lunedì 20 giugno 2011

1)    Ciò che il nostro cuore desidera di Benedetto XVI20-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
2)    «L'uomo senza Dio è schiavo dell'idolatria» di Massimo Introvigne, 15-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
3)    La Chernobyl dell'umano di Francesco Agnoli, 16-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
4)    Italia, la forza di cambiare di Giorgio Vittadini, il sussidiario.net, giovedì 16 giugno 2011
5)    MEETING/ Se gli uomini non si rassegnano ad inseguire farfalle... di Emilia Guarnieri, il sussidiario.net, giovedì 16 giugno 2011
6)    A colloquio con Tomasz Trafny sul prossimo convegno in Vaticano - Staminali adulte tra scienza e cultura di FABIO COLAGRANDE (©L'Osservatore Romano 16 giugno 2011)
7)    Avvenire.it, 16 giugno 2011 - IL FARMACO - Pillola dei cinque giorni, un sì con molti paletti di Emanuela Vinai
8)    La rivista “Nature” e la nascita della scienza dal cristianesimo - 16 giugno, 2011 - http://www.uccronline.it
9)    E' una guerra contro la vita di Riccardo Cascioli, 17-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/
10)                      «La pillola dei 5 giorni dopo: un grande inganno culturale» di Raffaella Frullone, 17-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
11)                      Assalto UE all'Ungheria pro-life di Tommaso Scandroglio, 17-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
12)                      Mamme a 50 anni diritto o capriccio? di Tommaso Scandroglio, 17-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
13)                      Sangue da cordone, una sfida culturale di Carlo Bellieni, 17-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
14)                      Avvenire.it, 18 giugno 2011 - La "pillola dei cinque giorni dopo" - La scorciatoia bugiarda dell’aborto inconsapevole
15)                      Celibato, basta bugie. Manca la fede di Antonio Giuliano, 20-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
16)                      Ridefinire il matrimonio? Mica siamo in Cina di Timothy M. Dolan, 20-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
17)                      IL CASO/ Un figlio senza madre e quei cattivi desideri che usano la vita (per denaro) di Paola Binetti, lunedì 20 giugno 2011, il sussidiario.net
18)                      Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - BISOGNA USCIRE DALLA SACRESTIE. MA COME? - Posted: 19 Jun 2011
19)                      DIBATTITI/ 1. Non è il neuroteologo il supremo giudice delle certezze religiose - Gianfranco Basti di lunedì 20 giugno 2011, il sussidiario.net
20)                      DIBATTITI/ 2. La “persona” sfida le pretese riduzioniste delle neuroscienze cognitive di Gianfranco Basti, lunedì 20 giugno 2011, il sussidiario.net

Ciò che il nostro cuore desidera di Benedetto XVI20-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

C'è una domanda di senso nel cuore di ogni uomo che attraversa e trascende la nostra realtà materiale, che è il fondamento di una società più umana. E' quanto ha spiegato ieri, 19 giugno, il Papa ai giovani della diocesi di San Marino-Montefeltro che ha incontrato in serata a Pennabilli. Per la sua semplicità e chiarezza di giudizio, pubblichiamo integralmente questo discorso.

Cari giovani!

Sono molto contento di essere oggi in mezzo a voi e con voi! Sento tutta la vostra gioia e l’entusiasmo che caratterizzano la vostra età. Saluto e ringrazio il vostro Vescovo, Mons. Luigi Negri, per le cordiali parole di accoglienza, e il vostro amico che si è fatto interprete dei pensieri e dei sentimenti di tutti, e ha formulato alcune questioni molto serie e importanti. Spero che nel corso di questa mia esposizione si trovino anche gli elementi per trovare le risposte a queste domande. Saluto con affetto i Sacerdoti, le Suore, gli animatori che condividono con voi il cammino della fede e dell’amicizia; e naturalmente anche i vostri genitori, che gioiscono nel vedervi crescere forti nel bene.


Il nostro incontro qui a Pennabilli, davanti a questa Cattedrale, cuore della Diocesi, e in questa Piazza, ci rimanda con il pensiero ai numerosi e diversi incontri di Gesù che ci sono raccontati dai Vangeli. Oggi vorrei richiamare il celebre episodio in cui il Signore era in cammino e un tale - un giovane - gli corse incontro e, inginocchiatosi, gli pose questa domanda: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17). Noi forse oggi non diremmo così, ma il senso della domanda è proprio: cosa devo fare, come devo vivere per vivere realmente, per trovare la vita. Quindi dentro questo interrogativo possiamo vedere racchiusa l’ampia e variegata esperienza umana che si apre alla ricerca del significato, del senso profondo della vita: come vivere, perché vivere. La “vita eterna”, infatti, alla quale fa riferimento quel giovane del Vangelo non indica solamente la vita dopo la morte, non vuol sapere soltanto come arrivo al cielo. Vuol sapere: come devo vivere adesso per avere già la vita che può essere poi anche eterna.

Quindi in questa domanda questo giovane manifesta l’esigenza che l’esistenza quotidiana trovi senso, trovi pienezza, trovi verità. L’uomo non può vivere senza questa ricerca della verità su se stesso - che cosa sono io, per che cosa devo vivere - verità che spinga ad aprire l’orizzonte e ad andare al di là di ciò che è materiale, non per fuggire dalla realtà, ma per viverla in modo ancora più vero, più ricco di senso e di speranza, e non solo nella superficialità. E penso che questa – e l’ho visto e sentito nelle parole del vostro amico – sia anche la vostra esperienza. I grandi interrogativi che portiamo dentro di noi rimangono sempre, rinascono sempre: chi siamo?, da dove veniamo?, per chi viviamo? E queste questioni sono il segno più alto della trascendenza dell’essere umano e della capacità che abbiamo di non fermarci alla superficie delle cose. Ed è proprio guardando in noi stessi con verità, con sincerità e con coraggio che intuiamo la bellezza, ma anche la precarietà della vita e sentiamo un’insoddisfazione, un’inquietudine che nessuna cosa concreta riesce a colmare. Alla fine tutte le promesse si dimostrano spesso insufficienti.


Cari amici, vi invito a prendere coscienza di questa sana e positiva inquietudine, a non aver paura di porvi le domande fondamentali sul senso e sul valore della vita. Non fermatevi alle risposte parziali, immediate, certamente più facili al momento e più comode, che possono dare qualche momento di felicità, di esaltazione, di ebbrezza, ma che non vi portano alla vera gioia di vivere, quella che nasce da chi costruisce – come dice Gesù – non sulla sabbia, ma sulla solida roccia.

Imparate allora a riflettere, a leggere in modo non superficiale, ma in profondità la vostra esperienza umana: scoprirete, con meraviglia e con gioia, che il vostro cuore è una finestra aperta sull’infinito! Questa è la grandezza dell'uomo e anche la sua difficoltà. Una delle illusioni prodotte nel corso della storia è stata quella di pensare che il progresso tecnico-scientifico, in modo assoluto, avrebbe potuto dare risposte e soluzioni a tutti i problemi dell’umanità. E vediamo che non è così. In realtà, anche se ciò fosse stato possibile, nulla e nessuno avrebbe potuto cancellare le domande più profonde sul significato della vita e della morte, sul significato della sofferenza, di tutto, perché queste domande sono scritte nell’animo umano, nel nostro cuore,  e oltrepassano la sfera dei bisogni.

L’uomo, anche nell’era del progresso scientifico e tecnologico - che ci ha dato tanto - rimane un essere che desidera di più, più che la comodità e il benessere, rimane un essere aperto alla verità intera della sua esistenza, che non può fermarsi alle cose materiali, ma si apre ad un orizzonte molto più ampio. Tutto questo voi lo sperimentate continuamente ogni volta che vi domandate: ma perché? Quando contemplate un tramonto, o una musica muove in voi il cuore e la mente; quando provate che cosa vuol dire amare veramente; quando sentite forte il senso della giustizia e della verità, e quando sentite anche la mancanza di giustizia, di verità e di felicità.


Cari giovani, l’esperienza umana è una realtà che ci accomuna tutti, ma ad essa si possono dare diversi livelli di significato. Ed è qui che si decide in che modo orientare la propria vita e si sceglie a chi affidarla, a chi affidarsi. Il rischio è sempre quello di rimanere imprigionati nel mondo delle cose, dell'immediato, del relativo, dell’utile, perdendo la sensibilità per ciò che si riferisce alla nostra dimensione spirituale. Non si tratta affatto di disprezzare l’uso della ragione o di rigettare il progresso scientifico, tutt’altro; si tratta piuttosto di capire che ciascuno di noi non è fatto solo di una dimensione “orizzontale”, ma comprende anche quella “verticale”. I dati scientifici e gli strumenti tecnologici non possono sostituirsi al mondo della vita, agli orizzonti di significato e di libertà, alla ricchezza delle relazioni di amicizia e di amore.


Cari giovani, è proprio nell’apertura alla verità intera di noi, di noi stessi e del mondo che scorgiamo l’iniziativa di Dio nei nostri confronti. Egli viene incontro ad ogni uomo e gli fa conoscere il mistero del suo amore. Nel Signore Gesù, che è morto e risorto per noi e ci ha donato lo Spirito Santo, siamo addirittura resi partecipi della vita stessa di Dio, apparteniamo alla famiglia di Dio. In Lui, in Cristo, potete trovare le risposte alle domande che accompagnano il vostro cammino, non in modo superficiale, facile, ma camminando con Gesù, vivendo con Gesù. L’incontro con Cristo non si risolve nell’adesione ad una dottrina, ad una filosofia, ma ciò che Lui vi propone è di condividere la sua stessa vita e così imparare a vivere, imparare che cosa è l'uomo, che cosa sono io. A quel giovane, che Gli aveva chiesto che cosa fare per entrare nella vita eterna, cioè per vivere veramente, Gesù risponde, invitandolo a distaccarsi dai suoi beni e aggiunge: “Vieni! Seguimi!” (Mc 10,21). La parola di Cristo mostra che la vostra vita trova significato nel mistero di Dio, che è Amore: un Amore esigente, profondo, che va oltre la superficialità! Che cosa sarebbe la vostra vita senza questo amore? Dio si prende cura dell’uomo dalla creazione fino alla fine dei tempi, quando porterà a compimento il suo progetto di salvezza. Nel Signore Risorto abbiamo la certezza della nostra speranza! Cristo stesso, che è andato nelle profondità della morte ed è risorto, è la speranza in persona, è la Parola definitiva pronunciata sulla nostra storia, è una parola positiva.

Non temete di affrontare le situazioni difficili, i momenti di crisi, le prove della vita, perché il Signore vi accompagna, è con voi! Vi incoraggio a crescere nell’amicizia con Lui attraverso la lettura frequente del Vangelo e di tutta la Sacra Scrittura, la partecipazione fedele all’Eucaristia come incontro personale con Cristo, l’impegno all’interno della comunità ecclesiale, il cammino con una valida guida spirituale. Trasformati dallo Spirito Santo potrete sperimentare l’autentica libertà, che è tale quando è orientata al bene. In questo modo la vostra vita, animata da una continua ricerca del volto del Signore e dalla volontà sincera di donare voi stessi, sarà per tanti vostri coetanei un segno, un richiamo eloquente a far sì che il desiderio di pienezza che sta in tutti noi si realizzi finalmente nell’incontro con il Signore Gesù.

Lasciate che il mistero di Cristo illumini tutta la vostra persona! Allora potrete portare nei diversi ambienti quella novità che può cambiare le relazioni, le istituzioni, le strutture, per costruire un mondo più giusto e solidale, animato dalla ricerca del bene comune. Non cedete a logiche individualistiche ed egoistiche! Vi conforti la testimonianza di tanti giovani che hanno raggiunto la meta della santità: pensate a santa Teresa di Gesù Bambino, san Domenico Savio, santa Maria Goretti, il beato Pier Giorgio Frassati, il beato Alberto Marvelli – che è di questa terra! – e tanti altri, a noi sconosciuti, ma che hanno vissuto il loro tempo nella luce e nella forza del Vangelo, e hanno trovato la risposta: come vivere, che cosa devo fare per vivere.

A conclusione di questo incontro, voglio affidare ciascuno di voi alla Vergine Maria, Madre della Chiesa. Come Lei, possiate pronunciare e rinnovare il vostro “sì” e magnificare sempre il Signore con la vostra vita, perché Lui vi dona parole di vita eterna! Coraggio allora cari giovani e care giovani, nel vostro cammino di fede e di vita cristiana anche io vi sono sempre vicino e vi accompagno con la mia Benedizione. Grazie per la vostra attenzione!


«L'uomo senza Dio è schiavo dell'idolatria» di Massimo Introvigne, 15-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/

Nell'udienza generale del 15 giugno Benedetto XVI ha ripreso la sua «scuola della preghiera» dedicata alle «pagine difficili» dell'Antico Testamento e alla loro rilevanza per la nostra vita spirituale. L'attenzione del Papa si è portata stavolta sulla misteriosa figura di Elia, il cui nome significa «il Signore è il mio Dio». «Ed è in accordo con questo nome - ha detto il Pontefice - che si snoda la sua vita, tutta consacrata a provocare nel popolo il riconoscimento del Signore come unico Dio. Di Elia il Siracide dice: "E sorse Elia profeta, come un fuoco; la sua parola bruciava come fiaccola" (Sir 48,1)».
Elia è una figura misteriosa, sul cui conto sia tra gli ebrei sia tra i cristiani hanno sempre avuto corso leggende e anche interpretazioni eterodosse. Come per Giobbe, Giacobbe e Mosè, oggetto di precedenti catechesi, il Papa insiste sul fatto che la Scrittura presenta anzitutto Elia come un uomo che prega: «invoca il Signore perché riporti alla vita il figlio di una vedova che lo aveva ospitato (cfr 1Re 17,17-24), grida a Dio la sua stanchezza e la sua angoscia mentre fugge nel deserto ricercato a morte dalla regina Gezabele (cfr 1Re 19,1-4), ma è soprattutto sul monte Carmelo che si mostra in tutta la sua potenza di intercessore quando, davanti a tutto Israele, prega il Signore perché si manifesti e converta il cuore del popolo. È l’episodio narrato nel capitolo 18 del Primo Libro dei Re»: ed è precisamente in questo episodio che il Pontefice vede la chiave per comprendere Elia.

Il Papa parte, come fa spesso, dal contesto storico: «ci troviamo nel regno del Nord, nel IX secolo a.C., al tempo del re Acab, in un momento in cui in Israele si era creata una situazione di aperto sincretismo. Accanto al Signore, il popolo adorava Baal, l’idolo rassicurante da cui si credeva venisse il dono della pioggia e a cui perciò si attribuiva il potere di dare fertilità ai campi e vita agli uomini e al bestiame. Pur pretendendo di seguire il Signore, Dio invisibile e misterioso, il popolo cercava sicurezza anche in un dio comprensibile e prevedibile, da cui pensava di poter ottenere fecondità e prosperità in cambio di sacrifici. Israele stava cedendo alla seduzione dell’idolatria, la continua tentazione del credente, illudendosi di poter "servire a due padroni" (cfr Mt 6,24; Lc 16,13), e di facilitare i cammini impervi della fede nell’Onnipotente riponendo la propria fiducia anche in un dio impotente fatto dagli uomini».

Come per l'episodio del vitello d'oro, oggetto della precedente «scuola della preghiera», il Papa nota che cercare un Dio ridotto alla misura dell'uomo è una tentazione molto attuale. Ed è «proprio per smascherare la stoltezza ingannevole di tale atteggiamento che Elia fa radunare il popolo di Israele sul monte Carmelo e lo pone davanti alla necessità di operare una scelta: "Se il Signore è Dio, seguiteLo. Se invece lo è Baal, seguite lui" (1Re 18, 21)». Questa scelta non è affidata al sentimento o alla mera preferenza. Elia propone un «segno che rivelerà la verità: sia lui che i profeti di Baal prepareranno un sacrificio e pregheranno, e il vero Dio si manifesterà rispondendo con il fuoco che consumerà l’offerta. Comincia così il confronto tra il profeta Elia e i seguaci di Baal, che in realtà è tra il Signore di Israele, Dio di salvezza e di vita, e l’idolo muto e senza consistenza, che nulla può fare, né in bene né in male (cfr Ger 10,5). E inizia anche il confronto tra due modi completamente diversi di rivolgersi a Dio e di pregare».
Al di là delle legittime curiosità che riguardano la sua vita e il suo destino, sta qui l'essenziale per noi della missione di Elia. Egli ci mette di fronte, ancora oggi, a una scelta drammatica: o con Dio o con Baal, o con la preghiera autentica o con la sua contraffazione. «I profeti di Baal, infatti, gridano, si agitano, danzano saltando, entrano in uno stato di esaltazione arrivando a farsi incisioni sul corpo, "con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue" (1Re 18,28). Essi fanno ricorso a loro stessi per interpellare il loro dio, facendo affidamento sulle proprie capacità per provocarne la risposta. Si rivela così la realtà ingannatoria dell’idolo: esso è pensato dall’uomo come qualcosa di cui si può disporre, che si può gestire con le proprie forze, a cui si può accedere a partire da se stessi e dalla propria forza vitale».
Ha una religione sbagliata e prega in modo sbagliato chi pensa di potere costringere il Divino a manifestarsi grazie ai propri sforzi, magari scomposti ed estremi. È propriamente l'errore della magia, ma si ritrova anche in tanti vecchi errori religiosi, specie orientali, che oggi seducono di nuovo l'Occidente ma che Elia ha già smascherato nella sua disputa con i sacerdoti di Baal. «L’adorazione dell’idolo invece di aprire il cuore umano all’Alterità, ad una relazione liberante che permetta di uscire dallo spazio angusto del proprio egoismo per accedere a dimensioni di amore e di dono reciproco, chiude la persona nel cerchio esclusivo e disperante della ricerca di sé. E l’inganno è tale che, adorando l’idolo, l’uomo si ritrova costretto ad azioni estreme, nell’illusorio tentativo di sottometterlo alla propria volontà. Perciò i profeti di Baal arrivano fino a farsi del male, a infliggersi ferite sul corpo, in un gesto drammaticamente ironico: per avere una risposta, un segno di vita dal loro dio, essi si ricoprono di sangue, ricoprendosi simbolicamente di morte».

Se dunque è chiaro qual è il modo sbagliato di entrare in relazione con Dio e di pregare, qual è quello giusto? La risposta emerge dall'atteggiamento di Elia, il quale «chiede al popolo di avvicinarsi, coinvolgendolo così nella sua azione e nella sua supplica. Lo scopo della sfida da lui rivolta ai profeti di Baal era di riportare a Dio il popolo che si era smarrito seguendo gli idoli; perciò egli vuole che Israele si unisca a lui, diventando partecipe e protagonista della sua preghiera e di quanto sta avvenendo. Poi il profeta erige un altare, utilizzando, come recita il testo, "dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei figli di Giacobbe, al quale era stata rivolta questa parola del Signore: 'Israele sarà il tuo nome'" (v. 31)». Il simbolismo di questo gesto va compreso correttamente. «Il gesto liturgico di Elia ha una portata decisiva; l’altare è luogo sacro che indica la presenza del Signore, ma quelle pietre che lo compongono rappresentano il popolo, che ora, per la mediazione del profeta, è simbolicamente posto davanti a Dio, diventa "altare", luogo di offerta e di sacrificio».
Si potrebbe credere che i simboli di Elia siano semplicemente più potenti di quelli dei sacerdoti di Baal: ma sarebbe un errore. Invece«è necessario che il simbolo diventi realtà, che Israele riconosca il vero Dio e ritrovi la propria identità di popolo del Signore. Perciò Elia chiede a Dio di manifestarsi, e quelle dodici pietre che dovevano ricordare a Israele la sua verità servono anche a ricordare al Signore la sua fedeltà, a cui il profeta si appella nella preghiera». Nei gesti di Elia c'è la memoria di tutta la storia d'Israele come «alleanza che ha indissolubilmente unito il Signore al suo popolo». Infatti Elia si rivolge al «Dio di Abramo, di Isacco e d'Israele».

La formula non è consueta, e il Papa ci ha già avvertito che, ogni volta che la Scrittura si esprime in modo non convenzionale, l'espressione nuova vuole insegnarci qualcosa. «Il coinvolgimento di Dio nella storia degli uomini è tale che ormai il suo Nome è inseparabilmente connesso a quello dei Patriarchi e il profeta pronuncia quel Nome santo perché Dio ricordi e si mostri fedele, ma anche perché Israele si senta chiamato per nome e ritrovi la sua fedeltà. Il titolo divino pronunciato da Elia appare infatti un po’ sorprendente. Invece di usare la formula abituale, "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe", egli utilizza un appellativo meno comune: "Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele". La sostituzione del nome "Giacobbe" con "Israele" evoca la lotta di Giacobbe al guado dello Yabboq con il cambio del nome a cui il narratore fa esplicito riferimento (cfr Gen 32,31)», oggetto come Benedetto XVI ricorda di una sua precedente «scuola della preghiera».
Ma sostituire «Giacobbe» con «Israele» per Elia non ha solo un senso storico. «Tale sostituzione acquista un significato pregnante all’interno dell’invocazione di Elia. Il profeta sta pregando per il popolo del regno del Nord, che si chiamava appunto Israele, distinto da Giuda, che indicava il regno del Sud. E ora, questo popolo, che sembra aver dimenticato la propria origine e il proprio rapporto privilegiato con il Signore, si sente chiamare per nome mentre viene pronunciato il Nome di Dio».
La lezione che Elia vuole impartire ha a che fare, ultimamente, con la verità. «Il popolo per cui Elia prega è rimesso davanti alla propria verità, e il profeta chiede che anche la verità del Signore si manifesti e che Egli intervenga per convertire Israele, distogliendolo dall’inganno dell’idolatria e portandolo così alla salvezza. La sua richiesta è che il popolo finalmente sappia, conosca in pienezza chi davvero è il suo Dio, e faccia la scelta decisiva di seguire Lui solo, il vero Dio. Perché solo così Dio è riconosciuto per ciò che è, Assoluto e Trascendente, senza la possibilità di mettergli accanto altri dèi, che Lo negherebbero come assoluto, relativizzandoLo».
Ci sono dunque due aspetti molto attuali e da tenere a mente nella vicenda di Elia. Il primo è che la fede ci mette di fronte a una scelta drammatica e alternativa: o Dio o Baal, o verità o menzogna. Il secondo è che - a differenza di quanto avveniva e avviene in altre religioni - la preghiera cristiana non è un esercizio più o meno estremo che rimane nel cerchio chiuso dell'immanenza, ma è un dialogo con la Trascendenza libera di Dio che interviene e risponde.
E per Elia la risposta arriva: venne un fuoco, e «consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l’acqua del canaletto. A tal vista, tutto il popolo cadde con la faccia a terra e disse: "Il Signore è Dio, il Signore è Dio" (vv. 38-39)». «Il fuoco - commenta il Papa -, questo elemento insieme necessario e terribile, legato alle manifestazioni divine del roveto ardente e del Sinai, ora serve a segnalare l’amore di Dio che risponde alla preghiera e si rivela al suo popolo. Baal, il dio muto e impotente, non aveva risposto alle invocazioni dei suoi profeti; il Signore invece risponde, e in modo inequivocabile, non solo bruciando l’olocausto, ma persino prosciugando tutta l’acqua che era stata versata intorno all’altare. Israele non può più avere dubbi; la misericordia divina è venuta incontro alla sua debolezza, ai suoi dubbi, alla sua mancanza di fede. Ora, Baal, l’idolo vano, è vinto, e il popolo, che sembrava perduto, ha ritrovato la strada della verità e ha ritrovato se stesso».
Non è, insiste il Pontefice, solo una «storia del passato». Ha un «presente». Ammonisce anzitutto ognuno di noi, ancora nel secolo XXI, a rispettare «la priorità del primo comandamento: adorare solo Dio. Dove scompare Dio, l'uomo cade nella schiavitù di idolatrie, come hanno mostrato, nel nostro tempo, i regimi totalitari e come mostrano anche diverse forme del nichilismo, che rendono l'uomo dipendente da idoli, da idolatrie; lo schiavizzano». La seconda lezione di Elia è che «lo scopo primario della preghiera è la conversione: il fuoco di Dio che trasforma il nostro cuore e ci fa capaci di vedere Dio e così di vivere secondo Dio e di vivere per l'altro.».
Ma c'è anche una terza lezione, ed e il preannuncio del mistero di Gesù Cristo nel mistero di Elia: «i Padri ci dicono che anche questa storia di un profeta è profetica, se - dicono – è ombra del futuro, del futuro Cristo; è un passo nel cammino verso Cristo. E ci dicono che qui vediamo il vero fuoco di Dio: l'amore che guida il Signore fino alla croce, fino al dono totale di sé. La vera adorazione di Dio, allora, è dare se stesso a Dio e agli uomini, la vera adorazione è l'amore. E la vera adorazione di Dio non distrugge, ma rinnova, trasforma. Certo, il fuoco di Dio, il fuoco dell'amore brucia, trasforma, purifica, ma proprio così non distrugge, bensì crea la verità del nostro essere, ricrea il nostro cuore. E così, realmente vivi per la grazia del fuoco dello Spirito Santo, dell'amore di Dio, siamo adoratori in spirito e in verità».


La Chernobyl dell'umano di Francesco Agnoli, 16-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Si chiama pendio scivoloso, e funziona esattamente come lo scivolo. Prende velocità col tempo: si incomincia piano piano e si finisce che non si controlla più la corsa. Si è iniziato col mettere in dubbio il valore della famiglia e si è finiti col legalizzare il divorzio. Si è proseguito con un numero di divorzi sempre crescente, ogni anno di più e si sta già pensando di introdurre il “divorzio breve”, oppure il matrimonio che si può disdire per cartolina (i cosiddetti dico, pacs che siano…ne risentiremo parlare a breve). Si è cominciato con l’aborto, ma “in casi eccezionali”: solo per le donne violentate, si diceva, oppure per i bambini di Seveso… Ora siamo all’aborto selettivo: si uccide il figlio con sindrome di Down, ma anche quello, semplicemente, che arriva al momento sbagliato, oppure non è voluto…talora lo si fa in serie, sino a quattro, cinque volte di fila, come accade anche in Italia.

Va così anche coi metodi anticoncezionali: prima si sono scisse sessualità e riproduzione, con i metodi contraccettivi. Poi, i contraccettivi non bastano più e alla pillola classica si è aggiunta la pillola del giorno dopo (Norlevo), la pillola “del mese dopo” (Ru 486), ed ora anche ellaOne, la “sorellina” della RU 486.

Proprio ieri, infatti, il Consiglio Superiore di Sanità (CSS) - su richiesta del ministro della salute Ferruccio Fazio, “per chiarire se si tratti di un farmaco contraccettivo o abortivo” - ha dato parere favorevole alla cosiddetta “pillola dei cinque giorni dopo”, ellaOne appunto.  Incomincia così un iter per recepire il farmaco che dovrà comunque ottenere il via libera dall’AIFA, l’Agenzia Italiana per il farmaco, dopo avere già ricevuto quella dell’EMEA, l’ente di controllo europeo.

I precedenti non sono buoni. Infatti nel 2009 proprio l’AIFA diede parere favorevole all’introduzione della RU 486, in un clima di  forte pressione ideologica. Non si deve infatti pensare che l’AIFA sia un’agenzia insensibile a determinate visioni teologiche ed antropologiche.

Infatti, proprio dopo aver permesso l’introduzione nel nostro paese della RU 486, Sergio Pecorelli, presidente dell’AIFA, ebbe a dichiarare che l’aborto chirurgico e l’aborto farmacologico (cioè con RU 486) dal punto di vista dell’esito sono uguali, ma “da ginecologo dico che quello farmacologico può comportare un percorso più tortuoso, psicologicamente difficile da sopportare” (Corriere della Sera, 9/9/2009). Mentre cioè i fans della RU 486 accusavano i detrattori del “pesticida umano” (copyright Jerome Lejeune) di opporsi soltanto per far soffrire maggiormente le donne, il responsabile dell’AIFA dichiarava, al contrario, la maggior pericolosità, proprio per le donne, della pillola stessa. Senza però che ciò lo inducesse ad osteggiarla.

A quel tempo giornali come Repubblica, sempre in prima linea, e il Corriere, spiegarono insistentemente ai lettori, con evidente operazione di anti-lingua, che la RU 486 provoca, non la morte, ma  “l’espulsione” dell’embrione. Dove poi l’embrione “espulso” vada a finire, non si diceva…
Anche questa volta, nell’operazione di lancio di ellaOne, sta prendendo forma un grande inganno. L’introduzione di questa pillola è infatti sostenuta anzitutto spacciandola come un puro contraccettivo “d’emergenza”, minimizzando le evidenze che ne indicano la capacità di creare un habitat ostile all’annidamento dell’embrione. 

Secondo il Consiglio di Sanità ellaOne può essere prescritta purché la donna si sottoponga ad un test di gravidanza e questo risulti negativo. Si sostiene che non avrebbe senso prescrivere un prodotto solamente “contraccettivo” a gravidanza avviata. Ma se si è così sicuri che questa pillola agisca soltanto impedendo l’ovulazione, viene da domandarsi: perché il Consiglio Superiore di Sanità non è stato coerente prevedendo l’esecuzione di un’ecografia per escludere le donne che hanno già ovulato? 

È chiaro che questa decisione è figlia di una definizione di gravidanza assolutamente arbitraria e maliziosa assunta ormai molti anni fa che va contro il senso comune anche di moltissime donne che hanno il diritto di non essere ingannate dall’antilingua. Secondo questa definizione la gravidanza non comincerebbe col concepimento di una nuova entità dotata di un patrimonio genetico unico e completo, come è ovvio, ma solamente con l’impianto del concepito stesso (in questo modo l’eliminazione dell’embrione non ancora annidato non sarebbe un aborto, e così si aggirerebbe anche la legge 194).

Senza approfondire ulteriormente il funzionamento di questi sempre nuovi pesticidi che hanno il solo compito di uccidere sempre più e sempre meglio delle creature umane uniche e irripetibili (chi volesse può farlo qui), penso sia importante proporre alcune conclusioni: l’introduzione di pillole con azione sempre più prolungata nel tempo, oltre a causare precocissimi aborti nascosti, genera una mentalità pericolosissima. Induce infatti le persone a ritenere che l’effetto di un rapporto carnale sia facilmente risolvibile: “basta un po’ di zucchero e la pillola va giù”. Se è così facile “correre ai ripari”, si pensa solitamente, allora perché “farsi tanti problemi”?

L’effetto più evidente di questa forma mentis è quello della desacralizzazione dell’atto unitivo e della deresponsabilizzazione sempre più ampia, già visibile in paesi come l’Inghilterra: se “basta una pillola”, l’età dei rapporti diminuisce sempre di più, “tanto non succede nulla” (di qui il boom delle undicenni inglesi incinte, magari dopo fallimento degli anticoncezionali stessi); nel contempo crescono anche le malattie veneree, la promiscuità sessuale, il disagio giovanile… e si perde sempre più l’idea di cosa sia veramente implicato in una sincera ed umana relazione tra due persone, ma anche nel rapporto della singola persona con il suo corpo, i suoi ritmi, le sue esigenze spirituali più profonde. Nella mia città, quest’anno, su 170 persone che si sono presentate al consultorio per la pillola del giorno dopo, ben 58 erano minorenni! L’altro effetto, di più lungo periodo, è la ripercussione che tutti questi pesticidi avranno sulle donne che li hanno abbondantemente ingurgitati, senza che quasi nessuno le mettesse in guardia, magari mentre viaggiavano da un negozio all’altro in cerca di cibi biologici e di una sana alimentazione.

Le pillole, quali esse siano, sono pur sempre farmaci, cioè veleni, composti chimici con cui si va ad interferire violentemente sui meccanismi e sulle reazioni del corpo umano. Questo comporta effetti troppo spesso trascurati, quali ad esempio la sterilità. È un paese schizofrenico quello in cui si offre ogni mezzo per impedire le gravidanze, per sopprimere i figli nel grembo delle madri, e poi si riempiono le culle vuote offrendo come soluzione l’accanimento riproduttivo della fecondazione artificiale, un ripiego che in molti casi illude e poi delude. 

Non rimane che una speranza: che il governo, per quello che può, faccia pressing sull’AIFA, per evitare questa nuova sconfitta dei valori non negoziabili; e che il mondo cattolico, così impegnato, almeno in certi suoi settori, per le tubature dell’acqua pubbliche e contro il nucleare, si muova finalmente anche per questa battaglia, che sarà meno facile e più solitaria, ma è tanto più necessaria per impedire quella sempre più evidente corsa al nichilismo individualista che può essere considerata una vera e propria “Chernobyl dell’umano”.


Italia, la forza di cambiare di Giorgio Vittadini, il sussidiario.net, giovedì 16 giugno 2011

“E l’esistenza diventa una immensa certezza” è il titolo della prossima edizione del Meeting di Rimini, presentata ieri a Roma all’Ambasciata italiana presso la Santa Sede. Un titolo che suona provocatorio, soprattutto ora, a metà giugno 2011, ma che vuole indicare la possibilità di certezza che pur si documenta nell’esperienza di uomini e donne del nostro tempo, così segnato dallo smarrimento e così bisognoso di ritrovare un punto fermo da cui ripartire.
Nel quadro del ricchissimo programma del Meeting, l'incontro inaugurale, a cui parteciperà il presidente Giorgio Napolitano è intitolato “150 anni di sussidiarietà”, tema a cui è dedicata una mostra, che intende essere il racconto di una storia fatta di opere, iniziative e realtà sociali ed economiche, frutto dell'energia costruttiva, dell'inventiva, della sussidiarietà e della solidarietà che hanno costituito il DNA del nostro Paese. Punto sorgivo di tale ricchezza è una cultura fondata sulla convinzione, originata dal Cristianesimo, che ogni singolo uomo valga “più di tutto l’universo” e non sia riducibile ad alcuna organizzazione sociale e politica. Questa concezione di uomo ha dato vita a una grande civiltà, che precede il formarsi dello Stato unitario, ricca di diversità unificanti, alla quale hanno contribuito tutti gli italiani, in diversi modi, con il loro lavoro, le loro millenarie tradizioni, il loro impegno sociale e politico. E’ una storia fatta di una componente “sussidiaria” che ha contribuito alla costruzione di un popolo e di un grande Paese.
In cosa consiste la forza di tale componente? In quella che possiamo sinteticamente chiamare “capacità di cambiamento”. Se guardiamo alla nostra storia, ci accorgiamo che l’Italia ha sempre avuto una attitudine, molto originale, a cambiare. La grande migrazione, determinata dalla malattia dell’ulivo e della vite che causò il crollo del sistema agricolo italiano, vide venti milioni di persone lasciare il Paese tra il 1880 e il 1920. A seguito della successiva industrializzazione, l’Italia reagì facendo nascere un fenomeno nuovo: i movimenti cattolico e operaio che, in virtù degli ideali che portavano, seppero rispondere ai bisogni concreti che le nuove situazioni di lavoro determinavano.
Si sviluppò così la capacità popolare di creare welfare, solidarietà, operatività economica, addirittura un mondo bancario solidaristico. In seguito, l’Italia, uscita distrutta e sconfitta dalla Seconda Guerra Mondiale, diventò, nel giro di pochi anni, il settimo Paese più industrializzato del mondo. Come fu possibile? Non certo grazie all’iniziativa esclusiva delle grandi imprese nazionali, come accadde in Francia, bensì per un diffuso sistema di piccole e medie imprese, nato dalla capacità indomita di adattarsi e cambiare. I prodotti italiani che vedono la luce in questo periodo e che diventano un simbolo nazionale (dagli elettrodomestici alle automobili, alla manifattura…) sono frutto di una capacità, tanto diffusa quanto “strana”, di considerare in un certo modo la realtà: una realtà che offre sempre un’occasione; fatta in modo tale da corrispondere ai desideri più profondi dell’uomo; che si lascia trasformare in base ai mutevoli bisogni di chi ha davanti…
Se siamo dotati di questa capacità, perchè il nostro Paese sembra fermo, inceppato (e da molto tempo prima dell’ultima crisi finanziaria)? Tutto il cambiamento di cui la nostra gente è stata capace nasce dall’eredità più importante del popolo italiano, figlio della sua storia cattolica, poi divenuta anche appannaggio della tradizione socialista e liberale: la capacità di concepire la realtà come un dato e la conoscenza come un incontro che coinvolge un oggetto e un soggetto, dotato di desideri irriducibili. Il soggetto, quando conosce la realtà (come dice il primo capitolo de Il senso religioso di don Luigi Giussani) non rinuncia a giocare il desiderio di verità, giustizia, bellezza di cui è costituito, e perciò la conosce con realismo, rispettandola nella sua integralità, senza ridurla ai propri schemi.
Un uomo così, che vive all’altezza dei suoi desideri più profondi, non è schiavo delle circostanze, né delle sue convinzioni soggettive: ha sempre una capacità di muoversi più grande, perché è fatto per cose più grandi. E’ segnato da un impeto ideale positivo, costruttivo, fatto di desiderio di conoscere, di lavorare, di creare, che ha generato la capacità di cambiare di cui si è parlato; inventa prodotti nuovi, più adatti all’evolversi del mercato; si allea con altri per realizzare meglio la sua attività e genera così i distretti industriali; crea opere in grado di rispondere efficacemente ai bisogni più disparati (educazione, assistenza, sanità, lavoro…), che costituiscono un nuovo tipo di welfare: un “welfare sussidiario”.
Cosa è accaduto, allora, all’Italia? E’ accaduto che si sta vergognando della sua cultura, della sua capacità di conoscenza “per avvenimento”, che sarebbe, proprio nel momento di crisi odierna, la sua più efficace risorsa, e sta cercando la sua strada altrove. Il contributo più originale dei cattolici alla vita italiana, oggi, può ancora essere quello di risvegliare questo tipo di intelligenza magnanima della realtà, da cui, solo come conseguenza, può derivare anche la tutela dei principi irrinunciabili e una morale per l'uomo. Il contributo dei cattolici è questa diversa posizione e prospettiva di fronte alla sfida della realtà quotidiana: un modo di conoscere non ridotto, realista e capace di nesso col desiderio umano.
C’è un nemico di questa concezione e prassi che ha fatto grande l’Italia. Viviamo in un’epoca, dal 1600 a oggi, in cui la filosofia e il pensiero economico e politico privilegiano un altro tipo di uomo: non quello che conosce partendo dal desiderio, bensì quello negativo che si muove seguendo le sue pulsioni egoistiche (e che lo Stato deve controllare). Assumendo questa concezione, molti hanno perso quel realismo capace di cambiamento e l’hanno trasformato in lamento, comodo, giustizialismo, utopia, delega al potente di turno, non assunzione della propria responsabilità, resistenza al cambiamento, distacco dai propri ideali. Spesso non se ne è coscienti, ma questo è l’inizio del declino umano, sociale, economico e politico di singoli, gruppi, nazione intera. Le celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia sono una grande occasione per la riscoperta di un pensiero e una prassi più confacenti ai nostri attuali bisogni e desideri, come singoli, comunità, popolo.
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MEETING/ Se gli uomini non si rassegnano ad inseguire farfalle... di Emilia Guarnieri, il sussidiario.net, giovedì 16 giugno 2011

Due grandi evidenze vediamo sempre più drammaticamente presenti attorno a noi, ma soprattutto dentro di noi. La prima è la paura di fronte all’incertezza della vita, il disagio e la sofferenza che implica qualunque precarietà, qualunque mancanza di sicurezza, qualunque rischio che la realtà propone. Questa percezione, questo dato dell'esperienza, ci costringe a riconoscere che l'uomo invece è fatto per la certezza, la desidera, la cerca e soffre quando non la trova oppure quando scopre di avere affidata la speranza a qualcosa che poi rivela la sua illusione.
Non bastasse questo, c'è la seconda evidenza, dettata dal dogma del pensiero relativista che afferma che è impossibile pervenire alla certezza. L'uomo non sarebbe in grado di raggiungere certezze. Questo equivale a dire che l’uomo non è in grado di raggiungere la realtà, non è in grado di conoscere veramente se stesso e quello che ha attorno.
Il Meeting di quest’anno si colloca nel contesto della sfida costituita da queste due evidenze, per scoprire se veramente il nostro destino è l'affermazione di Satre: “Cosa sono le mie mani? La distanza incommensurabile che mi divide dal mondo degli oggetti e mi separa da essi per sempre” e quindi l’impossibilità di un rapporto con le cose che toglie il senso e il gusto del vivere. Oppure se esiste la possibilità di affermare un senso ed una utilità della vita, poiché, come dice Pavese: “Non c’è cosa più amara dell’alba di un giorno in cui nulla accadrà, non c’è cosa più amara dell'inutilità”.
Se desideriamo una certezza, questo desiderio è la prova che una certezza deve pur esserci. Non ci si può esimere dal tentativo di guadagnarla, non si può evitare il rischio di lanciare la spada oltre le cose già note per trovare ciò che il cuore desidera, come dice il guerriero della Ballata del Cavallo bianco di Chesterton, che sarà rappresentata al Meeting. Ma, appunto, la spada va lanciata, la certezza va conquistata in un percorso, non arriva al di fuori di un cammino e di una responsabilità, implica un percorso della ragione e dell’esperienza umana.
Occorre qualcosa che sfidi la paura di lanciarsi nell’avventura della vita. Ha scritto il poeta Carlo Betocchi: “Ciò che occorre è un uomo/ non occorre la saggezza,/ ciò che occorre è un uomo/ in spirito e verità;/ non un paese, non le cose/ ciò che occorre è un uomo/ un passo sicuro e tanto salda/ la mano che porge, che tutti/ possano afferrarla e camminare/ liberi e salvarsi”.
Il Meeting attraverso l’arte, le testimonianze, i contributi di scienziati, imprenditori, politici, uomini di cultura, vuole offrire il contributo di uomini così, persone che nella vita camminano libere. Il Meeting non è altro che un’esperienza di uomini che hanno incontrato altri uomini, appassionati alla vita e alla ricerca della certezza e della verità. Da 32 anni la trama di questi rapporti si dilata, incidendo nella storia, costruendo legami e opere, ma soprattutto contribuendo, attraverso l’incontro e il confronto sulle ragioni della vita, ad educare uomini non rassegnati ad inseguire farfalle, ma ancora appassionati alla res pubblica, capaci di opporsi al tentativo di renderli schiavi del potere, poiché, come dice Milosz: “si è riusciti a far capire all’uomo che se vive è solo per grazia dei potenti. Pensi dunque a bere il caffè e a dare la caccia alle farfalle. Chi ama la res publica avrà la mano mozzata”.
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A colloquio con Tomasz Trafny sul prossimo convegno in Vaticano - Staminali adulte tra scienza e cultura di FABIO COLAGRANDE (©L'Osservatore Romano 16 giugno 2011)

Promuovere la ricerca sulle cellule staminali adulte, ampliare la conoscenza sui possibili campi terapeutici e sostenere la riflessione culturale sulle implicazioni antropologiche, etiche, sociali e culturali di tali ricerche. Erano questi gli intenti dell'accordo raggiunto nel maggio 2010 dal Pontificio Consiglio della Cultura e dalla società biofarmaceutica statunitense NeoStem con il contributo della Fondazione statunitense Stem for Life. Una collaborazione volta a sviluppare programmi educativi, pubblicazioni e corsi accademici con un approccio interdisciplinare per facoltà teologiche e filosofiche, comprese quelle di bioetica. Tra le iniziative annunciate, c'era anche il convegno internazionale "Cellule staminali adulte: la scienza e il futuro dell'uomo e della cultura" in programma in Vaticano per il novembre 2011. Questa tre giorni - che farà il punto sui possibili usi terapeutici delle staminali adulte e sugli sviluppi della medicina rigenerativa valutandone anche gli impatti culturali, - viene presentata il 16 giugno nella Sala Stampa della Santa Sede. Il simposio si occuperà di tre aree fondamentali: applicazioni cliniche della scienza sulle cellule staminali; considerazioni etiche della medicina rigenerativa; implicazioni culturali della medesima, inclusi l'impatto socio-culturale e la formazione. Per approfondire in anteprima gli obiettivi del convegno, abbiamo rivolto alcune domande a uno degli organizzatori, Tomasz Trafny, direttore del Dipartimento Scienza e fede del Pontificio Consiglio della Cultura. Perché il dicastero della cultura ha scelto di indagare la ricerca sulle cellule staminali adulte? Quando nel 1982 Giovanni Paolo II fondò il nostro dicastero, indicò come parte integrale della sua missione il dialogo con le diverse espressioni della cultura contemporanea, scienza compresa. Siamo perciò impegnati nel promuovere un serio dialogo tra scienze naturali, filosofia e teologia. Le ricerche sulle staminali adulte fanno parte di un nuovo e dinamico ramo della medicina, conosciuto come medicina rigenerativa, che secondo le previsioni giocherà nei prossimi decenni un ruolo importante non solo nella lotta contro le malattie degenerative, ma anche nel ridefinire gli obiettivi della stessa scienza medica, le sue potenzialità e, ciò che è particolarmente interessante per noi, la percezione dell'essere umano in un contesto culturale soggetto a forti cambiamenti.

Perché avete scelto come vostri partner in questa iniziativa la Società biofarmaceutica NeoStem e la Fondazione Stem for life?

Condividiamo con loro la sensibilità per i valori etici, in particolare per la tutela della vita umana in ogni stadio del suo sviluppo, e l'interesse a indagare l'impatto culturale che le scoperte scientifiche possono avere nel campo della medicina rigenerativa.

Può darci qualche anticipazione sul simposio del prossimo autunno?

La conferenza, che stiamo organizzando con l'importante contributo del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari e della Pontificia Accademia per la Vita, avrà un carattere divulgativo di alto profilo e sarà indirizzata a coloro che non hanno una specifica preparazione in campo medico. Vorremmo presentare ai partecipanti lo stato dell'arte della ricerca sulle staminali adulte, le applicazioni cliniche che in alcuni casi già portano notevoli benefici ai pazienti, illustrare e discutere alcuni problemi e sfide che nascono nell'ampio orizzonte di interazioni tra la ricerca scientifica e la cultura. Per questo pensiamo di invitare vescovi, ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, nonché ministri della salute di diversi Paesi. Speriamo, inoltre, siano presenti alcuni dei nostri sostenitori con cui condividiamo la stessa sensibilità verso la realtà dei valori etici e il desiderio di promuovere il dialogo tra scienza e religione. Vorremmo in sostanza creare una solida rete di istituzioni coinvolte nelle nostre iniziative e che a loro volta si impegnino a tenere aggiornate altre realtà, garantendo anche al singolo individuo l'accesso alle informazioni e, perché no, ai possibili percorsi formativi su questi temi.

La medicina rigenerativa coinvolge la riflessione filosofica e teologica?

Nel 1964, un anno prima di essere insignito del Nobel per la fisica, Richard Feynman fece un'affermazione che per quei tempi non era affatto ovvia. Durante una conferenza a Firenze disse che "niente in biologia indica la necessità della morte". Oggi i ricercatori esplorano l'orizzonte delle potenzialità delle cellule staminali considerandole una chiave per la rigenerazione del tessuto corporeo, una speranza nella lotta contro le malattie degenerative. C'è chi è abbagliato dal miraggio della ricetta dell'eterna giovinezza e c'è persino chi, lungo questa strada, insegue il mito dell'immortalità. Come si capisce, sono ricerche che nel tempo susciteranno sempre più importanti interrogativi di tipo filosofico e teologico: si dovranno addirittura fronteggiare tentativi di ridefinizione del concetto di essere umano. Qualcuno, infatti, potrebbe mettere in discussione l'idea di unicità e integrità del corpo che, in una nuova ottica distorta, potrebbe diventare un insieme costituito da parti facilmente scomponibili e assemblabili a piacere. Ecco allora che alcuni scienziati si spingono a domandarsi fino a che punto è possibile intervenire nella struttura organica di un organismo vivente, specialmente dell'essere umano. In tutto questo è chiaramente coinvolta una riflessione filosofica anche sulla dimensione escatologica della nostra esistenza. Sono domande che già oggi dobbiamo esplorare confrontandoci con le scienze e con una seria indagine filosofica e teologica.

Cosa risponde a chi accusa la Chiesa di oscurantismo per la netta condanna all'uso delle staminali embrionali?

Dobbiamo essere molto chiari sul fatto che la Chiesa non può rinunciare alla propria identità e missione. Le accuse di oscurantismo sono spesso paradossali. Durante e dopo la seconda guerra mondiale, la Chiesa è stata accusata di non aver fatto abbastanza per salvare molte vite umane. Gli echi di queste accuse non sono cessati per decenni. Oggi, invece, la si accusa di impegnarsi troppo nel tentativo di proteggere la vita. Penso che questo atteggiamento contraddittorio nasca da una visione utilitarista: si sceglie ciò che, di volta in volta, sembra più conveniente. È una visione che inevitabilmente porta a posizioni relativiste su valori etici e scelte morali. Con il nostro lavoro sulle cellule staminali adulte vogliamo inoltre dimostrare che la Chiesa guarda avanti, esplorando possibili tendenze di sviluppo della ricerca scientifica e ponendosi quesiti concernenti il loro impatto culturale a medio e lungo termine. Un modo per rispondere a chi considera la Chiesa in perenne ritardo rispetto ai progressi della scienza.
 (©L'Osservatore Romano 16 giugno 2011)


FECONDAZIONE ASSISTITA/ La regione Veneto delibera il limite dei 50 anni – Redazione – il sussidiario.net - giovedì 16 giugno 2011

FECONDAZIONE ASSISTITA LIMITE DEI 50 ANNI - La Regione Veneto ha rilasciato una delibera che porta il limite di età per la fecondazione assistita fino ai 50 anni. Una decisione che già suscita polemiche. Di fatto, il Veneto rende possibile avere assistenza sanitaria a carico del sistema nazionale, pagando cioè solo il ticket, per tutte le donne fino ai 50 anni che vogliano fare uso di fecondazione assistita. La giunta a maggioranza leghista ha approvato all'unanimità. Il governatore Luca Zaia ha commentato che portare il limite di età a 50 anni perché non era più possibile non tener conto di un'aspettativa di vita "in crescita. Casi come quello di Gianna Nannini testimoniano la possibilità di procreare anche nella maturità. Abbiamo voluto andare incontro ai desideri della nostra gente e regalare un’opportunità alle pazienti più grandi. Non c’è niente di male". Protestano invece i medici che parlano di false illusioni. Secondo alcuni medici infatti in Italia non si registrano parti di donne superiori ai 43 anni in procedura di procreazione assistita. Una tale tecnica, per una donna di 50 anni, significherebbe solo ingolfare le liste di attesa e sprecare dei soldi sottratti a pazienti più giovani che hanno invece le carte in regola per diventare mamme. Il professor Nardelli parla di limite di età non condivisibile. Aumenterebbero poi i casi di parto prematuro, morte del feto e altri problemi per la gestante. Il caso di Gianna Nannini, aggiunge, non dimostra assolutamente nulla.



FECONDAZIONE ASSISTITA LIMITE DEI 50 ANNI -  Gli insuccessi, spiega, crescono con l'aumentare degli anni. Per il professor Sposetti infine, che anni fa praticò un cesareo a una donna di 63 anni, alimentare le speranze di signore mature è una presa in giro e uno spreco di denaro pubblico. E soprattutto per un bimbo avere una mamma-nonna non è una cosa positiva.
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Avvenire.it, 16 giugno 2011 - IL FARMACO - Pillola dei cinque giorni, un sì con molti paletti di Emanuela Vinai

Potrebbe essere introdotta a breve anche in Italia la cosiddetta «pillola dei cinque giorni dopo», vale a dire il prodotto che agisce per evitare la gravidanza fino a 120 ore dal rapporto potenzialmente fecondo. Il Consiglio Superiore di Sanità (Css), sollecitato dall’Agenzia italiana per il farmaco (Aifa), ha infatti espresso ieri un parere favorevole, che ne sconsiglia l’utilizzo solo in caso di gravidanza accertata, essendo ’un farmaco per la contraccezione di emergenza e non per l’aborto.

Il parere del Css arriva a seguito di una specifica richiesta dell’Aifa che già nei primi mesi del 2010, al termine di una prima istruttoria per deliberare l’eventuale autorizzazione al commercio in Italia, a seguito della richiesta della ditta produttrice, aveva espresso «preoccupazione riguardo alle eventuali conseguenze di un uso ripetuto» e «ritenuto opportuno sospendere la valutazione e sottoporre al Css un quesito specifico circa la compatibilità con la normativa vigente in tema di contraccezione e interruzione volontaria di gravidanza». Lo stesso ministro della Salute Ferruccio Fazio, rispondendo in un question time alla Camera all’onorevole Luisa Capitanio Santolini che chiedeva di chiarire la differenza tra EllaOne e Ru486, annunciò la richiesta di parere al Consiglio superiore di sanità «sulla compatibilità del farmaco con la normativa vigente, e perché sia chiarita la differenza con la Ru486 e che sia escluso con certezza che il farmaco EllaOne agisca dopo il concepimento».

Ma come funziona la pillola dei cinque giorni dopo? Lo spiega Lucio Romano, ginecologo all’Università Federico II di Napoli e copresidente nazionale di Scienza & Vita: «EllaOne fa parte di quei composti sintetici che si legano ai recettori del progesterone come la Ru486, la pillola abortiva. L’azione del progesterone è fondamentale per l’iniziale sviluppo della gravidanza, in particolare prepara l’utero ad accogliere l’embrione per l’annidamento. Se assunta prima dell’ovulazione EllaOne impedisce o ritarda l’ovulazione stessa». E se invece viene assunta dopo che è avvenuta l’ovulazione e la fecondazione? «In questo caso, come riportato anche da recente e autorevole letteratura scientifica – sottolinea Romano –, inducendo alterazioni dell’endometrio, la mucosa che riveste l’utero e accoglie l’embrione, la pillola ne impedisce l’annidamento svolgendo un’azione intercettiva-abortiva. È importante ricordare che i primi studi su EllaOne sono stati realizzati proprio confrontandone l’azione con la Ru486».

«Il Consiglio Superiore di Sanità ha dato una precisa indicazione di compatibilità con la legge 194 – ha commentato ieri sera il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella – e cioè che c’è bisogno di un test di gravidanza precoce che escluda una gravidanza in atto per poter somministrare la pillola dei cinque giorni dopo». Quello posto dal Css, ha sottolineato Roccella, è «un paletto importante» perché dice che la pillola è «compatibile con le leggi italiane se c’è un test che elimina ogni dubbio di gravidanza in atto, perché in quel caso bisogna invece seguire la legge 194». Ora, ha ricordato il sottosegretario, «la parola passa all’Aifa» che deve autorizzare la commercializzazione del farmaco in Italia. «L’agenzia del farmaco – ha aggiunto – modellerà il protocollo su questa base». Il parere del Consiglio Superiore di Sanità, ha concluso, è «importante perché abbiamo un problema di uso inappropriato già della pillola del giorno dopo in particolare con le minorenni».

L’Associazione radicale Luca Coscioni, in un comunicato stampa «accoglie con soddisfazione il parere positivo del Css», pur notando che «poiché l’indicazione all’uso del farmaco, l’Ulipristal, è la contraccezione d’emergenza, e non l’aborto farmacologico, il suo divieto in gravidanza appare quantomeno superfluo, data l’assoluta non necessità di ricorrervi in quest’ultimo caso». Anche il ginecologo Silvio Viale, radicale anch’egli, auspica che «il prossimo passo sia l’abolizione della ricetta obbligatoria per la contraccezione di emergenza, come già avviene nei Paesi europei e negli Usa».

La pillola dovrà ora tornare all’esame dell’Aifa per l’approvazione definitiva. L’iter che attende il nuovo prodotto per la contraccezione d’emergenza è il seguente: non appena il Css trasmetterà formalmente il proprio parere all’Aifa, il dossier passerà nelle mani della Commissione tecnico-scientifica (Cts) dell’ente regolatorio italiano. Il passaggio successivo sarà quello in Commissione prezzi e rimborsi, fino al gradino finale del responso del Consiglio di amministrazione dell’Aifa.
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La rivista “Nature” e la nascita della scienza dal cristianesimo - 16 giugno, 2011 - http://www.uccronline.it

Sul sito web di Nature, una delle riviste scientifiche più importanti del mondo, è apparso un articolo che recensisce l’ultimo lavoro di James Hannam, dottore in Storia e Filosofia della Scienza presso l’Università di Cambridge, intitolato “La genesi della scienza: come il cristianesimo medioevale ha lanciato la rivoluzione scientifica“. Il libro è stato selezionato per l’assegnazione del Royal Society Science Book Prize.

Pochi sono i temi rischiano di essere fraintesi come il rapporto tra fede e ragione, introduce il ricercatore. «Lo scontro in corso tra l’evoluzione e il creazionismo oscura il fatto che il cristianesimo ha effettivamente avuto un ruolo molto più positivo nella storia della scienza di quanto comunemente si creda. Infatti, molti degli esempi sul fatto che la religione ostacoli il progresso scientifico si sono rivelati falsi». Il docente di Cambridge spiega che, per esempio, «la Chiesa non ha mai insegnato che la Terra fosse piatta e, nel Medioevo, nessuno la pensava così, comunque. I Pontefici non hanno cercato di vietare nulla, né hanno scomunicato qualcuno per la cometa di Halley. Nessuno, sono lieto di dirlo, è stato mai bruciato sul rogo per le sue idee scientifiche. Eppure, tutte queste storie sono ancora regolarmente tirate fuori come esempio di intransigenza clericale nei confronti del progresso scientifico».

Hannam cita ovviamente Galileo, che fu processato per essersi voluto intromettere in fatti religiosi senza avere alcuna prova, come la Chiesa cattolica chiedeva, ma solo con una semplice ipotesi. Tuttavia questo caso, «mette a malapena in ombra tutto il sostegno che la Chiesa ha dato alla ricerca scientifica nel corso dei secoli». La Chiesa ha sostenuto lo studio delle scienze anche dal punto di vista finanziario, ad esempio. Fino alla Rivoluzione francese, infatti, «la Chiesa cattolica è stata lo sponsor principale della ricerca scientifica. La chiesa anche insistito sul fatto che la scienza e la matematica avrebbero dovuto essere obbligatoria nei programmi universitari. Nel XVII secolo, l’ordine dei Gesuiti era diventata la principale organizzazione scientifica in Europa, con la pubblicazione di migliaia di documenti e la diffusione di nuove scoperte in tutto il mondo. Le cattedrali sono state progettate anche come osservatori astronomici per la determinazione sempre più precisa del calendario». Senza poi dimenticare che la sincera e devota fede di tutti i grandi scienziati della storia, i quali hanno fondato le discipline scientifiche come la geologia e la genetica.

Il sostegno alla ricerca scientifica è stato giustificato dal fatto che «i cristiani hanno sempre creduto che Dio ha creato l’universo e ordinato le leggi della natura. Studiare il mondo naturale significava ammirare l’opera di Dio. Questo “dovere religioso” ha ispirato la scienza quando c’erano pochi altri motivi per preoccuparsi di essa. È stata la fede che ha portato Copernico a respingere l’universo tolemaico, a spingere Keplero a scoprire la costituzione del sistema solare, e che convinse Maxwell dell’elettromagnetismo». Il Medioevo, l’epoca più dominata dalla fede cristiana, è stato un periodo di innovazione e progresso. L’autore cita l’invenzione dell’orologio meccanico, dei bicchieri, della stampa e la contabilità. Nel campo della fisica, gli studiosi hanno trovato oggi le teorie medievali sul moto accelerato, la rotazione della terra e l’inerzia.

Il ricercatore di Cambridge accusa il secolo illuminista e Voltaire della genesi della leggenda nera sull’opposizione del cristianesimo alla scienza. I filosofi francesi hanno attaccato la Chiesa per motivi politici, poi ci ha pensato l’ingelse TH Huxley, il “mastino di Darwin”, a prolungare questa falsità, per foraggiare la sua lotta di liberazione della scienza britannica da ogni sorta di influenza clericale. «Tuttavia, oggi, la scienza e la religione sono le due forze più potenti intellettuali del pianeta. Entrambi sono capaci di fare enormi bene, ma le loro possibilità di farlo sono molto maggiori se esse possono lavorare insieme», ha concluso lo storico della scienza.


E' una guerra contro la vita di Riccardo Cascioli, 17-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it/

I lettori ci scuseranno se anche nell’editoriale di oggi parleremo della “pillola dei 5 giorni dopo”, dopo averlo già fatto ieri. Ma a noi sembra che ai più sfugga l’enorme portata culturale dell’introduzione del concetto di “contraccezione d’emergenza”, già affermatosi con la pillola del giorno dopo, ma che ora rivela tutta la sua menzogna e pericolosità.

Nell’intervista che pubblichiamo in primo piano al professor Mozzanega viene chiarito molto bene il grande inganno scientifico e il tentativo di cambiare il concetto stesso di gravidanza, con buona pace del sottosegretario Eugenia Roccella che pare preoccuparsi solo della compatibilità con la legge 194.

Ma qui interessa sottolineare le implicazioni di una ben studiata strategia per mutare nelle persone la percezione della realtà. Che comincia appunto nel cambiare il nome ai fatti, in modo che assumano un significato diverso da quello che effettivamente hanno. In questo caso si chiama contraccezione un fatto che in tutta evidenza è un aborto. Bisogna dire che è una strategia ben riuscita, se perfino il quotidiano dei vescovi italiani, nel riportare le decisioni del Consiglio Superiore di Sanità, ieri, 16 giugno, definiva la pillola dei 5 giorni dopo “un prodotto che agisce per evitare la gravidanza”. E no: evitare la gravidanza è lo scopo della contraccezione che può avvenire soltanto prima del rapporto sessuale. Quando si interviene dopo la fecondazione, la gravidanza viene interrotta, non evitata.

Non sembri una questione di lana caprina: in sede internazionale, i grandi cambiamenti e le grandi battaglie avvengono intorno alle singole parole e alle definizioni.

Così è avvenuto per l’introduzione del concetto di “contraccezione d’emergenza”, che è una invenzione relativamente recente, legata storicamente alla Conferenza Internazionale ONU del Cairo su Popolazione e Sviluppo (1994). Le agenzie ONU e le grandi lobby abortiste, che godevano allora del grande sostegno dell’amministrazione Clinton, al Cairo incontrarono una forte resistenza nell’introdurre l’aborto come metodo di controllo delle nascite. I paesi latino-americani e parte di quelli islamici trovarono nella delegazione della Santa Sede il punto di riferimento per difendere i loro popoli dall’aggressività di Usa ed Europa, disposti a pagare miliardi di dollari per finanziare aborto e controllo delle nascite. Sebbene tale pratica abbia avuto un grosso impulso a partire dal Cairo, non si riuscì però a far passare l’aborto come un diritto umano o comunque un diritto delle donne.

Ecco allora che, grazie alle nuove pillole disponibili sul mercato, si fece strada l’idea di proporre la “contraccezione d’emergenza”, per la diffusione della quale nel 1996 fu formato un Consorzio internazionale che include alcune agenzie dell’ONU (Fondo per la Popolazione, Programma per lo Sviluppo, Organizzazione Mondiale della Sanità, Banca Mondiale) e le più importanti organizzazioni internazionali per l’aborto, tra cui l’International Planned Parenthood Federation (IPPF), il Population Council, Pathfinder International, Population Services International.

Il primo obiettivo di questo Consorzio, che in tutti questi anni ha profuso un’infinità di fondi per il buon successo della causa, era – ed è – quello di aggirare le legislazioni anti-abortiste ancora vigenti. Infatti mentre l’aborto in molti paesi è ancora vietato o fortemente limitato, la contraccezione è più o meno libera ovunque. Ecco allora che chiamare “contraccezione” un medicinale che è abortifaciente, permette di introdurre l’aborto laddove è vietato, con l’aggiunta di ingenerare nelle giovani generazioni una banalizzazione del rapporto sessuale, a cui si può porre sempre rimedio. E peraltro, una volta che si può intervenire dopo il rapporto sessuale, si capisce che passare da un giorno a tre o 5 mesi è solo questione di tempo. Si crea cioè una concezione del rapporto sessuale e delle sue conseguenze che pone le basi culturali per un’accoglienza dell’aborto.

Né bisogna dimenticare che inizialmente definire queste pillole abortive “contraccezione d’emergenza” è servito per poterle distribuire negli interventi dell’ONU per i profughi - in Africa e in Asia, ma anche in Bosnia - sotto la voce “servizi di salute riproduttiva”.

Una seconda funzione della “contraccezione d’emergenza”, questa più diretta ai paesi ricchi, è la possibilità di poterla distribuire ai minorenni senza neanche il consenso dei genitori. Mentre le solite lobby abortiste e agenzie ONU si battono per rendere possibile anche l’aborto alle minorenni all'insaputa dei genitori,intanto con la “contraccezione d’emergenza” questo è già realtà. In questo modo, oltre alle conseguenze negative sulla educazione all’affettività degli adolescenti, si strappa ai genitori la libertà di educare i propri figli. Questo è già quanto succede in diversi Paesi nord-europei.
E accadrà presto anche da noi, se lasciamo passare questa rivoluzione del linguaggio per cui accettiamo tranquillamente di chiamare contraccezione ciò che invece è aborto. E accadrà all’interno dei programmi di educazione sessuale che stanno diventando sempre più obbligatori a partire dalle scuole medie, ma anche dalle elementari.

Non è l’allarme di qualche ossessionato che vede cattive intenzioni ovunque: basta guardare cosa succede in Germania, in Inghilterra, in Francia, per capire dove ci vogliono portare. Basta guardare ai documenti e ai programmi delle succitate organizzazioni e agenzie ONU per sapere qual è la strategia e l’obiettivo.

C’è in atto la ridefinizione dei diritti umani, dei valori, della dignità della persona, della legge naturale; in altre parole, la ridefinizione della realtà secondo uno schema ideologico. Tanto da far dire al neo arcivescovo di New York, Timothy Dolan – in questo caso riferendosi ai matrimoni gay – che ci stiamo trasformando nella Corea del Nord. Ed è esattamente così: anche l’Europa, passo dopo passo, sta diventando una Corea del Nord, un regime totalitario dove addirittura si persegue un governo che fa pubblicità per la vita, come documentiamo oggi nel Focus.

Sarebbe bene che anche i vescovi, oltre al meritorio impegno a favore delle aziende municipalizzate, ponessero attenzione ai processi in atto senza aspettare di dover correre a chiudere il recinto dopo che i buoi sono scappati.


«La pillola dei 5 giorni dopo: un grande inganno culturale» di Raffaella Frullone, 17-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Il Consiglio superiore di sanità ha detto sì. L'organo consultivo del ministero della Salute ha espresso un parere favorevole per l’introduzione della “Pillola dei 5 giorni dopo” nel nostro Paese, specificando che non si tratta di un abortivo, ma di un contraccettivo d’emergenza. Se si fosse trattato di un abortivo il farmaco sarebbe dovuto risultare in linea con quanto stabilito dalla legge 194, che regola l’aborto.

Già approvata dall'Ema, l'agenzia europea del farmaco, e in commercio in Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna, la pillola agisce dopo il concepimento impedendo l’annidamemento dell’embrione nell’utero.

Ma in questo caso, possiamo parlare di contraccettivo? Lo abbiamo chiesto a Bruno Mozzanega, ginecologo alla clinica ostetrica universitaria di Padova e autore di "Da Vita a Vita- Viaggio alla scoperta della riproduzione umana" (Seu editore).
«Certamente no,  per una ragione semplice. L’aborto impedisce ad un individuo concepito di venire alla luce, interrompe una gravidanza in atto. La contraccezione, al contrario, per essere tale deve deve impedire il concepimento e così prevenire la gravidanza. I rapporti che possono portare al concepimento  avvengono nel periodo fertile della donna, vale a dire i 4 o 5 giorni che precedono l’ovulazione. Se c’è un rapporto fertile in questi giorni, magari proprio a ridosso della ovulazione, e il farmaco può essere efficacemente assunto fino a cinque giorni dopo, è evidente che il suo effetto si palesa dopo il concepimento. In questo modo impedisce che un essere umano già concepito si annidi in utero e possa vivere».

Dunque come è possibile che un organo ministeriale lo cataloghi come «contraccettivo»?
«Si tratta di un inganno culturale. Il mondo scientifico, tramite alcune delle sue associazioni più rappresentative, pretende di stabilire che la gravidanza inizi solamente dopo l’impianto, ma come è facile intuire la vita inizia prima. La legge 405 del 1975, che istituisce i consultori familiari e definisce i contorni della procreazione responsabile, la finalizza alla tutela della donna e del prodotto del concepimento, il concepito che emerge dall’incontro di uovo e spermatozoo e che in quel preciso istante inizia a vivere. Siamo in presenza di un tentativo di svalutare la vita dell’embrione prima del suo impianto e di consentirne l’eliminazione facendo rientrare il tutto nell’ambito della “contraccezione” ».

In realtà, qualora il farmaco dovesse essere adottato, sarà somministrato soltanto dopo che la donna avrà effettuato un test di gravidanza. E il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, ha definito questa procedura «un paletto importante»…
«Questo rende ancora più palese la contraddizione. Mi spiego. Innanzitutto dobbiamo chiarire che il test di gravidanza è in grado di rilevare una gestazione in atto grazie all’hCG ossia la gonatropina prodotta dall’embrione al fine di mantenere nell’utero le condizioni indispensabili al proprio sviluppo, ma essa si rileva solo 7-8 giorni dopo il concepimento, non certo nei 5 giorni successivi ad un rapporto potenzialmente fertile. Dunque non siamo in presenza di nessun paletto. Credo che il sottosegretario Roccella tema piuttosto il rischio che molte donne ricorrano a ellaOne come sostitutivo della RU486, con la quale condivide molte affinità di azione, e dunque a gravidanza già diagnosticata. Produrre il test dovrebbe scongiurare questo abuso, ma nulla vieta alla donna di attendere prima di assumerla, o di farsene una riserva da utilizzare al bisogno. D’altra parte,  questo non fa che confermare che siamo in presenza di un farmaco in grado di determinare l’aborto».

Il presidente emerito del Pontificio Consiglio per la vita, mons. Elio Sgreccia, ha parlato di «aborto dalla raffinata malizia»…
« E io lo ribadisco, si tratta di un grande inganno culturale. Mi preoccupa certamente che le ragazzine o le donne assumano questa pillola, ma ancora più grave è che le stesse vengano indotte ad usarla, tranquillizzate da una informazione artatamente falsa, senza sapere. E’ evidente che si tratta di un inganno perché il concepito è vivo. I morti non vanno da nessuna parte, e certo non si annidano in nessun utero».


Assalto UE all'Ungheria pro-life di Tommaso Scandroglio, 17-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Gli Stati membri non possono usare fondi UE per campagne contro l’aborto. Questo è quanto ha detto l’8 giugno scorso il vice presidente della Commissione europea, Viviane Reding. Il caso riguarda l’Ungheria dove sono comparsi manifesti in cui un feto esclama: “Capisco che tu non sia pronta per me, ma ti prego dammi in adozione, lasciami vivere”.

La campagna pro-life, lanciata dal partito di centrodestra del premier Viktor Orban, è in parte finanziata dall’Unione Europea. La Reading ha affermato che questa iniziativa “non è in linea con i progetti presentanti dalle autorità ungheresi per ricevere i finanziamenti di Bruxelles. Gli Stati membri dell’Unione Europea non possono usare i fondi comunitari per pubblicità contro l’aborto. Per tale motivo, l'esecutivo dell’Unione Europea ha chiesto a Budapest di rimuovere tutti i manifesti, se non vuole incorrere in sanzioni finanziarie”. Ed infine ha rincarato la dose: “avvieremo procedure per porre fine all'accordo e trarremo le dovute conclusioni, anche in termini finanziari”. Le ha fatto eco l'eurodeputata francese del gruppo socialista Sylvie Guillaume: “Usare fondi dell’Unione Europea per promuovere campagne anti-aborto è un abuso, ed è incompatibile con i valori europei”. Pronta è arrivata la replica di Miklós Réthelyi, Ministro ungherese delle Risorse Nazionali e Responsabile degli Affari Sociali: “Il governo ungherese intende arrivare al più presto a una risoluzione del caso e considera la vicenda una questione tecnica e legale”. Inoltre ha aggiunto che la destinazione dei fondi UE è un punto che si offre a diverse interpretazioni e su cui bisogna fare chiarezza. Infine ha concluso che il governo è disponibile a trovare le soluzioni più appropriate per chiudere il caso.

La miccia si è accesa lo scorso 28 maggio in occasione della Giornata internazionale d’azione per la salute delle donne, giornata in cui la European Women’s Lobby (EWL) e la International Planned Parenthood Federation European Network (IPPF EN) hanno diffuso un comunicato stampa in cui si puntava il dito contro la neonata Costituzione Ungherese che dovrebbe entrare in vigore il primo di gennaio del 2012. Questa carta costituzionale è colpevole, a detta di tali organizzazioni, di ledere i diritti sessuali e riproduttivi delle donne e contrasterebbe con il Programma di azione del Cairo adottato nel 1994 in occasione della conferenza internazionale su Popolazione e sviluppo.

Ma cosa dice la futura Costituzione ungherese di così offensivo? L’articolo messo all’indice è il numero due: "Ognuno ha diritto alla vita e alla dignità umana. La vita del feto è protetta fin dal concepimento". Questo articoletto minerebbe la libertà della donna e della coppia di mettere al mondo i figli quando si desidera e inoltre obbligherebbe a continuare la gravidanza anche nel caso in cui la salute della donna potrebbe correre qualche pericolo.

Ecco allora le femministe post-moderne imbracciare il fucile della critica spietata e far ricorso alla Commissione europea affinchè freni queste derive oscurantiste. Eva Fager, vice presidente della EWL, così invoca l’intervento dell’Europa: “Speriamo che l’Unione europea controlli attentamente gli stati membri e agisca per assicurare il rispetto dei diritti umani delle donne, compresi quelli sessuali". Elizabeth Bennour, direttore del programma dell’IPPF, si spinge più in là e chiama al contrattacco tutte le forze laiciste: “La risposta a questi attacchi deve venire da tutti quelli che credono che le donne hanno un diritto inalienabile al proprio corpo, in una società egualitaria, democratica e secolare". L’appello viene subito raccolto dall’European Humanist Federation, a cui tra l’altro aderisce la nostrana Unione Atei e Agnostici Razionalisti, tanto per comprendere quale è il DNA di questa organizzazione europea.

A questo primo assalto la vice presidente Viviane Reding non è riuscita a dare soddisfazione ai querelanti dovendo ammettere che la Costituzione ungherese non viola nessuna norma o trattato comunitario e che ogni nazione è sovrana sul suo territorio. In parole povere il contenuto della Carte costituzionali non può essere dettato dall’Unione europea. Purtroppo al secondo colpo di ariete il principio di sovranità nazionale è andato in frantumi. Infatti nella campagna pubblicitaria promossa dal governo ungherese ci sono di mezzo fondi non solo statali ma anche europei.

Quello che è accaduto in Ungheria ha costretto i vertici dell’Unione Europea a gettare la maschera: i veri diritti, o presunti tali, sono solo quelli delle persone già nate e il femminismo radicale detta legge in Europa, con il suo portato di rivendicazioni libertarie che sono né più né meno quelle del lontano Sessantotto. D’altronde l’anagrafe non mente: le donne di governo o al vertice di potenti organizzazioni sovranazionali che in questa vicenda si sono stracciate le vesti si sono formate culturalmente proprio in quel travagliato periodo del secolo scorso.

Ma al di là di queste considerazioni di merito, poniamoci una domanda di carattere giuridico: è vero che questa campagna pro-life è un abuso? Che contrasta con i valori europei? Insomma questi cartelloni pubblicitari sono illegittimi ed è dunque giusto toglierli dalle strade? Per nulla verrebbe da rispondere se andiamo a spulciare alcune risoluzioni del Parlamento Europeo (n. 372/88, n. 327/88 e n. 16/03/89), la Raccomandazione del Parlamento Europeo n. 1046/86, la Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 1100/89 e la n. 874/79. In questi documenti si fa espressamente riferimento o al “diritto alla vita del concepito” oppure si parla di vera e propria dignità dell’embrione. Più chiari di così non si può essere.

Se poi ci spostiamo dal piano europeo a quello mondiale la musica non cambia: pensiamo alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989 e alla Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1959 approvate dall’ONU in cui, in entrambi i casi,  si indica come doveroso la tutela del fanciullo anche prima della nascita. E questi due documenti sono stati fatti propri da non pochi stati europei. Ciò a voler dimostrare che non solo l’Ungheria non viola nessuna disposizione di carattere giuridico, ma con la sua iniziativa contro l’aborto si allinea alle disposizioni appena menzionate e fa propri quei valori pro-life che, sebbene spesso dimenticati, sono il patrimonio comune di tutto un continente.


Mamme a 50 anni diritto o capriccio? di Tommaso Scandroglio, 17-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Martedì scorso la Giunta regionale del Veneto, capeggiata dal leghista Luca Zaia, ha deciso di innalzare fino a 50 anni il limite di età per le donne al fine di accedere alle tecniche di fecondazione artificiale potendo usufruire dell’esenzione del ticket. In tutta Italia il Servizio Sanitario nazionale copre le spese per la Fivet invece sino ai 43 anni.

E’ opportuno ricordare che la legge 40 del 2004, sulla cosiddetta Procreazione medicalmente assistita, non prevede limiti di età per l’accesso a tali pratiche. In questo caso lo strappo alle regole riguarda dunque solo l’esenzione del ticket. Insomma i contribuenti dovranno pagare di tasca propria le speranze di maternità di donne più vicine anagraficamente a diventare nonne piuttosto che mamme.

La decisione verde-leghista è da criticare, oltre per motivi di ordine morale, anche in base ad altre considerazioni di natura medica ed economica. In primo luogo sopra i 44 anni il tasso di successo con Fivet o ICSI è vicino al 4% (dato dell’inglese Human Fertilisation and Embryology Authority) e si assottiglia quasi verso lo zero con gli anni. Il caso Nannini, diventata mamma a 56 grazie alla Fivet, infatti è rarissimo. Evidentemente Zaia pensa che le mamme venete hanno una marcia in più e sono più feconde. Inoltre, dicono gli esperti, aumenterebbero i casi di parto prematuro, di morte del feto e vi sarebbero problemi di salute seri per la gestante.

Sul versante invece economico-amministrativo le risorse finanziarie si distrarrebbero verso una pratica pressoché fallimentare, togliendo così soldi ad altri comparti della sanità sicuramente più importanti e più bisognosi di aiuti economici. A tutto ciò si aggiunge il fatto che le richieste da parte di mamme over 40 aumenterebbero di certo allungando le liste d’attesa ed ingolfando le amministrazioni delle aziende ospedaliere.

Shakespeare direbbe “tanto rumore per nulla” e avrebbe ragione. Infatti queste apparenti derive libertarie erano già contenute in nuce nella legge 40, la quale come ricordato non pone limiti di età per tentare la strada del figlio in provetta. Ora è tardi per gridare allo scandalo perché il vero scandalo sta nel fatto che una legge permetta di “produrre” un figlio in laboratorio. Il resto – limiti di età, numero massimo di embrioni per ogni ciclo, criconservazione, etc. – viene di conserva, è la frana che arriva a valle provocata da un masso che abbiamo divelto a monte.

Allora l’etica dei paletti ancora una volta mostra la corda. E’ inutile tentare di arginare l’alluvione di una diga che ha già ceduto da tempo, cioè una volta che abbiamo dato la possibilità alle coppie di accedere alla Fivet.

La vicenda dimostra poi che più che il risultato concreto di stringere a sé un figlio in tarda età – risultato come abbiamo visto è quasi una chimera – ciò che importa è il diritto al tentativo. L’egualitarsimo infatti impone che a tutti siano concesse pari opportunità. Contraddicendo così il principio di uguaglianza il quale predica che occorre trattare i casi uguali in modo uguale e i casi diversi in modo diverso. Poco importa poi che il buon senso, così attento alle differenze, e madre natura siano di altro avviso. Lo spirito dittatoriale democratico obbliga a concedere un’ultima chance anche chi, fino all’altro ieri, non pensava di avere un figlio perché “non si sentiva pronta” o “non era tempo”. Insomma dalla fecondazione artificiale siamo transitati alla fecondazione geriatrica, una fecondazione pretesa da mamme-nonne che fanno i capricci come bambine.


Sangue da cordone, una sfida culturale di Carlo Bellieni, 17-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Il “sangue di cordone ombelicale”, sangue rimasto nella placenta e prelevabile attraverso il cordone, può essere usato per curare un certo numero di malattie. Il prossimo numero della rivista Pediatric Blood and Cancer consacra una review a questo tema; la conclusione è che  “il rischio di avere una delle poche malattie per le quali questo sangue è utile risulta troppo basso (meno di 1 su 50.000) per farne gravare il peso sulla singola famiglia”; è dunque preferibile la donazione pubblica, della quale chiunque può avvantaggiarsi.

Certo, forse nel futuro – e ce lo auguriamo - esisterà la possibilità di una medicina rigenerativa e non solo curativa, cosa che renderà più consistenti, per quanto minute,  le possibilità di impiego per se stessi di questo sangue (saranno sempre casi rari e sarà sempre possibile usufruire di un donatore); ma “questa prospettiva è futuristica, e al momento manca di evidenza clinica”, spiegano gli autori della review. Largo allora alla donazione pubblica, dice la scienza, come avviene per il sangue degli adulti, in modo che ne usufruiscano i pazienti bisognosi senza distinzioni di razza o di nazionalità. Ottimo progresso scientifico ed ottima scuola di solidarietà.

Il Consiglio di Stato francese, il 6 maggio 2011 ha ribadito la volontà di non autorizzare in Francia la presenza di banche private per la raccolta del sangue di cordone ombelicale ad uso personale invece che ad uso pubblico. Sui media attenti alle mode del momento, questa decisione sarà parsa impopolare. Come: vietate di tenere per sé il proprio sangue? Ma la decisione francese, pari a quella vigente in Italia, si basa su dati scientifici: a schierarsi a favore della donazione pubblica piuttosto che della conservazione per uso privato è infatti il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, il Comitato di Bioetica francese e gli ostetrici canadesi.

L’American Academy of Pediatrics sottolinea che conservare per uso proprio il sangue non deve essere raccomandato come assicurazione biologica salvo che se già si ha un parente malato su cui usare le cellule, e che “le famiglie possono essere emotivamente vulnerabili al marketing al momento della nascita di un bambino”; per il Comitato di Bioetica del consiglio d’Europa le banche private forse “promettono più di quello che possono offrire”.


Ma allora perché tenere per sé del sangue che potrebbe essere donato, se ha davvero scarse possibilità di essere usato per uso privato? Forse perché siamo abituati a pensare che fra poco tutto sarà reso possibile dalle tecnoscienze, senza magari riflettere che semmai queste nuove tecniche arrivassero, troveranno del materiale conservato sotto ghiaccio e c’è chi spiega che l’attuale congelamento non rende possibile coltivare quantità significative di cellule staminali non emopoietiche (Deutsches Ärzteblatt International, dicembre 2009). Ma forse anche perché in Occidente siamo presi dall’illusione di voler “controllare tutto”, anche se “sembra esserci così poco senso sia medico che economico”, come recita a proposito un editoriale della succitata rivista ematologica pediatrica. Ma il desiderio di controllo è un segno di profonda insicurezza: si cercano vie di salvezza spaventati da ipotesi remote, nonostante ci siano alternative (la donazione da parte di altri) e sebbene ci siano riserve sull’utilità del rimedio verso cui si corre e che si pretende a gran voce.

Ma è meglio alla nascita regalare al proprio bambino una poco attuabile “assicurazione sulla salute”, oppure la consapevolezza che il suo primo sangue è andato a salvare un bambino malato piccolo come lui?


Avvenire.it, 18 giugno 2011 - La "pillola dei cinque giorni dopo" - La scorciatoia bugiarda dell’aborto inconsapevole

La Ru486 rimarrà la prima e ultima pillola abortiva ufficialmente riconosciuta come tale a essere commercializzata. Non ce ne saranno altre, perché un prodotto come questo dà troppi problemi: non solo polemiche, ma pure il fastidio di doverne conciliare l’uso con le leggi sull’aborto. È più semplice continuare la strada dell’aborto farmacologico usando altri nomi, che non evochino una gravidanza interrotta violentemente, ma piuttosto un atto medico, possibilmente non normato. Per esempio si può usare l’espressione «contraccezione d’emergenza»: teoricamente dovrebbe significare un’azione contraccettiva – impedire la formazione di un embrione – che si esercita in extremis, cioè in un breve intervallo di tempo dopo un rapporto sessuale potenzialmente fecondo.

Se questo fosse con certezza l’unico meccanismo di azione, la discussione si limiterebbe al piano dei comportamenti personali. Ma tale certezza non c’è. Per la cosiddetta «pillola del giorno dopo», per esempio, il foglietto illustrativo non esclude che il prodotto possa impedire all’embrione già formato di annidarsi in utero. Questa pillola è stata autorizzata in Italia nel 2000 dal Ministero della Salute, guidato dall’allora ministro Umberto Veronesi. Adesso invece è la volta di un nuovo «contraccettivo di emergenza»: EllaOne, la «pillola dei cinque giorni dopo», efficace – dice l’azienda farmaceutica francese che la produce – se somministrata fino a 120 ore dopo il rapporto forse fecondo. La sua immissione in commercio è stata autorizzata dalla Commissione europea in base a un parere scientifico dell’Ema, l’ente regolatorio europeo, e la decisione – stando alle regole Ue – risulta vincolante per tutti i Paesi europei, ai quali viene consentito al più di regolare alcune modalità di accesso al prodotto.

Come funzionamento EllaOne, tuttavia, è parente stretta della Ru486: si lega ai recettori del progesterone, e non si può escludere che, se assunta quando un embrione già c’è, interferisca con il suo annidamento in utero. Come è possibile negare, insomma, una sua eventuale azione antinidatoria? Ma le autorità europee l’hanno fatto e non l’hanno rubricata come abortiva, usando invece l’ambigua categoria della «contraccezione di emergenza». Le autorità sanitarie nazionali non hanno gli strumenti giuridici per cambiare la catalogazione di EllaOne, di competenza europea. Anche per questo bisogna riflettere attentamente sul fatto che, ormai da tempo, certe decisioni siano sottratte alla politica e affidate ad autorità tecno-burocratiche internazionali.

Il Consiglio superiore di sanità, su richiesta dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), ha espresso una valutazione sulla compatibilità di questo prodotto con la legge 194, e ha stabilito un limite: essendo controindicata in gravidanza, si può assumere solo dopo aver accertato con un test precoce – quelli di laboratorio, non gli stick della farmacia – che la donna non è incinta. Un’indicazione importante (non un’autorizzazione), che l’Aifa – cui spetta di decidere sull’eventuale commercializzazione – dovrà tenere in adeguato conto, e che però potrà escludere solo che EllaOne interferisca con gravidanze precedenti: non ci sono, per ora, test che possano individuare la presenza di un embrione formato ma non ancora annidato. Ma non si può permettere che l’aborto incerto – quello che si può nascondere con la "contraccezione di emergenza", la soppressione dell’embrione che non si saprà mai se c’è stata o no – possa pian piano sostituire quello dichiarato.

Non possiamo accettare un imbroglio linguistico, una scorciatoia bugiarda. Che almeno ci sia l’onestà intellettuale di chiamare le cose con il loro nome, perché tutti – le donne, le coppie, il personale sanitario, specie medici e farmacisti – possano agire pienamente consapevoli dei propri atti e delle relative conseguenze. Non è tollerabile confondere aborto e contraccezione per cercare di distrarre le coscienze.
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Celibato, basta bugie. Manca la fede di Antonio Giuliano, 20-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Tutta colpa del celibato, dicono. Così i recenti casi di abusi e pedofilia hanno ridestato le puntuali accuse contro la Chiesa che obbliga i preti a non sposarsi. Al di là dei soliti pregiudizi, in una società che esalta il consumismo affettivo, i sacerdoti (ma anche i religiosi/e) sono come marziani. Ecco perché libri come quello di Mauro Leonardi Come Gesù (Ares, pp. 328) o quello di Arturo Cattaneo Preti sposati? (Elledici, pp. 144, euro 9), di questi tempi appaiono davvero arditi: la scelta di seguire Cristo donandosi totalmente non è per nulla “castrante” del cuore umano. E Cattaneo, da teologo e docente di Diritto canonico, non schiva certo le questioni più scottanti, come ha fatto nel suo libro (con prefazione del cardinale Mauro Piacenza), nel quale richiama anche le tesi di autorevoli esperti.

Perché gli abusi da parte di uomini di Chiesa non possono essere spiegati con il celibato?
Chi afferma o suppone una simile relazione sta cercando un pretesto per screditare il celibato. Nessuno studio serio ha infatti potuto stabilire un rapporto fra celibato e pedofilia o abusi sessuali. A nessuno verrebbe in mente di imputare al matrimonio il fatto che persone sposate commettano tali abusi. Non si vede perché debba essere diverso nel caso del celibato. Ciò non toglie che, per la dignità di cui è investito il sacerdote di Cristo, pur ridimensionando il fenomeno e scagionando il celibato, l’abuso sessuale commesso da sacerdoti è particolarmente odioso, tragico e offensivo.

In una cultura segnata dall’ipersessualizzazione, non le pare che il celibato sia antistorico e contro-natura dal punto di vista psicoaffettivo?
Sono d’accordo con lo psicoterapeuta tedesco Manfred Lütz quando dice che la vita celibataria sarebbe innaturale solo quando l’esser da solo diventa una forma di egoismo chiuso in sé o una narcisistica messinscena di sé. Da un tale pericolo, non è però esento nemmeno l’uomo sposato. Oltre all’accusa di essere “innaturale” il celibato è spesso indicato quale una delle principali cause di certe crisi esistenziali di alcuni sacerdoti. Ma all’origine di tali crisi non è il celibato, ma l’inaridimento della vita spirituale. Quando un sacerdote non prega più regolarmente, quando egli stesso non si accosta più al sacramento della riconciliazione, in altre parole, quando egli non intrattiene più una relazione vitale con Dio, allora egli, come sacerdote, non è più fecondo. I fedeli stessi si rendono conto che da lui non emana più la forza dello spirito di Dio. Non è difficile comprendere come tutto ciò possa portare il prete ad uno stato di insoddisfazione e di frustrazione.

C’è qualcosa da rivedere all’interno dei seminari?
Al momento dell’ammissione al seminario e dell’accettazione per il conferimento dell’ordine, bisognerà procedere con grande diligenza e coerenza, senza lasciarsi condizionare dal desiderio di incrementare il numero delle vocazioni. La qualità è più importante della quantità. Da parte dei responsabili occorre il pieno riconoscimento della verità cristiana in materia di morale sessuale. Ciò contribuirà a un rinnovamento sia del sacerdozio sia della vita matrimoniale e familiare. L’altro cavallo di battaglia contro il celibato è la tesi per cui favorirebbe la presenza di omosessuali tra i sacerdoti. Se in qualche diocesi si osservasse un numero relativamente alto di sacerdoti con tendenze omosessuali, ciò indicherebbe che non si sono seguiti con sufficiente cura i criteri di selezione dei candidati al sacerdozio. La causa di una simile situazione non sarebbe certamente il celibato, per il semplice fatto che questa promessa presuppone che il futuro sacerdote sia eterosessuale. Infatti la rinuncia volontaria e consapevole, per amore del Regno dei Cieli, a quei beni naturali che sono il matrimonio e la famiglia è possibile solo a un uomo eterosessuale. Se uno promettesse di rinunciare a qualcosa che per lui non è un bene naturale ma gli è indifferente, estraneo o non lo attira, in realtà non farebbe una rinuncia; il termine rinuncia diventerebbe assolutamente privo di contenuto e non avrebbe nessun senso.

Una rinuncia alla quale Gesù “invita” non obbliga…
Certamente il celibato è un invito, un dono che il Signore offre e non può essere imposto a nessuno. La Chiesa – guidata dallo Spirito Santo – ha gradatamente riconosciuto l’importanza di scegliere i candidati per il ministero sacerdotale fra coloro che hanno ricevuto tale dono. Riguardo al suo valore, Gesù ha precisato: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso” (Mt 19,11). Ciò implica una comprensibile prudenza nel discernimento delle vocazioni al sacerdozio. La Chiesa è la prima interessata a evitare che diventi sacerdote chi non è in grado di vivere le esigenze del celibato. Quest’ultimo è infatti un dono, ma anche un compito e una chiamata ad amare di più.

Ma i preti sposandosi non capirebbero di più i problemi delle famiglie?
Chi prende sul serio l’accompagnamento spirituale dei fedeli arriva ad avere più esperienze di non pochi sposati. Manfred Lütz ha osservato che un pastore d’anime sposato, così come uno psicoterapeuta sposato, corre sempre il rischio di rivivere inconsciamente e di far agire nel caso presente davanti a sé le esperienze del proprio matrimonio. Perciò egli ha bisogno, in genere, di una supervisione, per evitare simili rischi. Al contrario, un buon pastore d’anime ha una ricca esperienza esistenziale con tantissime vicende matrimoniali. Da tutto ciò egli può attingere per i casi più difficili. Si spiega così la straordinaria fecondità degli scritti di Giovanni Paolo II sul matrimonio.

Però in Oriente i preti si sposano…
Questo è uno dei temi su cui esiste forse la maggior disinformazione. La Chiesa primitiva ammetteva sacerdoti sposati, ma a condizione che essi, dopo l’ordinazione, vivessero in perfetta e perpetua continenza. Questa richiesta, non ancora teorizzata teologicamente, dimostra che sin dall’inizio c’era la convinzione che il sacerdote dovesse esser libero da ogni altro legame per potersi donare alla Chiesa sull’esempio di Cristo. Difatti la Chiesa latina con la progressiva introduzione a partire dal IV secolo del requisito del celibato è rimasta in sintonia con la pratica originale di un clero continente. E nei primi secoli, le Chiese d’Oriente hanno promosso l’astinenza dei chierici anche più di quelle d’Occidente. Poi l’obbligo all’astinenza si è iniziato a indebolire nelle Chiese orientali a causa degli scismi e di alcune manipolazioni dei testi dei precedenti concili. L’interpretazione della Chiesa orientale va dunque sfatata, perché storicamente insostenibile. Sebbene la Chiesa di Roma abbia accettato quella disciplina, sarebbe più logico promuovere anche lì il sacerdozio celibatario.

Eppure anche nella Chiesa son tornate a farsi sentire voci progressiste contro il celibato. E viene ricordato come anche il teologo Ratzinger nel 1970 era possibilista sui preti sposati.
Nel 1970 la commissione teologica della Conferenza episcopale tedesca (a cui apparteneva Ratzinger) suggerì effettivamente di aprire una discussione sul tema, il documento non venne però firmato da Ratzinger. Penso che chi chieda di abolire l’esigenza del celibato dovrebbe avere maggior rispetto nei confronti di quanto il Magistero insegna. Quest’ultimo ha individuato la ragione teologica del celibato nella configurazione del sacerdote a Gesù Cristo, Capo e Sposo della Chiesa. Ciò permette al sacerdote di vivere il celibato non come un elemento isolato o puramente negativo (rinuncia difficile), ma quale frutto di una libera scelta d’amore – continuamente da rinnovare – in risposta ad un invito di Dio a seguire Cristo nel suo donarsi come “Sposo della Chiesa”, partecipando così alla paternità e alla fecondità di Dio.

In che modo i sacerdoti possono essere aiutati a vivere il celibato?
Ciò che maggiormente aiuta a vivere, e con gioia, il celibato è accoglierlo con la giusta motivazione, ossia quella del dono a Cristo e alle anime. Così il celibato non solo non sarà causa di solitudine, ma sarà fecondo di compagnia e di amicizia. Anzitutto con Cristo, incontrato quotidianamente nell’Eucaristia e nella preghiera, ma poi anche con i fratelli. Da Gesù il sacerdote impara ad amare i fedeli lui affidati nel modo giusto e autentico, senza cedere a tentazioni possessive di nessun genere, ma spinto sempre dal desiderio di servire. Aprendosi a tutti, senza fare preferenze che facilmente sono dettate da un compiacimento personale ed egoistico. Il celibato non significa inibizione del cuore, che di per sé tende ad amare, ma è proprio uno stimolo ad amare ancora di più e meglio.


Ridefinire il matrimonio? Mica siamo in Cina di Timothy M. Dolan, 20-06-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

L’articolo che segue, The True Meaning of Marriage, è stato pubblicato il 14 giugno da mons. Timothy M. Dolan, arcivescovo di New York, nella sua rubrica The Gospel in the Digital Age ospitata sul sito Internet della diocesi della città statunitense.

È il fuggi fuggi. Quei senatori che si sono coraggiosamente rifiutati di capitolare davanti alla pretesa dello Stato federale di ridefinire il matrimonio denunciano l’accanita pressione a cui vengono costantemente sottoposti affinché cedano.
I media, per la maggior parte simpatetici con questa corsa alla manomissione di una definizione antica quanto la ragione umana e il bene ordinato, parlano del disagio che alcuni senatori provano nel constatare come chi si erge a difesa del matrimonio tradizionale non sia toccato dalla luce, dal momento che persistiamo nell’opporci a questa causa illuminata e progressista.

Ma non sarebbe forse il caso di crucciarsi - e di preoccuparsi - di più per le pericolose pretese dello Stato di re-inventare la definizione stessa di una verità innegabile - un uomo, una donna, uniti per la vita nell’amore e nella fedeltà, nella speranza di generare figli - che sin dal principio è stata la pietra angolare della civiltà e della cultura?

L’ultima volta che ho consultato un atlante, mi è sembrato lampante il fatto di vivere a New York, negli Stati Uniti d’America; non, cioè, in Cina o in Corea del Nord. È infatti in quei Paesi che il governo pretende ogni giorno di “ridefinire” i diritti, i rapporti, i valori e la legge naturale. È in quei luoghi del mondo che i comunicati ufficiali del governo hanno il potere di determinare la composizione di una famiglia, chi vive e chi muore, e ciò che significano le definizioni stesse di “famiglia” e di “matrimonio”.

Ma, per favore, non qui! I princìpi fondativi del nostro Paese parlano di diritti dati da Dio, non inventati dal governo, e di certi valori nobili - vita, casa e patria, famiglia, matrimonio, figli, fede - che sono protetti, non ri-definiti da una presunta onnipotenza statale.

Per favore, non qui! Noi veneriamo il concetto dell’autentica libertà, non come licenza di fare tutto ciò che ci va, ma come libertà concreta di fare ciò che dobbiamo; noi riconosciamo che non tutti i desideri, le urgenze, i bisogni o le cause chic costituiscono automaticamente un “diritto”. E che dire poi di altri diritti, come quello di un bambino di essere cresciuto in una famiglia in cui vi sono una mamma e un papà?

Ciò in cui noi crediamo non va peraltro considerato discriminante nei confronti delle persone omosessuali. La Chiesa afferma i diritti umani fondamentali degli uomini e delle donne gay, e lo Stato ha giustamente modificato molte leggi per garantire a questi uomini e a queste donne il diritto di farsi visita in ospedale,  di lasciarsi eredità, di godere delle reversibilità pensionistiche, di usufruire dei benefit assicurativi, e così via. Noi non parliamo infatti di negar loro dei diritti. Parliamo di difendere una certa verità relativa alla condizione umana. Il matrimonio non è semplicemente un meccanismo per ottenere dei vantaggi: è l’unione di un uomo e di una donna in un vincolo amorevole, permanente e generatore di vita finalizzato alla procreazione dei figli. Per favore, non usate il vostro voto per cambiarlo. Se lo farete, pretenderete di avere il potere di mutare ciò che non è in ciò che è semplicemente perché lo dite voi. Ma questo è falso, è sbagliato e sfida sia la logica sia il senso comune.

Sì, lo ammetto. Giugno a questa conclusione perché sono credente, uno che, assieme ad altri cittadini aderenti ad altre fedi, crede che Dio e non Albany - la capitale dello Stato di New York - ha definito molto tempo fa cosa è il matrimonio. Noi credenti non ci preoccupiamo solo di ciò che questa nuova intromissione farà al nostro bene comune, ma anche del fatto che verremo costretti a violare il nostro credo più profondo per conformarci all’ultimo decreto dello Stato. (E se credete che sia una prospettiva da paranoici, potete molto semplicemente domandare ai credenti del Canada o della Gran Bretagna cosa di assai preoccupante stia accadendo da quelle parti).

Ma giungo a detta conclusione anche da cittadino americano, che legge i princìpi che ci costituiscono come una limitazione posta alle prerogative del governo, non come la possibilità che esso modifichi sfrenatamente i valori più basilari della vita.

 (Traduzione di Marco Respinti)


IL CASO/ Un figlio senza madre e quei cattivi desideri che usano la vita (per denaro) di Paola Binetti, lunedì 20 giugno 2011, il sussidiario.net

In questi giorni stiamo assistendo ad un altro tentativo di scardinamento delle regole naturali che presidiano la vita, nella sua realtà biologica, nella sua dimensione affettiva e relazionale, nelle sue implicazioni etiche e morali. Qualcosa che si potrebbe semplicemente definire: contro-natura, qualcosa che forza il senso comune e viene percepito dalla gente come strano; qualcosa che desta stupore, che sorprende e meraviglia al tempo stesso, ma che non dovrebbe accadere. Non è nelle corde della natura, ne forza ritmi e tempi, ma soprattutto ne stravolge le regole, che da sempre sono lì a marcare il senso della vita, il miracolo e il mistero della nascita. Uno stravolgimento percepito come potenzialmente minaccioso per il futuro dell’uomo, per le sue relazioni fondamentali, nonostante un coro, limitato ma insistente e insistito, lo voglia far passare per un successo della tecnica e delle moderne tecnologie volte a soddisfare uno dei desideri più profondi della natura umana: il desiderio di maternità e di paternità.
Due i fatti di cronaca più recenti che dettano queste osservazioni, anche se bisogna ricordare da molti anni è in atto una vera e propria azione di aggressione ai tempi e modi della generazione umana. Un’azione di stravolgimento che è iniziata separando la relazione sessuale tra i due potenziali genitori, in linea di massima sempre fortemente accompagnata da una profonda intensità di affetti e di progetti, dal momento del concepimento. L’aborto da un lato, con il suo no deciso alla vita, quali che siano le ragioni e le motivazioni che spingono ad abortire, e la procreazione medicalmente assistita, la cosiddetta procreazione artificiale, in cui le moderne tecnologie compiono in provetta quello che la natura realizza nella sua quotidianità. Ma mentre inizialmente l’azione di sostegno alla coppia che desiderava avere un figlio mimava nel modo più delicato quanto faceva la natura, ora mano a mano che le tecnologie diventano più sofisticate, il riferimento alla natura diventa sempre più remoto e appare sempre più contro natura.
In concreto le cronache degli ultimi giorni ci hanno raccontato la storia di una donna israeliana che prima di morire ha voluto che i suoi oociti venissero congelati. Dopo circa due anni il vedovo sconsolato ha chiesto ad una clinica specializzata di Tel Aviv che venissero fecondati con il suo seme, chiedendo ovviamente ad un’altra donna di accogliere nel suo grembo il figlio nato dalla fecondazione dell’oocita della moglie e dal suo sperma, e in quanto tale considerato come il figlio concepito con la propria moglie. Nel frattempo l’uomo ha incontrato un’altra donna con la quale ha intrecciato una relazione sentimentale sufficientemente forte da spingerlo a voler formare una nuova famiglia con lei, prendendo con sé il bambino che nel frattempo era nato da un utero evidentemente affittato per lo scopo.
Un secondo caso, non meno drammatico e complesso è quello che riguarda Eva Ottosson, un’imprenditrice svedese che vive da molti anni in Inghilterra. Davanti ad un apparentemente impossibile desiderio di sua figlia, quello di avere un figlio nonostante la gravissima malattia da cui è affetta, ha deciso di sottoporsi ad un intervento chirurgico tra i primi al mondo. Si tratta del primo trapianto di utero che sia stato mai fatto finora, con prelievo da vivente: la madre, che diventa donatrice alla figlia del proprio utero, per consentirle di diventare madre. Un trapianto che dovrebbe avere una durata limitata nel tempo: non più di tre anni, considerati indispensabili per effettuare alcuni tentativi di gravidanza. L’unico esperimento sul trapianto di utero venne effettuato nel 2000 in Arabia Saudita e si concluse con un fallimento assoluto che spinse i medici a rimuovere con urgenza l’organo trapiantato nel giro di tre mesi, per il rischio di gravi e pesanti infezioni successive. Successivamente, nel gennaio del 2007, al New York Downtown Hospital il ginecologo-oncologo Giuseppe Del Priore assicurò che presto sarebbe stato in grado di effettuare trapianti di utero, ma almeno finora non ve n’è stata traccia. E anche i tentativi sugli animali sono tutti falliti.
Le situazioni umane che inducono a cercare di avere in tutti i modi un figlio, nonostante le difficoltà estreme in cui si trovano le persone, dovrebbero indurci a riflettere sugli sviluppi di una tecnologia che ha perso la sua dimensione umana. Ci manca una forte e potente riflessione sulle Thecnological Humanities, perché le nuove tecniche non si limitano più a cercare di completare quanto la natura da sola non riesce a fare, pretendono di sostituirsi alla natura stessa, alterandone gli aspetti biologici, ma ancor più stravolgendone gli aspetti affettivi e relazionali. Un vero e proprio attentato alla saggezza della natura le cui leggi rispondono esclusivamente a criteri di salvaguardia della vita, della sua qualità e della sua dignità.
Ma accanto a questo capovolgimento delle leggi della natura, che vedono nascere figli da una donna morta e dall’utero di una donna trapiantato nella figlia perché possa diventare madre, nella speranza per lei stessa di diventare nonna, ci si chiede cosa stiano cercando di fare e di dimostrare le équipes dei medici che si dedicano a questi interventi. 
Perché non c’è dubbio che nessun desiderio potrebbe farsi realtà senza la compiacenza para-scientifica, anche se tecnologicamente sofisticata, di questi team. Che un uomo possa desiderare un figlio, rimpiangendo l’opportunità mancata per la morte della moglie, può anche essere espressione di quanto sia radicato nell’uomo il desiderio di paternità.
Che una giovane donna affetta da una rara sindrome di Rokintanski, per cui è nata con un apparato riproduttivo incompleto, desideri un figlio, è solo la conferma di quanto sia profondo e radicato in una donna il desiderio di maternità. Che una madre possa desiderare di dare tutta se stessa alla figlia, e dopo averle dato la vita possa desiderare perfino di darle l’utero in cui l’ha concepita e l’ha accolta quasi trent’anni prima, anche questo conferma fino a dove possa spingersi l’amore materno… Ma che qualche sedicente scienziato possa amare i suoi esperimenti al punto da infrangere una soglia che marcano insieme etica e scienza, diritto e scienze umane, solo per vedere fino a che punto possono arrivare le tecnologie di cui dispongono, questo è molto, ma molto più grave. E pone interrogativi molto seri che possono essere riassunti in una affermazione molto concreta: è lecito fare tutto ciò che tecnologicamente è possibile fare? Fino a che punto scienza e tecnica sono al servizio dell’uomo? O è possibile ribaltare questo criterio fondamentale affermando che è possibile considerare l’uomo come oggetto di sperimentazione al servizio della scienza e della tecnica?
Sono domande a cui sta diventando sempre più difficile rispondere, se si tiene conto dell’insistenza con cui da tante parti si cerca di forzare le tutele che la natura stessa ha posto a difesa della vita umana. Vorremmo che anche la nascita potesse essere guardata con quell’atteggiamento prudente di chi desidera mantenerla lontano dai rischi del nucleare, simbolicamente assunti come l’insieme delle forse distruttive che attentano alla vita, e con quella determinazione con cui abbiamo difesa l’acqua come bene comune, tanto più prezioso proprio perché comune.
La vita, ogni vita, in primo luogo appartiene certamente a chi la vive, ma non è un bene esclusivo, è un bene che tutti siamo sollecitati a tutelare come un bene comune. La stessa legge 194 in prima battuta si definisce come legge sulla tutela sociale della maternità, anche se poi la sua applicazione ha esclusivamente concentrato la sua attenzione sull’interruzione volontaria della gravidanza. Tutelare socialmente la maternità significa tutelarne anche le condizioni umane, l’insieme delle relazioni, che le consentono di svilupparsi e di maturare nel modo più umano possibile. Per questo diciamo un no chiaro e forte a questi esperimenti sulla vita, volti a soddisfare più un compiacimento tecnico-scientifico che un vero bisogno umano. Molti sono i bambini in attesa di adozione che nel mondo intero aspettano una mano tesa, un gesto di affetto e di inclusione, nel calore di una famiglia normalmente predisposta ad accoglierli. Indirettamente anche questi valori e questi suggerimenti possono essere colti dai referendum a cui recentemente abbiamo preso parte, per rinnovare un sì alla vita e un no alla morte.
Immagino cosa accadrebbe se noi a questo punto sottoponessimo a quesito referendario due domande semplici semplici:
1. ritieni giusto che da una donna morta possono nascere figli che non vedrà, che non conoscerà e di cui non potrà farsi carico, grazie ad una relazione che il padre potrebbe avere da un lato con l’utero in affitto di una donna che si presti a questo scopo per motivi diversi - da non escludere quelli economici - e dall’altro con una eventuale nuova compagna, che a sua volta potrebbe dargli nuovi figli?
2. ritieni giusto che venga abolito il comma tre dell’articolo 3 della legge sui trapianti del 1 aprile del 1999, che vieta il prelievo delle gonadi e dell’encefalo? Ritieni giusto che si possa effettuare un trapianto da viventi di utero, intervento finora mai effettuato con successo neppure sugli animali?
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Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - BISOGNA USCIRE DALLA SACRESTIE. MA COME? - Posted: 19 Jun 2011 - Da “Libero”, 19 giugno 2011

Qui lo spiego partendo da un pensiero di Dostoevskij e da uno di S. Agostino. Per arrivare al grande cardinale Newman che afferma: “La Chiesa E’ necessariamente un partito”. Se non capiamo questo …

“I cattolici sono stati determinanti” nell’esito dei referendum, come dice orgogliosamente l’Azione cattolica?

O così hanno tradito la dottrina sociale della Chiesa e vanno verso il suicidio come argomenta Luigi Amicone (con il suicidio aggiuntivo dell’ethos pubblico come aggiunge Pietro De Marco)?

Alcune realtà del mondo cattolico sottolineano festosamente il “risveglio” dell’ impegno per il bene comune.

Ma un volantino di Comunione e liberazione invita saggiamente “ad essere meno ingenui sul potere salvifico della politica”.

Al tempo stesso bisogna rispondere all’appello del Papa e dei vescovi che chiamano i cattolici all’impegno politico.

Come si vede una situazione in cui è difficilissimo orientarsi e capire, tanto per i semplici cristiani che per gli addetti ai lavori.

Cosa sta succedendo nel mondo cattolico? E cosa accadrà con i nuovi scenari politici?

CHE FARE?

Si può parlare ancora di unità dei cattolici? E su cosa, come e dove? O si torna alla diaspora? C’è il rischio della subalternità culturale degli anni Settanta? C’è in vista una Dc di ricambio? O forse è meglio puntare su più partiti?

O addirittura su un movimento cattolico che lavori nella società, dove sono nati tutti i movimenti che oggi condizionano i partiti?

Negli ambienti della Cei si valorizza molto la relazione di Lorenzo Ornaghi, rettore della Cattolica, al X Forum del “Progetto culturale” dedicato ai 150 anni del’Unità d’Italia.

Ornaghi invita i cattolici a “tornare ad essere con decisione ‘guelfi’ ”, spiegando: “abbiamo sempre più bisogno di una visione politica dalle radici e dalle qualità genuinamente e coerentemente ‘cattoliche’ ”.

Quel tornare decisamente “guelfi” per Ornaghi significa che i cattolici devono rivendicare la radice cattolica dell’italianità e devono affermare che “rispetto ad altre ‘identità’ culturali che sono state protagoniste della storia unitaria (…) disponiamo di idee più appropriate alla soluzione dei problemi del presente. E siamo ancora dotati di strumenti d’azione meno obsoleti o improvvisati”.

Affermazioni importanti, ma che dovrebbero essere spiegate nel dettaglio, sostanziate e anche discusse. In ogni caso affermazioni di cui ancora non si vede la conseguenza pratica, fattuale. Così le domande aumentano.

Solo che rispondere direttamente ad esse è impossibile perché – quando si parla della Chiesa – bisogna partire da altro, da una questione che sembra esterna ed è di natura teologica. Tutti la danno per scontata, ma non lo è.

Riguarda la natura stessa del fatto cristiano e la concezione della Chiesa. E’ su questo che non c’è chiarezza dentro lo stesso mondo cattolico. E da qui deriva poi la confusione sulle scelte storiche.

IL CUORE DI TUTTO

Provo a riassumere con due citazioni quella che a me pare la strada giusta. La prima è di Dostoevskij:

“Molti pensano che sia sufficiente credere nella morale di Cristo per essere cristiano. Non la morale di Cristo, né l’insegnamento di Cristo salveranno il mondo, ma precisamente la fede in ciò, che il Verbo si è fatto carne”.

Il grande scrittore russo qui coglie il punto: i cristiani non portano nel mondo anzitutto un “supplemento d’anima”, un richiamo etico, una concezione della politica o del Paese o una cultura. Queste sono conseguenze.

Portano anzitutto un fatto, un corpo misterioso, umano e divino, un popolo che è anche – di per sé – un soggetto politico che ha cambiato e cambia la storia.

A conferma vorrei richiamare una pagina memorabile di sant’Agostino rivolto ai “pelagiani”, cioè coloro che degradavano il cristianesimo a una costruzione umana, a un proprio sforzo morale:

“Questo è l’orrendo e occulto veleno del vostro errore: che pretendiate di far consistere la grazia di Cristo nel suo esempio, e non nel dono della sua Persona”.

Leggendo questi due grandi autori cristiani si capisce ciò che insegna la tradizione cristiana: il gesto più potente di cambiamento del mondo – per i cristiani – è la Messa.

Più potente di eserciti, poteri finanziari, stati e rivoluzioni, perché è l’irrompere di Dio fatto uomo nella storia, l’atto con cui Dio prende su di sé tutto il Male e lo sconfigge, liberando gli uomini.

Ma non capirebbe nulla di cristianesimo chi credesse che la messa sia solo quel famoso rito domenicale. No.

Per il popolo cristiano la messa, da quel 7 aprile dell’anno 30 in cui il Salvatore fu crocifisso, non è mai finita: è una sinfonia la cui ultima nota coinciderà con la trasfigurazione dell’intero universo.

Quell’evento abbraccia tutta la giornata e tutta la vita, tutta la realtà, tutta la storia e tutto il cosmo. E li cambia.

“LA CHIESA E’ UN PARTITO”

Non a caso uno dei più grandi pensatori cattolici moderni, il cardinal Newman afferma che la Chiesa stessa “è” un partito:

“Strettamente parlando, la Chiesa cristiana, come società visibile, è necessariamente una potenza politica o un partito.

Può essere un partito trionfante o perseguitato, ma deve sempre avere le caratteristiche di un partito che ha priorità nell’esistere rispetto alle istituzioni civili che lo circondano e che è dotato, per il suo latente carattere divino, di enorme forza ed influenza fino alla fine dei tempi.

Fin dall’inizio fu concessa stabilità non solo alla mera dottrina del Vangelo, ma alla società stessa fondata su tale dottrina; fu predetta non solo l’indistruttibilità del cristianesimo, ma anche quella dell’organismo tramite cui esso doveva essere manifestato al mondo.

Così il Corpo Ecclesiale è un mezzo divinamente stabilito per realizzare le grandi benedizioni evangeliche”.

E’ tanto vero ciò che dice Newman che la Chiesa è stata la più grande forza di cambiamento della storia: ha letteralmente costruito civiltà (tutte le “istituzioni” del mondo moderno, dagli ospedali alle università, dalla democrazia al diritto internazionale, fino al progresso scientifico-tecnologico-commerciale, sono nate nell’alveo cattolico).

Perfino quel sacro Romano Impero che ha generato l’Europa e poi partiti, dal partito guelfo del medioevo alle Democrazie cristiane del novecento (il nostro stesso Paese è stato letteralmente salvato dalla Dc che gli ha garantito libertà, unità e prosperità nell’Europa dei totalitarismi).

C’è chi ha cercato e cerca di impedire in ogni modo ai cristiani di esprimersi e costruire. Lo hanno fatto i totalitarismi moderni e le ideologie degli anni Settanta che pure in Italia pretendevano di zittire violentemente i cattolici.

Ma anche una certa cultura laica occidentale oggi prova a delegittimare la presenza dei cattolici.

Ancora Newman scriveva:

“Dal momento che è diffusa l’errata opinione che i cristiani, e specialmente il clero, in quanto tale, non abbiano nessuna relazione con gli affari temporali, è opportuno cogliere ogni occasione per negare formalmente tale posizione e per domandarne prove.

E’ vero invece che la Chiesa è stata strutturata al fine specifico di occuparsi o (come direbbero i non credenti) di immischiarsi del mondo.

 I membri di essa non fanno altro che il proprio dovere quando si associano tra di loro, e quando tale coesione interna viene usata per combattere all’esterno lo spirito del male, nelle corti dei re o tra le varie moltitudini.

E se essi non possono ottenere di più, possono, almeno, soffrire per la Verità e tenerne desto il ricordo, infliggendo agli uomini il compito di perseguitarli”.

IL PROBLEMA

La cosa peggiore però è quando il sale diventa scipito, cioè quando sono i cattolici stessi a escludersi, a rinchiudersi nelle sacrestie o ad andare a ruota delle ideologie mondane più forti. 

Dunque la Chiesa deve avere una sola preoccupazione: che (anche nei seminari e nelle facoltà teologiche) si annunci davvero il fatto cristiano nella sua verità e integralità, che nelle parrocchie, nelle associazioni, nei movimenti  lo si viva in tutte le sue dimensioni (la cultura, la carità e la missione) alla sequela del Papa.

Che non si lasci solo Radio Maria a fornire ai semplici cristiani l’aiuto per un giudizio cristiano sulla realtà. Che il popolo cristiano si veda e illumini la vita pubblica.

Antonio Socci

Da “Libero”, 19 giugno 2011


DIBATTITI/ 1. Non è il neuroteologo il supremo giudice delle certezze religiose - Gianfranco Basti di lunedì 20 giugno 2011, il sussidiario.net

Non si può non essere d’accordo con la tesi centrale della voce “Neuroteologia” che lo storico del cristianesimo Alberto Melloni ha preparato per il nuovo dizionario enciclopedico «La Mente», recentemente pubblicato dall’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani. La tesi può essere riassunta nella frase «è inutile chiedere alla scienza il verdetto sulla fede» che fa da sottotitolo all’articolo “Cercando il «neurone di Dio»” pubblicato lunedì scorso dallo stesso  Melloni sul Corriere della Sera per annunciare al grande pubblico la presentazione ufficiale del Dizionario, avvenuta lo stesso giorno presso la sede romana dell’Istituto. Nella conclusione di questo articolo Melloni spiega più diffusamente il nucleo della sua tesi che, ripeto, non può non essere condivisibile.
Strumenti d’indagine assai raffinati dimostrano soltanto di saper individuare i correlati neuronali degli stati mentali propri dell’esperienza religiosa: né più né meno. Il tentativo di ridurre, Dio a movimenti di neuroni e quello di usare i neuroni per dimostrarne l`esistenza si muovono in un vicolo cieco da ambo i lati. Se c`è una zona del cervello attivata dalla meditazione religiosa, ciò non significa che neurologia e teologia hanno cessato di avere compiti diversi e metodi ai quali ciascuna si deve attenere. Dove il teologo difende la libertà dell`individuo, lo scienziato scopre che credenza, agnosticismo e incertezza pongono alla sua ricerca un’unica e identica domanda.
Il termine «neuroteologia» — inventato dallo scrittore di fantascienza Aldous Huxley, come Melloni stesso ci ricorda — denota, infatti, una particolare interpretazione degli studi sperimentali sulle basi neurofisiologiche dell’esperienza religiosa che curiosamente accomuna, tanto fondamentalisti religiosi, quanto fondamentalisti laici. Tale interpretazione consiste nell’usare queste evidenze sperimentali neurofisiologiche come argomento per provare, da parte dei fondamentalisti religiosi, l’autenticità della fede per la positiva correlazione che tali studi dimostrerebbero fra l’esperienza religiosa e stati di benessere e/o, addirittura, di migliore salute psico-fisica del soggetto che li prova. Da parte dell’altra fazione, invece, la medesima evidenza è usata per provare l’illusorietà della medesima fede religiosa perché, finalmente!, si sarebbe scoperta l’origine neurofisiologica dell’esperienza di Dio, nella preghiera e nella meditazione.
Di fronte a queste evidenti strumentalizzazioni, ha facile gioco Melloni ad affermare che il provare sperimentalmente che l’esperienza religiosa ha dei correlati neurofisiologici non prova assolutamente nulla né dell’una né dell’altra tesi. Semmai evidenzia un limite comune all’una e all’altra posizione, ovvero una sorta di imperante positivismo empirista in tutt’e due le posizioni per cui, per dirlo con le parole dello stesso Melloni, «la scienza non è più un metodo, ma un giudice al quale si deve chiedere di “dimostrare” vuoi la illusorietà vuoi la solidità dell`atto religioso».
Questo atteggiamento scientista comune ai due fondamentalismi redivivi, laicista e religioso, che oggi stucchevolmente si confrontano per la gioia dei talk-show “urlati” di certa televisione e di certo giornalismo pseudo-culturale a buon mercato, è un residuato post-moderno di quella modernità illuminista ormai tramontata che aveva affidato alle scienze matematiche e naturali il compito di fornire le “certezze assolute”, tanto care alle diverse forme di potere politico. Certezze assolute che, nell’età classica o pre-moderna, erano le religioni ad offrire per il controllo delle masse. In tutto questo “non c’è dunque nulla di nuovo sotto il sole” come lo smaliziato autore biblico del Qoelet commenterebbe, soprattutto quando si scopre che oggi, spesso, sono le medesime centrali internazionali di determinati, cosiddetti, “poteri forti” a favorire e finanziare i due opposti fondamentalismi a base empirista ed i loro spalleggiatori politico-mediatici, così da far apparire il tutto un’incredibile, assurda sceneggiata, imbandita sulla testa e purtroppo anche sui cuori delle persone.
Con tutto questo, siamo dunque mille miglia lontani da quello “allargamento degli orizzonti della ragione” di cui parla continuamente il Papa Benedetto XVI, che non possono limitarsi soltanto a quelli della “ragione scientifica”, per di più presa nella sua accezione esclusivamente empirica. Sono “scienza”, infatti, anche le discipline teoriche come la matematica, la logica, la fisica, la chimica e la biologia teoriche, le scienze cognitive etc. e non solo le loro applicazioni sperimentali come le matematiche applicate, l’informatica, o le varie branche della fisica, della chimica e della biologia sperimentali, o le neuroscienze cognitive, nonché le diverse forme di “ingegneria”, associate a ognuna di queste discipline.
Ma soprattutto sono “scienza”, nella più vasta accezione delle “scienze umane” e non solo “naturali”, sia quelle a base empirica quali la psicologia, la linguistica, la sociologia, l’economia, la storia, ma anche discipline filosofiche quali l’ontologia, l’etica, la teologia, ciascuna con tutte le sue specifiche diramazioni e parziali sovrapposizioni con le discipline attigue. Si pensi alla “psicologia sociale”, per esempio, o alla “psicolinguistica”, per rimanere nell’ambito delle scienze umane a base empirica, o alla “teologia naturale”, per passare all’ambito delle scienze filosofiche. Tutte queste discipline sono “scienze” nella misura in cui, come le scienze matematiche e naturali, che fin da Aristotele sono sempre state giustamente considerate un paradigma di scientificità, si danno ciascuna un proprio metodo rigoroso e trasparente per giustificare l’universalità delle loro specifiche forme di argomentazione, deduttive o induttive che siano.
Certamente, nell’età moderna, c’è stato un penoso decadimento nella scientificità delle discipline filosofiche e teologiche che si sono spesso auto-ridotte a vago chiacchericcio estetico o consolatorio, se non di fatto esoterico, proprio per la perdita di un metodo d’indagine rigoroso e soprattutto trasparente a tutti, anche ai non cultori della disciplina, diretta conseguenza della dissoluzione moderna della filosofia e della teologia scolastica che invece un metodo, sebbene limitato – quello analitico-sintetico della sillogistica – l’avevano ed era accessibile a tutti gli uomini di cultura.
 Il pluralismo filosofico e teologico che è derivato dalla dissoluzione del monolite scolastico nella modernità occidentale è certamente un valore. Basta però che ciascun filosofo o teologo definisca in maniera chiara a tutti quale metodo di argomentazione e d’inferenza usa, quali sono i principi e le regole specifiche che introduce rispetto alle altre forme di linguaggio scientifico, filosofico o teologico, in modo da non assomigliare, agli occhi smaliziati dello scienziato – ma ormai anche agli occhi di una sempre più vasta platea di uditori dotati di un minimo di formazione scientifica – ad una sorta di funambolo delle parole più o meno dotato, cui è concesso dire tutto e il contrario di tutto, salvo poi parlarsi addosso e alla cerchia dei propri iniziati, visto che gli altri, in questo modo, non riescono neanche a capire di cosa si stia parlando.
Quando dunque Melloni rivendica, contro le confusioni della “neuroteologia” che le scoperte delle basi neurali dell’esperienza religiosa non esimono neurologia e teologia dallo «avere compiti e metodi diversi ai quali ciascuna si deve attenere», così che non è alla neurologia che si deve chiedere conto della verità delle affermazioni teologiche e viceversa, è certamente nel giusto in linea di principio. Aggiungerei però, maliziosamente la domanda: ma quali sono oggi metodi e compiti, definiti in maniera chiara e, almeno nelle linee generali, resi accessibili a tutti, anche ai non addetti ai lavori, delle discipline teologiche e, aggiungiamo noi, ontologiche o, più in generale filosofiche? Si pensi, per esempio, ai differenti esiti di un congresso scientifico e a quelli di un congresso filosofico o teologico.
Chi entra in un congresso scientifico, vi entra con certe idee e spesso ne esce con altre diverse perché qualche collega è stato capace di dimostrare in maniera convincente per tutti una nuova tesi. Chi esce da un congresso teologico o filosofico spesso ne esce con le stesse idee con cui vi era entrato, perché ognuno si è parlato addosso e ha detto, o cose scontate o cose incomprensibili e difficilmente condivisibili, almeno per chi non ne era già convinto in precedenza.
Se, così, per tornare al nostro tema, “neuroteologi” e imbonitori di tutti i tipi possono permettersi allegre scorribande nei territori metafisici e teologici è anche perché non si capisce più bene di cosa trattino queste discipline e di come ne trattino. Eppure mai come oggi ci sarebbe bisogno di una sana e condivisibile critica prima che teologica, ontologica, a certe affermazioni dei neuroscienziati.  Melloni con molto tatto ne accenna nella conclusione del suo articolo laddove pone il teologo a «difendere la libertà dell’uomo» contro certe pretese riduzioniste delle neuroscienze cognitive.


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DIBATTITI/ 2. La “persona” sfida le pretese riduzioniste delle neuroscienze cognitive di Gianfranco Basti, lunedì 20 giugno 2011, il sussidiario.net

Le neuroscienze cognitive, per il semplice fatto di aver individuato con maggiore chiarezza che nel passato, e soprattutto con quella universalità del risultato che l’uso di un appropriato metodo scientifico consente,  il correlato neurofisiologico di certe operazioni mentali, non solo quelle a valenza religiosa, ma anche quelle più in generale legate alla coscienza, al ragionamento, alla scelta morale, interpretano tutto questo come «dimostrazione scientifica» dell’illusorietà della libertà e quindi della responsabilità individuale. Ora, se certamente queste scoperte costituiscono una confutazione delle antropologie filosofiche dualiste antiche (platoniche) e moderne (cartesiane) non è vero che l’alternativa monista — le operazioni mentali non sono “nient’altro che” prodotto di eventi elettro-chimici neurali come la digestione lo è della chimica dei succhi gastrici — professata da tanti neurofisiologi sia l’unica possibile.
Al contrario l’ontologia duale, attenta a correlare ma mai a confondere “materia” (massa e/o energia) e “informazione”, emergente da tanta parte delle scienze naturali  contemporanee. In fisica quantistica, per esempio, si pensi alla dualità irriducibile “onda” / “particella” sintetizzata nel famoso adagio di John A. Wheeler  from it to bit. In biologia, si pensi alla recente dimostrazione che l’eccezionale quantità d’informazione che si produce in ogni processo ontogenetico di un organismo, non ha origine solo “genetica” dal DNA, ma “epigenetica”, dipende cioè dal feedback che i livelli più alti di organizzazione del materiale biologico del singolo individuo in sviluppo e/o sviluppato esercitano sulle sequenze del DNA delle cellule, dando luogo al fenomeno, sotto certe condizioni reversibile, della progressiva specializzazione cellulare, a partire da quelle totipotenti dell’embrione.
Ora, tutto questo fa sì che l’antropologia più appropriata, in grado di porsi in continuità con le neuroscienze cognitive che, a loro volta, applicano l’approccio informazionale allo studio delle basi neurali delle operazioni cognitive non sia quella «dualista» o «monista» ma quella duale. Quella cioè che fa dell’unità psicofisica, della persona umana e non di alcune sue parti, siano esse il cervello o la mente, il soggetto delle operazioni cognitive. Come amava ricordare Tommaso d’Aquino, colui che nel Medioevo sviluppò al più alto grado di rigore metafisico l’antropologia duale, attribuire alla mente (dualismo) o al cervello (monismo), presi a sé stanti, le operazioni cognitive  è tanto assurdo quanto attribuire alla mano o allo scalpello e non allo scultore la paternità della statua prodotta.
Per questo non fa alcuna difficoltà ad un’antropologia duale che qualsiasi operazione mentale dell’uomo abbia un correlato neurofisiologico necessario, proprio come è necessario allo scultore il martello per fare la statua. Nondimeno autore dell’atto cognitivo non è il cervello, ma la persona che lo possiede. Allo stesso tempo questo non è materialismo, perché il cervello non è solo materia, ma materia organizzata da una forma. Operazionalmente, ovvero, in una traduzione delle nozioni di questa ontologia in un modello matematico, capace di essere controllato empiricamente attraverso determinate operazioni di misura, ogni processo cerebrale è costituito da uno scambio di materia e informazione ed è l’informazione che ci costituisce nella nostra specificità molto più che la materia.
Noi infatti, e massimamente il nostro cervello, cambiamo completamente la materia di cui i nostri corpi sono fatti almeno due volte l’anno, nondimeno restiamo noi stessi, perché è l’informazione (ontologicamente la “forma”), ovvero “l’ordine delle parti materiali” di cui a diversi livelli (organismo, organo, tessuto, cellula, proteina, atomo, particella sub-atomica,…) siamo costituiti, che garantisce la nostra continuità nel tempo.
Nell’ontologia, e quindi anche nell’antropologia, «duali» ogni corpo e ogni sua parte, insomma, non è solo materia, ma materia e informazione, essendo «l’informazione» una grandezza fisica misurabile (è un entropia statistica), ma immateriale: è bit non it. Informazione che, nel caso degli organismi biologici come già ricordato, è l’individuo stesso a produrre, facendo sì che l’individualità qualitativamente caratterizzata sia distintiva del mondo organico e non di quello inorganico. Due atomi di oro, con “storie” totalmente diverse, sono assolutamente indistinguibili, si differenziano cioè solo numericamente, non qualitativamente. Viceversa, non esistono due animali o piante della medesima specie identici. Addirittura, due gemelli monozigoti, con lo stesso DNA, non sono affatto identici a livello fisiologico, per esempio, hanno due sistemi immunitari distinti.
Ora, lo specifico dell’uomo che lo rende “persona” è che esso non è soltanto, come un qualsiasi organismo, un sistema auto-organizzante energeticamente “aperto”, che scambia cioè materia con l’ambiente (metabolismo) e produce informazione. L’uomo è anche informazionalmente “aperto”. E’ un corpo che ha una vita psichica perché scambia anche informazione e non solo materia con l’ambiente (conosce) e con isuoi simili (comunica), senza quei limiti che invece gli animali hanno, anche quelli “superiori” nella scala evolutiva[1]. Per dirla con Aristotele, che per primo elaborò nell’antichità un’antropologia duale, l’uomo è animale razionale (biòs loghikòs) perché è animale sociale(biòs politikòs), anche se egli non arrivò mai a definire il concetto di “persona” come soggetto irriducibile di diritti e doveri uguali per tutti.

Per lui, come per Platone e qualsiasi greco, i “barbari”, i non-greci, non avevano anima razionale, proprio perché non appartenenti alla polis. Perché si arrivi a definire l’uomo di qualsiasi popolo, cultura e razza come soggetto irriducibile di uguali diritti e doveri, come colui che è sempre fine e mai può essere ridotto a mezzo, come dirà poi Kant; in una parola, per arrivare a definirlo come persona, occorre che loscambio d’informazione su cui si basa la vita psichica umana[2] “trascenda” non solo il livello fisiologico — per questo di per sé basta la cultura, l’appartenenza a una polis, come già sapeva Aristotele — ma anche il livello culturale. Altrimenti dove va a finire la dignità, ma anche la responsabilità morale e legale, appunto, «personali», di ogni uomo in quanto uomo e non come appartenente a questa o quella cultura, razza, gruppo? Dove va a finire cioè la radice della nostra civiltà occidentale e la sua pretesa di universalità, così ben riassunta nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani?

Occorre insomma che lo “scambio d’informazione” che fa di ogni singolo animale-politico-uomo unapersona, e non solo un non-barbaro, sia anche con il «fondamento» trascendente l’ambiente fisico e culturale. Quel «fondamento trascendente» che allora — mi si perdoni il voluto gioco di parole —, non senza fondamento razionale «meta-fisico», il credente definisce “Dio”, dando ad «esso», che perciò è creduto essere un Lui, una natura a sua volta personale. Ovvero, facendo di ogni uomo un’imago Dei,come per primo Agostino lo definì nella Città di Dio, nel testo che perciò costituisce la magna charta,anche politica, non solo della civitas christiana medievale, ma la radice della stessa civilizzazione occidentale moderna.
Proprio in quel testo, infatti, si afferma che è la persona-imago-Dei, e non il cives, greco o romano che sia[3], il soggetto irriducibile di diritti e doveri nella civitas. Non è forse la Bibbia e il Vangelo a ricordarci che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio?”. Ma, come ricorda Melloni nell’articolo “Cercando il «neurone di Dio»”  questa dell’imago dei è “teologia” non “neuroteologia”, anche se può essere posta in continuità con le neuroscienze cognitive, grazie ad un’appropriata ontologia duale della realtà fisica, biologica e antropologica.    

[1] Gli animali superiori sono certamente capaci di conoscenza e comunicazione, ma non sono in grado di cambiare “i codici” della loro comunicazione e quindi di inventarsi nuovi linguaggi, nuove strutture cognitive. Hanno cioè una logica, ma non una meta-logica, proprio come hanno una coscienza, ma non un auto-coscienza…
[2] “L’anima” non è nel corpo o in qualche sua parte, come nelle antropologie sia dualiste che moniste, ma “l’anima contiene il corpo e le sue parti” come affermano Tommaso e tutte le antropologie duali, anche quella fenomenologica.
[3] Ricordiamo che l’occasione storica della scrittura di quel testo da parte di Agostino era stato l’evento sconvolgente del “sacco di Roma” del 410 ad opera di Alarico, ovvero l’anticipazione di quella caduta dell’impero romano d’occidente che si sarebbe verificata meno di settant’anni dopo. La fine della civitas hominis, mentre la civitas Dei è immortale quanto le persone che la compongono.


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