza e nella fiducia verso Dio durante la lunga permanenza nel deserto, ma anche, e direi soprattutto, pregando.


 

Egli prega per il Faraone quando Dio, con le piaghe, tentava di convertire il cuore degli Egiziani (cfr Es 8–10); chiede al Signore la guarigione della sorella Maria colpita dalla lebbra (cfr Nm 12,9-13), intercede per il popolo che si era ribellato, impaurito dal resoconto degli esploratori (cfr Nm 14,1-19), prega quando il fuoco stava per divorare l'accampamento (cfr Nm 11,1-2) e quando serpenti velenosi facevano strage (cfr Nm 21,4-9); si rivolge al Signore e reagisce protestando quando il peso della sua missione si era fatto troppo pesante (cfr Nm 11,10-15); vede Dio e parla con Lui «faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (cfr Es24,9-17; 33,7-23; 34,1-10.28-35).


 

Anche quando il popolo, al Sinai, chiede ad Aronne di fare il vitello d'oro, Mosè prega, esplicando in modo emblematico la propria funzione di intercessore. L'episodio è narrato nel capitolo 32 del Libro dell'Esodo ed ha un racconto parallelo in Deuteronomio al capitolo 9. È su questo episodio che vorrei soffermarmi nella catechesi di oggi, e in particolare sulla preghiera di Mosè che troviamo nella narrazione dell'Esodo. Il popolo di Israele si trovava ai piedi del Sinai mentre Mosè, sul monte, attendeva il dono delle tavole della Legge, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti (cfr Es 24,18; Dt 9,9).


 

Il numero quaranta ha valore simbolico e significa la totalità dell'esperienza, mentre con il digiuno si indica che la vita viene da Dio, è Lui che la sostiene. L'atto del mangiare, infatti, implica l'assunzione del nutrimento che ci sostiene; perciò digiunare, rinunciando al cibo, acquista, in questo caso, un significato religioso: è un modo per indicare che non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore (cf Dt 8,3). Digiunando, Mosè mostra di attendere il dono della Legge divina come fonte di vita: essa svela la volontà di Dio e nutre il cuore dell'uomo, facendolo entrare in un'alleanza con l'Altissimo, che è fonte della vita, è la vita stessa.


 

Ma mentre il Signore, sul monte, dona a Mosè la Legge, ai piedi del monte il popolo la trasgredisce. Incapaci di resistere all'attesa e all'assenza del mediatore, gli Israeliti chiedono ad Aronne: «Fa' per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell'uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es 32,1). Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosè, il mediatore, è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile, toccabile, del Signore, e trova nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile, alla portata dell'uomo. È questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti. Quanto avviene al Sinai mostra tutta la stoltezza e l'illusoria vanità di questa pretesa perché, come ironicamente afferma il Salmo106, «scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba» (Sal 106,20). Perciò il Signore reagisce e ordina a Mosè di scendere dal monte, rivelandogli quanto il popolo stava facendo e terminando con queste parole: «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,10). Come con Abramo a proposito di Sodoma e Gomorra, anche ora Dio svela a Mosè che cosa intende fare, quasi non volesse agire senza il suo consenso (cfr Am 3,7). Dice: «lascia che si accenda la mia ira». In realtà, questo «lascia che si accenda la mia ira» è detto proprio perché Mosè intervenga e Gli chieda di non farlo, rivelando così che il desiderio di Dio è sempre di salvezza. Come per le due città dei tempi di Abramo, la punizione e la distruzione, in cui si esprime l'ira di Dio come rifiuto del male, indicano la gravità del peccato commesso; allo stesso tempo, la richiesta dell'intercessore intende manifestare la volontà di perdono del Signore. Questa è la salvezza di Dio, che implica misericordia, ma insieme anche denuncia della verità del peccato, del male che esiste, così che il peccatore, riconosciuto e rifiutato il proprio male, possa lasciarsi perdonare e trasformare da Dio. La preghiera di intercessione rende così operante, dentro la realtà corrotta dell'uomo peccatore, la misericordia divina, che trova voce nella supplica dell'orante e si fa presente attraverso di lui lì dove c'è bisogno di salvezza.


 

La supplica di Mosè è tutta incentrata sulla fedeltà e la grazia del Signore. Egli si riferisce dapprima alla storia di redenzione che Dio ha iniziato con l'uscita d'Israele dall'Egitto, per poi fare memoria dell'antica promessa data ai Padri. Il Signore ha operato salvezza liberando il suo popolo dalla schiavitù egiziana; perché allora – chiede Mosè – «gli Egiziani dovranno dire: "Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla faccia della terra"?» (Es 32,12). L'opera di salvezza iniziata deve essere completata; se Dio facesse perire il suo popolo, ciò potrebbe essere interpretato come il segno di un'incapacità divina di portare a compimento il progetto di salvezza. Dio non può permettere questo: Egli è il Signore buono che salva, il garante della vita, è il Dio di misericordia e perdono, di liberazione dal peccato che uccide. E così Mosè fa appello a Dio, alla vita interiore di Dio contro la sentenza esteriore. Ma allora, argomenta Mosè con il Signore, se i suoi eletti periscono, anche se sono colpevoli, Egli potrebbe apparire incapace di vincere il peccato. E questo non si può accettare. Mosè ha fatto esperienza concreta del Dio di salvezza, è stato inviato come mediatore della liberazione divina e ora, con la sua preghiera, si fa interprete di una doppia inquietudine, preoccupato per la sorte del suo popolo, ma insieme anche preoccupato per l'onore che si deve al Signore, per la verità del suo nome. L'intercessore infatti vuole che il popolo di Israele sia salvo, perché è il gregge che gli è stato affidato, ma anche perché in quella salvezza si manifesti la vera realtà di Dio. Amore dei fratelli e amore di Dio si compenetrano nella preghiera di intercessione, sono inscindibili. Mosè, l'intercessore, è l'uomo teso tra due amori, che nella preghiera si sovrappongono in un unico desiderio di bene.


 

Poi, Mosè si appella alla fedeltà di Dio, rammentandogli le sue promesse: «Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: "Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre"» (Es 32,13). Mosè fa memoria della storia fondatrice delle origini, dei Padri del popolo e della loro elezione, totalmente gratuita, in cui Dio solo aveva avuto l'iniziativa. Non a motivo dei loro meriti, essi avevano ricevuto la promessa, ma per la libera scelta di Dio e del suo amore (cfr Dt 10,15).


 

E ora, Mosè chiede che il Signore continui nella fedeltà la sua storia di elezione e di salvezza, perdonando il suo popolo. L'intercessore non accampa scuse per il peccato della sua gente, non elenca presunti meriti né del popolo né suoi, ma si appella alla gratuità di Dio: un Dio libero, totalmente amore, che non cessa di cercare chi si è allontanato, che resta sempre fedele a se stesso e offre al peccatore la possibilità di tornare a Lui e di diventare, con il perdono, giusto e capace di fedeltà. Mosè chiede a Dio di mostrarsi più forte anche del peccato e della morte, e con la sua preghiera provoca questo rivelarsi divino. Mediatore di vita, l'intercessore solidarizza con il popolo; desideroso solo della salvezza che Dio stesso desidera, egli rinuncia alla prospettiva di diventare un nuovo popolo gradito al Signore. La frase che Dio gli aveva rivolto, «di te invece farò una grande nazione», non è neppure presa in considerazione dall'"amico" di Dio, che invece è pronto ad assumere su di sé non solo la colpa della sua gente, ma tutte le sue conseguenze. Quando, dopo la distruzione del vitello d'oro, tornerà sul monte per chiedere di nuovo la salvezza per Israele, dirà al Signore: «E ora, se tu perdonassi il loro peccato! Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto» (v. 32). Con la preghiera, desiderando il desiderio di Dio, l'intercessore entra sempre più profondamente nella conoscenza del Signore e della sua misericordia e diventa capace di un amore che giunge fino al dono totale di sé.


 

In Mosè, che sta sulla cima del monte faccia a faccia con Dio e si fa intercessore per il suo popolo e offre se stesso, i Padri della Chiesa hanno visto una prefigurazione di Cristo, che sull'alta cima della croce realmente sta davanti a Dio, non solo come amico ma come Figlio.


 

E non solo si offre, ma con il suo cuore trafitto si fa cancellare, diventa, come dice san Paolo stesso, peccato, porta su di sé i nostri peccati per rendere salvi noi; la sua intercessione è non solo solidarietà, ma identificazione con noi: porta tutti noi nel suo corpo. E così tutta la sua esistenza di uomo e di Figlio è grido al cuore di Dio, è perdono, ma perdono che trasforma e rinnova.


 

Penso che dobbiamo meditare questa realtà. Cristo sta davanti al volto di Dio e prega per me. La sua preghiera sulla Croce è contemporanea a tutti gli uomini, contemporanea a me: Egli prega per me, ha sofferto e soffre per me, si è identificato con me prendendo il nostro corpo e l'anima umana. E ci invita a entrare in questa sua identità, facendoci un corpo, uno spirito con Lui, perché dall'alta cima della Croce Egli ha portato non nuove leggi, tavole di pietra, ma ha portato se stesso, il suo corpo e il suo sangue, come nuova alleanza. Così ci fa consanguinei con Lui, un corpo con Lui, identificati con Lui. Ci invita a entrare in questa identificazione, a essere uniti con Lui nel nostro desiderio di essere un corpo, uno spirito con Lui. Preghiamo il Signore perché questa identificazione ci trasformi, ci rinnovi, perché il perdono è rinnovamento, è trasformazione.


 

Vorrei concludere questa catechesi con le parole dell'apostolo Paolo ai cristiani di Roma: «Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dall'amore di Cristo? […] né morte né vita, né angeli né principati […] né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,33-35.38.39).

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana


 


 

L'esempio di Mosè, uomo di preghiera di Massimo Introvigne, 01-06-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it


 

Proseguendo la sua «scuola della preghiera» del mercoledì, il 1 giugno 2011 Benedetto XVI ha meditato sulla figura dell'«uomo di preghiera» per eccellenza dell'Antico Testamento: Mosè. «Il grande profeta e condottiero del tempo dell'Esodo - ha detto il Papa - ha svolto la sua funzione di mediatore tra Dio e Israele facendosi portatore, presso il popolo, delle parole e dei comandi divini, conducendolo verso la libertà della Terra Promessa, insegnando agli Israeliti a vivere nell'obbedienza e nella fiducia verso Dio durante la lunga permanenza nel deserto, ma anche, e direi soprattutto, pregando».


 

Tutte le volte che la Scrittura ci presenta Mosè, ce lo mostra mentre prega. «Egli prega per il Faraone quando Dio, con le piaghe, tentava di convertire il cuore degli Egiziani (cfr Es 8–10); chiede al Signore la guarigione della sorella Maria colpita dalla lebbra (cfr Nm 12,9-13), intercede per il popolo che si era ribellato, impaurito dal resoconto degli esploratori (cfr Nm 14,1-19), prega quando il fuoco stava per divorare l'accampamento (cfr Nm 11,1-2) e quando serpenti velenosi facevano strage (cfr Nm 21,4-9); si rivolge al Signore e reagisce protestando quando il peso della sua missione si era fatto troppo pesante (cfr Nm 11,10-15); vede Dio e parla con Lui "faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico" (cfr Es24,9-17; 33,7-23; 34,1-10.28-35)». Ma il Pontefice, privilegiando sempre le «pagine difficili» della Bibbia, ha voluto soffermassi su un episodio particolare. «Anche quando il popolo, al Sinai, chiede ad Aronne di fare il vitello d'oro, Mosè prega, esplicando in modo emblematico la propria funzione di intercessore».


 

L'episodio è narrato nel capitolo 32 del Libro dell'Esodo e ha un racconto parallelo nel Deuteronomio al capitolo 9. Quella che interessa in particolare al Papa è «la preghiera di Mosè che troviamo nella narrazione dell'Esodo». Conosciamo il contesto: «il popolo di Israele si trovava ai piedi del Sinai mentre Mosè, sul monte, attendeva il dono delle tavole della Legge, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti (cfr Es 24,18; Dt 9,9)». Già questi due elementi - i quaranta giorni e il digiuno - meritano una riflessione. «Il numero quaranta ha valore simbolico e significa la totalità dell'esperienza, mentre con il digiuno si indica che la vita viene da Dio, è Lui che la sostiene. L'atto del mangiare, infatti, implica l'assunzione del nutrimento che ci sostiene; perciò digiunare, rinunciando al cibo, acquista, in questo caso, un significato religioso: è un modo per indicare che non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore (cf Dt 8,3)». Lo stesso Mosè, il capo degli Israeliti, partecipa a questo grande gesto collettivo del digiuno. E, «digiunando, Mosè mostra di attendere il dono della Legge divina come fonte di vita: essa svela la volontà di Dio e nutre il cuore dell'uomo, facendolo entrare in un'alleanza con l'Altissimo, che è fonte della vita, è la vita stessa».


 

Sappiamo però - l'episodio è familiare a tutti i lettori della Bibbia, ma il Papa lo riassume - che «mentre il Signore, sul monte, dona a Mosè la Legge, ai piedi del monte il popolo la trasgredisce. Incapaci di resistere all'attesa e all'assenza del mediatore, gli Israeliti chiedono ad Aronne: "Fa' per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell'uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto" (Es 32,1)». Nasce così l'idolo, il vitello d'oro. «Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosè, il mediatore, è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile, toccabile, del Signore, e trova nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile, alla portata dell'uomo».


 

Di vitelli d'oro, ha spiegato Benedetto XVI, è pieno anche il nostro mondo contemporaneo. Infatti, «è questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti». La tentazione è ricorrente nella storia, ma questo non la rende meno stolta. «Quanto avviene al Sinai mostra tutta la stoltezza e l'illusoria vanità di questa pretesa perché, come ironicamente afferma il Salmo 106, "scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba" (Sal 106,20)». Così Dio rivela a Mosè - come aveva fatto con Abramo nell'episodio di Sodoma, di cui il Papa ha parlato in una precedente catechesi - che il castigo è vicino. «Anche ora Dio svela a Mosè che cosa intende fare, quasi non volesse agire senza il suo consenso (cfr Am 3,7). Dice: "lascia che si accenda la mia ira"». Ma «questo "lascia che si accenda la mia ira" è detto proprio perché Mosè intervenga e Gli chieda di non farlo, rivelando così che il desiderio di Dio è sempre di salvezza.


 

Come per le due città dei tempi di Abramo, la punizione e la distruzione, in cui si esprime l'ira di Dio come rifiuto del male, indicano la gravità del peccato commesso; allo stesso tempo, la richiesta dell'intercessore intende manifestare la volontà di perdono del Signore. Questa è la salvezza di Dio, che implica misericordia, ma insieme anche denuncia della verità del peccato, del male che esiste, così che il peccatore, riconosciuto e rifiutato il proprio male, possa lasciarsi perdonare e trasformare da Dio».


 

Benedetto XVI torna sulla catechesi di quindici giorni prima su Sodoma perché il tema è sia importante sia difficile da capire per l'uomo del XXI secolo, incline a confondere la bontà con il buonismo. Gli adoratori del vitello d'oro, come gli abitanti di Sodoma, hanno davvero meritato il castigo. In quanto restaura la giustizia, il castigo è a suo modo espressione della bontà di Dio perché è bene che la giustizia si manifesti. Tuttavia la preghiera del giusto può anche aprire la strada a una manifestazione straordinaria della misericordia divina. «La preghiera di intercessione rende così operante, dentro la realtà corrotta dell'uomo peccatore, la misericordia divina, che trova voce nella supplica dell'orante e si fa presente attraverso di lui lì dove c'è bisogno di salvezza».


 

Ma come la preghiera del giusto - in questo caso Mosè - può far prevalere la misericordia? «La supplica di Mosè - osserva Benedetto XVI - è tutta incentrata sulla fedeltà e la grazia del Signore. Egli si riferisce dapprima alla storia di redenzione che Dio ha iniziato con l'uscita d'Israele dall'Egitto, per poi fare memoria dell'antica promessa data ai Padri. Il Signore ha operato salvezza liberando il suo popolo dalla schiavitù egiziana; perché allora – chiede Mosè – "gli Egiziani dovranno dire: 'Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla faccia della terra'?" (Es 32,12). L'opera di salvezza iniziata deve essere completata; se Dio facesse perire il suo popolo, ciò potrebbe essere interpretato come il segno di un'incapacità divina di portare a compimento il progetto di salvezza. Dio non può permettere questo: Egli è il Signore buono che salva, il garante della vita, è il Dio di misericordia e perdono, di liberazione dal peccato che uccide».


 

Questa è appunto una pagina difficile della Bibbia, perché a prima vista sembra che Mosè non solo mercanteggi con Dio - come aveva fatto Abramo a proposito di Sodoma - ma quasi lo minacci di mettere in dubbio la sua giustizia. In effetti, «Mosè fa appello a Dio, alla vita interiore di Dio contro la sentenza esteriore. Ma allora, argomenta Mosè con il Signore, se i suoi eletti periscono, anche se sono colpevoli, Egli potrebbe apparire incapace di vincere il peccato. E questo non si può accettare. Mosè ha fatto esperienza concreta del Dio di salvezza, è stato inviato come mediatore della liberazione divina e ora, con la sua preghiera, si fa interprete di una doppia inquietudine, preoccupato per la sorte del suo popolo, ma insieme anche preoccupato per l'onore che si deve al Signore, per la verità del suo nome. L'intercessore infatti vuole che il popolo di Israele sia salvo, perché è il gregge che gli è stato affidato, ma anche perché in quella salvezza si manifesti la vera realtà di Dio», che del resto accompagna tutta la straordinaria storia d'Israele.


 

Il dialogo con Dio di Mosè, che è «l'intercessore» e non è un qualunque fedele, va capito esattamente. «L'intercessore non accampa scuse per il peccato della sua gente, non elenca presunti meriti né del popolo né suoi, ma si appella alla gratuità di Dio: un Dio libero, totalmente amore, che non cessa di cercare chi si è allontanato, che resta sempre fedele a se stesso e offre al peccatore la possibilità di tornare a Lui e di diventare, con il perdono, giusto e capace di fedeltà. Mosè chiede a Dio di mostrarsi più forte anche del peccato e della morte, e con la sua preghiera provoca questo rivelarsi divino». Vero intercessore, Mosè è disposto a prendere su di sè il peccato del popolo. «Mediatore di vita, l'intercessore solidarizza con il popolo»; «è pronto ad assumere su di sé non solo la colpa della sua gente, ma tutte le sue conseguenze». Così, «l'intercessore entra sempre più profondamente nella conoscenza del Signore e della sua misericordia e diventa capace di un amore che giunge fino al dono totale di sé».


 

Chiaramente qui già si annuncia la missione di Gesù Cristo. «In Mosè, che sta sulla cima del monte faccia a faccia con Dio e si fa intercessore per il suo popolo e offre se stesso - "cancellami" -, i Padri della Chiesa hanno visto una prefigurazione di Cristo, che sull'alta cima della croce realmente sta davanti a Dio, non solo come amico ma come Figlio». Gesù, naturalmente, si situa su un livello qualitativamente diverso da Mosè. Il Signore «non solo si offre - "cancellami" -, ma con il suo cuore trafitto si fa cancellare, diventa, come dice san Paolo stesso, peccato, porta su di sé i nostri peccati per rendere salvi noi; la sua intercessione è non solo solidarietà, ma identificazione con noi: porta tutti noi nel suo corpo». Immersi in un'epoca di nuovi vitelli d'oro, ha detto il Pontefice, «penso che dobbiamo meditare questa realtà». I vitelli d'oro rischiano di portarci fuori strada e la tentazione - pure smascherata dalla Parola di Dio nella sua intrinseca stoltezza - talora è davvero molto forte. Ma non abbiamo solo l'esempio e la preghiera degli intercessori e dei santi come Mosè.


 

In Gesù Cristo ho la certezza di poter vincere la tentazione del vitello d'oro. Egli «prega per me, ha sofferto e soffre per me, si è identificato con perché dall'alta cima della Croce Egli ha portato non nuove leggi, tavole di pietra, ma ha portato se stesso, il suo corpo e il suo sangue, come nuova alleanza. Così ci fa consanguinei con Lui, un corpo con Lui, identificati con Lui. Ci invita a entrare in questa identificazione, a essere uniti con Lui nel nostro desiderio di essere un corpo, uno spirito con Lui». Per chi accetta questo dono del Signore, non ci sono più vitelli d'oro che possano sviarlo.


 

Il Papa ha concluso con le parole di san Paolo: «Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dall'amore di Cristo? […] né morte né vita, né angeli né principati […] né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,33-35.38.39).


 


 

Avvenire.it, 29 maggio 2011 - L'INTERVENTO - Fede e ragione: la sconfitta di Heidegger


 

Premetto la mia inadeguatezza a questo tema e specialmente a trattarlo con voi: non ho infatti alcuna vera formazione scientifica, mentre per la filosofia e la teologia sto cercando di ricuperare una pausa di 25 anni. Ho però sempre avuto un grande interesse alle scienze, come terreno fondamentale del confronto tra fede e ragione oggi; inoltre i miei studi si concentrano attualmente sulla questione di Dio, che per sua natura ha a che fare con tutto l'umano, inclusa la comprensione delle scienze. Vi esporrò dunque, con poca organicità, alcune idee e convinzioni che mi sembrano significative. La prima di esse riguarda l'importanza delle scienze, che emerge di continuo nella nostra vita. Sappiamo tutti, inoltre, che le scienze, e gli uomini di scienza, hanno oggi un grande peso presso l'opinione pubblica, tanto che si parla di una loro leadership culturale. Ma io mi riferisco a qualcosa di diverso e, per così dire, di più intrinseco: i procedimenti euristici che caratterizzano le scienze moderne ci consentono una nuova e più precisa conoscenza dell'indole e dei modi di procedere della nostra intelligenza. Sono quindi assai rilevanti per la gnoseologia e in genere per la filosofia. Se è vero che la riflessione sulle scienze moderne consente alla ragione una nuova e più approfondita comprensione di se stessa, ne risulta confermata l'indole storica della nostra ragione, nel senso del suo progressivo rivelarsi a se stessa.


 

Una seconda considerazione, in certo senso complementare alla prima, è che il rapporto della fede, e della teologia, con le scienze ha bisogno di essere mediato dalla filosofia: in concreto da un esercizio della ragione filosofica che, da una parte, è «interno» alla teologia, poiché la teologia è fides quaerens intellectum; dall'altra parte deve essere autonomo rispetto alla fede e alla teologia, perché la filosofia è autonoma o non è filosofia. Qui ci imbattiamo però nella celebre obiezione di Heidegger (nella sua Introduzione alla metafisica), secondo la quale l'«interrogarsi» proprio della filosofia e il «credere» proprio della teologia sono due atteggiamenti che si escludono reciprocamente, perché il credente non può porsi la domanda fondamentale della filosofia («Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?») senza rinunciare al suo atteggiamento di credente.


 

Egli può solamente comportarsi «come se» si interrogasse, dato che ha già nella fede la risposta a quella domanda, che per lui è dunque superflua. In realtà questa tesi di Heidegger dimentica ciò che distingue la fede autentica dal fanatismo e dal convenzionalismo, ossia l'amore per la verità e la ricerca sincera di essa, la sincerità con noi stessi. Il credente può conservarsi cioè coerente con la propria fede soltanto se si chiede senza finzioni che cosa crede e perché crede. La fede, dunque, non solo rimane aperta alla domanda radicale della filosofia ma, pur dandole una precisa risposta, al tempo stesso la ripropone continuamente al proprio interno. Già san Tommaso, del resto, afferma che il credere è atto dell'intelletto, avendo per oggetto il vero, la verità divina, ma precisa contestualmente che tale atto si compie per il comando della volontà mossa dalla grazia di Dio e attratta dal bene della vita eterna promessa al credente. Perciò è caratteristico della fede che in essa l'assenso e l'indagine procedano «quasi ex aequo»: l'assenso fermissimo dell'intelligenza alla verità, provenendo non dall'evidenza intrinseca di ciò che si crede ma dalla decisione della volontà, lascia infatti spazio all'ulteriore indagine e all'inquietudine intellettuale. In certo senso, san Tommaso ha dunque prevenuto il problema sollevato da Heidegger. (...)


 

Torniamo ora a riflettere sui rapporti tra la fede e la ragione, accolta e valorizzata in questa sua ampiezza. Al riguardo mi ritrovo pienamente nella posizione di Joseph Ratzinger, secondo il quale il razionalismo ha fallito nel suo tentativo di dimostrare le premesse della fede – i praeambula fidei – mediante una ragione rigorosamente indipendente dalla fede, e sono ugualmente destinati a fallire altri eventuali tentativi analoghi. A sua volta, però, è fallito il tentativo opposto di Karl Barth di concepire la fede come un puro paradosso, che può sussistere solo in una totale indipendenza dalla ragione. In realtà «la ragione non si risana senza la fede, ma la fede senza la ragione non diventa umana». Dobbiamo dunque sforzarci di costruire un nuovo rapporto tra fede e ragione, fede e filosofia, perché esse hanno bisogno l'una dell'altra. Ciò non comporta alcuna confusione tra fede e ragione, teologia e filosofia, e tanto meno un circolo vizioso che volesse dimostrare la ragione con la fede e la fede con la ragione. Si tratta piuttosto di tener presente, anche qui, l'unità del soggetto umano, razionale, libero e credente.


 

Di fronte a quella dicotomia che nell'epoca moderna tende spesso a instaurarsi tra l'«oggettività» della ragione e la «soggettività» della fede, va ricordato, come sottolineava già Hegel (sia in Credere e sapere sia nell'Introduzione alla storia della filosofia), che la frattura, o l'antagonismo, tra soggettività e oggettività costituisce forse il più grave problema della stessa epoca moderna: un problema che oggi abbiamo più che mai bisogno di lasciare alle nostre spalle, superandolo a partire dalla struttura stessa del soggetto umano, con la sua apertura all'essere e al dono della fede. (...) La nascita e lo sviluppo delle scienze moderne ha portato inoltre con sé un radicale cambiamento dell'immagine sia dell'universo sia anche dell'uomo, cambiamento con il quale la riflessione filosofica non può non confrontarsi.


 

In concreto, la filosofia è divenuta esistenziale e storica, considera l'uomo non solo secondo le sue strutture essenziali bensì nella concretezza del suo vivere e morire: pur essendosi assai allontanata e spesso contrapposta alla teologia, almeno da questo punto di vista essa è diventata in certo senso più affine alla teologia stessa. Giovanni Paolo II, nell'enciclica Dives in misericordia (n. 1), ci ha offerto un criterio di grande validità ed efficacia per il nostro rapportarci al pensiero moderno. Scrive infatti: «Mentre le varie correnti del pensiero umano sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda». E aggiunge: «Questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante del magistero dell'ultimo Concilio». Così è superata in radice la visione catastrofale della modernità antropocentrica – alla quale la nostra filosofia e teologia hanno dato nel passato uno spazio troppo grande –, a condizione però di cambiare segno all'antropocentrismo, rendendolo non alternativo ma tendenzialmente coincidente con il teocentrismo. (...)


 

Charles Taylor, nel suo libro L'età secolare, sostiene con buoni argomenti che, sebbene non esista alcun rapporto automatico tra modernità e perdita o diminuzione della fede in Dio, si è verificato tuttavia nella società occidentale un cambiamento decisivo, che ha raggiunto dimensioni di massa verso la metà dell'Ottocento, e che consiste nel passaggio da una società nella quale era «virtualmente impossibile non credere in Dio, ad una in cui anche per il credente più devoto credere in Dio è solo una possibilità umana – un'opzione – tra le altre».


 

La ragione fondamentale di questo passaggio per Taylor non è principalmente di ordine teoretico, ma è consistita nell'affermarsi, nella vita concreta personale e sociale, di un «umanesimo esclusivo», per il quale la piena realizzazione di noi stessi, il «fiorire dell'uomo» non ha più bisogno di Dio o riferimento a Dio. A una sfida di questo genere non si può rispondere limitandosi a criticare la sensibilità attuale, mettendone in evidenza gli indubbi limiti e contraddizioni. Bisogno soprattutto attingere alla ricchezza della proposta cristiana su Dio e sull'uomo per offrire a questa sensibilità una possibilità di realizzazione ben più piena e più grande. In concreto, la cosiddetta «riduzione dei desideri» sembra essere la via imboccata dalla nostra civiltà, in maniera sempre più chiara e consapevole negli ultimi decenni. Rinunciamo, cioè, a soddisfare quell'«anelito di pienezza» che portiamo dentro di noi, per prendere invece atto della nostra precarietà e finitezza, adeguando ad esse i nostri obiettivi e le nostre attese. In questo modo però il «fiorire dell'uomo» non può essere che un fiorire molto modesto, difficilmente attraente e tanto meno appagante, specialmente in un tempo come il nostro nel quale le esigenze del soggetto sono esaltate al di là di ogni limite ragionevole. Vi è in tutto ciò una logica profonda: se Dio non esiste e l'uomo è solo nell'universo, viene semplicemente dalla natura e alla natura ritorna – una natura che non sa niente di lui e non si cura di lui –, è difficile pensare che sia possibile soddisfare in qualche modo il nostro «anelito di pienezza».


 

Non per caso, dunque, la post-modernità ha sviluppato una critica spesso spietata (valida da un lato, troppo radicale e «nichilista» dall'altro) nei confronti della modernità, anzitutto riguardo alla sua pretesa di autosufficienza del soggetto umano. I credenti hanno nel Dio che è intelligenza e amore, e che ha pronunciato in Gesù Cristo un sì definitivo nei confronti dell'umanità (cfr. 2Cor 1, 17-22), la base per aprire la loro vita a desideri più grandi, per coltivare, insieme all'umiltà, la virtù della magnanimità, che non teme di puntare ad obiettivi anche molto alti. E ciò riguarda ciascuno di noi, dentro le coordinate concrete della sua esistenza. Riguarda le scelte di vita ma anche, e non meno, le idee e i convincimenti (da questo punto di vista l'analisi di Taylor è un po' unilaterale e può essere ben integrata, ad esempio, con le riflessioni di Rémi Brague, La Saggezza del mondo. Storia dell'esperienza umana dell'Universo, come riconosce lo stesso Taylor). Riguarda in maniera peculiare chi, come voi, oggi intende dedicarsi alla ricerca scientifica nell'ampio orizzonte aperto dalla fede nel Dio di Gesù Cristo e da una razionalità non ristretta. L'augurio, e la preghiera, con cui vorrei terminare è che ciascuno di noi non abbia paura e non esiti a motivare e «saldare» il suo lavoro quotidiano con quella fiducia in Dio che rende possibile essere generosi con noi stessi e con gli altri.

Camillo Ruini

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Sogno americano di Lorenzo Albacete, mercoledì 1 giugno 2011, il sussidiario.net


 

Mentre è in atto la battaglia nel Partito Repubblicano per la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, appare chiaro che l'immigrazione illegale sarà una delle questioni su cui i candidati concentreranno le critiche alla Amministrazione Obama.

Nel frattempo, il presidente comincia a esplicitare alcuni elementi di una politica diretta ad attrarre gli ispanici e le altre minoranze, senza allontanare completamente gli elettori che si oppongono fermamente a ogni politica che sembri minimizzare la gravità del problema e la conseguente minaccia per la sicurezza e la sovranità nazionale.

In un articolo di prima pagina sul New York Times (30 maggio 2011), la giornalista Julia Preston descrive come il presidente Obama stia abbandonando l'impostazione di George W. Bush, centrata sull'arresto, l'incarcerazione o l'immediata espulsione dei clandestini che lavorano senza documenti, mettendo in pratica invece una politica di crescenti e pesanti multe per i datori di lavoro che impiegano immigrati clandestini. Le pene prevedono multe in crescita esponenziale, fino alla prigione.

In una recente azione contro questo tipo di datori di lavoro, sono stati arrestati 42 lavoratori e sequestrati libri contabili e altri documenti. Tuttavia, all'avvio del processo, nessun lavoratore è stato portato davanti al giudice, mentre sono stati processati il proprietario dell'impresa e il suo contabile. Se riconosciuti colpevoli di tutte le accuse, la condanna potrebbe essere di 80 anni di galera (si confronti tutto ciò con l'azione ordinata dall'Amministrazione Bush in Iowa, dove 300 clandestini furono arrestati e portati, pubblicamente ammanettati, in una prigione federale).

Cosa dobbiamo pensare? Occorre ricordare che, a differenza dell'Europa, gli Stati Uniti sono una nazione composta da immigrati e che ha sempre invitato gli immigrati alla ricerca della libertà a eleggervi la propria dimora. Allo stesso tempo, però, nessuna nazione può sopravvivere con i propri confini totalmente aperti. Si deve perciò trovare un modo per cui questo invito sia conciliabile con la necessità di confini sicuri. La natura di questo processo di conciliazione sta dando luogo a un serio scontro culturale tra gli americani.

Sebbene il dibattito si riferisca a tutti gli immigrati, le preoccupazioni maggiori riguardano gli immigrati ispanici o latinos, in continuo crescente aumento. Coloro che insistono sull'applicazione di norme più severe sull'immigrazione sono allarmati dalla eventualità di una società bilingue che possa mettere a repentaglio la cultura angloamericana tanto lodata recentemente dal presidente Obama e dalla Regina Elisabetta.

Dietro questa preoccupazione vi è anche un fattore religioso, e cioè lo scontro tra cultura cattolica e protestante.

La ricerca di una equa politica sull'immigrazione non può tralasciare l'importanza di questo aspetto. Chi dice che si tratta di una questione privata che non ha niente a che fare con la politica pubblica difetta di realismo, accecato dalla interpretazione dominante del principio della "separazione tra Chiesa e Stato". I cattolici, che rigettano questo dualismo tra fede e cultura, hanno qui una particolare opportunità di dimostrare l'armonia tra la fede e la libertà che soddisfa i desideri costitutivi del cuore che ci fa umani.

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Lo psicanalista Risè parla dei problemi dei figli di coppie omosessuali - 31 maggio, 2011, http://www.uccronline.it


 

Lo psicanalista Claudio Risè, sociologo e già docente di Psicologia dell'Educazione all'Università di Milano ed esperto del campo educativo, ha preso posizione sulla moda odierna di dare ai bambini due padri, due madri o qualche nonna-madre.


 

Tutti presi verso una sorta di utopica uguaglianza, «l'essere umano non viene più considerato come una persona con un suo corpo, ma solo come un oggetto prefabbricato. Qui si sta organizzando la produzione di bambini come adorabili oggetti di consumo», dice l'esperto. Sulla scia di sponsor del calibro di Elton John o Ricky Martin anche in Italia sarebbero un centinaio le coppie omosessuali che ricorrono all'estero (da noi è vietata) alla maternità "surrogata": in pratica nell'utero di una donatrice che offre a pagamento il proprio utero viene inserito un embrione formato dall'ovocita di una donatrice e il seme di uno dei due padri. Tutti pensano a soddisfare i propri desideri-diritti, peccato che «in assenza del genitore del proprio sesso, sarà molto difficile per quel bambino sviluppare la propria identità psicologica corrispondente. La psiche maschile e quella femminile sono molto diverse e l'identità complessiva si forma anche a partire dalla propria identità sessuale. Nel caso di maternità surrogata, lo sviluppo psicologico, affettivo, cognitivo di una bimba con due genitori di sesso maschile sarebbe in forte difficoltà: avrebbe problemi nel riconoscersi nel proprio sesso. Lo stesso accade al piccolo maschio».


 

Nessun padre, nonostante la buona fede, può svolgere il ruolo della madre perché «la vita umana è inscritta in due ordini: il dato naturale, biologico, e quello simbolico che il bambino ha iscritto nella propria psiche, conscia e inconscia. Entrambi presiedono allo sviluppo, alla manifestazione di una capacità progettuale, alla crescita di un'affettività equilibrata. Il padre è un individuo di genere maschile che ha scritto nel suo patrimonio genetico, antropologico, affettivo e simbolico la storia del proprio genere. Proprio perché è un maschio e non è una donna, non può avere né il sapere naturale profondo, né quello simbolico materno. I due codici simbolici, paterno e materno, sono molto diversi: la madre è colei che soddisfa i bisogni, il padre è colui che dà luogo al movimento e propone il limite: indica la direzione e stabilisce dove non si può andare». Ovviamente lo psicanalista cita diversi studi, sopratutto in area anglosassone e nordeuropea dova da tempo ci sono casi di coppie omosessuali con figli, i quali provano che la mancanza di genitori di sesso diverso è fonte di problemi (un piccolo esempio in Ultimissima 27/5/11) e , il più evidente dei quali (quando i genitori sono del sesso opposto al tuo), è la formazione dell'immagine sessuale profonda. Anche perché «l'esperienza del contatto fisico con la madre, nella cui pancia si è stati, è riconosciuta dalla psichiatria e dalle psiconalisi come fondativa della personalità, e della stessa corporeità». Di certo Risè non è solo, anzi. I massimi esperti italiani concordano pienamente con lui, come spiegato in Ultimissima 15/2/11.


 

Il problema della modernità è il materialismo «fondato sulla soddisfazione narcisistica dei bisogni indotti dal sistema di consumo. Il bimbo "fabbricato" è uno di questi nuovi bisogni. L'ideologia consumista, le mode, i media dettano i nostri comportamenti, perfino nell'innamoramento: ci si incontra e ci si lascia in base ai suggerimenti della moda e delle "tendenze". Non stupiamoci, allora, se sono sempre di più quelli che vogliono evadere dal proprio corpo: magari con le droghe o coi disturbi alimentari come l'anoressia. La sacralità del corpo del cristianesimo è stata negata, e i consumi divinizzati» (l'articolo è anche pubblicato sul suo blog personale: http://claudiorise.blogsome.com/)


 


 

Il filosofo Richard Schröder contro gli argomenti di Richard Dawkins, 31 maggio, 2011, da http://www.uccronline.it


 

Brutto momento per Richard Dawkins, l'anti-teista militante più famoso di oggi. Recentemente è stato fortemente criticato e accusato di "codardia" per essersi rifiutato di discutere con un dotto teologo americano, William Lane Craig, considerato un "mangia-atei-a-colazione" (rivelatosi tale nel confronto con Christopher Hitchens), privilegiando troppo spesso soggetti di minor profilo (cfr. The Telegraph 30/5/11). Contestazioni e ironie sono piovute da ogni dove, e, in particolare, da New Statesman, rivista politica britannica di sinistra, che gli ha dedicato un articolo dal titolo "Perché Dawkins delude", dove vi si trova scritto che: «è regolarmente riconosciuto che i "nuovi atei", come Dawkins, non siano intellettualmente eccezionali» e che «non c'è mai stato un argomento filosofico molto convincente per la non esistenza di Dio».


 

Anche Il Sole 24 ore, importante quotidiano italiano, ha dato spazio ad una critica verso Dawkins, pubblicando la recensione di mons. Ravasi ad un nuovo libro che, ancora una volta, confuta ogni argomentazione presente nel best-seller dello scienziato britannico intitolato "The God Delusion". L'autore di questo nuovo volume, dal titolo "Liquidazione della religione? Il fanatismo scientifico e le sue conseguenze" (Queriniana 2011) è Richard Schröder, filosofo, teologo, giudice costituzionale del Brandeburgo, presidente del senato della Deutsche nationalforschung di Weimar, membro del Consiglio nazionale di etica e dell'Accademia delle scienze di Berlino, insignito di vari premi e lauree honoris causa e infine docente alla Humboldt-Universität di Berlino.


 

Sul quotidiano italiano si legge che Schröder «non ne perdona una allo scienziato inglese, a partire dalla tradizionale accusa scagliata contro la religione, di essere fonte inesausta di crociate, cacce alle streghe, eccidi, persecuzioni, anche perché egli stesso ha provato sulla sua pelle la poco piacevole esperienza di anni vissuti sotto un regime sostanzialmente ateo com'era la Ddr, i cui miti erano allora Stalin, Mao, Pol Pot e compagni. Ma il suo attacco a Dawkins, il cui testo è vagliato impietosamente riga per riga, va ben oltre questo terreno piuttosto estrinseco e punta alla tesi di fondo», cioè alla strumentalizzazione della teoria evolutiva (che diventa "evoluzionismo") usata «come una clava per sbeffeggiare e demolire ogni religione o forse per propugnarne un'altra, quella dell'ateismo, perché egli esplicitamente afferma di voler "convertire" il suo lettore all'ateismo». Dawkins vorrebbe spiegare tutto ciò che esiste con la selezione naturale, che -citando lo studioso tedesco- è come se «uno ti conducesse in una galleria di quadri e ti dichiarasse: "posso spiegarti brevemente tutti questi quadri, essi sono tutti quanti fatti di atomi! E così avremmo finalmente capito tutto». L'analisi di Schröder è «serrata e argomentata e prende di mira una serie di corollari elaborati da Dawkins». Il quotidiano concorda con la critica del filosofo tedesco, sostenendo che «Dawkins ha spesso di mira il discutibilissimo creazionismo americano ma paradossalmente ne adotta l'ermeneutica fondamentalista».


 


 

«Effetto nebbia» contro la vita di Tommaso Scandroglio, 31-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it


 

Da che cosa si giudica la bravura di un mago? Da due fattori: dalla spettacolarità della magia e dalla difficoltà di scoprire il trucco. Questi due elementi, parrà strano, valgono anche per coloro che si battono a favore dell'aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, divorzio etc. Da una parte costoro – ammettiamolo - sono riusciti nell'incredibile: far accettare ai più che queste pratiche sono veri e propri diritti. Insomma cose buone (per l'eutanasia – è vero – questo non è ancora avvenuto ma forse è questione di tempo e di tempi). Dall'altra hanno sapientemente nascosto i trucchetti cultural-ideologici che hanno portato a simili sorprendenti risultati. Questo è vero soprattutto per il fenomeno dell'aborto, a proposito del quale qualche giorno or sono si sono ricordati i 33 anni di vita di una legge quale la 194.


 

L'occultamento del cadavere. Il fronte pro-choice comprese e comprende bene che l'aborto è una faccenda sporca, anzi sporchissima perché si tratta di convincere le madri a sopprimere il loro figlio. Oltre a ciò bisogna coprire un fatto tragico e spaventoso: in più di tre decadi il numero di bambini che mancano all'appello supera nella sola Italia la cifra di 5 milioni. Una delle prime mosse poste in essere dal fronte abortista fu quindi quella di occultare il cadavere, meglio: la montagna di cadaveri. Operazione non agevole come è facile intuire. Come ci sono riusciti? Alzando una cortina fumogena che coprisse agli occhi dei più la piccola vittima. Si tratta – come ha acutamente osservato Mario Palmaro nel suo "Aborto & 194" – dell'effetto nebbia: è necessario non far conoscere alle gente l'agghiacciante realtà dei fatti. In altre parole occorreva paradossalmente togliere di mezzo il problema "aborto" dal dibattito sull'aborto. Visti i risultati numerici di questa strategia culturale è bene domandarsi come i prestigiatori della vita altrui nel concreto siano riusciti in questa malefica magia nera.


 


 

Mai mostrare cosa è tecnicamente un aborto. Questo è il primo imperativo categorico dell'abortista, ben conscio che contra facta non valet argumentum. Nessun discorso sottile e dotto quanto si voglia può qualcosa contro l'evidenza di un corpicino dilaniato dagli strumenti chirurgici abortivi. Chi prova a far vedere cosa è in realtà un aborto, soprattutto a vantaggio di coloro che approvano tale pratica, immancabilmente viene fatto oggetto della seguente obiezione: mostrare cosa è un aborto è di pessimo gusto ed è terrorismo psicologico. La risposta vien da sé: ma allora perché portiamo le scolaresche ad Auschwitz? Non è anche quello terrorismo psicologico? Per di più perpetrato su giovani e poco critiche coscienze? E nel caso dello sterminio degli ebrei abbiamo a che fare con un delitto, nel caso dell'aborto invece di un asserito "diritto", quindi a maggior ragione non ci dovrebbero essere problemi nel mostrare cosa è. Questa strategia dell'occultamento riverbera i suoi effetti anche sul piano linguistico: mai parlare di soppressione di un essere umano, neppure di aborto, bensì di interruzione volontaria della gravidanza che scolora nel più innocuo e blando acronimo I.V.G.


 


 

Occultare il fatto che il nascituro è un bambino. Come riuscirci? In due modi. Primo: mai mostrare ecografie o altre immagini del feto. In tal modo nell'immaginario collettivo si sedimenta con pervicacia l'idea che il nascituro è solo un informe agglomerato di cellule e non di certo un essere umano. Negli States hanno verificato che far vedere con l'ecografia il proprio bambino alle mamme che vogliono abortire, e far loro ascoltare con il sonogramma il battito del suo cuoricino, abbatte drasticamente il numero di aborti. Secondo l'associazione cristiana Heidi Group, i consultori dove le mamme intenzionate ad abortire possono vedere e ascoltare il proprio bebè registrano un calo di aborti fino al 90%. Gli stati del Kentucky, Indiana, Ohio, Montana, Texas, Virginia stanno vagliando proposte di legge per introdurre obbligatoriamente la visione dell'ecografia da parte delle donne. In Oklahoma, Alabama, Louisiana e Mississippi questo è già obbligatorio. Oggi poi esistono ecografie in 4D leggibili nitidamente anche dai profani. Chi protesta asserendo che così si colpevolizza la donna e la si costringe a vivere questo dramma in modo ancora più doloroso si potrebbe rispondere con una domanda retorica: non si parla tanto di consenso informato? Più sai più sei libera di scegliere. Detto ciò però è doveroso ricordare che mostrare le ecografie del proprio bambino può essere un boomerang nel caso in cui l'eco indichi delle malformazioni evidenti. Potrebbe cioè essere un incentivo per la madre a scegliere la via dell'aborto.


 


 

La donna al centro. Un altro modo per far dimenticare che il soggetto protagonista dell'aborto è il nascituro è quello di spostare l'attenzione da lui alla madre. Si tratta della femminilizzazione dell'aborto, il quale è un problema solo delle donne perché è nel loro corpo, e non in quello dei maschi, che si svolge questo dramma. Prova inconfutabile che questa strategia di "distrazione" – tecnica propria dei prestigiatori più bravi – è stata efficace è data dalla 194. Al padre infatti è dedicata una sola riga dal testo di legge: questi può intervenire per suggerire strade alternative all'aborto, a patto che la donna comunque sia d'accordo che il padre possa aprire bocca.


 

Non solo aborto. Queste tecniche di occultamento della realtà sono poi applicate anche in altre battaglie culturali. Ad esempio nella fecondazione artificiale si tace sul fatto che il costo per avere un solo bambino in braccio è il sacrificio di 9 suoi fratellini, secondo l'ultimo report del Ministero della Sanità. Si tace altresì sul fatto il fatto che contro la sterilità e infertilità esistono altri percorsi terapeutici diversi dalla Fivet – che terapeutica non è – ottenendo migliori risultati, spendendo meno, tutelando maggiormente la salute della donna e soprattutto evitando così problemi etici assai spinosi.


 


 

Welby ed Eluana. La strategia dell'occultamento però non sempre viene applicata. Infatti decidere se mostrare o non mostrare una realtà emotivamente forte dipende dalla risposta al seguente quesito: far vedere una situazione ad esempio drammatica porterà acqua al mio mulino? Infatti domandiamoci perché Welby è stato mostrato più e più volte in TV e sulla carta stampata ed Eluana no? Perché si era certi che il viso gonfio e inespressivo del primo avrebbe catturato sicuramente più consensi rispetto a quello di Eluana la quale sarebbe apparsa semplicemente una donna che dorme – di notte – e che dava segni di minima vigilanza - di giorno. Non certo un vegetale e quindi, anche per la coscienza collettiva, non passibile di eutanasia pietosa.


 


 

Sposarsi fa bene al portafogli di Marco Respinti, 01-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


 

Gli Stati Uniti sono il Paese delle opportunità. Hanno oneri fiscali nonostante tutto ben diversi dai nostri, il redditto pro capite è più elevato e il cittadino più ricco. Malgrado le difficoltà, l'impresa privata è lanciatissima, gli investimenti sono lucrativi, il capitalismo è un bene sociale di utilità pubblica. Qual è il segreto del sogno americano? Il matrimonio.


 

A dimostrarlo sono le statistiche raccolte in uno studio scientifico, Marriage and Economic Well-Being: The Economy of the Family Rises or Falls with Marriage, pubblicato da Patrick F. Fagan (con Andrew J. Kidd e Henry Potrykus), direttore a Washington del Marriage and Religion Research Institute (MERRI), il focus-group del Family Research Council.


 

Nel 2009, infatti, solo il 5,8% delle famiglie naturali americane viveva sotto la soglia della povertà, e questo soprattutto perché la sicurezza sociale, economica e psicologica garantita dalla struttura matrimoniale eterosessuale stabile produce effetti virtuosi di fiducia reciproca, consente margini di risparmio più ampi e permette investimenti sociali coraggiosi.


 

Lo conferma anche il solo dato relativo all'autonomia con cui in questo modo i genitori possono allevare ed educare i figli: dipendendo cioè meno dall'assistenza pubblica, che negli Usa incide per 112 miliardi di dollari annui sulle tasche dei contribuenti. Del resto, esiste pure quello che gli economisti, numeri alla mano, indicano come "marriage premium", ovvero l'aumento automatico nella produttività e negli introiti degli uomini stabilmente sposati causato dal matrimonio. Quel bonus è del resto un fenomeno costante e generalizzato: negli Usa è calcolato al 27%, in Sudafrica al 23%, fra il 1979 e il 1986 è stato del 20% in Australia, Francia, Usa, Germania, Israele, Lussemburgo e Svizzera, tra il 10 e il 20% in Gran Bretagna, Norvegia, Paesi Bassi, Italia e Canada, epperò gli stessi dati non si ripetono uguali in famiglie di divorziati risposati.


 

Il paper del MERRI mostra del resto come le coppie regolarmente sposate godano di esistenze economicamente più salde e floride delle persone unite da qualsiasi altra struttura "familiare" alternativa. E che invece il divorzio, la separazione dei coniugi e ogni altra forma di convivenza costano alla società moltissimo: calcola per esempio lo studio che se oggi il governo statunitense s'impegnasse e riuscisse a ridurre il numero delle famiglie che si sfasciano di solo un punto percentuale la cosa farebbe risparmiare ai contribuenti circa 1,1 miliardi di dollari l'anno.


 

Se dunque la correlazione tra benessere socioeconomico e integrità della famiglia eterosessuale regolarmente sposata è insomma nettissima, e di gran lugna superiore a quella mostrata da qualsiasi altra forma di convivenza, esiste altresì una sorta di corsa al ribasso man mano che i legami "familiari" alternativi peggiorano sul piano della stabilità, dell'investimento sul futuro e dunque anche della serenità dei suoi componenti. Peggio delle famiglie stabili di genitori eterosessuali regolarmente sposati stanno cioè quelle di genitori divorziati che si risposano, ma ancora peggio quelle dove i coniugi divorziano e basta, quindi quelle monoparentali e il fondo lo toccano le coppie conviventi.


 

In media, le coppie sposate stabili presentano infatti redditi doppi rispetto ai divorziati e quattro volte superiori rispetto ai separati. Statisticamente, è più probabile che entrino nel circuito produttivo, vengano impiegati e lavorino a tempo pieno i giovani maschi sposati che non i single. Gli uomini sposati tendono ad avere carriere più stabili, e ciò comporta guadagni superiori quasi del 30% rispetto a quelli dei maschi non sposati. Anche le donne sposate tendono a essere mediamente meno povere; e i figli di coppie regolarmente sposate mostrano, una volta divenuti adulti, più capacità d'intrapresa economica sul mercato. I figli di coppie conviventi se la cavano peggio di loro, ma fanno comunque meglio dei ragazzi con un solo genitore. Per contro, avere alle spalle una storia familiare disastrata aumenta del 50% le possibilità che un ragazzo finisca al livello socioeconomico più basso.


 

Tra le famiglie di risposati, le statistiche indicano l'alta probabilità che le donne vedano migliorare le proprie condizioni salariali rispetto a quelle intervenute dopo il divorzio, ma in media gli uomini divorziati che si risposano vedono i propri guadagni netti abbassarsi rispetto a quelli di uomini continuativamente sposati.


 

Le madri divorziate o separate sono 2,38 volte più a rischio di povertà delle donne che restano sposate. Dopo un divorzio, il genitore a cui vengono affidati i figli vede calare del 52% il reddito familiare. Una volta entrati nel mondo del lavoro, i figli di madri divorziate rientrano statisticamente meno degli altri nella fascia maggiore di reddito, e questo indipendentemente dalla fascia in cui rientrano i genitori. Ma l'indice di povertà tra i figli di madri divorziate che si risposano si riduce di un drastico 66%.


 

Le madri single con più di 20 anni presentano condizioni socioeconomiche mediamente più vicine a quelle delle ragazze madri adolescenti che non a quelle delle donne stabilmente sposate che sono diventate madri alla loro stessa età. Inoltre, le madri single guadagnano meno non solo, ovviamente, delle coppie sposate, ma anche dei padri single e delle famiglie di risposati, ponendosi allo stesso livello, basso, delle coppie conviventi. Oltre un terzo delle madri single vive del resto sotto la soglia di povertà.


 

Fra le coppie conviventi, le donne tendono poi a lavorare un numero di ore che cresce man mano che aumenta la retribuzione del partner maschile, e questo soprattutto per il fatto che tali coppie scelgono deliberatamente di mantenere separate le proprie ricchezze. Ciò avviene soprattutto fra le coppie che convivono da meno di quattro anni; quelle che invece convivono da più tempo senza essere mai state sposate prima, presentano una media del 78% di guadagni netti in meno dei membri di famiglie eterosessuali sposate stabili. E statisticamente i conviventi conoscono la più bassa crescita di guadagni netti di tutte le strutture "familiari" possibili, posizionandosi alla stessa stregua di vedovi e vedove.


 

La povertà è infine largamente diffusa fra le coppie che convivono e nei nuclei familiari monoparentali. Più di un terzo delle ragazze madri vive in povertà, e quasi il 60% delle madri single non più adolescenti campa di sussidi statali.


 

Insomma, la prossima volta che in un dato Paese dovesse abbattersi una pesante crisi economica sarà bene andare subito a controllare lo stato di salute dei matrimoni.


 


 

NUOVI STUDI SUGLI STATI VEGETATIVI: UN AIUTO PER CAPIRE I DISTURBI DI COSCIENZA - il 31 maggio 2011, da http://www.blogscienzaevita.org/


 

L'assistenza ai pazienti con disturbi prolungati di coscienza è gravata ancora da un alto tasso di errore diagnostico, riguardante circa il 30-40 % dei casi anche in recenti indagini. L'errore diagnostico riduce l'efficacia dell'approccio riabilitativo e favorisce lo sperpero di risorse impegnate per prestazioni non più utili e sottratte, invece, a pazienti che potrebbero giovarsene. Particolarmente importante è la corretta distinzione tra stato vegetativo e di minima coscienza, per avvicinarsi alla quale si è fatto ricorso all'uso di scale standardizzate come la CRS-R e alle indagini neurofisiologiche e alle neuroimmagini. Purtroppo, fino ad oggi, continuava a permanere un'area grigia nella quale alcuni pazienti in stato di minima coscienza non mostravano le risposte attese, mentre alcune delle persone in stato vegetativo sorprendentemente le presentavano. Nei giorni scorsi sono stati pubblicati su Science [2011 May 13;332(6031):858-62] i risultati di un importante studio condotto in collaborazione da studiosi dell'Università di Liegi, dell'University College di Londra e dell'Università di Milano. Questi ricercatori sono riusciti evocare, in risposta ad uno stimolo acustico, la presenza di un'onda di risposta dalle aree acustiche primarie della corteccia temporale che si spostava viaggiando verso le aree associative del lobo frontale, per poi ritornare verso il lobo temporale. A somiglianza di quanto si verifica nei soggetti normali di controllo, il gruppo ha potuto documentare la prima parte di questo dialogo tra diverse aree cerebrali anche nei soggetti in stato vegetativo, mentre la risposta di ritorno dalla corteccia associativa frontale al lobo temporale era assente nei pazienti in stato vegetativo. I risultati di questa indagine rafforzano l'ipotesi che fa dipendere la coscienza dal dialogo continuo e bidirezionale tra le aree associative e quelle sensoriali primarie e potrebbero aiutare a comprendere meglio i disturbi di coscienza nelle gravi cerebrolesioni acquisite. Occorre tuttavia evitare che questo importante contributo di conoscenza, peraltro da verificare per quanto riguarda sensibilità e specificità dei risultati, si trasformi in una sorta di sentenza con la quale trovare la giustificazione per privare i pazienti in stato vegetativo da ogni intervento riabilitativo. Piuttosto esso dovrebbe incoraggiare a orientare lo sforzo riabilitativo e a sorvegliare la comparsa di segni precoci di recupero, conseguente alla riorganizzazione delle connessioni deficitarie.


 

Gian Luigi Gigli, Direttore della Cinica Neurologica e della Scuola di Specializzazione in Neurologia, Università di Udine


 


 

"Indovina: è dolce o salato?" - TUTTOSCIENZE - "Per gli studi sugli inganni del gusto sono stato premiato da Obama" di MARTA PATERLINI – http://www3.lastampa.it/


 

Alfredo Fontanini, nel suo laboratorio al «Department of Neurobiology and Behavior» della Stony Brook University, New York, studia la «codifica gustativa», vale a dire come il cervello elabora le informazioni collegate al gusto. Un settore di frontiera per il quale, a 39 anni, è stato insignito con il «Presidential Early Career Award for Scientists and Engineers», la più alta onorificienza data dal governo americano, per mano di Barack Obama, a scienziati «junior», all'inizio della carriera accademica.


 

Al centro delle sue ricerche ci sono le «aspettative del gusto». Usando tecniche sperimentate da neurofisiologi e psicologi, l'obiettivo è capire la relazione tra percezione del sapore e attività delle reti neurali: l'area gustativa è identificata in una parte della corteccia cerebrale che prende il nome di lobo dell'insula.


 

Che significa studiare il gusto? E cosa sta scoprendo?

«Il gusto è un senso trascurato dalla scienza. E paradossalmente lo è per lo stesso motivo per cui è così popolare nella cultura pop. Ciò che rende difficile studiare il gusto per i fisiologi sensoriali è che non può essere scorporato dalla componente emotiva: il gusto è un senso psicologico e la percezione dei sapori e degli aromi è modulata dallo stato psicologico. Io sono interessato a capire come l'aspettativa cambia il modo in cui si percepisce il gusto».


 

Cosa significa in pratica?

«Se un sapore ci arriva come una totale sorpresa, come lo percepiamo? I miei sono tra i primi lavori che cercano di fare da ponte tra ciò che si conosce negli uomini e quello che non si sa nei ratti. I due contesti sono sempre stati tenuti separati. Studi svolti sull'uomo con la risonanza magnetica funzionale mostrano come l'aspettativa influenzi la percezione e il modo in cui l'insula risponde al gusto. Quello che non si sa è come l'attività di popolazioni di neuroni venga influenzata dall'aspettativa. Il mio obiettivo è quindi trasferire nel ratto il modo di vedere i problemi della psicofisica umana. E a questo aggiungere lo studio delle reti dei neuroni, non realizzabile negli uomini».


 

Il suo è un approccio olistico alla fisiologia sensoriale?

«In laboratorio facciamo elettrofisiologia in vivo: registriamo da decine di elettrodi in animali svegli e controlliamo il loro comportamento, analizzando alcune variabili psicologiche. Non vogliamo farci spaventare dal fatto che il gusto sia così "psicologico" in modo da capire come la fisiologia sensoriale incroci la fisiologia del "reward", quella delle emozioni. Ci troviamo quindi a metà tra i due campi: registro dati che spaziano dalle aree sensoriali, come la corteccia gustativa, fino alle aree delle emozioni, come l'amigdala. E a riprova del fatto che il gusto è un senso emotivo, la sua area sensoriale primaria codifica non solo i classici sapori (dolce, salato, amaro, acido e umami), ma parametri psicologici come la bontà di un cibo, l'aspettativa, la sazietà, l'appetito e la sete».


 

Dal punto di vista tecnico come organizza un test?

«Con l'aiuto di cannule impiantate chirurgicamente i miei ratti possono ricevere liquidi zuccherati, salati, acidi o amari e si registra la loro attività neuronale. Quindi, per ogni neurone stilo un profilo delle sue risposte per ciascuno dei gusti, mentre l'animale viene addestrato a premere una leva per autosomministrarsi ciascuno dei gusti. Nella stessa sessione posso registrare una risposta a gusti che sono una completa sorpresa o a gusti somministrati dal ratto stesso. Quello che abbiamo notato è che, quando un animale associa un tono sonoro alla disponibilità di un gusto, la sua corteccia gustativa risponde a quel tono. Mi piace dire che la corteccia gustativa comincia a gustare i toni».


 

Quali sono le analogie con i test sull'uomo?

«Il nostro lavoro è analogo a una serie di lavori fatti sull'uomo con l'fMRI: di fronte alle foto di diversi cibi, infatti, ad attivarsi è la corteccia gustativa. Una volta che l'animale impara ad associare uno stimolo alla disponibilità di un gusto, la sua aspettativa comincia a categorizzare questo "input" come rilevante per il gusto. E, se gli si vuole dare una definizione psicologica, gusto è non solo ciò che si ha sulla lingua, ma ciò che è importante per l'esperienza gustativa: contesto, odori, visione».


 

Lei è in contatto con chef di fama: cerca ispirazione?

«Interagisco con loro, perchè sono aperti alla scienza e non a caso sono stato alla presentazione di quello che viene considerato il libro dell'anno sulla scienza in cucina: "Modernist Cuisine" di Nathan Myhrvold. Tra gli chef italiani, mi piace Davide Scabin del Combal Zero di Torino. Sembra svolgere molti dei test che noi facciamo in laboratorio. Al centro c'è il gioco sul senso della sorpresa e dell'aspettativa. Uno dei piatti - il «cyber egg» - è composto da caviale, uovo e vodka inglobati in una pellicola che non qualifica nessun gusto. Con un bisturi si incide la pellicola e si comincia l'assaggio: il boccone è una sorpresa, in cui si scorporano gli altri sensi, lasciando così che il nudo gusto faccia il suo lavoro. Si avverte una sorta di smarrimento, perché mancano le altre indicazioni. Proprio come quello che vedo nei test: alla somministrazione di un gusto inaspettato il sistema gustativo del ratto viene colto di sorpresa e i neuroni sono più lenti nella codifica».


 

Quali possono essere le ricadute della sua ricerca?

«Obama ha enfatizzato i doveri sociali di uno scienziato: tenere la conoscenza chiusa in laboratorio non serve. Ecco perché sono interessato a dare un contributo alla comprensione di malattie come bulimia e anoressia, che possono essere considerate come disturbi del processo del "reward". Il gusto si interseca anche con i processi motivazionali: alterando il senso di quanto ci piace qualcosa e di quanto lo desideriamo, si può contribuire a ristabilire equilibri alterati».


 


 

In coma per un'operazione la moglie: "Stacco la spina" di Rino Cammilleri, 01-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


 

Un anno fa, a Catania, il giovane architetto Giuseppe Marletta venne ricoverato in ospedale per farsi togliere un paio di punti da un dente. Soffriva di sinusite e all'ospedale pubblico gli avevano detto che la colpa era di quelle graffette in bocca. Roba da niente, un'operazioncina di routine, come si dice.


 

Invece, il quarantaduenne non si è più svegliato e da allora è in coma. La moglie quarantenne, Irene Sampognaro (insegnante, due figli piccoli), esasperata, ha detto di capire adesso il caso Englaro e di voler staccare la spina al marito. Ma, a ben guardare, non si tratta di un'ideologia, bensì di un atto di disperata provocazione. «Da un anno chiedo che le istituzioni intervengano per assistere adeguatamente mio marito col ricovero in una clinica dei risvegli all'estero», ha detto. «Lo Stato, responsabile di questa tragedia, si faccia almeno carico della cura e dell'assistenza ai massimi livelli». Invece la donna deve far assistere il marito da una struttura convenzionata, dove deve farsi carico di una parte dei costi. Cioè, di quasi tutto il suo stipendio. E il marito, ovviamente, non può lavorare.


 

Come non darle ragione? La signora si è rivolta a tutti, dal ministro all'assessore alla sanità, ma non ha visto ispettori, nemmeno il sequestro della cartella clinica. Così, da oggi protesta clamorosamente davanti ai cancelli dell'ospedale dove è avvenuto il fattaccio. Commento: ecco, uno legge una cosa del genere e si arrabbia. Siamo nel Terzo Millennio, nell'era elettronica, in un Paese del G8, e un cittadino deve essere costretto a fare i salti mortali per "bucare il video", come si usa dire? Deve mettersi un gran cartello al collo, magari incatenarsi ai cancelli del luogo del misfatto? Deve cioè, mettersi a gridare per attirare l'attenzione, come il Cieco di Gerico del vangelo?


 

I politici, si sa, vengono a romperti le scatole fino in casa per un pugno di voti, poi, ottenutili, tanti saluti. Per quanto riguarda i magistrati, si sa com'è: si vede che a Catania non c'è una Ruby Rubacuori. E poi dice che uno si butta a sinistra! (come esclamava spazientito Totò). Anche se l'esperienza ci insegna che non cambia niente nemmeno così. La signora siciliana dà una lezione a quanti si riempiono la bocca di «sì alla vita» e poi non passano dalle parole ai fatti. Questo di Catania non è un nuovo «caso Englaro», perché la povera Eluana era assistita dalle suore e la «spina» le è stata «staccata» per meri motivi ideologici. La signora Sampognaro non vuole l'eutanasia, vuole quel che le spetta: giustizia e aiuto.


 

Certe volte, di fronte a robe così, si avrebbe voglia di avere davvero «la patente» pirandelliana, quella di jettatore, perché certuni facciano esperienza del dolore umano. Già altra volta, in Sicilia, i congiunti di un uomo in coma, Salvatore Crisafulli, hanno dovuto minacciare l'eutanasia perché qualcuno si muovesse. Era un grido di disperazione, come quello della Sampognaro. Una disperazione che potrebbe aggredire chiunque, è bene ricordarlo.


 

Ma questo è un quotidiano cattolico e il male non lo augura a nessuno. Però, proprio perché cattolico, ha il dovere di rammentare che c'è una giustizia superiore, una Giustizia che non lascerà passare neanche un moscerino. E' scritto chiaro e tondo nel vangelo, in uno di quei pochi passi in cui Cristo si arrabbia davvero: andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno, perché ero malato e ve ne siete fregati. Visto che siamo su internet, invito i lettori a cercare un nome, Gloria Polo, e una storia; una storia, coincidenza, di una dentista. Colpita da un fulmine è finita in coma, coma senza speranza. Grazie a una sorella medico non le fu staccata la spina. Adesso passa la vita a raccontare a tutti, tra le lacrime, che l'Inferno esiste. Esiste anche se i sondaggi d'opinione dicono il contrario. Anche se i preti, per quieto vivere, non ne parlano più.