Nella rassegna stampa di oggi:
- BENEDETTO XVI: LA PENTECOSTE È IL "BATTESIMO" DELLA CHIESA - In occasione del Regina Cæli in piazza San Pietro
- MESSA DI PENTECOSTE: IL LIBRETTO DELLA CELEBRAZIONE - CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE, 12.06.2011
- La morale naturale di un Papa fuori dagli schemi - Venerdì 10 Giugno 2011 - Andrea Tornielli - 10 giugno 2011 - © www.lastampa.it
- Pronta la prima Carta europea dell'etica medica - 16 i principi da seguire -Adnkronos - Pubblicata mercoledì 8 giugno 2011
- Avvenire.it, 10 giugno 2011 - L'amore, il matrimonio, la famiglia / 1 - Non solo emozione ma vera «bene-volenza» di Giacomo Samek Lodovici
- Avvenire.it, 10 giugno 2011 - IL FATTO - La meglio gioventù di Alessandro D'Avenia
- Le contraddizioni dell'aborto: in Occidente un diritto, in Oriente un dovere, di Aldo Vitale* *ricercatore in filosofia e storia del diritto, 10 giugno 2011
- In Afghanistan chi si converte rischia la vita di Danilo Quinto, 11-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
- 11/06/2011 - IL CASO - Rosita, la mucca che produce il latte delle mamme - In Argentina immessi geni umani nel bovino, contiene le proprietà alimentari umane - Il latte di Rosita, nata il 6 aprile, contiene anche due importanti proteine presenti nel latte materno ma assenti in quello bovino, di PIERO BIANUCCI, http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/406645/
- E D I T O R I A L E – AGORÀ - FRA DAWKINS E HAWKING METTI L'OROLOGIAIO di ROBERTO TIMOSSI, Avvenire, 11 giugno 2011
- Avvenire.it, 11 giugno 2011, MEDICINA E PERSONA, Patologie rare, 3 milioni di malati - Nasce una «rete» dei genetisti cattolici di Domenico Montalto
- Europride, è una questione di dignità di Riccardo Cascioli, 13-06-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- La Pentecoste di rom e sinti di Massimo Introvigne. 13-06-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
- Storia di Farah, cattolica perseguitata di Elisabetta Galeffi, 13-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
- IL CASO/ Quella tv che batte il partito dell'eutanasia e della morte di Carlo Bellieni, lunedì 13 giugno 2011, il sussidiario.net
BENEDETTO XVI: LA PENTECOSTE È IL "BATTESIMO" DELLA CHIESA - In occasione del Regina Cæli in piazza San Pietro
ROMA, domenica, 12 giugno 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI in occasione della preghiera mariana del Regina Coeli recitata insieme ai fedeli e ai pellegrini giunti in piazza San Pietro.
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Cari fratelli e sorelle!
La solennità della Pentecoste, che oggi celebriamo, conclude il tempo liturgico di Pasqua. In effetti, il Mistero pasquale – la passione, morte e risurrezione di Cristo e la sua ascensione al Cielo – trova il suo compimento nella potente effusione dello Spirito Santo sugli Apostoli riuniti insieme con Maria, la Madre del Signore, e gli altri discepoli. Fu il "battesimo" della Chiesa, battesimo nello Spirito Santo (cfr At 1,5). Come narrano gli Atti degli Apostoli, al mattino della festa di Pentecoste, un fragore come di vento investì il Cenacolo e su ciascuno dei discepoli scesero lingue come di fuoco (cfr At 2,2-3). San Gregorio Magno commenta: «Oggi lo Spirito Santo è sceso con suono improvviso sui discepoli e ha mutato le menti di esseri carnali all'interno del suo amore, e mentre apparvero all'esterno lingue di fuoco, all'interno i cuori divennero fiammeggianti, poiché, accogliendo Dio nella visione del fuoco, soavemente arsero per amore» (Hom. in Evang. XXX, 1: CCL 141, 256). La voce di Dio divinizza il linguaggio umano degli Apostoli, i quali diventano capaci di proclamare in modo "polifonico" l'unico Verbo divino. Il soffio dello Spirito Santo riempie l'universo, genera la fede, trascina alla verità, predispone l'unità tra i popoli. «A quel rumore la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» delle «grandi opere di Dio» (At 2,6.11).
Il beato Antonio Rosmini spiega che «nel dì della Pentecoste dei cristiani Iddio promulgò … la sua legge di carità, scrivendola per mezzo dello Spirito Santo non sulle tavole di pietra, ma nel cuore degli Apostoli, e per mezzo degli Apostoli comunicandola poi a tutta la Chiesa» (Catechismo disposto secondo l'ordine delle idee… n. 737, Torino 1863). Lo Spirito Santo, "che è Signore e dà la vita" – come recitiamo nel Credo –, è congiunto al Padre per mezzo del Figlio e completa la rivelazione della Santissima Trinità. Proviene da Dio come soffio della sua bocca e ha il potere di santificare, abolire le divisioni, dissolvere la confusione dovuta al peccato. Egli, incorporeo e immateriale, elargisce i beni divini, sostiene gli esseri viventi, perché agiscano in conformità al bene. Come Luce intelligibile dà significato alla preghiera, dà vigore alla missione evangelizzatrice, fa ardere i cuori di chi ascolta il lieto messaggio, ispira l'arte cristiana e la melodia liturgica.
Cari amici, lo Spirito Santo, che crea in noi la fede nel momento del nostro Battesimo, ci permette di vivere quali figli di Dio, coscienti e consenzienti, secondo l'immagine del Figlio Unigenito. Anche il potere di rimettere i peccati è dono dello Spirito Santo; infatti, apparendo agli Apostoli la sera di Pasqua, Gesù alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati» (Gv 20,23). Alla Vergine Maria, tempio dello Spirito Santo, affidiamo la Chiesa, perché viva sempre di Gesù Cristo, della sua Parola, dei suoi comandamenti, e sotto l'azione perenne dello Spirito Paraclito annunci a tutti che «Gesù è Signore!» (1 Cor 12,3).
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Cari fratelli e sorelle, sono lieto di ricordare che domani a Dresda, in Germania, sarà proclamato Beato Alois Andritzki, sacerdote e martire, ucciso dai nazionalsocialisti nel 1943, all'età di 28 anni. Lodiamo il Signore per questo eroico testimone della fede, che si aggiunge alla schiera di quanti hanno dato la vita nel nome di Cristo nei campi di concentramento. Vorrei affidare alla loro intercessione, oggi che è Pentecoste, la causa della pace nel mondo. Possa lo Spirito Santo ispirare coraggiosi propositi di pace e sostenere l'impegno di portarli avanti, affinché il dialogo prevalga sulle armi e il rispetto della dignità dell'uomo superi gli interessi di parte. Lo Spirito, che è vincolo di comunione, raddrizzi i cuori deviati dall'egoismo e aiuti la famiglia umana a riscoprire e custodire con vigilanza la sua fondamentale unità.
Dopodomani, 14 giugno, ricorre la Giornata Mondiale dei Donatori di Sangue, milioni di persone che contribuiscono, in modo silenzioso, ad aiutare i fratelli in difficoltà. A tutti i donatori rivolgo un cordiale saluto e invito i giovani a seguire il loro esempio.
Rivolgo un cordiale saluto ai giornalisti e ai relatori riuniti a Pistoia per il Forum dell'informazione cattolica per la salvaguardia del creato, organizzato dall'associazione Greenaccord sul tema: "Lo spazio comune dell'uomo nel creato". Ai giornalisti impegnati per la tutela dell'ambiente va il mio incoraggiamento.
Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i giovani di Caprino Veronese e i ragazzi di Casaleone che hanno ricevuto la Cresima. Saluto quanti hanno partecipato agli incontri promossi dal Movimento dell'Amore Familiare su "La preghiera del Padre Nostro e le radici cristiane della famiglia e della società". Saluto i soci del club "Passione Rossa Italia". A tutti auguro una buona domenica.
[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]
MESSA DI PENTECOSTE: IL LIBRETTO DELLA CELEBRAZIONE - CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE, 12.06.2011
Alle ore 9.30 di oggi, Domenica di Pentecoste, il Santo Padre Benedetto XVI presiede nella Basilica Vaticana la Santa Messa della Solennità.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la proclamazione del Santo Vangelo, il Papa pronuncia l'omelia che pubblichiamo di seguito:
OMELIA DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle!
Celebriamo oggi la grande solennità della Pentecoste. Se, in un certo senso, tutte le solennità liturgiche della Chiesa sono grandi, questa della Pentecoste lo è in una maniera singolare, perché segna, raggiunto il cinquantesimo giorno, il compimento dell'evento della Pasqua, della morte e risurrezione del Signore Gesù, attraverso il dono dello Spirito del Risorto.
Alla Pentecoste la Chiesa ci ha preparato nei giorni scorsi con la sua preghiera, con l'invocazione ripetuta e intensa a Dio per ottenere una rinnovata effusione dello Spirito Santo su di noi. La Chiesa ha rivissuto così quanto è avvenuto alle sue origini, quando gli Apostoli, riuniti nel Cenacolo di Gerusalemme, «erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui» (At 1,14). Erano riuniti in umile e fiduciosa attesa che si adempisse la promessa del Padre comunicata loro da Gesù: «Voi, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo…riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi» (At 1,5.8).
Nella liturgia della Pentecoste, al racconto degli Atti degli Apostoli sulla nascita della Chiesa (cfr At 2,1-11), corrisponde il salmo 103 che abbiamo ascoltato: una lode dell'intera creazione, che esalta lo Spirito Creatore il quale ha fatto tutto con sapienza: «Quante sono le tue opere, Signore! Le hai fatte tutte con saggezza; la terra è piena delle tue creature…Sia per sempre la gloria del Signore; gioisca il Signore delle sue opere» (Sal 103,24.31). Ciò che vuol dirci la Chiesa è questo: lo Spirito creatore di tutte le cose, e lo Spirito Santo che Cristo ha fatto discendere dal Padre sulla comunità dei discepoli, sono uno e il medesimo: creazione e redenzione si appartengono reciprocamente e costituiscono, in profondità, un unico mistero d'amore e di salvezza. Lo Spirito Santo è innanzitutto Spirito Creatore e quindi la Pentecoste è festa della creazione. Per noi cristiani, il mondo è frutto di un atto di amore di Dio, che ha fatto tutte le cose e del quale Egli si rallegra perché è "cosa buona", "cosa molto buona", come dice il racconto della creazione. (cfr Gen 1,1-31). Dio perciò non è il totalmente Altro, innominabile e oscuro. Dio si rivela, ha un volto, Dio è ragione, Dio è volontà, Dio è amore, Dio è bellezza. La fede nello Spirito Creatore e la fede nello Spirito che il Cristo Risorto ha donato agli Apostoli e dona a ciascuno di noi, sono allora inseparabilmente congiunte.
La seconda Lettura e il Vangelo odierni ci mostrano questa connessione. Lo Spirito Santo è Colui che ci fa riconoscere in Cristo il Signore, e ci fa pronunciare la professione di fede della Chiesa: "Gesù è Signore" (cfr 1 Cor 12,3b). Signore è il titolo attribuito a Dio nell'Antico Testamento, titolo che nella lettura della Bibbia prendeva il posto del suo impronunciabile nome. Il Credo della Chiesa è nient'altro che lo sviluppo di ciò che si dice con questa semplice affermazione: "Gesù è Signore". Di questa professione di fede san Paolo ci dice che si tratta proprio della parola e dell'opera dello Spirito Santo. Se vogliamo essere nello Spirito Santo, dobbiamo aderire a questo Credo. Facendolo nostro, accettandolo come nostra parola, accediamo all'opera dello Spirito Santo. L'espressione "Gesù è Signore" si può leggere nei due sensi. Significa: Gesù è Dio, e contemporaneamente: Dio è Gesù. Lo Spirito Santo illumina questa reciprocità: Gesù ha dignità divina, e Dio ha il volto umano di Gesù. Dio si mostra in Gesù e con ciò ci dona la verità su noi stessi. Lasciarsi illuminare nel profondo da questa parola è l'evento della Pentecoste. Recitando il Credo, noi entriamo nel mistero della prima Pentecoste: dallo scompiglio di Babele, da quelle voci che strepitano una contro l'altra, avviene una radicale trasformazione: la molteplicità si fa multiforme unità, dal potere unificatore della Verità cresce la comprensione. Nel Credo che ci unisce da tutti gli angoli della Terra, che, mediante lo Spirito Santo, fa in modo che ci si comprenda pur nella diversità delle lingue, attraverso la fede, la speranza e l'amore, si forma la nuova comunità della Chiesa di Dio.
Il brano evangelico ci offre poi una meravigliosa immagine per chiarire la connessione tra Gesù, lo Spirito Santo e il Padre: lo Spirito Santo è rappresentato come il soffio di Gesù Cristo risorto (cfr Gv 20,22). L'evangelista Giovanni riprende qui un'immagine del racconto della creazione, là dove si dice che Dio soffiò nelle narici dell'uomo un alito di vita (cfr Gen 2,7). Il soffio di Dio è vita. Ora, il Signore soffia nella nostra anima il nuovo alito di vita, lo Spirito Santo, la sua più intima essenza, e in questo modo ci accoglie nella famiglia di Dio. Con il Battesimo e la Cresima ci è fatto questo dono in modo specifico, e con i sacramenti dell'eucaristia e della Penitenza esso si ripete di continuo: il Signore soffia nella nostra anima un alito di vita. Tutti i Sacramenti, ciascuno in maniera propria, comunicano all'uomo la vita divina, grazie allo Spirito Santo che opera in essi.
Nella liturgia di oggi cogliamo ancora un'ulteriore connessione. Lo Spirito Santo è Creatore, è al tempo stesso Spirito di Gesù Cristo, in modo però che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo ed unico Dio.
E alla luce della prima Lettura possiamo aggiungere: lo Spirito Santo anima la Chiesa. Essa non deriva dalla volontà umana, dalla riflessione, dall'abilità dell'uomo e dalla sua capacità organizzativa, poiché se così fosse essa già da tempo si sarebbe estinta, così come passa ogni cosa umana. La Chiesa invece è il Corpo di Cristo, animato dallo Spirito Santo.
Le immagini del vento e del fuoco, usate da san Luca per rappresentare la venuta dello Spirito Santo (cfr At 2,2-3), ricordano il Sinai, dove Dio si era rivelato al popolo di Israele e gli aveva concesso la sua alleanza; "il monte Sinai era tutto fumante – si legge nel Libro dell'Esodo –, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco" (19,18). Infatti Israele festeggiò il cinquantesimo giorno dopo Pasqua, dopo la commemorazione della fuga dall'Egitto, come la festa del Sinai, la festa del Patto. Quando san Luca parla di lingue di fuoco per rappresentare lo Spirito Santo, viene richiamato quell'antico Patto, stabilito sulla base della Legge ricevuta da Israele sul Sinai. Così l'evento della Pentecoste viene rappresentato come un nuovo Sinai, come il dono di un nuovo Patto in cui l'alleanza con Israele è estesa a tutti i popoli della Terra, in cui cadono tutti gli steccati della vecchia Legge e appare il suo cuore più santo e immutabile, cioè l'amore, che proprio lo Spirito Santo comunica e diffonde, l'amore che abbraccia ogni cosa. Allo stesso tempo la Legge si dilata, si apre, pur diventando più semplice: è il Nuovo Patto, che lo Spirito "scrive" nei cuori di quanti credono in Cristo. L'estensione del Patto a tutti i popoli della Terra è rappresentata da san Luca attraverso un elenco di popolazioni considerevole per quell'epoca (cfr At 2,9-11). Con questo ci viene detta una cosa molto importante: che la Chiesa è cattolica fin dal primo momento, che la sua universalità non è il frutto dell'inclusione successiva di diverse comunità.
Fin dal primo istante, infatti, lo Spirito Santo l'ha creata come la Chiesa di tutti i popoli; essa abbraccia il mondo intero, supera tutte le frontiere di razza, classe, nazione; abbatte tutte le barriere e unisce gli uomini nella professione del Dio uno e trino. Fin dall'inizio la Chiesa è una, cattolica e apostolica: questa è la sua vera natura e come tale deve essere riconosciuta. Essa è santa, non grazie alla capacità dei suoi membri, ma perché Dio stesso, con il suo Spirito, la crea e la santifica sempre.
Infine, il Vangelo di oggi ci consegna questa bellissima espressione: «I discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,20). Queste parole sono profondamente umane. L'Amico perduto è di nuovo presente, e chi prima era sconvolto si rallegra. Ma essa dice molto di più. Perché l'Amico perduto non viene da un luogo qualsiasi, bensì dalla notte della morte; ed Egli l'ha attraversata! Egli non è uno qualunque, bensì è l'Amico e insieme Colui che è la Verità che fa vivere gli uomini; e ciò che dona non è una gioia qualsiasi, ma la gioia stessa, dono dello Spirito Santo. Sì, è bello vivere perché sono amato, ed è la Verità ad amarmi. Gioirono i discepoli, vedendo il Signore. Oggi, a Pentecoste, questa espressione è destinata anche a noi, perché nella fede possiamo vederLo; nella fede Egli viene tra di noi e anche a noi mostra le mani e il fianco, e noi ne gioiamo. Perciò vogliamo pregare: Signore, mostrati! Facci il dono della tua presenza, e avremo il dono più bello: la tua gioia. Amen!
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La morale naturale di un Papa fuori dagli schemi - Venerdì 10 Giugno 2011 - Andrea Tornielli - 10 giugno 2011 - © www.lastampa.it
Le parole pronunciate ieri mattina da Benedetto XVI sulla necessità per l'uomo di adottare uno stile di vita che salvaguardi l'ambiente, sostenendo la ricerca di energie pulite, rispettose «della creazione e innocue per gli esseri umani», sono state accolte con grande favore da molti ambienti, anche a motivo dell'imminente scadenza referendaria sul nucleare.
Ratzinger si rivolgeva ai nuovi ambasciatori di Moldova, Guinea Equatoriale, Belize, Siria, Ghana e Nuova Zelanda, ma le sue parole non rappresentano certo una novità, dato che più volte il Papa ha affrontato l'argomento della salvaguardia del creato e dell'urgenza per l'uomo di non farsi dominare dalla tecnologia. Tema peraltro attualissimo dopo quanto è accaduto in Giappone.
Domenica scorsa, da Zagabria, di fronte ai fedeli croati, il Pontefice aveva parlato della famiglia, indicando l'importanza della «qualità delle relazioni con le persone, e i valori umani più profondi», e l'insegnamento cristiano su matrimonio e sessualità. Non aveva pronunciato condanne o anatemi, ma soltanto proposto, anzi, riproposto, il messaggio evangelico. Provocando reazioni e sollevando critiche piuttosto forti, anche a motivo dell'abitudine italiana di leggere le parole del Pontefice sempre e comunque legate alle nostre beghe politiche.
Ma al di là delle critiche di ieri al Papa che invitava i fedeli cattolici a non scegliere le convivenze come modello per la realizzazione della propria vita affettiva, e al di là degli osanna di oggi al Papa ecologista che parla di energia pulita, ciò che emerge ancora una volta è la complessità della figura di Benedetto XVI. Un Papa non richiudibile all'interno degli schemi o delle etichette di tradizionalista-progressista. Un Papa che tiene insieme con un unico filo rosso il discorso di domenica sulla famiglia e quello «ecologico» di ieri, nel segno del rispetto dell'ordine della creazione. Ratzinger considera il degrado dell'ambiente come una delle conseguenze implicite della scristianizzazione e della perdita di coscienza dell'aspetto cosmologico della fede, mostrando in questo una sensibilità molto vicina a quella delle Chiese ortodosse.
Quando parla di famiglia, come quando parla di ambiente, lo fa sulla base della morale naturale, in dialogo con tutti, cosciente che per la sopravvivenza dell'umanità è necessario coniugare «la tecnologia con una forte dimensione etica», e uno stile di vita sobrio «che rispetti l'alleanza tra uomo e natura».
Pronta la prima Carta europea dell'etica medica - 16 i principi da seguire -Adnkronos - Pubblicata mercoledì 8 giugno 2011
Roma, 8 giu. (Adnkronos Salute) - Pronta la prima Carta europea dell'etica medica. Un documento che sancisce i principi a cui si attengono tutti i camici bianchi del vecchio continente e che sarà presentata sabato, in Grecia, Kos isola di Ippocrate, "proprio sotto il platano dove teneva le sue lezioni", spiega Amedeo Bianco, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici e degli Odontoiatri (Fnomceo) che parteciperà all'incontro e sottolinea come questa importante novità rappresenti il primo passo verso la costruzione di un codice deontologico comune, "fondamentale per la libera circolazione dei pazienti e dei professionisti", ha detto a margine della Tavola rotonda sulla deontologia medica organizzata a Roma dall'Anaao Assomed. "Il medico lenisce le sofferenze rispettando la vita e la dignità della persona, senza discriminazioni di ogni genere, in pace e in guerra", sono le prime parole della Carta, in 16 punti, voluta dai presidenti del Ceom (il Consiglio europeo degli Ordini dei medici). "Tutti i nostri Codici di deontologia, pur variando tra i diversi Stati, sono ispirati a principi etici comuni. Tra questi, universalità e uguaglianza", dice Bianco.
Tra i principi proposti dall'Italia (e accettati) quello della responsabiltà sull'uso appropriato delle risorse economiche. "Un'indicazione che abbiamo inserito nei doveri morali del medico nel nuovo Codice deontologico italiano, aggiornato nel 2006, così come gli altri principi che abbiamo proposto nella Carta europea, ovvero la responsabilità nella gestione corretta delle risorse ambientali e il dovere di adoperarsi in modo attivo per la prevenzione, rilevazione e gestione per la sicurezza delle cure".
La Carta inoltre, anticipa Bianco, rispecchia la convenzione di Oviedo, sul consenso informato, sulla necessità di tenere conto delle dichiarazioni anticipate del paziente.
Da questo documento, che sarà firmato dai 25 Paesi che hanno Ordini professionali, si partirà per definire un codice deontologico comune "molto più complicato perché la deontologia, a differenza dell'affermazione dei principi etici, è strettamente connessa all'assetto normativo e alle legislazioni di ciascun Paese. Ed è difficile quindi arrivare ad una sintesi". Ma è necessario arrivarci "e ci stiamo lavorando. Non è possibile infatti pensare a garantire efficacia, qualità e sicurezza alla libera circolazione dei pazienti e dei medici senza principi deontologici comuni che riguardano, ad esempio, il trattamento dei dati personali, la struttura del consenso informato, la sicurezza delle cure e le responsabilità dei medici", conclude Bianco.
Avvenire.it, 10 giugno 2011 - L'amore, il matrimonio, la famiglia / 1 - Non solo emozione ma vera «bene-volenza» di Giacomo Samek Lodovici
Siamo abituati a pensare che l'amore sia un'emozione, ma questa concezione non ne esprime compiutamente la natura e rende molto difficoltosa la costruzione o la sopravvivenza di una famiglia. Lo ha evidenziato in Croazia il Papa che, per due volte, ha messo appunto l'accento su una visione dell'amore che impedisce a priori la costituzione della famiglia o la mette seriamente in pericolo.
Sabato sera Benedetto XVI ha detto: «Solo nell'amore, quello che vuole e cerca il bene dell'altro, sperimentiamo veramente il significato della vita e siamo contenti di viverla, anche nelle fatiche, nelle prove». Domenica ha aggiunto, citando Giovanni Paolo II: «Un'autentica famiglia, fondata sul matrimonio, è in se stessa una buona notizia per il mondo»; ma sempre più constatiamo «una crescente disgregazione della famiglia», perché molto spesso si vive alla ricerca di «esperienze effimere, trascurando la qualità delle relazioni con le persone e i valori umani più profondi; si riduce l'amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive, senza impegnarsi a costruire legami duraturi di appartenenza reciproca».
Ora, se generalmente si conviene che l'amore non sia la mera pulsione sessuale (è evidente che chi si intrattiene con le prostitute le compra, non le ama), è più difficile comprendere che nell'amore ci sia qualcosa di diverso dall'emozione e dal sentimento. In realtà, l'amore si esprime in molti modi: come emozione, quella di chi prova la gioia per l'esserci dell'altro e/o (le due cose non coincidono) l'attrazione; come sentimento di trasporto, di attaccamento e di benevolenza; ma anche – già per Aristotele, cioè prima del cristianesimo – come atto della volontà che vuole il bene altrui. Del resto, "ti voglio bene" significa "io voglio per te il bene" e cerco di realizzarlo, se posso. A volte queste dimensioni dell'amore sono compresenti, anzi è auspicabile che lo siano nelle nostre vite; tuttavia non sono identiche: anche se mio figlio mi disgusta per ciò che ha fatto (per esempio perché ha commesso un crimine efferato), anche se l'emozione che provo verso di lui è la repulsione, nondimeno io lo amo se voglio e desidero e cerco il suo bene, il suo riscatto.
Ora, la presenza dell'amore che vuole il bene altrui è cruciale per una società, altrimenti essa diventa «liquida» (per usare la famosa espressione del sociologo Bauman), e i rapporti divengono fragilissimi. Infatti, se coltiviamo solo l'aspetto emozionale dell'amore, i nostri rapporti – familiari, ma non solo – rischiano di durare solo finché sono utili o finché persistono e sono intense le emozioni gradevoli che gli altri suscitano in noi. Inoltre, se viviamo prevalentemente come cercatori di emozioni, le difficoltà che sorgono nelle relazioni, soprattutto con chi ci è continuamente accanto come il coniuge, diventano progressivamente intollerabili. Prima ancora, la scelta di sposarsi viene percepita come la tomba dell'amore, come preclusione di nuove emozioni.
Il risultato lo documentano diverse indagini socio-psicologiche: una società dove non si coltivano i «legami duraturi di appartenenza reciproca» di cui parla il Papa, sperimenta, a lungo andare, moltissime sofferenze e ferite. Per esempio, quelle – le ricerche empiriche abbondano – dei bambini le cui famiglie si sono sfasciate (ma risulta, sempre empiricamente, che anche i loro genitori sono spesso infelici). Coltivare e promuovere l'amore come bene-volenza è davvero cruciale. E Benedetto XVI lo ricorda instancabilmente perché gli preme il bene della donna e dell'uomo.
Avvenire.it, 10 giugno 2011 - IL FATTO - La meglio gioventù di Alessandro D'Avenia
Per parlare dei ragazzi bisogna guardarli e ascoltarli. Non in televisione, ma in carne e ossa. Da quando insegno ho sempre avvertito una certa distanza tra i ragazzi che incontravo in classe e quelli raccontati dai media. Il ragazzo che emerge dai media non è reale: come il marziano che cercando di decodificare i segnali usati dagli uomini senza conoscerli pensa che il semaforo rosso obblighi a fermarsi e mettersi le dita nel naso. La distanza tra realtà e rappresentazione ha lentamente scavato dentro di me il desiderio di raccontare il volto dei giovani che le telecamere non inquadrano. I ragazzi mi sembravano molto migliori di come ce li raccontano, ma non volevo cadere nell'errore opposto: una rappresentazione ideologica nell'altro senso.
Posso essere felice?
Negli anni precedenti all'uscita del mio libro sono andato in giro per molte città italiane per conoscere realtà scolastiche diverse grazie all'esperienza di professore e a quella di esperto di educazione e media, punto di osservazione privilegiato per cogliere i bisogni di questa generazione. Dopo l'uscita del libro la mia possibilità di incontrare ragazzi di scuole e città diverse si è moltiplicata aldilà di ogni mia più rosea aspettativa, ed è stato uno dei doni più interessanti del libro. Sono stato in decine di scuole di tutto il Paese e ho incontrato migliaia di ragazzi, con un dispendio di energie ripagate cento volte tanto: chi sta con i giovani diventa giovane. Il libro era il punto d'appoggio su cui fare leva: durante gli incontri si partiva dal libro per raggiungere altri porti. Questo è accaduto senza forzature, perché erano i ragazzi stessi a porre domande a un interlocutore che ritenevano valido per il semplice fatto di aver parlato di certi temi in un romanzo. Ho trovato un'accoglienza sorprendente (in scuole di tutti i tipi), e spesso gli incontri si svolgevano in orario pomeridiano, a partecipazione libera: centinaia di ragazzi. Li ho visti rimanere oltre l'orario scolastico, ritardare l'orario del treno, organizzarsi affittando un pullman... per ascoltare un professore parlare di un libro. Mi chiedevo dove fosse la ragione di questa mobilitazione. La risposta era nelle loro domande: venivano per chiedere su dolore, morte, felicità, amore, sesso, Dio, fede, paura... Insomma quelle domande che ruotano attorno ai quesiti di sempre, riassunti nel grido: posso essere io felice? Percepivano nel libro uno spiraglio su un mondo desiderato. Niente muove le persone come la felicità, niente muove un ragazzo o una ragazza come la possibilità di raggiungerla.
Donare il tempo
Mi ha colpito il fatto che mentre molti adulti mi ringraziano o criticano per quello che faccio o dico, per la mia performance, i ragazzi ringraziano soprattutto per il tempo che dedico loro: «Grazie per il suo tempo» è il grazie più frequente. Così ho capito che prima ancora di giudicare i ragazzi che ho di fronte devo giudicare l'uso che faccio del mio tempo: quanto tempo dedico ai miei alunni al di fuori delle ore in classe? Tempo di quello vero: che prendi e butti via per loro. Donare tempo è l'unica forma di amore reale: Dio si è fatto tempo per regalarci il senza tempo. Il ringraziare per il tempo donato manifesta due punti forti di questa generazione: la silenziosa richiesta di ascolto da parte degli adulti (che rinfacciano loro proprio il fatto di non ascoltare, ma perché una persona ascolti deve essere prima ascoltata) e la capacità di ringraziare quando riconoscono la gratuità. Sono attratti dalla vita come dono, non come prestazione o come consumo egoistico.
Niente effetti speciali
Negli incontri non vado a fare pubblicità al mio libro, ma vado a complicare le loro vite, a spronarli, a metterli in crisi. Molti di loro escono in crisi, una crisi positiva, una benedizione, la crisi di chi scopre che può liberare delle forze imprigionate. Solo a contatto con la ricerca della verità le forze di un ragazzo si liberano, la libertà è messa in gioco. Non uso effetti speciali, solo le parole. E la parola che loro vogliono sentire non è quella che dà soluzioni, quella non l'ascoltano, ma la parola accompagnata da occhi che brillano, la parola vissuta, la parola che cerca la verità e la ama senza nascondere la fatica e gli insuccessi. Questi ragazzi hanno bisogno di persone che manifestino di non avere paura di vivere, anche se la vita fa tremare e non bisogna nasconderlo, solo così cominciano a generare la vita e si sentono spronati a farlo, nell'età in cui il loro corpo scopre di essere fatto per generarla. Ma abbiamo talmente anestetizzato la verità e virtualizzato la realtà che le verità più evidenti come il corpo, l'amore, il sesso, il dolore, la morte, la felicità, Dio... diventano allegorie ideologiche, ingabbiate in interpretazioni preconfezionate prima ancora di essere vissute, e questo vale anche in ambito cattolico.
Ho visto ragazzi creare canzoni, pezzi teatrali, balli, video ispirati al libro. Ho ascoltato confidenze disperate di ragazzi che non riuscivano a trovare un adulto a cui chiedere aiuto, ho visto ragazzi alla ricerca di un sogno diverso da ciò che si può comprare. Mi sembra di avere a che fare con una generazione che è stata generata biologicamente ma non culturalmente, e quindi è privata di un ordine simbolico e narrativo grazie al quale interpretare esperienze ed emozioni. Se manca il senso si perdono i significati. Dolore senza significato, vita senza significato, sesso senza significato... Ecco cosa cercano: una capacità di lettura della realtà, che se viene a mancare oscilla tra labilità delle emozioni (più forti sono, più mi sento vivo) e dipendenza dal più forte, dal così fan tutti (conformismo). Entrambi gli atteggiamenti scavano un pozzo di dolore nei loro cuori, una prigione interiore di noia e incertezza.
C'è bisogno di adulti
Quali le risorse da intercettare? Infinite. La loro fame è maggiore, perché più profonda. Più difficile da raggiungere perché più facilmente soddisfatta da surrogati.
Ho incontrato ragazzi che a 14 anni hanno già messo in piedi business leciti da centinaia di euro, ho incontrato ragazzi che a 16 anni hanno inventato una radio dal computer di casa loro, ho incontrato ragazzi generosi e disposti a mettersi in gioco per gli altri, se solo qualcuno sfida le loro vite e le inserisce in un orizzonte più grande. Ho incontrato anche ragazzi cinici, scettici: già arrugginiti e disincantati alla loro età, rifugiati in un mondo piccolo piccolo di affetti privati e ossessivi, droghe e disturbi di vario tipo, senza interessi o passioni, se non quelle capaci di scatenare adrenalina.
Ecco cosa mi ha scritto sul blog (profduepuntozero.it) una sedicenne: «Prova un giorno a travestirti da insegnante precario e a insegnare a una terza aziendale, dove sono tutti ragazzi che spacciano a cui non importa nulla di avere un diploma... O semplicemente nella mia classe, ghetto di ragazze popolari che arrivano la mattina strafatte di canne e dormono tutto il tempo con la testa sul banco... Prova a insegnare Dante, Boccaccio e Petrarca a dei ragazzi che non sanno cosa vuol dire amare la vita... E i professori si lasciano trasportare, un po' come quei ragazzi, a quella stessa condizione, pensando che non ci sia più nulla da fare. Il più di volte troviamo insegnanti con poca voglia di vivere, quindi di lavorare, quindi di insegnare. Allora la domanda che sorge è se non bisogna cambiare il mondo adulto prima di voler cambiare il mondo adolescenziale, prima di lavorare sull'insegnamento lavoriamo sugli insegnanti». Accolta la provocazione le ho risposto che sono stato precario sino all'anno scorso (33 anni), che ho cambiato due volte città (Palermo, Roma, Milano), che ho cominciato a insegnare alle medie e in un doposcuola di un quartiere disastrato della mia città natale. Ho incontrato ragazzi del liceo, ma anche di istituti professionali, tecnici, nautici e chi più ne ha più ne metta, e non li ho trovati meno motivati e reattivi dei primi, anzi, gli incontri più interessanti li ho avuti proprio in questo tipo di realtà. Le ho poi chiesto spiegazione su alcune delle dinamiche autodistruttive descritte e mi ha risposto: «Non tutti sono capaci di costruire il ponte della comunicazione tra alunni e insegnanti, certi ci provano ma usando un legno scadente che si distrugge alla prima bufera. Allora si rinuncia a ricostruirlo con gli strumenti giusti e si resta bloccati ognuno dalla propria parte senza possibilità di congiunzione. A me personalmente la distanza fa paura. Fa paura a molti ragazzi. Hanno paura che nessuno in realtà possa davvero arrivare a concepire almeno in parte il loro dolore, spesso perché a casa, la famiglia non si rende conto del disagio e li abbandona emotivamente a loro stessi, così quando arrivano a scuola cercano in qualche modo di attirare una silenziosa attenzione, cercano di esternarlo con comportamenti "animali", sfogando una rabbia e una tristezza davvero spaventose. Ai ragazzi forse importa avere un diploma, il problema è che se non hanno le basi affettive indispensabili per affrontare la crescita con le sue difficoltà, non avranno le energie necessarie per arrivare a guadagnarselo. Se però sono stanchi a 16 anni e la vita ti annoia, probabilmente l'apatia affettiva li ha già svuotati e non sanno come andare avanti, con che forza e per quale scopo. I genitori sono lontani anni luce sensibilmente parlando. Allora ci provano con gli insegnanti, insomma con qualcuno che ricordi loro, e chiedono aiuto attraverso i loro comportamenti. Abbiamo pochi professori che se ne accorgono, pochi quelli che ci tengono davvero. Per questo sei l'eccezione che conferma la regola. C'è bisogno di adulti: chi c'è? Se fossi un'insegnante mi rimboccherei le maniche per fare la mia parte, non emarginando nessuno. Se fossi un'insegnante cercherei di sfruttare al meglio gli attrezzi che ho a disposizione». Io meglio non avrei saputo dirlo.
«Prof, avremo un futuro?»
La meglio gioventù c'è, ma la meglio "non-gioventù" dov'è? Il problema restiamo noi adulti e la cultura che abbiamo costruito attorno a questi ragazzi. Così mi scrive una maturanda: «La prof di italiano ci ha detto: Smettete di sognare, non ne vale la pena... perdete solo tempo... vivete con i piedi per terra perché con una generazione senza futuro e senza valori come la vostra solo vivendo razionalmente riuscirete a concludere qualcosa... Non date retta a certi professori che vi spingono a osare... a puntare in alto... a credere che ogni tanto la botta di "fortuna" arrivi per tutti... la fortuna non esiste... esistono solo raccomandazioni e raccomandati... quindi rassegnatevi...».
La misura alta del quotidiano di cui parlava il beato Karol è spazzata via.Il criterio di felicità è ridotto al successo e non alla capacità di sognare la vita che ci è stata data, accettare e trasformare il destino che abbiamo in una vita personale, vivendo per la ricerca di verità, bene e bellezza nello spazio consentito dai nostri limiti e pregi. La razionalità è pura funzione pragmatica. «Ho paura prof, tanta paura, paura di crescere, paura che la prof abbia ragione, paura di sognare. Sono demoralizzata perché mi rendo conto che forse non avremo mai davvero un futuro. È così brutto a 18 anni pensare questo...».
L'epoca delle passioni tristi
La meglio gioventù c'è, non c'è però speranza, perché le utopie si sono rivelate tali. La meglio gioventù c'è: c'è quella forte, con alle spalle famiglie forti, che stanno già costruendo il loro futuro e non aspettano altro che il tempo faccia il suo corso con chi li ha preceduti (la società italiana è una piramide rovesciata, pochi giovani portano il peso di un'Italia che invecchia). C'è la gioventù fragile, che soccombe sotto i colpi del cinismo e del disfattismo di chi spesso non vuole fare i conti con i propri fallimenti, ma anche questi cercano interlocutori per sopravvivere e a volte la loro fragilità esplode in richiami che non si possono ignorare: dipendenze, disturbi alimentari, suicidi. Sono i frutti più maturi della dittatura del relativismo. Ho sentito una professoressa dire, dopo un mio incontro: «A scuola dobbiamo seminare dubbi, non certezze». Io non semino certezze, ma voglia di vivere per la verità, il bene e la bellezza. L'alternativa non è tra dubbi e certezze, ma tra senso e non senso della vita. L'epoca delle passioni tristi (titolo di un libro che ogni educatore dovrebbe leggere) è l'epoca che ha imbrigliato le risorse migliori, perché la ricerca della verità è stata rimossa dal centro della società e delle relazioni. Non si genera vita perché si ha paura di vivere e si ha paura perché non c'è verità da seguire.
Chi paga la dittatura relativista sono quelli che per essenza sono fatti per la verità: i giovani. Le loro passioni tristi sono la nostra mancanza di vita interiore e di tempo, il nostro attaccamento alle cose prima che alle persone, la nostra fatica a donare, la nostra ebbrezza di carriere e consumi. Valgano le parole del rabbino di un romanzo di S.Zweig: «È più forte chi si aggrappa all'invisibile di chi confida nel percepibile, perché questo è effimero, quello permanente». Avremo il coraggio di tornare ad aggrapparci all'invisibile?
Le contraddizioni dell'aborto: in Occidente un diritto, in Oriente un dovere, di Aldo Vitale, ricercatore in filosofia e storia del diritto, 10 giugno 2011
Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Aldo Vitale, laureato in giurisprudenza su tematiche bioetiche e vincitore del dottorato di ricerca in "Teoria e Storia del diritto" presso l'Università Tor Vergata con il Prof. Francesco D'Agostino.
Se già si hanno molte difficoltà ad immaginarlo come diritto, figurarsi ad immaginare l'aborto come un dovere, eppure è così, soprattutto in certe culture, in alcuni Paesi, in determinate parti del mondo.
La rinomata e prestigiosa rivista scientifica The Lancet, lo scorso 24 maggio, ha pubblicato un articolato studio secondo il quale la sproporzione tra maschi e femmine nella popolazione in India è drasticamente aumentata, causando preoccupazione tra gli studiosi. La questione non è soltanto un problema afferente ai demografi ed ai sociologi, ma rappresenta per un verso un serio problema etico di massa, e per altro verso un paradosso su cui sono chiamati a misurarsi tutti gli abortisti mondiali.
Lo stesso studio, infatti, ripetuto ad anni di distanza dal primo del 2006 (in cui si stimava già all'epoca che le femmine abortite fossero più di dieci milioni ogni anno), rivela che la causa principale di questo squilibrio è l'aborto selettivo praticato a causa della cultura indiana che privilegia il sesso maschile rispetto a quello femminile. In un Paese che molti considerano economicamente in crescita e scientificamente avanzato, la cui forma spirituale, l'induismo, è da tanti stimata come apportatrice di benessere e pace, che per alcuni è il simbolo della vera democrazia, essendo una forma politeistica, a differenza dei tirannici monoteismi, in special modo del cristianesimo, si consuma, invece, un vero e proprio genocidio eugenetico fondato sulla discriminazione sessuale.
La tragica vicenda, a cui si spera si possa porre termine nel più breve tempo possibile, potrebbe rappresentare uno stimolo di riflessione per il femminismo occidentale: in Occidente la donna è considerata non libera se non può abortire, in Oriente la donna non è libera proprio a causa dell'aborto. Con palese violazione non solo e non tanto di ogni norma etica e medica, ma perfino logica, venendo questa dicotomia abortista globale a collidere direttamente con il principio di non contraddizione.
Non sprecate parole
Esercizi spirituali con il Padre Nostro di Carlo Maria Martini
Portalupi Editore
Indice
Premessa
Introduzione
Il fondamento (omelia)
I meditazione.
II meditazione.
(omelia)
I contesti evangelici del Padre Nostro
«Padre Nostro che sei nei cieli»
Spirito e Parola
Il Padre Nostro nel vangelo di Luca
Il Padre Nostro nel vangelo di Matteo
Qualche osservazione esegetica
Indicazioni per la preghiera
Padre Nostro e «Esercizi» ignaziani
Colui che Gesù chiama Padre
Per la preghiera
La dolcezza nel credere
La forza della Parola
III meditazione.
IV meditazione.
(omelia)
«Sia santificato il tuo nome»
«Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»
«Per questo sono stato mandato»
«"Santo" è il tuo nome»
Una suggestiva polivalenza di significati
I nostri atteggiamenti
Il contesto degli esercizi
Domanda di perdono
Perdono gratuito
Essere perfetti come il Padre
Pregare in verità
È Dio che irriga e fa crescere
Un ministero libero e coraggioso
V meditazione.
VI meditazione.
(omelia)
«Non ci indurre in tentazione»
«Ma liberaci dal male»
Fiducia illimitata nella Parola
Peccato, disordine, mondanità
Perché parlare di tentazione?
Cinque tipi di tentazioni
Fuggire le occasioni
«Strappaci» dalla peccaminosità
Gli inganni del Maligno
Resistere al Maligno
Una testimonianza personale
«Tutto è vostro»
VII meditazione.
VIII meditazione.
(omelia)
«Venga il tuo Regno»
«Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»
Nella libertà dello Spirito
Che cos'è il Regno?
Come lievito e seme
Il venire del Regno
In speranza e pace
Premessa
La volontà di Dio
in Gesù e nei discepoli
La volontà di Dio in noi
Perché venga la Gerusalemme celeste
Un modello di pastore
La legge dell' amore
«Il mio giudice è il Signore»
IX meditazione.
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano»
Quale pane?
Chi prega così?
Umiltà, fiducia filiale, solidarietà
Conclusione
In Afghanistan chi si converte rischia la vita di Danilo Quinto, 11-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
«Abbiamo ucciso nove missionari cristiani. Portavano Bibbie. Ed erano spie». Un portavoce dei talebani, nel maggio del 2010, annuncia con queste parole la strage avvenuta nella provincia del Nouristan, nel nord dell'Afghanistan, di nove persone. Il gruppo era formato da medici volontari, per lo più oculisti, impegnati per aiutare l'ospedale oftalmico Noor di Kabul, gestito dall'organizzazioen non goevrnativa cristiana International Assistance Mission.
L'Afghanistan non è nuovo a episodi di questo genere. Cinque uomini afgani che avevano abbracciato il cristianesimo furono assassinati in diverse circostanze alla fine di giugno del 2006. Il primo cadavere fu rinvenuto il primo luglio 2006. Con una telefonata all'Agenzia Reuters, un portavoce dei talebani, Adbul Latif Hakimi, annunciò la morte dell'ex Mullah Assad Ullah, risalente al giorno prima, nella provincia di Ghazni, roccaforte dei Talebani. L'ex mullah aveva ricevuto una copia del Nuovo Testamento cinque anni prima, ancora in pieno regime talebano ed era stato segretamente battezzato. Aveva 45 anni e lasciò la moglie e quattro figlie, fra i 7 e i 14 anni.
Il 7 agosto 2006, l'associazione evangelica Porte Aperte ebbe conferma di un altro assassinio: un afgano convertito al cristianesimo. Era sposato e senza figli. Durante il mese di luglio, altri tre afgani erano stati accoltellati o picchiati a morte in diverse circostanze. Ognuno di loro lasciò la moglie e diversi figli. I tre uomini erano stati accusati dai loro aggressori di leggere la Bibbia, di pregare nel nome di Gesù o di frequentare altri afgani noti per avere abbracciato il cristianesimo.
Amnesty International, nel suo rapporto sui diritti umani del 2010, evidenzia che le vittime civili causate dei talebani e da altri gruppi armati sono aumentate.
Secondo l'organizzazioen non governativa afgana Safety Of?ce, tra gennaio e settembre, gruppi armati hanno sferrato oltre 7400 attacchi in tutto il Paese. Le Nazioni Unite hanno registrato più di 2400 vittime tra i civili, circa due terzi dei quali sono state uccise dai talebani.
Per Amnesty International, il popolo afgano subisce gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, da quando - oltre sette anni fa - gli Usa e i loro alleati hanno destituito il regime dei talebani. L'accesso alle cure sanitarie, all'istruzione e agli aiuti umanitari è andato peggiorando, in particolare nel sud e nel sud-est del paese, a causa dell'escalation del con?itto armato tra le forze afgane e internazionali e i talebani e altri gruppi armati. Le violazioni legate al con?itto sono aumentate nel nord e nell'ovest dell'Afghanistan, zone considerate in precedenza relativamente sicure.
I talebani e altri gruppi antigovernativi hanno incrementato gli attacchi nei confronti dei civili, prendendo di mira anche scuole e ambulatori medici, in tutto il Paese. Le accuse di brogli elettorali nel corso delle elezioni presidenziali del 2009 hanno ri?ettuto preoccupazioni più ampie riguardo alla scarsa governabilità e alla corruzione endemica all'interno del governo. Gli afgani si sono trovati ad affrontare situazioni di illegalità associata a un ?orente traf?co di droga, un sistema giudiziario debole e inetto e a una sistematica mancanza di rispetto dello stato di diritto. Ha continuato a prevalere un clima di impunità e il governo è stato incapace di indagare e perseguire alti funzionari governativi da più parti ritenuti coinvolti in violazioni dei diritti umani, come pure in attività illegali.
Le Nazioni Unite, nel loro indice di sviluppo umano, hanno posto l'Afghanistan al secondo posto tra i 182 paesi più poveri al mondo. Il paese detiene il secondo più alto tasso di mortalità materna del mondo. Soltanto il 22% degli afgani ha accesso all'acqua potabile.
Questa, in sintesi, è la situazione di illegalità e di disagio sociale ed economico in cui versa l'Afghanistan. Gli osservatori internazionali e le organizzazioni che si occupano di libertà religiosa - tra queste, l'Istituto di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre - ritengono che nonostante le pressioni internazionali, il governo afgano non sembra in grado di attuare una politica rispettosa dei principi fondamentali che garantiscano una effettiva libertà religiosa.
Il peso della tradizione, i condizionamenti da parte delle fazioni islamiche radicali e la situazione di conflitto armato in molte province, determinano una situazione estremamente difficile non solo per la libertà religiosa, ma anche per il rispetto dei diritti umani fondamentali.
La Costituzione, approvata nel gennaio 2004, contiene elementi di ambiguità che consentono alle autorità locali interpretazioni più o meno restrittive dei diritti proclamati. Infatti, se da un lato si fa riferimento alla dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (art. 7) - affermando che le religioni diverse dall'Islam sono «libere di manifestare la loro fede e di esercitare i loro riti entro i limiti previsti dalla legge» - dall'altro l'islam è dichiarato religione di Stato e «non possono esserci leggi contrarie ai principi e alle decisioni della sacra religione dell'Islam»(art. 3).
Questa contraddizione, nella vita quotidiana, affida ai tribunali che applicano la shari'a l'interpretazione e il giudizio sui singoli casi riguardanti a esempio la blasfemia o l'apostasia: reati peraltro non previsti nel codice penale. Infatti l'art. 130 della Costituzione prevede, in caso di vuoto legislativo su una materia, di attenersi alla giurisprudenza Hanafi, una scuola ortodossa di giurisprudenza sunnita, seguita nell'Asia centrale e del sud. La diffamazione dell'islam (blasfemia) o il suo rinnegamento (apostasia), risultano quindi tra i reati perseguibili secondo la legge islamica, che a riguardo prevede la pena capitale. Le conversioni sono di fatto vietate e chi abbandona l'Islam per abbracciare altre religioni è costretto a vivere clandestinamente la propria fede.
Presidente e vice-presidente del Paese devono essere musulmani, anche se non è specificato se sunniti o sciiti. Fortissima è l'influenza di mullah e imam locali, soprattutto nelle zone più lontane dai centri cittadini; di conseguenza, la vita quotidiana dell'afghano comune è regolata e gestita secondo regole tradizionali, i cui effetti più drammatici si manifestano, ad esempio, nella condizione di vita della donna.
Nonostante i tentativi di riforma in atto nel Paese, la situazione della libertà religiosa rimane ancora molto difficile e tutto fa pensare che per giungere eventualmente a condizioni tollerabili secondo gli standard internazionali, siano necessari tempi molto lunghi.
L'associazione Porte Aperte - che stima una presenza di circa 3mila credenti cristiani nel Paese, numero che si sta costantemente incrementando - nel suo rapporto annuale afferma che fuori dalla capitale, la pressione esercitata da movimenti islamici radicali, inclusi i neotalebani, è forte e questi ultimi non permettono ad alcuna persona di abbandonare l'islam. Anche tutta la società in generale esercita una notevole pressione su ogni individuo afgano che voglia cambiare la propria religione. Molti credenti afgani finiscono quindi per tenere solo per se stessi la propria fede e di condividerla con quelle poche persone che sono di loro stretta fiducia. Inoltre, le famiglie stesse e i leader religiosi locali esercitano una non indifferente pressione su qualunque individuo che voglia cambiare la propria religione. Tutte queste persone rischiano la propria vita per aver cambiato religione.
[Nella foto: afghani cristiani esuli in Irlanda protestano contro le violazioni della libertà religiosa nella loro patria]
11/06/2011 - IL CASO - Rosita, la mucca che produce il latte delle mamme - In Argentina immessi geni umani nel bovino, contiene le proprietà alimentari umane - Il latte di Rosita, nata il 6 aprile, contiene anche due importanti proteine presenti nel latte materno ma assenti in quello bovino, di PIERO BIANUCCI, http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/406645/
Latte umano ma prodotto da una mucca. Umano nel senso che è biologicamente identico a quello di una donna: ne ha le stesse proprietà alimentari e soprattutto contiene due importanti proteine che si trovano nel latte materno ma sono assenti in quello bovino, e cioè la lattoferrina, che rinforza il sistema immunitario, e il lisozima, molecola dalla potente attività battericida. Succede in Argentina, è una collaborazione tra il National Institute of Agrobusiness Technology e della National University of San Martin. Nel DNA della mucca, chiamata Rosita e nata il 6 aprile con parto cesareo perché pesava il doppio del normale, sono stati introdotti i geni umani che codificano le due proteine.
Dal punto di vista scientifico non è una gran novità. Questa linea di sperimentazione va avanti da molti anni. L'idea guida consiste appunto nel considerare la mucca come una sorta di laboratorio vivente, programmabile tramite l'innesto di specifici geni che codificano proteine utili. L'obiettivo è ottenere «latte medicato», cioè contenente molecole terapeutiche che, estratte dal latte, possono poi essere usate come farmaci. Nel caso di Rosita il percorso è ancora più normale: in teoria il latte vaccino «umanizzato» non ha bisogno di ulteriori trattamenti e può andare direttamente nel biberon.
Ci sono precedenti anche più sorprendenti dal punto di vista farmaceutico, ma che emotivamente colpiscono di meno rispetto al latte materno, senza dubbio l'alimento più carico di valenze affettive e simboliche. Fin dagli Anni 80 del secolo scorso una varietà di Escherichia coli (sì, proprio il gruppo di batteri ora sotto accusa in Germania) fu modificata introducendovi il gene che nell'uomo codifica l'insulina, ormone indispensabile per utilizzare gli zuccheri, prodotto da cellule del pancreas. Da allora i malati di diabete dispongono di una insulina identica quella umana, mentre prima dovevano iniettarsi insulina di origine suina o bovina. Gli Escherichia sono poi stati sostituiti con altri microrganismi, i lieviti, anch'essi modificati con l'inserimento dei geni dell'insulina umana.
I neonati hanno un sistema immunologico debole. L'allattamento materno, oltre ad essere perfetto dal punto di vista nutrizionale, ha il ruolo fondamentale di dare al neonato gli anticorpi di cui ha bisogno per difendersi da infezioni e altre aggressioni esterne. Lattoferrina e losozima sono essenziali nel fornire al piccolo le prime difese. Per questo si incoraggia l'allattamento al seno, e quando la madre biologica non poteva farlo un tempo si ricorreva alle balie.
Appena la notizia di Rosita si è diffusa, la China Agricultural University di Pechino ha fatto sapere che i suoi ricercatori hanno già generato una intera mandria di mucche che producono latte umano. Annuncio da prendere con cautela: durante le Olimpiadi di Pechino decine di neonati cinesi morirono avvelenati da un latte «arricchito» con melammine, tanto che i colpevoli furono poi condannati a morte.
La Coldiretti ha subito messo in guardia dal latte vaccino umanizzato ricordando che secondo una ricerca dell'Eurobarometro quasi 3 persone su 4 sarebbero contrarie a dare ai loro bambini un latte materno ottenuto tramite ingegneria genetica. Battaglia di retroguardia? Vedremo. L'insulina tratta dai lieviti è un Ogm, ma fa vivere meglio milioni di persone.
E D I T O R I A L E – AGORÀ - FRA DAWKINS E HAWKING METTI L'OROLOGIAIO di ROBERTO TIMOSSI, Avvenire, 11 giugno 2011
Con il suo ultimo libro «The Grand Design» Stephen Hawking cerca, come tanti altri prima di lui, di confutare l'argomento del disegno intelligente quale prova dell'esistenza di Dio. Si tratta in fondo di uno dei tanti attacchi che negli ultimi tempi gli atei scientisti stanno portando a vasto raggio contro la teologia naturale, ossia nei confronti di ogni tentativo di dimostrare per via razionale l'esistenza di un Creatore trascendente all'origine del cosmo e della vita. Sono d'altronde comprensibili le motivazioni di questi attacchi, dal momento che la teologia naturale procede anch'essa dai risultati delle conoscenze della natura e compie quindi la stessa operazione metodologica degli atei scientisti, traendone però una conseguenza radicalmente opposta: la necessità razionale dell'esistenza di Dio per spiegare il mondo fisico. Non a caso in origine quella che tra i primi Agostino di Ippona chiama «teologia naturale» veniva denominata presso gli Stoici «teologia fisica». Il più noto esempio di teologia naturale, che è pure il più vituperato dagli atei scientisti, è quello dell'orologio e dell'orologiaio contenuto nel celebre saggio del teologo anglicano William Paley (1743-1805) intitolato «Natural Theology». La tesi in esso sostenuta è
semplice: se urtiamo un sasso attraversando la brughiera e ci chiediamo da dove provenga, concludiamo che è sempre stato lì, ovvero che esiste da sempre in natura; se invece troviamo in terra un orologio e lo esaminiamo, ci rendiamo subito conto della sua complessità meccanica e della sua precisa predisposizione funzionale, di conseguenza siamo portati a inferire che non è sempre stato lì e neppure è sempre esistito, ma deve aver avuto un creatore che lo ha messo insieme, in breve un orologiaio. La stessa cosa, sostiene Paley, possiamo concludere per gli organismi viventi ed estensivamente per il cosmo tutto, perché si spiegano soltanto con la presenza di un «Intelligent Creator». Hawking e il coautore Mlodinow Leonard non loro «Il grande disegno» non citano direttamente Paley, ma tutto il saggio è un evidente tentativo di dimostrare che l'Universo si spiega da sé e non ha quindi bisogno di un Creatore intelligente. Chi invece ha attaccato frontalmente la teoria del disegno è stato il noto biologo evoluzionista Richard Dawkins, che contro Paley ha praticamente scritto un intero libro («L'orologiaio cieco») e la cui intera opera polemica è un tentativo di screditare l'argomento dell'esistenza di Dio quale causa trascendente e intelligente del mondo. In realtà però, se non si cade negli eccessi fondamentalistici dei creazionisti statunitensi, gli argomenti della teologia naturale preservano una loro attualità e validità. Sul piano scientifico non si può infatti né negare né provare l'esistenza di un Disegno intelligente e di un Progettista cosmico, tanto più che la maggior parte degli uomini di scienza riconoscono che i processi sia fisici sia biologici sembrano seguire un orientamento su scala cosmica: quello della crescente complessità accompagnata dalla crescita di informazione. Non è dunque condivisibile il pessimismo di chi ritiene, anche tra i credenti, ormai impossibile qualsiasi forma di teologia naturale; anzi, proprio partendo dalla scienza moderna, per questa disciplina teologica di antica tradizione cristiana si aprono oggi nuovi potenziali orizzonti.
Avvenire.it, 11 giugno 2011, MEDICINA E PERSONA, Patologie rare, 3 milioni di malati - Nasce una «rete» dei genetisti cattolici di Domenico Montalto
Malati, talora incurabili, spesso alle prese con un male che la scienza medica non sa decifrare, «orfani» di diagnosi e di farmaco, il più delle volte soli, isolati, incompresi, senza conforto. Questa è la condizione in cui versano tanti di coloro che sono affetti da malattie cosiddette «rare». In Italia, un popolo di oltre 3 milioni di persone, rappresentato da 80 associazioni. Un dato epidemiologico eclatante, che connota un oggettivo fenomeno sociale, oltre che sanitario. Un fenomeno che solo occasionalmente raggiunge l'onore delle cronache. Il termine «malattia rara» non significa affatto numericamente irrilevante. Infatti, se la classificazione di malattie rare indica quelle patologie di nicchia, che presentano un'incidenza di meno di 5 casi ogni 10mila abitanti, bisogna però tener conto del fatto che la lista di questi malanni «misteriosi» è interminabile: 5mila, 7mila, addirittura 8mila, a seconda delle fonti scientifiche. Un problema e un rompicapo per i medici di base, generalmente impreparati a diagnosticare la varietà di sintomi diversissimi, per la farmacologia, per il sistema pubblico della salute, che attualmente riconosce e copre – in Italia – appena 500 di queste forme (1.500 nel resto Europa). Le difficoltà diagnostiche, le specifiche esigenze cliniche ed assistenziali, l'assenza di una terapia (le case farmaceutiche sono riluttanti a investire risorse per studiare prodotti con un mercato dai numeri bassi), fanno sì che i costi per i malati stessi e per i loro congiunti, in termini umani e materiali, siano a volte drammatici.
La gran parte di questa vastissima (e pressoché sconosciuta) famiglia di malattie è di origine genetica: sono cioè causate da un'anomalia insita nel genoma dell'individuo. E sono anche ereditarie, trasmettendosi alla prole da uno o da entrambi i genitori. Su questo fronte assume quindi rilievo sempre maggiore la ricerca genetica, mirata a identificare, con specifica diagnosi (basta un semplice prelievo del sangue), il cromosoma «difettoso» e le molecole che possano correggere tale difetto e – là dove non si trova una cura – possano trovare trattamenti appropriati per migliorare la qualità e la durata della vita del malato.
Nuove frontiere di conoscenza e di terapia in cui stanno giocando un ruolo conclamato e trainante la cultura medica cattolica e l'impegno di persone davvero «speciali» fra cui il dottor Matteo Bertelli, 38 anni, giovane ma già autorevole genetista di origini bresciane e animatore di MAGI Onlus, il quale da tempo si sta prodigando per tessere una tela, o meglio una rete di contatti e di scambi fra le realtà d'eccellenza e di riferimento nel campo, su scala nazionale e internazionale, coinvolgendo istituti di grandissimo nome come il Dipartimento di genetica dell'ospedale "Sollievo della sofferenza" di San Giovanni Rotondo, gli ospedali "Gemelli" e "San Giovanni Battista" di Roma e, ora, l'Università di Navarra. Un esempio di «collaborazione scientifica multicentrica al servizio della persona sofferente»; un lavoro rigorosamente <+corsivo>pro life<+tondo> senza eccessivi clamori e soprattutto un'unione di forze che sta producendo molti risultati concreti, sia negli studi sia nelle terapie, comprese quelle prenatali. Due esempi: il primo Rapporto sistematico in Europa sul linfedema primario familiare, grave malattia genetica dei vasi linfatici che può sfociare in terribili elefantiasi e amputazioni degli arti. E l'apertura, sempre a Dro, di un centro d'avanguardia per la diagnosi genetica, gestito dalla Magi in convenzione con le Asl dell'intero territorio nazionale.
Ma la nuova «rete» non si ferma all'Italia e all'Europa. Composta da medici specialisti, biologi e biotecnologi di altissima preparazione, MAGI Onlus si sta anche adoperando per veicolare le più aggiornate conoscenze sulle malattie genetiche a realtà sanitarie «arretrate» come quelle dei Paesi in via di sviluppo o di alcune zone dell'Est europeo. Progetti internazionali che attualmente comprendono la formazione e l'ospitalità in Italia per medici provenienti da Repubblica Ceca, Albania, Slovacchia, Russia.
Europride, è una questione di dignità di Riccardo Cascioli, 13-06-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
E' andata come si sapeva, tutti sicuramente abbiamo visto le immagini. La manifestazione romana dei gay europei ha dimostrato ancora una volta quanto siano vere le affermazioni che Luca di Tolve, ex gay militante, ha fatto a La Bussola Quotidiana riguardo alla realtà del mondo gay e al vero scopo di questi gay pride. Alla fine, per quanto lo spettacolo offerto sia stato becero e di cattivo gusto, possiamo dire che non siamo stati sorpresi: i gay pride sono sempre stati così.
Quello che invece ci ha sorpreso e sconcertato è lo spettacolo offerto dagli amministratori locali, in particolar modo il sindaco di Roma Gianni Alemanno e il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, molto più preoccupati di cavalcare il politicamente corretto che non esercitare la responsabilità che viene dal loro ruolo. Se si voleva dare dimostrazione di una "Roma città accogliente", che sembrava nei giorni scorsi l'unica preoccupazione di Alemanno, bastava semplicemente autorizzare la manifestazione, dare la possibilità al movimento gay – come a qualsiasi altro – di esprimere la propria posizione e anche la propria protesta mettendo a disposizione la piazza più adeguata. E' diverso invece dare il patrocinio a una manifestazione, che va ben oltre l'accettare che un gruppo manifesti liberamente il proprio pensiero: è dargli un sostegno morale e, a volte, anche economico. Altra cosa ancora è poi partecipare in prima persona alla manifestazione: significa che, oltre a tutto il resto, si fanno proprie le rivendicazioni o le pretese di chi manifesta.
Allora, che bisogno c'era per Alemanno e Polverini di esporsi così entusiasticamente e acriticamente a sostegno del gay pride, ben sapendo che l'agenda del movimento gay – sostituzione dei 2 sessi naturali con innumerevoli varianti di preferenze sessuali, riconoscimento delle unioni gay, adozioni di bambini da parte dei gay – è agli antipodi del programma per cui sono stati eletti e dei valori condivisi dalla stragrande maggioranza del proprio elettorato?
Nella migliore delle ipotesi è il segno di una debolezza culturale del centro destra – cosa peraltro spiegata pochi giorni fa anche in un articolo di Robi Ronza – che è allarmante. E nelle analisi che continuano a essere svolte sulle ragioni della sconfitta del centrodestra alle recenti elezioni amministrative, andrebbe preso in considerazione questo allinearsi alla cultura dominante che porta a rinnegare il programma elettorale, un punto dopo l'altro.
Una seconda questione che lascia sconcertati è l'assoluta noncuranza con cui si sono accolte le manifestazioni più becere e disgustose, come se fossero assolutamente normali. Ci chiediamo: una volta ottenuta l'autorizzazione a manifestare, all'interno della manifestazione stessa è sospesa ogni legge dello Stato? Oppure ci sono anche delle regole per poter manifestare, dei limiti di pubblica decenza da dover osservare, come è anche per tutti i normali cittadini?
Non è un problema di omosessuali: avremmo trovato ugualmente disgustoso se al Family Day, tanto per fare un esempio, coppie giovani e meno giovani avessero voluto mostrare il loro orgoglio etero facendo vedere pubblicamente come si fa ad avere figli. E avremmo trovato parimenti sconcertante l'atteggiamento delle autorità se avessero consentito tutto ciò.
Non è neanche un problema moralistico: è semplicemente una questione di rispetto per gli altri, rispetto di regole condivise che la comunità si è data perché tutti si possano esprimere senza prevaricare l'altro.
Purtroppo sembra che le regole e le leggi che valgono per i comuni cittadini, non valgano più per gli attivisti gay, alla faccia della loro presunta discriminazione. I discriminati siamo noi, costretti a subire l'arroganza e la violenza di immagini ed espressioni che ci sono imposte e contro le quali siamo impossibilitati a dire alcunché, pena la denuncia di omofobia. Peraltro anche le proteste o la legittima disapprovazione di persone e religioni dovrebbe stare entro i limiti del rispetto. Quello che si è visto sabato sera a Roma contro il Papa e la Chiesa va ben oltre quei limiti, e non è accettabile. E men che meno è accettabile che sindaco e presidente della Regione, troppo impegnati a elemosinare qualche consenso da gay e lesbiche, abbiano ignorato il tutto.
In gioco non c'è il diritto dei gay a dire pubblicamente quello in cui credono, ma il diritto di tutti a essere rispettati nella propria dignità.
La Pentecoste di rom e sinti di Massimo Introvigne. 13-06-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it
Sabato 11 giugno, vigilia di Pentecoste, Roma è stata teatro di una grande manifestazione di persone di ogni parte d'Europa convenute nella Città Eterna per ascoltare una parola di speranza. I lettori di altri quotidiani potrebbero pensare all'ennesimo pezzo sul raduno omosessuale Europride, di cui davvero si è parlato fin troppo. Ma per i cattolici che leggono La Bussola Quotidiana la manifestazione davvero importante dell'11 giugno a Roma è stata il pellegrinaggio di migliaia di rom e sinti convenuti con il Papa a Roma per celebrare il centocinquantesimo anniversario della nascita e il settantacinquesimo del martirio del «loro» beato, Zefirino (Ceferino) Giménez Malla (1861-1936).
Il pellegrinaggio è stata una vera, storica Pentecoste dei rom e sinti, una manifestazione di quella universalità della Chiesa che il Pontefice ha ricordato domenica 12 giugno nella sua omelia di Pentecoste: un'universalità che «non è il frutto dell'inclusione successiva di diverse comunità. Fin dal primo istante, infatti, lo Spirito Santo l'ha creata come la Chiesa di tutti i popoli; essa abbraccia il mondo intero, supera tutte le frontiere di razza, classe, nazione; abbatte tutte le barriere e unisce gli uomini nella professione del Dio uno e trino. Fin dall'inizio la Chiesa è una, cattolica e apostolica: questa è la sua vera natura e come tale deve essere riconosciuta. Essa è santa, non grazie alla capacità dei suoi membri, ma perché Dio stesso, con il suo Spirito, la crea, la purifica e la santifica sempre».
Molto attese erano però le parole che il Papa avrebbe rivolto ai rom e sinti: anche – lo confesso – da me, che come Rappresentante dell'OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo e alla discriminazione religiosa, ho nel mio mandato la problematica relativa all'integrazione dei sinti e rom nei cinquantasei Paesi che partecipano a questa organizzazione internazionale. In un articolo sulla Bussola Quotidiana avevo ricordato che l'OSCE ha un suo «Piano d'azione per i Rom», e che nel corso del mio mandato da questo piano ho scelto due priorità: un dialogo con gli Stati perché l'integrazione abitativa e scolastica superi la nozione di «nomadi» – dal momento che molti rom hanno abbandonato il nomadismo e vivono da decenni nella stessa località –, e uno sforzo perché quando si ricorda l'Olocausto si spieghi sempre, soprattutto nelle scuole, che accanto alla Shoah ebraica ci fu anche il Porrájmos, lo sterminio dei rom che fece almeno trecentomila morti.
Ricordare il fatto che molti progetti di sterminio nazisti parlano insieme di «ebrei e zingari» contribuisce anche a far comprendere meglio le radici razziste dell'infame logica hitleriana. E aiuta a distinguere l'antisemitismo razziale nazista dal tradizionale antigiudaismo europeo fondato sulla religione, senza escludere le responsabilità del secondo nel creare in alcuni Paesi un clima che favorì il successo d'ideologie razziste, che erano però intrinsecamente diverse da ogni ostilità all'ebraismo di matrice religiosa, come dimostra proprio l'inclusione nei progetti di «soluzione finale» di rom e sinti che erano in buona parte cristiani.
Le mie scelte di priorità non hanno nulla di particolarmente originale. Molte voci nella Chiesa Cattolica e nelle organizzazioni internazionali hanno da anni offerto raccomandazioni analoghe. Anche il Papa l'11 giugno ha ripreso le stesse due priorità, aggiungendone però una terza, non meno importante delle prime due.
Benedetto XVI ha anzitutto invitato tutti a ricordare la tragedia che ha colpito i rom e i sinti «nella II Guerra Mondiale: migliaia di donne, uomini e bambini sono stati barbaramente uccisi nei campi di sterminio. È stato – come voi dite – il Porrájmos, il "Grande Divoramento", un dramma ancora poco riconosciuto e di cui si misurano a fatica le proporzioni, ma che le vostre famiglie portano impresso nel cuore». «Durante la mia visita al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, il 28 maggio 2006 – ha ricordato il Pontefice – ho pregato per le vittime della persecuzione e mi sono inchinato di fronte alla lapide in lingua romanes, che ricorda i vostri caduti. La coscienza europea non può dimenticare tanto dolore! Mai più il vostro popolo sia oggetto di vessazioni, di rifiuto e di disprezzo!».
Rom e sinti sono stati peraltro oggetto di discriminazioni e persecuzioni – certo, meno letali del Porrájmos – anche da parte di regimi comunisti. Si situa in questo contesto l'occasione del pellegrinaggio a Roma: il ricordo del beato Zefirino, un rom terziario francescano e infaticabile catechista del suo popolo che morì fucilato dai repubblicani durante la guerra di Spagna, con il Rosario in mano e gridando «Viva Cristo Re!». «L'amicizia con il Signore – ha detto Benedetto XVI – ha reso questo Martire testimone autentico della fede e della carità. Con l'intensità con cui egli adorava Dio e scopriva la sua presenza in ogni persona e in ogni avvenimento, il beato Zefirino amava la Chiesa e i suoi Pastori. Terziario francescano, rimase fedele al suo essere zingaro, alla storia e all'identità della propria etnia. Sposato secondo la tradizione dei gitani, assieme alla consorte decise di convalidare il legame nella Chiesa con il sacramento del Matrimonio. La sua profonda religiosità trovava espressione nella partecipazione quotidiana alla Santa Messa e nella recita del Rosario. Proprio la corona, che teneva sempre in tasca, divenne causa del suo arresto e fece del beato Zefirino un autentico "martire del Rosario", poiché non lasciò che gliela togliessero di mano nemmeno in punto di morte».
Dal ricordo del beato Zefirino il Pontefice è passato al secondo punto: l'integrazione, la quale deve tenere conto che oggi «molte etnie non sono più nomadi, ma cercano stabilità con nuove aspettative di fronte alla vita». «La ricerca di alloggi e lavoro dignitosi e di istruzione per i figli sono le basi – ha affermato il Papa – su cui costruire quell'integrazione da cui trarrete beneficio voi e l'intera società», un'integrazione che le istituzioni possono e devono sostenere. Il Pontefice si è però tenuto lontano da ogni retorica del vittimismo, che in questo campo fa spesso gravi danni, ricordando a rom e sinti che l'integrazione non può venire soltanto dall'esterno ma richiede un reale sforzo da parte loro. Il ricollocamento in unità abitative che superino la logica dei «nomadi» e quindi dei campi e la piena scolarizzazione delle nuove generazioni sono processi che incontrano difficoltà che derivano dai governi, ma spesso anche dagli stessi rom.
«Date anche voi – ha detto il Papa – la vostra fattiva e leale collaborazione, affinché le vostre famiglie si collochino degnamente nel tessuto civile europeo! Numerosi tra voi sono i bambini e i giovani che desiderano istruirsi e vivere con gli altri e come gli altri. A loro guardo con particolare affetto, convinto che i vostri figli hanno diritto a una vita migliore. Sia il loro bene la vostra più grande aspirazione!». Il beato Zefirino, ha aggiunto il Papa, «indica la via», che comprende «l'osservanza dei comandamenti, l'onestà, la carità e la generosità verso il prossimo». Se all'Europa chiede una riflessione perché non si ripetano mai più le pagine oscure dei campi di sterminio, il Pontefice rivolge un appello anche agli stessi rom e sinti: «Da parte vostra, ricercate sempre la giustizia, la legalità, la riconciliazione e sforzatevi di non essere mai causa della sofferenza altrui!».
C'è un terzo punto, tutt'altro che secondario, che non rientra nel mandato delle organizzazioni internazionali ma che è al cuore della missione della Chiesa. La più potente forza d'integrazione è la religione. Parlando con rom, come ultimamente mi capita più spesso di fare, si scopre che molti di loro hanno l'impressione – in parte ingiusta ma diffusa – che i cattolici impegnati nelle loro comunità si occupino essenzialmente di promozione umana, mentre chi parla di Gesù Cristo e propone il Vangelo ai non cristiani viene più spesso dalle comunità protestanti pentecostali – molto presenti fra i rom, soprattutto in Francia – o da nuovi movimenti religiosi. Paradossalmente, molti rom nati cattolici continuano a rivolgersi a organizzazioni ecclesiali per la tutela dei loro diritti ma frequentano poi il culto pentecostale o i Testimoni di Geova per quanto riguarda la religione. Il Papa ha invitato i rom e sinti cattolici a rafforzare, ancora prendendo esempio dal beato Zefirino, «la dedizione alla preghiera e in particolare al Rosario, l'amore per l'Eucaristia e per gli altri Sacramenti», assicurando che questo «vi renderà forti di fronte al rischio che le sette o altri gruppi mettano in pericolo la vostra comunione con la Chiesa».
Benedetto XVI ha voluto rivolgere un forte appello ai rom cattolici e alle organizzazioni ecclesiali che operano al loro servizio perché, senza trascurare affatto la promozione umana, non dimentichino la priorità dell'annuncio e dell'evangelizzazione. Ha ricordato che «il Servo di Dio Paolo VI (1897-1978) rivolse agli Zingari, nel 1965, queste indimenticabili parole: "Voi nella Chiesa non siete ai margini, ma, sotto certi aspetti, voi siete al centro, voi siete nel cuore. Voi siete nel cuore della Chiesa". Anch'io ripeto oggi con affetto: voi siete nella Chiesa!». «La Chiesa cammina con voi e vi invita a vivere secondo le impegnative esigenze del Vangelo», secondo «l'amore per la Chiesa e per il Papa»: «anche voi siete chiamati a partecipare attivamente alla missione evangelizzatrice della Chiesa, promuovendo l'attività pastorale nelle vostre comunità».
«Siamo – ha concluso il Papa – alla Vigilia di Pentecoste, quando il Signore effuse il suo Spirito sugli Apostoli che cominciarono ad annunciare il Vangelo nelle lingue di tutti i popoli. Lo Spirito Santo elargisca i suoi doni in abbondanza su tutti voi, sulle vostre famiglie e comunità sparse nel mondo e vi renda testimoni generosi di Cristo Risorto. Maria Santissima, tanto cara al vostro popolo e che voi invocate come "Amari Devleskeridej", "Nostra Madre di Dio", vi accompagni per le vie del mondo e il beato Zefirino vi sostenga con la sua intercessione». Può sembrare che il Rosario, l'amore alla Madonna, all'eucarestia, al Papa siano temi lontani dalle dure necessità quotidiane dei rom e dei sinti. Ma da un certo punto di vista sta qui invece una parte importante della soluzione ai loro problemi. In lingua romanes, Benedetto XVI ha salutato la folla di rom e sinti con l'augurio tradizionale: « O Del del tumén sastimós te baxht acén e Devlesa», «Rimanete con Dio. Il Signore vi doni salute e fortuna». Nelle loro difficoltà, sinti e rom ne hanno davvero bisogno.
Storia di Farah, cattolica perseguitata di Elisabetta Galeffi, 13-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
Farah è una ragazza cristiana, cattolica, di 23 anni che vive nel sud del Punjab, a Rahim, in Pakistan. Frequentava il primo anno di college per diventare infermiera professionale presso il dipartimento di ortopedia del Sheikh Zaid Medical College, il 7 maggio 2011 è stata rapita.
Si conosce anche il nome del suo rapitore, Zeeshan Ilyas, un musulmano che lavora da bancario. La famiglia di Farah ha immediatamente capito cosa era successo: un rapimento a scopo di matrimonio forzato. Non ha perso tempo e ha riportato il caso alla divisione di polizia di Rahim, ma il capo della polizia ha rifiutato il caso. Con il sostegno della comunità cristiana, la famiglia di Farah è riuscita a fare allora accettare il caso dal dipartimento di polizia distrettuale, ma, inspiegabilmente, il comando ha deciso di arrestare i fratelli del colpevole e non lui.
E poi, senza che a Farah sia stato concessa la possibilità di vedere neppure per un attimo alcun membro della sua famiglia, arriva la richiesta della giovane di volersi presentare al tribunale locale per rilasciare una dichiarazione: un atto legale per dire che il suo non è da considerarsi un rapimento, ma una fuga per sposarsi con Zeeshan e per convertirsi all'islamismo. «Legalmente», spiega l'avvocato pakistano Yar Khan, «quando una dichiarazione del genere è rimessa di fronte a una corte di giustizia, il giudice manda via tutti in presenti in tribunale e rimane solo con chi dovrebbe firmare la dichiarazione; ma in questo caso non si è riusciti a liberare l'aula del tribunale da coloro che proteggono e supportano il "probabile" rapitore».
La madre di Farah ha riferito che la firma della ragazza apposta in calce alla dichiarazione non corrisponde alla grafia della figlia e che quindi non può essere autentica, peraltro non essendo vergata in inglese cioè nell'unica lingua in cui ella ha sempre scritto.
Anche in tribunale è stato impedito alla madre e ai fratelli di avvicinarsi a quella che è stata presentata loro come Farah: il velo e il lungo vestito che coprivano completamente il corpo della ragazza, lasciandole liberi solo gli occhi, nascondevano i segni delle percosse. Per tutta la durata dell'udienza, la ragazza non ha peraltro pronunciato una sola parola. Del resto, all'agenzia missionaria Fides mons. Lawerence Saldanha, arcivescovo emerito di Lahore, ha peraltro detto «che sarà quasi impossibile che la ragazza possa tornare alla sua famiglia. Troppe sono le pressioni contro i cristiani ai funzionari di polizia pakistana».
Nel rapporto annuale sulla condizione delle minoranze religiose in Pakistan presentato dal Jannah Institute di Karachi è documentato il progressivo deteriorarsi della condizione in cui nel Paese vivono i credenti di fedi diverse da quella islamica e l'aumento dell'estremismo. A dare la notizia ai media internazionali,
Ne ha dato notizia alla stampa internazionale la presidente dell'istituto, la deputata pakistana Sherry Rehman, islamica, che nei mesi scorsi ha presentato una proposta di legge per modificare la vituperata "legge sulla blasfemia" e che per questo oggi vive sotto scorta, oggetto di continue minacce di morte. Nel rapporto sono riportati «casi e testimonianze di fenomeni preoccupanti di violenze di massa contro intere comunità appartenenti a gruppi di minoranze religiosa, attacco ai luoghi di culto, ostacoli per i cittadini non mussulmani per trovare lavoro o per i ragazzi, recarsi a scuola, le conversioni forzate sono all'ordine del giorno».
Quanto a Farah, il responsabile per la difesa delle minoranze nel sud del Punjab, il cristiano Karam Michael, ha profuso diversi tentativi per portarne il caso all'attenzione dell'opinione pubblica pakistana, invitando la famiglia della ragazza a recarsi a Lahore. Ma nel frattempo la polizia del villaggio di Rahim ha emesso un mandato di cattura contro due dei fratelli della ragazza.
«A volte un giudice decide di tenere in prigione un accusato, perché accordargli la libertà anche in presenza di prove a sua discolpa, metterebbe a rischio la sua vita»: così commenta il pastore Azariah, reverendo protestante di Rawind, che testimonia la totale incapacità dimostrata dal sistema giudiziario pakistano e della sua polizia nell'imporre il rispetto della giustizia.
Sono 13 anni che in Pakistan non viene effettuato il censimento della popolazione. Il più recente, del 1998, stabilisce che su una popolazione di 140 milioni di abitanti solo l'1,5% dei pakistani è cristiano, tra l'altro fortemente concentrato nelle provincie del Punjab, nell'area di Sialkot, Faislabad, Guiranwala, Lahore e Raiwind.
Nella zone in cui abita, che è pure quella dove vive la maggioranza della popolazione cristiana, il rev. Azariah ha quindi organizzato momenti ecumenici di preghiera: «I fedeli delle nostre chiese sono pochi, ma tutti assieme è più facile pagare il servizio di sicurezza necessario per le nostre chiese, i nostri istituti religiosi e le nostre scuole. I servizi di sicurezza costano molto e sono, purtroppo, assolutamente, necessari».
IL CASO/ Quella tv che batte il partito dell'eutanasia e della morte
Carlo Bellieni
lunedì 13 giugno 2011
La trasmissione Invincibili, in onda su Italia 1 e condotta da Marco Berry, presenta le storie di rinascita di persone che dopo grandi sofferenze sono tornate a rivivere. Non mi aspettavo che fosse un bel programma, perché siamo così abituati al trash e alle lacrime facili sui drammi che abbiamo perso la speranza di vedere qualcosa di bello. Invece, abbiamo visto una trasmissione che semplicemente ha fatto quello che deve fare la televisione: raccontare.
Ha raccontato, per esempio, le storie di alcuni abitanti dell'Aquila, mostrandone la forza, la tristezza, i ricordi e le speranze. Ma senza la solita acredine che forse è giustificata, ma non può essere il primo passo dopo la tragedia. Prima viene l'uomo e la donna che si ergono sulle macerie, che piangono e ricostruiscono. Poi cercano il colpevole. Invece sembra che nei drammi e nei disastri l'unica cosa che quando passano in tv resta è cercare una causa, un capro espiatorio o un reprobo da punire, perché rispondere alla domanda "chi è stato?" serve a non porre la domanda "chi sono io?", "cos'è la morte?".
Abbiamo visto la storia di un campione sportivo colpito da un tumore e la sua famiglia, e la vita che continua, che esplode prima verso il basso e poi verso l'alto. E le storie eroiche degli abitanti di Serajevo, in cui la gente, secondo il giornalista Toni Capuozzo intervenuto in studio, "non si è data per vinta, non perdendo la propria anima".
Tanti esempi e tanta buona televisione. E non ci vengano a raccontare che questo serve a non far protestare, recriminare, cercare vendette e colpevoli: la tv sa ancora raccontare o vuole solo inasprire e disamorare alla vita? L'altra sera ci sembra di aver visto il germoglio di qualcosa di nuovo. Certo, la trasmissione è interrotta dagli spot, che ci richiamano alla realtà della tv, soprattutto quello di una marca automobilistica che proclama il nuovo dogma: "Il lusso è un diritto". Ma qui succede una cosa nuova: per la prima volta lo sentiamo stridere con quello che abbiamo appena visto e che è entrato per un attimo nel nostro cuore. E non è poco. Forse inizia a crollare qualcosa.
Il messaggio della trasmissione è la quotidianità dell'eroismo di tanti, che colpiti dalla sorte si sono rimboccate le maniche, pieni di forza e speranza. E l'eroismo della quotidianità, perché queste persone non si sentono eroiche. E paradossalmente hanno ragione, perché non fanno altro che quello che dovrebbero fare tutti se non avessero i sentimenti atrofizzati: reagire alla durezza della vita, senza cedere alle balle dei predicatori di morte o degli spacciatori di droghe mediatiche che addormentano la mente per non pensare.
Si vergogneranno quelli che di fronte al dolore sanno solo richiedere eutanasia e aborto, dopo aver sentito dire in trasmissione: "Ho capito di più la vita dopo aver rischiato di morire?". Forse cambieranno canale, ma gli resterà un tarlo dentro, e non è poco.
© Riproduzione riservata.
IL CASO/ Quella tv che batte il partito dell'eutanasia e della morte di Carlo Bellieni, lunedì 13 giugno 2011, il sussidiario.net
La trasmissione Invincibili, in onda su Italia 1 e condotta da Marco Berry, presenta le storie di rinascita di persone che dopo grandi sofferenze sono tornate a rivivere. Non mi aspettavo che fosse un bel programma, perché siamo così abituati al trash e alle lacrime facili sui drammi che abbiamo perso la speranza di vedere qualcosa di bello. Invece, abbiamo visto una trasmissione che semplicemente ha fatto quello che deve fare la televisione: raccontare.
Ha raccontato, per esempio, le storie di alcuni abitanti dell'Aquila, mostrandone la forza, la tristezza, i ricordi e le speranze. Ma senza la solita acredine che forse è giustificata, ma non può essere il primo passo dopo la tragedia. Prima viene l'uomo e la donna che si ergono sulle macerie, che piangono e ricostruiscono. Poi cercano il colpevole. Invece sembra che nei drammi e nei disastri l'unica cosa che quando passano in tv resta è cercare una causa, un capro espiatorio o un reprobo da punire, perché rispondere alla domanda "chi è stato?" serve a non porre la domanda "chi sono io?", "cos'è la morte?".
Abbiamo visto la storia di un campione sportivo colpito da un tumore e la sua famiglia, e la vita che continua, che esplode prima verso il basso e poi verso l'alto. E le storie eroiche degli abitanti di Serajevo, in cui la gente, secondo il giornalista Toni Capuozzo intervenuto in studio, "non si è data per vinta, non perdendo la propria anima".
Tanti esempi e tanta buona televisione. E non ci vengano a raccontare che questo serve a non far protestare, recriminare, cercare vendette e colpevoli: la tv sa ancora raccontare o vuole solo inasprire e disamorare alla vita? L'altra sera ci sembra di aver visto il germoglio di qualcosa di nuovo. Certo, la trasmissione è interrotta dagli spot, che ci richiamano alla realtà della tv, soprattutto quello di una marca automobilistica che proclama il nuovo dogma: "Il lusso è un diritto". Ma qui succede una cosa nuova: per la prima volta lo sentiamo stridere con quello che abbiamo appena visto e che è entrato per un attimo nel nostro cuore. E non è poco. Forse inizia a crollare qualcosa.
Il messaggio della trasmissione è la quotidianità dell'eroismo di tanti, che colpiti dalla sorte si sono rimboccate le maniche, pieni di forza e speranza. E l'eroismo della quotidianità, perché queste persone non si sentono eroiche. E paradossalmente hanno ragione, perché non fanno altro che quello che dovrebbero fare tutti se non avessero i sentimenti atrofizzati: reagire alla durezza della vita, senza cedere alle balle dei predicatori di morte o degli spacciatori di droghe mediatiche che addormentano la mente per non pensare.
Si vergogneranno quelli che di fronte al dolore sanno solo richiedere eutanasia e aborto, dopo aver sentito dire in trasmissione: "Ho capito di più la vita dopo aver rischiato di morire?". Forse cambieranno canale, ma gli resterà un tarlo dentro, e non è poco.
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