Nella rassegna stampa di oggi:
1) Ordinario militare: “La sofferenza umana non sfigura ma trasfigura”
2) Pasqua in immagini. L'ultima cena secondo Leonardo - Il capolavoro di Leonardo da Vinci spiegato da Timothy Verdon. Una via artisticamente sublime per capire la passione di Gesù di Sandro Magister
3) Una discussione sul senso della vita in «Sunset Limited» di Cormac McCarthy - Un nero, un bianco e alcuni motivi per non suicidarsi - di Andrea Monda – L’Osservatore Romano, 8 aprile 2009
4) RIAPRONO I POZZI INTERIORI - SOTTO SCHIAFFO L’ITALIA SI SVELA DIVERSA - MARINA CORRADI – Avvenire, 8 aprile 2009
5) ALLA RICERCA DI UN SENSO PER QUESTE ORE - Più che spiegare il dolore Cristo lo riempie - GIULIO ALBANESE – Avvenire, 8 aprile 2009
Ordinario militare: “La sofferenza umana non sfigura ma trasfigura”
Ricorda la necessità di difendere strenuamente la vita
ROMA, martedì, 7 aprile 2009 (ZENIT.org).- “La sofferenza umana non sfigura ma trasfigura”, ha osservato l'Arcivescovo Vincenzo Pelvi, Ordinario militare per l'Italia, nella celebrazione eucaristica in preparazione alla Pasqua svoltasi nel Pantheon di Roma sabato 2 aprile.
Citando l'affermazione di Gesù ai Giudei “In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte” (Gv 8,51), il presule ha ricordato “una verità semplicissima ma straordinaria: Gesù è risorto. La vita ha vinto. Cristo è vita e dà vita a chi la accoglie e la custodisce”.
“La fede ci aiuta a capire che la morte non ha l’ultima parola, ma Dio stesso e il suo amore, quell’amore che, attraverso la morte, introduce alla vita eterna”, ha osservato, sottolineando che “il cuore dell’esperienza cristiana” è quindi “la vittoria della vita sulla morte”.
Quest'ultima, ha constatato, “non è la fine di tutto e tutte le forme di morte quotidiana derivate dal proprio donarsi sono un assaggio di quella Pasqua misteriosa che sperimenteremo con Cristo, passando ad una vita diversa, ciò che è al di là di ogni possibile immaginazione umana”.
Secondo l'Ordinario militare, nel mondo di oggi a volte si è “avvolti, anche inconsapevolmente, da un individualismo liberale” che porta a reprimere la dimensione spirituale della vita, “per cui la responsabilità infastidisce e il sentimento religioso viene considerato superfluo”.
Così, “le persone vengono implicate in una rete di false e superficiali soddisfazioni, dove il narcisismo subentra al sacrificio; il possedere indebolisce la pazienza; l’immediatezza sostituisce la stabilità del dono”.
In un contesto di questo tipo, il presule si interroga su quale senso assuma la vita, “dove sono beati i ricchi, perché possono comprare ciò che vogliono; sono beati i duri di cuore, perché faranno carriera; sono beati coloro che hanno un immagine da offrire, perché saranno ammirati da tutti”.
“Come può aiutare questa visione esistenziale a comprendere e rispettare il dono della vita? - ha chiesto –. Si può proporre una visione cristiana della persona aperta all’eternità, per condividere la gloria di Cristo Risorto?”.
Secondo l'Arcivescovo Pelvi, “annunciare Cristo Risorto implica una decisa conversione al Vangelo della vita, che è di rottura con tanti convincimenti e scelte utilitaristiche”.
Difesa della vita
Il credente, ha proseguito il presule, “dice un costante, sia pur sofferto, sì alla vita, riaffermando il comandamento: Non uccidere, che non esclude soltanto l’omicidio ma anche il suicidio. Su ogni vita umana Dio, creatore dell’uomo, ha un progetto da compiere, che è sempre un disegno di amore, di cui Egli solo conosce le modalità e il compimento”.
Intervenendo nel processo vitale e concludendolo con la morte, l'uomo “si arroga il diritto di determinare il tempo e il modo del compimento di quel disegno”, così come chi si toglie la vita “rifiuta la sovranità di Dio e il Suo disegno di amore”.
Sotto questo profilo, ha ricordato, “il suicidio, sia compiuto da solo, sia compiuto con l’aiuto di altre persone è in radicale contraddizione con la morale cristiana e con la concezione cristiana della vita e della morte. La vita è un dono meraviglioso che Dio fa all’uomo, ma di cui l’uomo non è padrone, perciò non può disporre né del suo nascere né del suo morire”.
“Il diritto alla vita, diritto assoluto, condizione dell’esistenza di tutti gli altri diritti della persona umana, è un diritto naturale, quindi inviolabile, di ogni persona, così che nessuna legge umana può disporne”, ha ribadito l'Ordinario militare.
Osservando che qualcuno potrebbe chiedersi “Perché non aiutare a morire una persona quando la sua vita ha perduto salute, qualsiasi bellezza, significato e prospettiva di avvenire?”, il presule ha avvertito che “se la sanità, la bellezza, l’utilità danno valore alla vita, bisogna concludere che ci sono vite umane senza valore e ci sono persone – come i diversamente abili gravi – la cui vita sarebbe senza significato, un peso da eliminare. Chi si sente di accettare una simile conseguenza?”.
Allo stesso modo, ci si può chiedere “quale senso ha soffrire terribilmente, quando si è affetti da un male incurabile senza che ci sia nessuna speranza di guarigione”. “Non è forse inutile la sofferenza in una società così civilizzata?”.
Anche se “certamente il dolore deve essere combattuto con ogni mezzo onesto e ragionevole, e bisogna fare ogni sforzo per alleviarne il peso in coloro che soffrono”, “non è lecito eliminare la sofferenza eliminando con la morte la persona che soffre”.
“Per noi credenti non c’è mai una sofferenza inutile”, ha constatato l'Arcivescovo, perché “dopo che Gesù ha preso su di sé, con la sua passione e la morte in croce, la sofferenza umana non sfigura ma trasfigura”.
Di ciò, ha constatato, ha dato una “splendida testimonianza” Papa Giovanni Paolo II, che nella sofferenza “ha raccontato il Gesù della Pasqua, che non resta incatenato nei fondali della morte, ma risorge alla luce”.
“Nella tormenta della lotta estrema, ogni credente si aggrappa alla certezza della vita nuova, iniziata in quel lontano mattino della tomba trovata inaspettatamente vuota”.
Per l'Arcivescovo Pelvi, “tutti dobbiamo essere alunni del dolore e della morte”.
“Allora – ha concluso – comprenderemo che la Croce è la culla dell’uomo nuovo”.
Pasqua in immagini. L'ultima cena secondo Leonardo - Il capolavoro di Leonardo da Vinci spiegato da Timothy Verdon. Una via artisticamente sublime per capire la passione di Gesù di Sandro Magister
ROMA, 7 aprile 2009 – Il Vangelo della Passione di Gesù è stato letto o cantato due giorni fa in tutte le chiese cattoliche di rito romano, nella domenica che precede la Pasqua. Quest'anno nella versione di Marco.
Ma c'è anche una Passione che parla con le immagini. Che raggiunge e commuove un numero sterminato di persone di ogni fede.
È ad esempio quella messa in scena dalle processioni che contrassegnano la settimana santa. O più semplicemente è quella raffigurata dall'arte pittorica.
C'è un capolavoro dell'arte universale che è forse il più conosciuto al mondo, tra quelli che rappresentano la Passione di Gesù. È l'Ultima Cena affrescata da Leonardo da Vinci nel refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie, a Milano.
Tantissimi conoscono e ammirano questo dipinto. Ma pochi sanno quale momento preciso dell'ultima cena rappresenti. Pochi sanno leggere i significati dei gesti di Gesù e degli apostoli. E meno ancora sanno che questo affresco può essere capito solo assieme a un altro dipinto che occupa la parete di fronte del medesimo refettorio e rappresenta la crocifissione.
Sfortunatamente, quel romanzo dalla spropositata fortuna che è stato "Il Codice da Vinci" ha contribuito ad estendere non solo la fama dell'Ultima Cena di Leonardo, ma anche la sua incomprensione.
È giusto quindi strappare il velo che rende ciechi. È ciò che fa Timothy Verdon nel testo che segue, uscito su "L'Osservatore Romano" del 30 marzo 2009.
Verdon è storico dell'arte e sacerdote. È americano ma vive da molti anni a Firenze, dove dirige l’ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’arte. È uno dei maggiori esperti mondiali di arte cristiana. Chiamato da Benedetto XVI, ha partecipato agli ultimi due sinodi dei vescovi, sull'eucaristia e sulle Sacre Scritture.
In questo articolo egli spiega in chiave artistica, teologica, liturgica il senso profondo del capolavoro di Leonardo da Vinci. Una via artisticamente sublime per capire quell'atto d'inizio della passione di Gesù che è la sua ultima cena. E per farsene coinvolgere, come ogni grande opera d'arte sa fare.
"Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe la croce" di Timothy Verdon
Il Cenacolo di Leonardo da Vinci fu dipinto in un refettorio: la cena di Cristo in un luogo dove si mangia.
Ha importanza poi il fatto che il refettorio era quello di una comunità consacrata, i domenicani del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano. L'Ultima Cena, nel corso della quale il protagonista, Cristo, assunse un gravoso impegno, fu dipinta per dei cristiani impegnati a seguirlo.
È inoltre significativo che questo refettorio si trovi a pochi passi dalla chiesa in cui i consacrati ascoltavano le Scritture che davano senso al loro impegno, e dove venivano alimentati del corpo e sangue originariamente offerti da Cristo nel contesto dell'evento raffigurato da Leonardo.
Ed è fondamentale ricordare che i frati si recavano al refettorio dalla chiesa: andavano a pranzo – almeno nelle grandi occasioni e nei giorni di festa – subito dopo la solenne messa comunitaria. Vedevano cioè il Cenacolo di Leonardo nel contesto di un impegno che coinvolgeva tutta la loro vita, e dopo aver ascoltato il Vangelo e ricevuto l'eucaristia.
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Ovviamente tale modo di guardare l'opera non era l'unico, e anche all'epoca il dipinto suggeriva altri significati.
La raffigurazione del Cenacolo più celebre di tutti i tempi illustra, ad esempio, in maniera singolare, il rapporto con i coevi "misteri" teatrali.
Eseguita tra il 1495-97, riassume inoltre l'ardita ricerca stilistica iniziata, elaborata e codificata da altri maestri fiorentini: in primo luogo Giotto, poi Donatello e Masaccio, infine Leon Battista Alberti. Il cenacolo fu subito riconosciuto come una pietra miliare della cultura artistica del Rinascimento.
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Le due cose non sono affatto contraddittorie. L'Ultima Cena venne commissionata a Leonardo dall'allora duca di Milano, Ludovico Sforza, nel contesto di un progetto di ammodernamento e abbellimento del convento e della chiesa di Santa Maria delle Grazie, in cui il principe intendeva situare la propria sepoltura. Nel quadro globale del progetto, diretto dall'architetto Donato Bramante, la Cena di Leonardo aveva una duplice funzione: da una parte doveva essere un'opera d'arte sacra – l'immagine della "coena Domini" nella sala dove i frati prendevano i loro pasti – e dall'altra doveva appagare l'ambizione del duca di dare lustro alla sua capitale con opere di architettura e arte nello stile moderno.
Oltre gli elementi di contenuto religioso nel dipinto, Leonardo vi creò infatti l'esempio più perfetto mai visto in Italia settentrionale della nuova prospettiva inaugurata dall'arte fiorentina, aprendo la parete di fondo del refettorio con l'illusione di una stanza spaziosa dal soffitto a cassettoni. Questa stanza – come il grandioso presbiterio a cupola che Bramante realizzava contemporaneamente per la chiesa – aggiornava una struttura preesistente, definendone un'estensione ideale, a un livello più alto: lo spazio di Cristo nel convento dei frati.
In realtà i due aspetti del Cenacolo – quello tecnico e quello mistico – si sovrappongono, perché è anche grazie all'uso della prospettiva che Leonardo riesce a mostrare che la vita della comunità religiosa è un'estensione della vita di Cristo e degli apostoli.
Attraverso la sua costruzione prospettica, l'artista focalizza l'attenzione su Cristo, facendo della sua figura il punto d'incrocio dell'intero cosmo pittorico definito dalla sala. Infatti le linee diagonali che portano l'occhio in profondità conducono inevitabilmente a Cristo, tutto si ricollega a Lui, è Lui il perno della logica visiva oltre che narrativa dell'insieme. Egli non è il punto ultimo, il punto di fuga prospettica; le linee diagonali convergono piuttosto dietro Cristo, nell'aria vespertina che è oltre la finestra; ma quel punto ultimo rimane nascosto. Cercando l'infinità, il nostro sguardo si ferma a Cristo, come se egli ancora dicesse: "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Giovanni 14, 9).
La forza di questa concentrazione prospettico-cristologica ideata da Leonardo diventa chiara se si raffronta la sua Cena con altre interpretazioni del tema nella pittura coeva.
Domenico Ghirlandaio, ad esempio, negli anni 1480-1490 ne dipinse due, quasi identiche, nei conventi di Ognissanti e San Marco a Firenze. Come Leonardo, questo artista si servì della prospettiva per dare l'illusione di uno spazio reale, senza però costruire lo spazio in diretto rapporto a Cristo. Nelle Cene dipinte dal Ghirlandaio, l'occhio avanza da sinistra a destra, fermandosi su ciascuna delle tredici figure separate ma più o meno uguali, senza cogliere immediatamente quale di esse rappresenti Gesù. Due sono in posizioni diverse dagli altri: Giuda, seduto dalla nostra parte della tavola, e il giovane san Giovanni che si riposa, con la testa tra le braccia incrociate sulla tavola. Per un processo di eliminazione, si capisce che la figura su cui Giovanni si poggia – l'uomo posto di fronte a Giuda – deve essere Cristo. Ma la cosa non è subito chiara.
Questa impostazione – che era classica nell'arte fiorentina, adoperata sin dal Trecento nei refettori – aiuta a capire la novità della lettura di Leonardo da Vinci.
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Sappiamo da un suo disegno ora conservato a Venezia che, in un primo momento, pure Leonardo aveva pensato di sistemare gli apostoli lungo la tavola come tante unità separate, con san Giovanni addormentato accanto a Cristo e Giuda dall'altra parte. A un certo punto però Leonardo sembra aver capito che l'effetto di tale frammentazione sarebbe stato come nel Ghirlandaio: dodici uomini isolati gli uni dagli altri, che reagiscono alla spicciolata, ognuno a modo suo, all'annuncio sconvolgente che invece interessa tutti: l'annuncio che li mette in crisi non tanto come individui ma come gruppo, come comunità: "In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà" (Giovanni 13, 21).
Per evitare tale frammentazione narrativa, Leonardo ha preferito allora unire i dodici intorno a Cristo in quattro grandi gruppi, in cui l'elemento che colpisce è appunto l'eloquenza corale di più persone accomunate da un solo impeto emotivo. Con particolare attenzione alla diversità di tipologie e gesti, il pittore rappresenta ciò che poteva essere veramente accaduto in una comunità di uomini vissuti insieme per tre anni. I dodici si suddividono naturalmente in gruppi diversificati gli uni dagli altri ma connessi tra loro; all'interno di ogni gruppo si discute sul significato di quanto Cristo ha detto, ma l'attenzione psicologica, espressa mediante sguardi e gesti, dai due lati della tavola torna necessariamente verso il centro, verso Cristo.
Tale movimento centripeto ha perciò, in superficie, la stessa funzione che hanno le linee prospettiche in profondità: conducono l'attenzione sull'attore principale, nel momento stesso del suo grande discorso, del gesto misterioso e commovente: il dono della sua vita nei segni del pane e del vino.
Notiamo poi come, nei gruppi posti immediatamente a destra e sinistra di Gesù, il movimento viene invertito: gli apostoli ai lati di Cristo si tirano indietro, il flusso dei loro sentimenti non raggiunge il Salvatore, che pronuncia il suo discorso e compie il suo gesto in maestosa solitudine. I movimenti dei corpi a destra e a sinistra, i gesti delle mani, non lo toccano: sono come onde che lambiscono un promontorio senza bagnarne la cima. Eppure intuiamo che l'intensità di sentimento in questi uomini – la loro capacità di agire con "un cuore solo e un'anima sola", il loro comune desiderio di trasparenza davanti alla commozione di un Maestro che si è fatto servo e che ora parla loro di tradimento e di morte – dipende da Gesù, nasce in rapporto a Gesù: è Lui che motiva e fonda l'apertura con cui, ad esempio, Filippo, a destra, con le mani invita a leggere nel suo cuore.
Nel corso della cena Gesù si è aperto a loro, ha lasciato vedere la propria angoscia, ne ha parlato, si è dato totalmente in un modo nuovo, corpo e spirito insieme, e ora gli apostoli si trovano capaci anch'essi di aprirsi, disposti anch'essi a darsi. A contatto con la realtà di questo Signore-Servo, di quest'uomo che parla da Dio, i suoi discepoli scoprono una capacità di risposta oltre i normali limiti della natura, una capacità soprannaturale simile all'apertura di Gesù stesso. "Il nuovo e grande mistero che avvolge la nostra esistenza – aveva scritto san Gregorio Nazianzeno mille anni prima di Leonardo – è questa partecipazione alla vita di Cristo. Egli si è comunicato interamente a noi: tutto ciò che Egli è, è diventato completamente nostro. Sotto ogni aspetto noi siamo Lui. Per Lui portiamo in noi l'immagine di Dio dal quale e per il quale siamo stati creati. La fisionomia, l'impronta che ci caratterizza è ormai quella di Dio" (Discorso 7, Patrologia Greca 35, 786-87).
Nel Cristo di Leonardo convergono le linee portanti all'infinità, convergono i sentimenti di molti cuori, e convergono – s'intrecciano, si sovrappongono, s'identificano – la natura divina con quella umana.
In questa straordinaria figura il pittore raccoglie tutti i fili del racconto evangelico: il "desiderio ardente" di condivisione in Gesù; la piena consapevolezza di ciò che gli sarebbe accaduto; il senso poi di essere arrivato al momento supremo, di compiere per l'ultima volta un gesto comune, aprendone il significato verso un orizzonte sconfinato.
La composizione piramidale che suggerisce quiete e forza; l'eloquenza con cui Cristo apre le braccia e allunga le mani: quella destra (alla nostra sinistra) verso il bicchiere di vino, quella sinistra (alla nostra destra) che mostra il pane; il regale isolamento in mezzo agli apostoli, la testa stagliata contro la luce del tardo pomeriggio, senza aureola ma incorniciata dalla nobile architettura della sala; e l'aria di sottile tristezza nell'inclinazione del capo come anche in ciò che rimane dell'espressione in questo dipinto danneggiato: tutto è fedele all'immagine che il Nuovo Testamento offre del Salvatore la notte in cui fu tradito, l'immagine di uno che si dona spontaneamente e nel contempo istituisce un rito eterno; uno che parla del suo regno, quindi un re; e soprattutto un uomo consapevole di andare incontro alla morte che accettava liberamente, "sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e che era venuto da Dio e a Dio ritornava" (Giovanni 13, 3); "sapendo", "accettando", ma soffrendo umanamente, "rilassando le redini dell'emotività", come dirà Gianfrancesco Pico della Mirandola in un trattato sull'immaginazione stilato negli stessi anni.
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Cerchiamo di cogliere l'impatto di questa figura nel suo contesto d'uso originario. Le costitutioni dell'ordine domenicano, riformulate dal capitolo generale tenutosi a Milano nel 1505 nel convento di Santa Maria delle Grazie, lo stesso del Cenacolo di Leonardo, descrivono con precisione il rituale d'ingresso a un refettorio, indicando anche la funzione di eventuali immagini collocate in tali spazi comunitari. "Suonata la campana – leggiamo – i fratelli debbono recarsi silenziosamente ma con decorosa rapidità al luogo in cui dovranno lavarsi le mani. Lavate le mani, devono andare poi, nell'ordine consueto, a sedersi sulla panca disposta fuori del refettorio, e in quella posizione recitare il 'De profundis'. Quando infine il priore suonerà per l'ingresso nel refettorio, devono entrare a due a due, incominciando dai più giovani. E quando sono in mezzo al refettorio, devono fare un inchino alla croce o all'immagine dipinta ivi collocata, e, fatto il segno della croce, devono andare a sedere a tavola".
Come suggerisce questo testo, il significato religioso del Cenacolo e di altre immagini nei refettori va meditato all'interno di un sistema di riti e segni elaborato dalla tradizione monastica attraverso molti secoli. La "croce o immagine dipinta" nel refettorio dove si mangiava, e il salmo recitato prima di entrare mentre i frati si lavavano le mani, riportavano al senso eterno di azioni ordinarie, quotidiane: la pulizia e l'alimentazione. Il Salmo 130, chiamato il "De profundis", attribuiva ad esempio un significato spirituale al comune atto d'igiene. "Dal profondo" della propria colpevolezza, il salmista (e con lui il frate che si lavava) esprimeva la sua fede che Dio è capace di purificarlo: "Presso il Signore è la misericordia e grande presso di Lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe". Nello stesso modo, la croce o immagine dipinta sulla parete del refettorio dava un senso religioso all'atto di mangiare, invitando i commensali a leggere nel pasto un significato spirituale oltre a quello fisico: non solo sostentamento del corpo, ma sostegno della vita interiore.
In pratica, i significati dei due momenti – del "De profundis" fuori della porta e dell'inchino all'immagine della passione dentro il refettorio – erano collegati. Se l'atto di lavarsi esprimeva la fede nel perdono divino, quello di accostarsi alla mensa comunicava il coraggio di vivere. Il peccatore perdonato mangia e si mantiene in vita perché accetta il perdono del Dio misericordioso; s'inchina davanti alla croce o altra immagine nel refettorio perché in essa ravvisa l'espressione di tale misericordia: Cristo che offre la propria vita in riscatto per i peccati degli uomini. La croce esprime sempre questa "redenzione", e la "immagine dipinta" più usata nei refettori, l'ultima cena, lo comunica ugualmente: nel racconto evangelico, Gesù durante la cena dà il vino ai suoi discepoli con le parole: "Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti in remissione dei peccati" (Matteo 26, 27-28).
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Tornando a guardare l'Ultima Cena che gli estensori delle costituzioni domenicane avevano davanti agli occhi nel 1505, il dipinto di Leonardo, dobbiamo ancora notare che nel refettorio di Santa Maria delle Grazie ci sono due dipinti, a entrambi dei quali ci si doveva inchinare.
Negli stessi anni, infatti, in cui Leonardo dipinse l'Ultima Cena, un artista milanese, Donato Montorfano, affrescò la parete di fronte a essa con una monumentale Crocifissione, tuttora visibile all'altro capo della sala. Di conseguenza, "lavate le mani" con fede nella misericordia divina, i frati che accedevano al refettorio si trovavano abbracciati d'ambo le parti da quella misericordia: davanti e dietro di sé avevano immagini della "grande redenzione" operata a favore dei peccatori da Cristo. Su una delle due pareti di fondo vedevano, nell'Ultima Cena, l'impegno di Gesù a offrire il suo corpo e sangue "per la remissione dei peccati", e sulla parete opposta vedevano nella Crocifissione l'adempimento dell'impegno, quando Cristo offrì la sua vita fisicamente sulla croce. Avendo rammentato il loro bisogno di perdono, i frati andavano cioè a tavola tra i due momenti nei quali tale perdono era stato realizzato: tra il giovedì sera e il venerdì pomeriggio dell'"ora" di Gesù, tra la Cena e la Croce.
Che Leonardo stesso abbia concepito i due dipinti del refettorio come componenti di un programma unitario è confermato dalla sua decisione di abbandonare il suo primo progetto compositivo, quello del disegno veneziano, per l'impianto che abbiamo descritto. Al posto del Cristo che si sporge per dare il boccone a Giuda, l'artista ha ideato un Cristo regale e sacerdotale che, allargando le braccia, mostra il pane e sta per prendere il vino. Cioè al posto di una figura narrativa – il Cristo del disegno veneziano, che interagisce con Giuda – Leonardo ha preferito un Signore tutto interiore, che invita all'introspezione psicologica. Lo sguardo velato di tristezza, la testa inclinata, l'isolamento della figura suggeriscono un momento di profonda interiorità.
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Leonardo deriva la composizione del suo Cristo da tre fonti. La prima è l'immagine del re e giudice fornita dal grande Cristo a mosaico del Battistero della sua città, Firenze: l'eterno sacerdote vestito del cielo e della terra, con le braccia estese per accogliere o respingere in virtù del mistero della sua passione.
La seconda è l'immagine del legislatore tipica dell'arte paleocristiana e medievale: il Signore che allarga le braccia per trasmettere il rotolo o libro del suo Vangelo ai credenti. La pala d'altare dell'Orcagna in Santa Maria Novella, la chiesa dell'ordine domenicano a Firenze, presenta Cristo in questo modo: un re legislatore, che con la destra affida a san Tommaso d'Aquino il libro della teologia, mentre con la sinistra dà le chiavi del regno celeste a san Pietro. Tra i temi toccati da Gesù nella cena c'erano infatti quelli del "regno" e della "nuova legge" dell'amore. San Tommaso, nel suo commento teologico al discorso dell'ultima cena, collega proprio queste idee, ricordando che all'ultimo pasto preso con i suoi discepoli Cristo fungeva simultaneamente da re, da legislatore e da sacerdote. Inoltre san Tommaso – la cui interpretazione doveva essere familiare ai domenicani di Santa Maria delle Grazie – dice che queste tre funzioni, che normalmente interessano categorie distinte di persone, in Cristo "confluiscono".
Ma è la terza fonte del suo Cristo che permette a Leonardo di fondere perfettamente le altre due. La posa del Salvatore con le braccia estese e la testa inclinata in segno di tristezza o di morte corrisponde a quella comunemente adoperata all'epoca per le immagini del "Vir dolorum", dell'Uomo dei dolori, che facevano vedere il corpo di Gesù deposto dalla croce con la testa inclinata e le braccia estese per mostrare le piaghe. La maestà regale, la ieraticità sacerdotale e la dignità legale sono comprese, ricapitolate, approfondite all'infinito in quest'allusione visiva al Servo Sofferente, perché Cristo regna dalla croce quando offre se stesso come sacerdote, vittima e altare, per istituire con il proprio sangue la nuova alleanza per il perdono dei peccati.
Nella Cena del refettorio di Santa Maria delle Grazie, Cristo apre le braccia nel gesto compiuto il giorno dopo sulla croce. La posa del Cristo leonardiano è stata cioè ideata in funzione dell'atto successivo del dramma sacro, raffigurato sulla parete opposta del refettorio. La maestosa presenza psicologica, l'insondabile interiorità sono attributi di chi contempla e accetta la propria morte.
Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe infatti la croce del giorno seguente. La testa inclinata, la mano aperta che indica il pane, sono preannunci di ciò che deve venire dopo. E la vita dei frati – il loro mangiare, il coraggio con cui, peccatori perdonati, si mantengono in vita – è compresa in quel "mentre": nell'interstizio tra l'accettazione e la realizzazione, nello spazio quotidiano della sequela, in una fedeltà spesso sofferta, che li configura a Cristo.
Una discussione sul senso della vita in «Sunset Limited» di Cormac McCarthy - Un nero, un bianco e alcuni motivi per non suicidarsi - di Andrea Monda – L’Osservatore Romano, 8 aprile 2009
La scena si svolge in una stanza di un caseggiato popolare in un quartiere nero di New York. La stanza è spoglia, l'ambiente squallido, attorno a un tavolo due uomini, un bianco e un nero, per il resto del romanzo saranno soltanto "il Bianco e il Nero". È difficile definire "romanzo" questo Sunset Limited ultima opera dello scrittore texano Cormac McCarthy, tanto assomiglia a un testo teatrale nella forma, e a un dialogo filosofico nel contenuto, ma anche, per certi versi, a una disputa teologica sui "massimi sistemi", dall'inconfondibile sapore medioevale. Di che parlano infatti il Nero e il Bianco se non di Dio e, per dirla con il filosofo Robert Spaemann, di quella "diceria immortale" sul suo conto? Perché l'uomo si ostina ancora a credere? Ma, prima ancora, chi sono questi due anonimi personaggi, urticanti simboli dell'ateo e del credente? In effetti lo scrittore sembra non preoccuparsi troppo di presentare i due protagonisti, ma lascia che il lettore scopra gradualmente la loro identità e il rapporto che li lega, quanto piuttosto appare dominato da un'urgenza rispetto a quello che i due si dicono; a McCarthy interessa la "questione" per mantenerci ancora nel linguaggio della filosofia medioevale - nella sola Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino ci sono 565 questiones - come è ben evidenziato da questo rapido scambio di battute posto a metà del testo: "Non sono uno che dubita" dice il Nero, "Però sono uno che fa domande". "E che differenza c'è" gli chiede il Bianco; fulminea e fulminante la risposta: "Be', secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste". Dopo le prime pagine il lettore comunque riesce già a comprendere qualcosa di più di questi due emblematici personaggi e cosa li lega: il Bianco è un professore di università, probabilmente di Manhattan, ed è giunto fino a questo sperduto sobborgo per togliersi la vita, mentre il Nero, che in quel quartiere malfamato ci vive, è proprio colui che ha fatto saltare il piano suicida del professore che prevedeva un semplice "saltino" dal marciapiede della metropolitana mentre passa il treno, il velocissimo "Sunset Limited". Ora si trovano nell'appartamento del Nero, uno di fronte all'altro, e al Nero resta l'impresa più difficile: dissuadere il suo interlocutore dal "riprovarci", dall'uscire dalla sua casa per dirigersi verso la prossima stazione della metro. Questa la premessa che apre il dialogo che, a tratti assomiglia più a un incontro di boxe, con i due pugili disposti a tirarsi fendenti tremendi (non dal punto di vista fisico, ma solo verbale e logico). I due sono veramente Bianco e Nero, divisi da una distanza che è contrapposizione netta, irriducibile; le loro strade sembrano non incontrarsi mai e quando questo accade scattano scintille infuocate. Tutto questo provoca un innalzamento della tensione che resta altissima per tutte le centoventi pagine del libro, inchiodando il lettore a una lettura convulsa, sincopata, avvolgente. "Allora, professore, che cosa devo fare con te?" è questo l'incipit, affidato alle parole del Nero che dimostra subito di volersi preoccupare della persona seduta di fronte a lui. È proprio il punto della "responsabilità" nei confronti degli altri uomini uno dei nodi su cui i due discuteranno animatamente dalla prima all'ultima pagina - nel finale il Nero afferma: "Bisogna amare i propri fratelli, altrimenti si muore" - ma è già molto significativa la risposta del Bianco a quella battuta iniziale: "Perché dovrebbe fare qualcosa?". "Te l'ho detto. Io non c'entro niente", dice il Nero "Quando stamattina sono uscito di casa per andare al lavoro tu mica c'eri nei miei programmi. E invece eccoti qua". "Non significa nulla" afferma quindi il Bianco, "Niente di quello che succede significa qualcos'altro". Già dalle prime battute sono quindi chiari i termini dello scontro che si sta per scatenare: il Bianco è incapace di cogliere l'aspetto simbolico della realtà, perché si ferma alla sua "letteralità" e "materialità" e quindi è incapace di vedere oltre. Ma questo gli impedisce anche di vedere in assoluto, di vedere davanti a sé.
Radicalmente opposta è la posizione del Nero che gli spiega che si è comportato con lui basandosi su una cosa sola, "cioè sul fatto vedo un tizio lassù in piedi. Lo guardo e posso pure dire: Mah, a prima vista non sembra mio fratello. Però sta lì. Forse è il caso che lo guardo meglio". Il match sotto forma di dialogo poteva terminare qui, alla terza pagina, perché è già evidente che i due non possono intendersi: il Nero infatti non si ferma alla "prima vista", ma quella vista lo spinge ad approfondire, a scavare, a scoprire (perché lui "vuole la verità") e inevitabilmente a preoccuparsi del fratello in difficoltà mentre il Bianco si ferma ancora prima, perché lui sa o presume che non c'è un significato che si cela/rivela nella realtà. Il Bianco in effetti non vede nemmeno, perché non vuole vedere, egli vuole accecarsi: mentre la storia si dipana il lettore registra il fatto che il professore, algido e snob, non vuole più "assistere alla morte di ogni cosa" perché quel mondo in cui credeva "è in gran parte scomparso. E fra poco lo sarà del tutto".
Incalzato dalle domande "a raffica" del Nero (è questo il leitmotiv del testo) il professore è costretto subito dopo ad ammettere che "Forse ha ragione lei. Forse non credo in niente. Credo nel Sunset Limited". Nichilista, questo è nel linguaggio odierno l'aggettivo per il flemmatico Bianco che non si scomporrà quasi mai, pur essendo sottoposto a un vero terzo grado da parte del Nero, a cui continuerà a rivolgersi dando il "lei", a rimarcare la distanza verso il suo sanguigno interlocutore ("Meglio non avvicinarsi troppo agli altri") il quale, invece, con il suo linguaggio diretto e sboccato, gli parlerà sempre dandogli il "tu". Ma il Bianco non solo non ha voluto assistere al tramonto dell'Occidente ("la civiltà occidentale è andata definitivamente in fumo nelle ciminiere di Dachau"), ma nemmeno al declino fisico e alla morte del padre, malato di tumore ("Forse non volevo ricordarmelo in quello stato"), figuriamoci se può soffermarsi a guardare - nel profondo - gli altri attorno a sé, il loro dolore, ed è per questo che finisce per disprezzare tutto e tutti, i suoi colleghi d'università, ma anche i "colleghi" di metropolitana ("Io non sono loro e loro non sono me"): è un uomo senza visione ma anche senza speranza perché le due dimensioni si alimentano a vicenda ("Gli sforzi che la gente fa per migliorare il mondo invariabilmente lo peggiorano"). Un mondo buio quello del professore, un buio nel quale cerca tenacemente di penetrare il Nero, che è persona ignorante, violenta - alle spalle anni di carcere e di efferatezze - ma ha incontrato la fede cristiana, che non è questione che riguarda le "brave persone" ("Non si tratta di essere virtuosi. Si tratta di stare zitti"), e questa fede gli dà la luce necessaria per vedere anche attraverso le tenebre, come la fotografia della copertina suggerisce: due uomini, di cui uno luminoso, che camminano avvolti in un buio impenetrabile. È la luce che permette di vedere nel buio, mentre il buio impedisce ogni tipo di visione e così il Nero riesce a comprendere, a "leggere" il Bianco, mentre a quest'ultimo il Nero, colui che lo ha "salvato" apparentemente senza motivo, gli appare come un mistero incomprensibile: "Ma possibile che non ti vedi, zuccherino?" gli chiede il Nero, "Sei trasparente come il vetro. Vedo le rotelline che ti girano dentro la testa. Gli ingranaggi. E vedo anche la luce. Una luce buona. Una luce vera. Tu non la vedi?" "No, non la vedo" "Che Dio ti benedica, fratello. Che Dio ti benedica e t'assista. Perché la luce c'è". Nel saggio Il cristianesimo così com'è lo scrittore Clive Staples Lewis afferma che "Via via che un uomo diventa migliore, si rende conto sempre più chiaramente del male che è ancora in lui; ma quando diventa peggiore, si rende conto della sua malvagità sempre di meno. Chi è moderatamente malvagio sa di non essere molto buono, ma chi è totalmente malvagio pensa di essere nel giusto. È semplicemente una questione di buon senso: ci si rende conto del sonno quando si è svegli, non quando si dorme. I buoni conoscono sia il bene che il male; i cattivi non conoscono né l'uno né l'altro".
I tentativi del Nero di svegliare il Bianco dal sonno mortale che lo avvince terranno col fiato sospeso il lettore anche grazie a continui colpi di scena e "capovolgimenti di fronte", proprio come in un incontro di boxe, quando il pugile che nel round precedente sembrava prevalere poi si viene a trovare sorprendentemente in estreme difficoltà. Il finale è, come si suol dire, "aperto", anche se la bilancia sembra pesare più a favore della disperazione del Bianco (la sua "arringa" finale possiede una forza davvero agghiacciante), un po' come, si parva licet, nel finale della parabola del figliol prodigo quando la speranza resta invincibile ma tutti i dettagli testuali sembrano indicare che il fratello maggiore rimane fuori dalla casa, al buio. Il paragone è forse azzardato ma al tempo stesso è "autorizzato" dalla massiccia presenza, in filigrana, di echi, tracce e citazioni bibliche a indicare la forte spiritualità cristiana dell'autore, un'appartenenza a una fede personale intensa e appunto molto biblica, legata inscindibilmente al testo sacro che si conferma il "grande codice" della letteratura occidentale secondo l'espressione del critico canadese Northrop Frye.
Un testo estremo questo Sunset Limited, proprio come gli altri romanzi, pur così diversi, di McCarthy, scrittore epico che ha rispolverato un genere, quello western, più cinematografico che letterario. Forse solo La strada, splendido romanzo immediatamente precedente a quest'ultimo, gli si avvicina per alcuni aspetti: il dialogo dei due uomini chiusi in un loft newyorkese sulla fede e l'esistenza di Dio ricorda da vicino la lunga marcia del padre e del figlio attraverso la Waste Land del mondo post-atomico immaginato nell'intenso capolavoro di McCarthy (di cui presto arriverà nelle sale la trasposizione cinematografica). Ne La strada si cammina incessantemente, in Sunset Limited non si cammina ma si parla incessantemente, il risultato è lo stesso: un lungo viaggio al termine della notte a scovare quel punto di fuga, quel "fuoco", quella fonte di luce che permette di comprendere che non è vero che "Niente di quello che succede significa qualcos'altro".
(©L'Osservatore Romano - 8 aprile 2009)
RIAPRONO I POZZI INTERIORI - SOTTO SCHIAFFO L’ITALIA SI SVELA DIVERSA - MARINA CORRADI – Avvenire, 8 aprile 2009
C’ è qualcosa, nelle cronache di dolore dall’Abruzzo, che si insinua come fra le righe. Qualcosa come una nota diversa in tanta morte, in tanta devastazione. Improvvisamente, qui e là, fra le parole gettate concitatamente nei microfoni dagli scampati, una nota che stona nella desolazione. È quando una madre racconta di come è stata salvata la sua bambina, da dei vicini sconosciuti che si sono arrampicati sui cornicioni per arrivare a quella stanza. La bambina è salva, dorme. La madre non si capacita: «Hanno dei figli anche loro, e hanno rischiato la vita per la mia. Angeli, sono, come devo chiamarli?».
C’è qualcosa, in questa mole ferrigna di strazio che sommerge dai telegiornali, che ci stupisce. È la vecchia di 98 anni che sotto le rovine della sua casa ha aspettato i soccorsi quietamente, lavorando all’uncinetto, in quel ritmo antico delle dita che tramano e legano: simile allo svolgersi fra le dita di una corona di rosario. O il giocatore dell’Aquila Rugby, ventenne, un colosso, che in quell’alba di macerie s’è caricato in spalla una donna e poi suo marito - salvi, dalla loro casa crollata. E su quelle grandi spalle si è poi lasciato mettere da tanti altri, come un giogo accettato, malati in sedia a rotelle, e materassi, e fornelli – poveri resti per sopravvivere. Con quelle spalle da rugbista, con quelle mani come badili, instancabile – a scavare, per gente mai vista.
È questo che ci stupisce dall’Aquila, molto più che le polemiche, e le accuse, e la consueta rabbia. Ci stupisce che in una simile esplosione di dolore e di male, gli uomini reagiscano. Come un pugile che ha incassato un formidabile colpo e, alle corde, si riscuote e torna a combattere. Che si raccolga così la sfida del dolore, introduce un fiato di meraviglia nell’abitudine stanca con cui spesso guardiamo a noi e agli altri. Cos’è che spinge degli uomini a rischiare la vita per uno sconosciuto, a svangare nel fango la notte intera, senza sentirsi stanchi? (Quegli stessi uomini che fino al giorno prima erano assolutamente come gli altri, magari cinici, o arrabbiati, o pigri tentatori della buona sorte al lotto). È, sembra, lo stesso dolore che sfida. E riapre dimenticati pozzi interiori, e nello schiaffo provoca: c’è una sorgente, lì sotto, che avevamo dimenticato di avere. Generosa, gratuita; come straniera, in un mondo che normalmente non dà niente per niente.
Si chiama questa sorgente, parlando cristiano, speranza. Quella speranza che Charles Peguy definì «una irriducibile » . Quel non arrendersi, anche quando tutto sembra perduto. L’improvviso scoprire che il vicino di cui non sai il nome, vale tanto per te da sfidare la massa minacciosa dei muri spezzati e incombenti, per salvare la sua bambina. Come se quel vicino fosse un fratello. Come se davvero, alla radice, fossimo tutti fratelli.
È un’altra Italia quella che s’è vista in tv e sui giornali in questi due giorni. Nella gente d’Abruzzo e nelle colonne di mezzi di soccorso che già all’alba di lunedì si mettevano in marcia da ogni parte d’Italia verso L’Aquila. Nei volontari e nelle offerte di case, di viveri, di pannolini. Nelle cento sottoscrizioni aperte, e indicate da tutte, tutte le tv e i giornali. In questo tempo di crisi. Dove fino a ieri l’Italia, cupa e depressa, sembrava chiusa nelle sue paure e partigiane rivendicazioni.
La sfida del dolore, come un manrovescio, ha rivelato un Paese spesso ignoto agli italiani stessi. Una faccia generosa, che rischia, che non calcola. Un’Italia amante della vita. In questa settimana di Passione e di morte, ci ha stupito, ci ha lasciato muti la madre che raccontava di quegli 'angeli' che le han salvato la figlia; e il gigante dell’Aquila Rugby, accanito, ansante, quella notte, su tutta un’altra meta.
ALLA RICERCA DI UN SENSO PER QUESTE ORE - Più che spiegare il dolore Cristo lo riempie - GIULIO ALBANESE – Avvenire, 8 aprile 2009
Siamo tutti un po’ timorosi e insicuri, soprattutto quando le circostanze della vita ci costringono a misurarci con lo scandalo del male. E se da una parte vorremmo sperimentare, nella fede, quella palingenesi del cuore, capace di dare senso e significato anche alle questioni estreme che assillano il nostro vissuto e la società contemporanea nel suo complesso; dall’altra avvertiamo lo smarrimento di fronte alle sofferenze del giusto e a tutto ciò che ne consegue. Vi sono eventi, come il sisma che s’è abbattuto sull’Aquila e dintorni, in cui, dal punto di vista strettamente causale, l’uomo non c’entra punto. È vero, in questi anni noi italiani abbiamo la responsabilità e il demerito di aver cementificato senza remore città e paesaggi. Ma i sismi sono davvero un’altra cosa.
Stiamo parlando di quei fenomeni che si generano nelle viscere del nostro pianeta seguendo le algide leggi della geofisica, nei confronti delle quali popoli avanzati o attardati che siano appaiono pressoché impotenti. È il mistero di un dolore improvviso, lancinante e angosciante di fronte al quale la lamentazione è l’unica forma di comunicazione.
Quando in un batter d’occhio perdi affetti e beni materiali, tutto è decisamente ben oltre la marca della ragione e parafrasando il Salmo ti senti davvero «terra deserta, arida e senz’acqua». Come ebbe a scrivere un padre spirituale del Novecento, David Maria Turoldo, «possiamo accettare il male perché è parte della vita, la quale a sua volta s’intreccia con la morte, ma accettare il dolore è cosa eroica, perché il dolore è davvero disumano».
E proprio perché il dilemma è grave, affermando la Resurrezione dobbiamo decisamente osare, ponendo quanto meno la questione. In fondo non ci sarebbe assurdità maggiore, per chi crede, del non interrogarsi e lasciare alla metafora dell’eclissi il proprio destino e quello di tanta umanità dolente. L’impotenza è un sentimento condiviso, che forse non potremmo mai governare fino in fondo. Ma essendo stati resi partecipi di un grande privilegio – quello di credere nonostante il nostro fardello di miserie – sarebbe davvero «cosa buona e giusta», durante questa Settimana Santa, contemplare il mistero della Passione, paradigma della sofferenza di quella gente rimasta sotto le macerie o costretta a sopravvivere nelle tendopoli o chissà in quale altro riparo di fortuna. Mai come nel dolore i grandi dilemmi, come la dialettica tra Bene e Male, possono essere affrontati col solo pensiero religioso, agendo attraverso la fede oltre la nostra fine. Dobbiamo conformarci a quanto dice Paul Claudel: «Il Cristo non ci è mandato a spiegare il dolore, ma a riempirlo della sua presenza», senza però misconoscere le nostre responsabilità, quelle d’aver posto anche oggi i nostri chiodi al legno della croce. Ecco che forse prim’ancora di chiederci con Eliezer Wiesel, «Dov’è Dio?», dovremmo domandarci con Primo Levi «Dov’è l’uomo?». Sì, perché ogni volta che siamo scossi da qualche evento terribile, chiamando in causa Dio per un suo silenzio, dimentichiamo che nel subbuglio dell’esistenza ognuno di noi ha le proprie responsabilità. Basti pensare alla mancata applicazione della normativa antisismica nell’edilizia per cui paradossalmente, nel capoluogo abruzzese, in alcuni casi, sono rimaste in piedi costruzioni antiche, mentre molte di quelle recenti sono crollate riducendosi a polvere e detriti.
E qui torniamo al ragionamento di partenza: la sola dimensione in cui possiamo agire, la nostra vita, ci rimanda al confronto con un Dio sì misericordioso, capace di farsi carico dei nostri peccati, ma che esige un coinvolgimento personale e comunitario nel cambiare le sorti della Storia. I terremoti continueranno ad esserci, come tante altre calamità naturali, ma la conversione preventiva sarà sempre e comunque il miglior antidoto contro il male.
Parafrasando allora il Diario di un dolore
di Clive Staples Lewis, anche noi possiamo dire che «l’assenza del dolore è come il cielo, si estende sopra ogni cosa».
1) Ordinario militare: “La sofferenza umana non sfigura ma trasfigura”
2) Pasqua in immagini. L'ultima cena secondo Leonardo - Il capolavoro di Leonardo da Vinci spiegato da Timothy Verdon. Una via artisticamente sublime per capire la passione di Gesù di Sandro Magister
3) Una discussione sul senso della vita in «Sunset Limited» di Cormac McCarthy - Un nero, un bianco e alcuni motivi per non suicidarsi - di Andrea Monda – L’Osservatore Romano, 8 aprile 2009
4) RIAPRONO I POZZI INTERIORI - SOTTO SCHIAFFO L’ITALIA SI SVELA DIVERSA - MARINA CORRADI – Avvenire, 8 aprile 2009
5) ALLA RICERCA DI UN SENSO PER QUESTE ORE - Più che spiegare il dolore Cristo lo riempie - GIULIO ALBANESE – Avvenire, 8 aprile 2009
Ordinario militare: “La sofferenza umana non sfigura ma trasfigura”
Ricorda la necessità di difendere strenuamente la vita
ROMA, martedì, 7 aprile 2009 (ZENIT.org).- “La sofferenza umana non sfigura ma trasfigura”, ha osservato l'Arcivescovo Vincenzo Pelvi, Ordinario militare per l'Italia, nella celebrazione eucaristica in preparazione alla Pasqua svoltasi nel Pantheon di Roma sabato 2 aprile.
Citando l'affermazione di Gesù ai Giudei “In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte” (Gv 8,51), il presule ha ricordato “una verità semplicissima ma straordinaria: Gesù è risorto. La vita ha vinto. Cristo è vita e dà vita a chi la accoglie e la custodisce”.
“La fede ci aiuta a capire che la morte non ha l’ultima parola, ma Dio stesso e il suo amore, quell’amore che, attraverso la morte, introduce alla vita eterna”, ha osservato, sottolineando che “il cuore dell’esperienza cristiana” è quindi “la vittoria della vita sulla morte”.
Quest'ultima, ha constatato, “non è la fine di tutto e tutte le forme di morte quotidiana derivate dal proprio donarsi sono un assaggio di quella Pasqua misteriosa che sperimenteremo con Cristo, passando ad una vita diversa, ciò che è al di là di ogni possibile immaginazione umana”.
Secondo l'Ordinario militare, nel mondo di oggi a volte si è “avvolti, anche inconsapevolmente, da un individualismo liberale” che porta a reprimere la dimensione spirituale della vita, “per cui la responsabilità infastidisce e il sentimento religioso viene considerato superfluo”.
Così, “le persone vengono implicate in una rete di false e superficiali soddisfazioni, dove il narcisismo subentra al sacrificio; il possedere indebolisce la pazienza; l’immediatezza sostituisce la stabilità del dono”.
In un contesto di questo tipo, il presule si interroga su quale senso assuma la vita, “dove sono beati i ricchi, perché possono comprare ciò che vogliono; sono beati i duri di cuore, perché faranno carriera; sono beati coloro che hanno un immagine da offrire, perché saranno ammirati da tutti”.
“Come può aiutare questa visione esistenziale a comprendere e rispettare il dono della vita? - ha chiesto –. Si può proporre una visione cristiana della persona aperta all’eternità, per condividere la gloria di Cristo Risorto?”.
Secondo l'Arcivescovo Pelvi, “annunciare Cristo Risorto implica una decisa conversione al Vangelo della vita, che è di rottura con tanti convincimenti e scelte utilitaristiche”.
Difesa della vita
Il credente, ha proseguito il presule, “dice un costante, sia pur sofferto, sì alla vita, riaffermando il comandamento: Non uccidere, che non esclude soltanto l’omicidio ma anche il suicidio. Su ogni vita umana Dio, creatore dell’uomo, ha un progetto da compiere, che è sempre un disegno di amore, di cui Egli solo conosce le modalità e il compimento”.
Intervenendo nel processo vitale e concludendolo con la morte, l'uomo “si arroga il diritto di determinare il tempo e il modo del compimento di quel disegno”, così come chi si toglie la vita “rifiuta la sovranità di Dio e il Suo disegno di amore”.
Sotto questo profilo, ha ricordato, “il suicidio, sia compiuto da solo, sia compiuto con l’aiuto di altre persone è in radicale contraddizione con la morale cristiana e con la concezione cristiana della vita e della morte. La vita è un dono meraviglioso che Dio fa all’uomo, ma di cui l’uomo non è padrone, perciò non può disporre né del suo nascere né del suo morire”.
“Il diritto alla vita, diritto assoluto, condizione dell’esistenza di tutti gli altri diritti della persona umana, è un diritto naturale, quindi inviolabile, di ogni persona, così che nessuna legge umana può disporne”, ha ribadito l'Ordinario militare.
Osservando che qualcuno potrebbe chiedersi “Perché non aiutare a morire una persona quando la sua vita ha perduto salute, qualsiasi bellezza, significato e prospettiva di avvenire?”, il presule ha avvertito che “se la sanità, la bellezza, l’utilità danno valore alla vita, bisogna concludere che ci sono vite umane senza valore e ci sono persone – come i diversamente abili gravi – la cui vita sarebbe senza significato, un peso da eliminare. Chi si sente di accettare una simile conseguenza?”.
Allo stesso modo, ci si può chiedere “quale senso ha soffrire terribilmente, quando si è affetti da un male incurabile senza che ci sia nessuna speranza di guarigione”. “Non è forse inutile la sofferenza in una società così civilizzata?”.
Anche se “certamente il dolore deve essere combattuto con ogni mezzo onesto e ragionevole, e bisogna fare ogni sforzo per alleviarne il peso in coloro che soffrono”, “non è lecito eliminare la sofferenza eliminando con la morte la persona che soffre”.
“Per noi credenti non c’è mai una sofferenza inutile”, ha constatato l'Arcivescovo, perché “dopo che Gesù ha preso su di sé, con la sua passione e la morte in croce, la sofferenza umana non sfigura ma trasfigura”.
Di ciò, ha constatato, ha dato una “splendida testimonianza” Papa Giovanni Paolo II, che nella sofferenza “ha raccontato il Gesù della Pasqua, che non resta incatenato nei fondali della morte, ma risorge alla luce”.
“Nella tormenta della lotta estrema, ogni credente si aggrappa alla certezza della vita nuova, iniziata in quel lontano mattino della tomba trovata inaspettatamente vuota”.
Per l'Arcivescovo Pelvi, “tutti dobbiamo essere alunni del dolore e della morte”.
“Allora – ha concluso – comprenderemo che la Croce è la culla dell’uomo nuovo”.
Pasqua in immagini. L'ultima cena secondo Leonardo - Il capolavoro di Leonardo da Vinci spiegato da Timothy Verdon. Una via artisticamente sublime per capire la passione di Gesù di Sandro Magister
ROMA, 7 aprile 2009 – Il Vangelo della Passione di Gesù è stato letto o cantato due giorni fa in tutte le chiese cattoliche di rito romano, nella domenica che precede la Pasqua. Quest'anno nella versione di Marco.
Ma c'è anche una Passione che parla con le immagini. Che raggiunge e commuove un numero sterminato di persone di ogni fede.
È ad esempio quella messa in scena dalle processioni che contrassegnano la settimana santa. O più semplicemente è quella raffigurata dall'arte pittorica.
C'è un capolavoro dell'arte universale che è forse il più conosciuto al mondo, tra quelli che rappresentano la Passione di Gesù. È l'Ultima Cena affrescata da Leonardo da Vinci nel refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie, a Milano.
Tantissimi conoscono e ammirano questo dipinto. Ma pochi sanno quale momento preciso dell'ultima cena rappresenti. Pochi sanno leggere i significati dei gesti di Gesù e degli apostoli. E meno ancora sanno che questo affresco può essere capito solo assieme a un altro dipinto che occupa la parete di fronte del medesimo refettorio e rappresenta la crocifissione.
Sfortunatamente, quel romanzo dalla spropositata fortuna che è stato "Il Codice da Vinci" ha contribuito ad estendere non solo la fama dell'Ultima Cena di Leonardo, ma anche la sua incomprensione.
È giusto quindi strappare il velo che rende ciechi. È ciò che fa Timothy Verdon nel testo che segue, uscito su "L'Osservatore Romano" del 30 marzo 2009.
Verdon è storico dell'arte e sacerdote. È americano ma vive da molti anni a Firenze, dove dirige l’ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’arte. È uno dei maggiori esperti mondiali di arte cristiana. Chiamato da Benedetto XVI, ha partecipato agli ultimi due sinodi dei vescovi, sull'eucaristia e sulle Sacre Scritture.
In questo articolo egli spiega in chiave artistica, teologica, liturgica il senso profondo del capolavoro di Leonardo da Vinci. Una via artisticamente sublime per capire quell'atto d'inizio della passione di Gesù che è la sua ultima cena. E per farsene coinvolgere, come ogni grande opera d'arte sa fare.
"Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe la croce" di Timothy Verdon
Il Cenacolo di Leonardo da Vinci fu dipinto in un refettorio: la cena di Cristo in un luogo dove si mangia.
Ha importanza poi il fatto che il refettorio era quello di una comunità consacrata, i domenicani del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano. L'Ultima Cena, nel corso della quale il protagonista, Cristo, assunse un gravoso impegno, fu dipinta per dei cristiani impegnati a seguirlo.
È inoltre significativo che questo refettorio si trovi a pochi passi dalla chiesa in cui i consacrati ascoltavano le Scritture che davano senso al loro impegno, e dove venivano alimentati del corpo e sangue originariamente offerti da Cristo nel contesto dell'evento raffigurato da Leonardo.
Ed è fondamentale ricordare che i frati si recavano al refettorio dalla chiesa: andavano a pranzo – almeno nelle grandi occasioni e nei giorni di festa – subito dopo la solenne messa comunitaria. Vedevano cioè il Cenacolo di Leonardo nel contesto di un impegno che coinvolgeva tutta la loro vita, e dopo aver ascoltato il Vangelo e ricevuto l'eucaristia.
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Ovviamente tale modo di guardare l'opera non era l'unico, e anche all'epoca il dipinto suggeriva altri significati.
La raffigurazione del Cenacolo più celebre di tutti i tempi illustra, ad esempio, in maniera singolare, il rapporto con i coevi "misteri" teatrali.
Eseguita tra il 1495-97, riassume inoltre l'ardita ricerca stilistica iniziata, elaborata e codificata da altri maestri fiorentini: in primo luogo Giotto, poi Donatello e Masaccio, infine Leon Battista Alberti. Il cenacolo fu subito riconosciuto come una pietra miliare della cultura artistica del Rinascimento.
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Le due cose non sono affatto contraddittorie. L'Ultima Cena venne commissionata a Leonardo dall'allora duca di Milano, Ludovico Sforza, nel contesto di un progetto di ammodernamento e abbellimento del convento e della chiesa di Santa Maria delle Grazie, in cui il principe intendeva situare la propria sepoltura. Nel quadro globale del progetto, diretto dall'architetto Donato Bramante, la Cena di Leonardo aveva una duplice funzione: da una parte doveva essere un'opera d'arte sacra – l'immagine della "coena Domini" nella sala dove i frati prendevano i loro pasti – e dall'altra doveva appagare l'ambizione del duca di dare lustro alla sua capitale con opere di architettura e arte nello stile moderno.
Oltre gli elementi di contenuto religioso nel dipinto, Leonardo vi creò infatti l'esempio più perfetto mai visto in Italia settentrionale della nuova prospettiva inaugurata dall'arte fiorentina, aprendo la parete di fondo del refettorio con l'illusione di una stanza spaziosa dal soffitto a cassettoni. Questa stanza – come il grandioso presbiterio a cupola che Bramante realizzava contemporaneamente per la chiesa – aggiornava una struttura preesistente, definendone un'estensione ideale, a un livello più alto: lo spazio di Cristo nel convento dei frati.
In realtà i due aspetti del Cenacolo – quello tecnico e quello mistico – si sovrappongono, perché è anche grazie all'uso della prospettiva che Leonardo riesce a mostrare che la vita della comunità religiosa è un'estensione della vita di Cristo e degli apostoli.
Attraverso la sua costruzione prospettica, l'artista focalizza l'attenzione su Cristo, facendo della sua figura il punto d'incrocio dell'intero cosmo pittorico definito dalla sala. Infatti le linee diagonali che portano l'occhio in profondità conducono inevitabilmente a Cristo, tutto si ricollega a Lui, è Lui il perno della logica visiva oltre che narrativa dell'insieme. Egli non è il punto ultimo, il punto di fuga prospettica; le linee diagonali convergono piuttosto dietro Cristo, nell'aria vespertina che è oltre la finestra; ma quel punto ultimo rimane nascosto. Cercando l'infinità, il nostro sguardo si ferma a Cristo, come se egli ancora dicesse: "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Giovanni 14, 9).
La forza di questa concentrazione prospettico-cristologica ideata da Leonardo diventa chiara se si raffronta la sua Cena con altre interpretazioni del tema nella pittura coeva.
Domenico Ghirlandaio, ad esempio, negli anni 1480-1490 ne dipinse due, quasi identiche, nei conventi di Ognissanti e San Marco a Firenze. Come Leonardo, questo artista si servì della prospettiva per dare l'illusione di uno spazio reale, senza però costruire lo spazio in diretto rapporto a Cristo. Nelle Cene dipinte dal Ghirlandaio, l'occhio avanza da sinistra a destra, fermandosi su ciascuna delle tredici figure separate ma più o meno uguali, senza cogliere immediatamente quale di esse rappresenti Gesù. Due sono in posizioni diverse dagli altri: Giuda, seduto dalla nostra parte della tavola, e il giovane san Giovanni che si riposa, con la testa tra le braccia incrociate sulla tavola. Per un processo di eliminazione, si capisce che la figura su cui Giovanni si poggia – l'uomo posto di fronte a Giuda – deve essere Cristo. Ma la cosa non è subito chiara.
Questa impostazione – che era classica nell'arte fiorentina, adoperata sin dal Trecento nei refettori – aiuta a capire la novità della lettura di Leonardo da Vinci.
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Sappiamo da un suo disegno ora conservato a Venezia che, in un primo momento, pure Leonardo aveva pensato di sistemare gli apostoli lungo la tavola come tante unità separate, con san Giovanni addormentato accanto a Cristo e Giuda dall'altra parte. A un certo punto però Leonardo sembra aver capito che l'effetto di tale frammentazione sarebbe stato come nel Ghirlandaio: dodici uomini isolati gli uni dagli altri, che reagiscono alla spicciolata, ognuno a modo suo, all'annuncio sconvolgente che invece interessa tutti: l'annuncio che li mette in crisi non tanto come individui ma come gruppo, come comunità: "In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà" (Giovanni 13, 21).
Per evitare tale frammentazione narrativa, Leonardo ha preferito allora unire i dodici intorno a Cristo in quattro grandi gruppi, in cui l'elemento che colpisce è appunto l'eloquenza corale di più persone accomunate da un solo impeto emotivo. Con particolare attenzione alla diversità di tipologie e gesti, il pittore rappresenta ciò che poteva essere veramente accaduto in una comunità di uomini vissuti insieme per tre anni. I dodici si suddividono naturalmente in gruppi diversificati gli uni dagli altri ma connessi tra loro; all'interno di ogni gruppo si discute sul significato di quanto Cristo ha detto, ma l'attenzione psicologica, espressa mediante sguardi e gesti, dai due lati della tavola torna necessariamente verso il centro, verso Cristo.
Tale movimento centripeto ha perciò, in superficie, la stessa funzione che hanno le linee prospettiche in profondità: conducono l'attenzione sull'attore principale, nel momento stesso del suo grande discorso, del gesto misterioso e commovente: il dono della sua vita nei segni del pane e del vino.
Notiamo poi come, nei gruppi posti immediatamente a destra e sinistra di Gesù, il movimento viene invertito: gli apostoli ai lati di Cristo si tirano indietro, il flusso dei loro sentimenti non raggiunge il Salvatore, che pronuncia il suo discorso e compie il suo gesto in maestosa solitudine. I movimenti dei corpi a destra e a sinistra, i gesti delle mani, non lo toccano: sono come onde che lambiscono un promontorio senza bagnarne la cima. Eppure intuiamo che l'intensità di sentimento in questi uomini – la loro capacità di agire con "un cuore solo e un'anima sola", il loro comune desiderio di trasparenza davanti alla commozione di un Maestro che si è fatto servo e che ora parla loro di tradimento e di morte – dipende da Gesù, nasce in rapporto a Gesù: è Lui che motiva e fonda l'apertura con cui, ad esempio, Filippo, a destra, con le mani invita a leggere nel suo cuore.
Nel corso della cena Gesù si è aperto a loro, ha lasciato vedere la propria angoscia, ne ha parlato, si è dato totalmente in un modo nuovo, corpo e spirito insieme, e ora gli apostoli si trovano capaci anch'essi di aprirsi, disposti anch'essi a darsi. A contatto con la realtà di questo Signore-Servo, di quest'uomo che parla da Dio, i suoi discepoli scoprono una capacità di risposta oltre i normali limiti della natura, una capacità soprannaturale simile all'apertura di Gesù stesso. "Il nuovo e grande mistero che avvolge la nostra esistenza – aveva scritto san Gregorio Nazianzeno mille anni prima di Leonardo – è questa partecipazione alla vita di Cristo. Egli si è comunicato interamente a noi: tutto ciò che Egli è, è diventato completamente nostro. Sotto ogni aspetto noi siamo Lui. Per Lui portiamo in noi l'immagine di Dio dal quale e per il quale siamo stati creati. La fisionomia, l'impronta che ci caratterizza è ormai quella di Dio" (Discorso 7, Patrologia Greca 35, 786-87).
Nel Cristo di Leonardo convergono le linee portanti all'infinità, convergono i sentimenti di molti cuori, e convergono – s'intrecciano, si sovrappongono, s'identificano – la natura divina con quella umana.
In questa straordinaria figura il pittore raccoglie tutti i fili del racconto evangelico: il "desiderio ardente" di condivisione in Gesù; la piena consapevolezza di ciò che gli sarebbe accaduto; il senso poi di essere arrivato al momento supremo, di compiere per l'ultima volta un gesto comune, aprendone il significato verso un orizzonte sconfinato.
La composizione piramidale che suggerisce quiete e forza; l'eloquenza con cui Cristo apre le braccia e allunga le mani: quella destra (alla nostra sinistra) verso il bicchiere di vino, quella sinistra (alla nostra destra) che mostra il pane; il regale isolamento in mezzo agli apostoli, la testa stagliata contro la luce del tardo pomeriggio, senza aureola ma incorniciata dalla nobile architettura della sala; e l'aria di sottile tristezza nell'inclinazione del capo come anche in ciò che rimane dell'espressione in questo dipinto danneggiato: tutto è fedele all'immagine che il Nuovo Testamento offre del Salvatore la notte in cui fu tradito, l'immagine di uno che si dona spontaneamente e nel contempo istituisce un rito eterno; uno che parla del suo regno, quindi un re; e soprattutto un uomo consapevole di andare incontro alla morte che accettava liberamente, "sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e che era venuto da Dio e a Dio ritornava" (Giovanni 13, 3); "sapendo", "accettando", ma soffrendo umanamente, "rilassando le redini dell'emotività", come dirà Gianfrancesco Pico della Mirandola in un trattato sull'immaginazione stilato negli stessi anni.
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Cerchiamo di cogliere l'impatto di questa figura nel suo contesto d'uso originario. Le costitutioni dell'ordine domenicano, riformulate dal capitolo generale tenutosi a Milano nel 1505 nel convento di Santa Maria delle Grazie, lo stesso del Cenacolo di Leonardo, descrivono con precisione il rituale d'ingresso a un refettorio, indicando anche la funzione di eventuali immagini collocate in tali spazi comunitari. "Suonata la campana – leggiamo – i fratelli debbono recarsi silenziosamente ma con decorosa rapidità al luogo in cui dovranno lavarsi le mani. Lavate le mani, devono andare poi, nell'ordine consueto, a sedersi sulla panca disposta fuori del refettorio, e in quella posizione recitare il 'De profundis'. Quando infine il priore suonerà per l'ingresso nel refettorio, devono entrare a due a due, incominciando dai più giovani. E quando sono in mezzo al refettorio, devono fare un inchino alla croce o all'immagine dipinta ivi collocata, e, fatto il segno della croce, devono andare a sedere a tavola".
Come suggerisce questo testo, il significato religioso del Cenacolo e di altre immagini nei refettori va meditato all'interno di un sistema di riti e segni elaborato dalla tradizione monastica attraverso molti secoli. La "croce o immagine dipinta" nel refettorio dove si mangiava, e il salmo recitato prima di entrare mentre i frati si lavavano le mani, riportavano al senso eterno di azioni ordinarie, quotidiane: la pulizia e l'alimentazione. Il Salmo 130, chiamato il "De profundis", attribuiva ad esempio un significato spirituale al comune atto d'igiene. "Dal profondo" della propria colpevolezza, il salmista (e con lui il frate che si lavava) esprimeva la sua fede che Dio è capace di purificarlo: "Presso il Signore è la misericordia e grande presso di Lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe". Nello stesso modo, la croce o immagine dipinta sulla parete del refettorio dava un senso religioso all'atto di mangiare, invitando i commensali a leggere nel pasto un significato spirituale oltre a quello fisico: non solo sostentamento del corpo, ma sostegno della vita interiore.
In pratica, i significati dei due momenti – del "De profundis" fuori della porta e dell'inchino all'immagine della passione dentro il refettorio – erano collegati. Se l'atto di lavarsi esprimeva la fede nel perdono divino, quello di accostarsi alla mensa comunicava il coraggio di vivere. Il peccatore perdonato mangia e si mantiene in vita perché accetta il perdono del Dio misericordioso; s'inchina davanti alla croce o altra immagine nel refettorio perché in essa ravvisa l'espressione di tale misericordia: Cristo che offre la propria vita in riscatto per i peccati degli uomini. La croce esprime sempre questa "redenzione", e la "immagine dipinta" più usata nei refettori, l'ultima cena, lo comunica ugualmente: nel racconto evangelico, Gesù durante la cena dà il vino ai suoi discepoli con le parole: "Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti in remissione dei peccati" (Matteo 26, 27-28).
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Tornando a guardare l'Ultima Cena che gli estensori delle costituzioni domenicane avevano davanti agli occhi nel 1505, il dipinto di Leonardo, dobbiamo ancora notare che nel refettorio di Santa Maria delle Grazie ci sono due dipinti, a entrambi dei quali ci si doveva inchinare.
Negli stessi anni, infatti, in cui Leonardo dipinse l'Ultima Cena, un artista milanese, Donato Montorfano, affrescò la parete di fronte a essa con una monumentale Crocifissione, tuttora visibile all'altro capo della sala. Di conseguenza, "lavate le mani" con fede nella misericordia divina, i frati che accedevano al refettorio si trovavano abbracciati d'ambo le parti da quella misericordia: davanti e dietro di sé avevano immagini della "grande redenzione" operata a favore dei peccatori da Cristo. Su una delle due pareti di fondo vedevano, nell'Ultima Cena, l'impegno di Gesù a offrire il suo corpo e sangue "per la remissione dei peccati", e sulla parete opposta vedevano nella Crocifissione l'adempimento dell'impegno, quando Cristo offrì la sua vita fisicamente sulla croce. Avendo rammentato il loro bisogno di perdono, i frati andavano cioè a tavola tra i due momenti nei quali tale perdono era stato realizzato: tra il giovedì sera e il venerdì pomeriggio dell'"ora" di Gesù, tra la Cena e la Croce.
Che Leonardo stesso abbia concepito i due dipinti del refettorio come componenti di un programma unitario è confermato dalla sua decisione di abbandonare il suo primo progetto compositivo, quello del disegno veneziano, per l'impianto che abbiamo descritto. Al posto del Cristo che si sporge per dare il boccone a Giuda, l'artista ha ideato un Cristo regale e sacerdotale che, allargando le braccia, mostra il pane e sta per prendere il vino. Cioè al posto di una figura narrativa – il Cristo del disegno veneziano, che interagisce con Giuda – Leonardo ha preferito un Signore tutto interiore, che invita all'introspezione psicologica. Lo sguardo velato di tristezza, la testa inclinata, l'isolamento della figura suggeriscono un momento di profonda interiorità.
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Leonardo deriva la composizione del suo Cristo da tre fonti. La prima è l'immagine del re e giudice fornita dal grande Cristo a mosaico del Battistero della sua città, Firenze: l'eterno sacerdote vestito del cielo e della terra, con le braccia estese per accogliere o respingere in virtù del mistero della sua passione.
La seconda è l'immagine del legislatore tipica dell'arte paleocristiana e medievale: il Signore che allarga le braccia per trasmettere il rotolo o libro del suo Vangelo ai credenti. La pala d'altare dell'Orcagna in Santa Maria Novella, la chiesa dell'ordine domenicano a Firenze, presenta Cristo in questo modo: un re legislatore, che con la destra affida a san Tommaso d'Aquino il libro della teologia, mentre con la sinistra dà le chiavi del regno celeste a san Pietro. Tra i temi toccati da Gesù nella cena c'erano infatti quelli del "regno" e della "nuova legge" dell'amore. San Tommaso, nel suo commento teologico al discorso dell'ultima cena, collega proprio queste idee, ricordando che all'ultimo pasto preso con i suoi discepoli Cristo fungeva simultaneamente da re, da legislatore e da sacerdote. Inoltre san Tommaso – la cui interpretazione doveva essere familiare ai domenicani di Santa Maria delle Grazie – dice che queste tre funzioni, che normalmente interessano categorie distinte di persone, in Cristo "confluiscono".
Ma è la terza fonte del suo Cristo che permette a Leonardo di fondere perfettamente le altre due. La posa del Salvatore con le braccia estese e la testa inclinata in segno di tristezza o di morte corrisponde a quella comunemente adoperata all'epoca per le immagini del "Vir dolorum", dell'Uomo dei dolori, che facevano vedere il corpo di Gesù deposto dalla croce con la testa inclinata e le braccia estese per mostrare le piaghe. La maestà regale, la ieraticità sacerdotale e la dignità legale sono comprese, ricapitolate, approfondite all'infinito in quest'allusione visiva al Servo Sofferente, perché Cristo regna dalla croce quando offre se stesso come sacerdote, vittima e altare, per istituire con il proprio sangue la nuova alleanza per il perdono dei peccati.
Nella Cena del refettorio di Santa Maria delle Grazie, Cristo apre le braccia nel gesto compiuto il giorno dopo sulla croce. La posa del Cristo leonardiano è stata cioè ideata in funzione dell'atto successivo del dramma sacro, raffigurato sulla parete opposta del refettorio. La maestosa presenza psicologica, l'insondabile interiorità sono attributi di chi contempla e accetta la propria morte.
Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe infatti la croce del giorno seguente. La testa inclinata, la mano aperta che indica il pane, sono preannunci di ciò che deve venire dopo. E la vita dei frati – il loro mangiare, il coraggio con cui, peccatori perdonati, si mantengono in vita – è compresa in quel "mentre": nell'interstizio tra l'accettazione e la realizzazione, nello spazio quotidiano della sequela, in una fedeltà spesso sofferta, che li configura a Cristo.
Una discussione sul senso della vita in «Sunset Limited» di Cormac McCarthy - Un nero, un bianco e alcuni motivi per non suicidarsi - di Andrea Monda – L’Osservatore Romano, 8 aprile 2009
La scena si svolge in una stanza di un caseggiato popolare in un quartiere nero di New York. La stanza è spoglia, l'ambiente squallido, attorno a un tavolo due uomini, un bianco e un nero, per il resto del romanzo saranno soltanto "il Bianco e il Nero". È difficile definire "romanzo" questo Sunset Limited ultima opera dello scrittore texano Cormac McCarthy, tanto assomiglia a un testo teatrale nella forma, e a un dialogo filosofico nel contenuto, ma anche, per certi versi, a una disputa teologica sui "massimi sistemi", dall'inconfondibile sapore medioevale. Di che parlano infatti il Nero e il Bianco se non di Dio e, per dirla con il filosofo Robert Spaemann, di quella "diceria immortale" sul suo conto? Perché l'uomo si ostina ancora a credere? Ma, prima ancora, chi sono questi due anonimi personaggi, urticanti simboli dell'ateo e del credente? In effetti lo scrittore sembra non preoccuparsi troppo di presentare i due protagonisti, ma lascia che il lettore scopra gradualmente la loro identità e il rapporto che li lega, quanto piuttosto appare dominato da un'urgenza rispetto a quello che i due si dicono; a McCarthy interessa la "questione" per mantenerci ancora nel linguaggio della filosofia medioevale - nella sola Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino ci sono 565 questiones - come è ben evidenziato da questo rapido scambio di battute posto a metà del testo: "Non sono uno che dubita" dice il Nero, "Però sono uno che fa domande". "E che differenza c'è" gli chiede il Bianco; fulminea e fulminante la risposta: "Be', secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste". Dopo le prime pagine il lettore comunque riesce già a comprendere qualcosa di più di questi due emblematici personaggi e cosa li lega: il Bianco è un professore di università, probabilmente di Manhattan, ed è giunto fino a questo sperduto sobborgo per togliersi la vita, mentre il Nero, che in quel quartiere malfamato ci vive, è proprio colui che ha fatto saltare il piano suicida del professore che prevedeva un semplice "saltino" dal marciapiede della metropolitana mentre passa il treno, il velocissimo "Sunset Limited". Ora si trovano nell'appartamento del Nero, uno di fronte all'altro, e al Nero resta l'impresa più difficile: dissuadere il suo interlocutore dal "riprovarci", dall'uscire dalla sua casa per dirigersi verso la prossima stazione della metro. Questa la premessa che apre il dialogo che, a tratti assomiglia più a un incontro di boxe, con i due pugili disposti a tirarsi fendenti tremendi (non dal punto di vista fisico, ma solo verbale e logico). I due sono veramente Bianco e Nero, divisi da una distanza che è contrapposizione netta, irriducibile; le loro strade sembrano non incontrarsi mai e quando questo accade scattano scintille infuocate. Tutto questo provoca un innalzamento della tensione che resta altissima per tutte le centoventi pagine del libro, inchiodando il lettore a una lettura convulsa, sincopata, avvolgente. "Allora, professore, che cosa devo fare con te?" è questo l'incipit, affidato alle parole del Nero che dimostra subito di volersi preoccupare della persona seduta di fronte a lui. È proprio il punto della "responsabilità" nei confronti degli altri uomini uno dei nodi su cui i due discuteranno animatamente dalla prima all'ultima pagina - nel finale il Nero afferma: "Bisogna amare i propri fratelli, altrimenti si muore" - ma è già molto significativa la risposta del Bianco a quella battuta iniziale: "Perché dovrebbe fare qualcosa?". "Te l'ho detto. Io non c'entro niente", dice il Nero "Quando stamattina sono uscito di casa per andare al lavoro tu mica c'eri nei miei programmi. E invece eccoti qua". "Non significa nulla" afferma quindi il Bianco, "Niente di quello che succede significa qualcos'altro". Già dalle prime battute sono quindi chiari i termini dello scontro che si sta per scatenare: il Bianco è incapace di cogliere l'aspetto simbolico della realtà, perché si ferma alla sua "letteralità" e "materialità" e quindi è incapace di vedere oltre. Ma questo gli impedisce anche di vedere in assoluto, di vedere davanti a sé.
Radicalmente opposta è la posizione del Nero che gli spiega che si è comportato con lui basandosi su una cosa sola, "cioè sul fatto vedo un tizio lassù in piedi. Lo guardo e posso pure dire: Mah, a prima vista non sembra mio fratello. Però sta lì. Forse è il caso che lo guardo meglio". Il match sotto forma di dialogo poteva terminare qui, alla terza pagina, perché è già evidente che i due non possono intendersi: il Nero infatti non si ferma alla "prima vista", ma quella vista lo spinge ad approfondire, a scavare, a scoprire (perché lui "vuole la verità") e inevitabilmente a preoccuparsi del fratello in difficoltà mentre il Bianco si ferma ancora prima, perché lui sa o presume che non c'è un significato che si cela/rivela nella realtà. Il Bianco in effetti non vede nemmeno, perché non vuole vedere, egli vuole accecarsi: mentre la storia si dipana il lettore registra il fatto che il professore, algido e snob, non vuole più "assistere alla morte di ogni cosa" perché quel mondo in cui credeva "è in gran parte scomparso. E fra poco lo sarà del tutto".
Incalzato dalle domande "a raffica" del Nero (è questo il leitmotiv del testo) il professore è costretto subito dopo ad ammettere che "Forse ha ragione lei. Forse non credo in niente. Credo nel Sunset Limited". Nichilista, questo è nel linguaggio odierno l'aggettivo per il flemmatico Bianco che non si scomporrà quasi mai, pur essendo sottoposto a un vero terzo grado da parte del Nero, a cui continuerà a rivolgersi dando il "lei", a rimarcare la distanza verso il suo sanguigno interlocutore ("Meglio non avvicinarsi troppo agli altri") il quale, invece, con il suo linguaggio diretto e sboccato, gli parlerà sempre dandogli il "tu". Ma il Bianco non solo non ha voluto assistere al tramonto dell'Occidente ("la civiltà occidentale è andata definitivamente in fumo nelle ciminiere di Dachau"), ma nemmeno al declino fisico e alla morte del padre, malato di tumore ("Forse non volevo ricordarmelo in quello stato"), figuriamoci se può soffermarsi a guardare - nel profondo - gli altri attorno a sé, il loro dolore, ed è per questo che finisce per disprezzare tutto e tutti, i suoi colleghi d'università, ma anche i "colleghi" di metropolitana ("Io non sono loro e loro non sono me"): è un uomo senza visione ma anche senza speranza perché le due dimensioni si alimentano a vicenda ("Gli sforzi che la gente fa per migliorare il mondo invariabilmente lo peggiorano"). Un mondo buio quello del professore, un buio nel quale cerca tenacemente di penetrare il Nero, che è persona ignorante, violenta - alle spalle anni di carcere e di efferatezze - ma ha incontrato la fede cristiana, che non è questione che riguarda le "brave persone" ("Non si tratta di essere virtuosi. Si tratta di stare zitti"), e questa fede gli dà la luce necessaria per vedere anche attraverso le tenebre, come la fotografia della copertina suggerisce: due uomini, di cui uno luminoso, che camminano avvolti in un buio impenetrabile. È la luce che permette di vedere nel buio, mentre il buio impedisce ogni tipo di visione e così il Nero riesce a comprendere, a "leggere" il Bianco, mentre a quest'ultimo il Nero, colui che lo ha "salvato" apparentemente senza motivo, gli appare come un mistero incomprensibile: "Ma possibile che non ti vedi, zuccherino?" gli chiede il Nero, "Sei trasparente come il vetro. Vedo le rotelline che ti girano dentro la testa. Gli ingranaggi. E vedo anche la luce. Una luce buona. Una luce vera. Tu non la vedi?" "No, non la vedo" "Che Dio ti benedica, fratello. Che Dio ti benedica e t'assista. Perché la luce c'è". Nel saggio Il cristianesimo così com'è lo scrittore Clive Staples Lewis afferma che "Via via che un uomo diventa migliore, si rende conto sempre più chiaramente del male che è ancora in lui; ma quando diventa peggiore, si rende conto della sua malvagità sempre di meno. Chi è moderatamente malvagio sa di non essere molto buono, ma chi è totalmente malvagio pensa di essere nel giusto. È semplicemente una questione di buon senso: ci si rende conto del sonno quando si è svegli, non quando si dorme. I buoni conoscono sia il bene che il male; i cattivi non conoscono né l'uno né l'altro".
I tentativi del Nero di svegliare il Bianco dal sonno mortale che lo avvince terranno col fiato sospeso il lettore anche grazie a continui colpi di scena e "capovolgimenti di fronte", proprio come in un incontro di boxe, quando il pugile che nel round precedente sembrava prevalere poi si viene a trovare sorprendentemente in estreme difficoltà. Il finale è, come si suol dire, "aperto", anche se la bilancia sembra pesare più a favore della disperazione del Bianco (la sua "arringa" finale possiede una forza davvero agghiacciante), un po' come, si parva licet, nel finale della parabola del figliol prodigo quando la speranza resta invincibile ma tutti i dettagli testuali sembrano indicare che il fratello maggiore rimane fuori dalla casa, al buio. Il paragone è forse azzardato ma al tempo stesso è "autorizzato" dalla massiccia presenza, in filigrana, di echi, tracce e citazioni bibliche a indicare la forte spiritualità cristiana dell'autore, un'appartenenza a una fede personale intensa e appunto molto biblica, legata inscindibilmente al testo sacro che si conferma il "grande codice" della letteratura occidentale secondo l'espressione del critico canadese Northrop Frye.
Un testo estremo questo Sunset Limited, proprio come gli altri romanzi, pur così diversi, di McCarthy, scrittore epico che ha rispolverato un genere, quello western, più cinematografico che letterario. Forse solo La strada, splendido romanzo immediatamente precedente a quest'ultimo, gli si avvicina per alcuni aspetti: il dialogo dei due uomini chiusi in un loft newyorkese sulla fede e l'esistenza di Dio ricorda da vicino la lunga marcia del padre e del figlio attraverso la Waste Land del mondo post-atomico immaginato nell'intenso capolavoro di McCarthy (di cui presto arriverà nelle sale la trasposizione cinematografica). Ne La strada si cammina incessantemente, in Sunset Limited non si cammina ma si parla incessantemente, il risultato è lo stesso: un lungo viaggio al termine della notte a scovare quel punto di fuga, quel "fuoco", quella fonte di luce che permette di comprendere che non è vero che "Niente di quello che succede significa qualcos'altro".
(©L'Osservatore Romano - 8 aprile 2009)
RIAPRONO I POZZI INTERIORI - SOTTO SCHIAFFO L’ITALIA SI SVELA DIVERSA - MARINA CORRADI – Avvenire, 8 aprile 2009
C’ è qualcosa, nelle cronache di dolore dall’Abruzzo, che si insinua come fra le righe. Qualcosa come una nota diversa in tanta morte, in tanta devastazione. Improvvisamente, qui e là, fra le parole gettate concitatamente nei microfoni dagli scampati, una nota che stona nella desolazione. È quando una madre racconta di come è stata salvata la sua bambina, da dei vicini sconosciuti che si sono arrampicati sui cornicioni per arrivare a quella stanza. La bambina è salva, dorme. La madre non si capacita: «Hanno dei figli anche loro, e hanno rischiato la vita per la mia. Angeli, sono, come devo chiamarli?».
C’è qualcosa, in questa mole ferrigna di strazio che sommerge dai telegiornali, che ci stupisce. È la vecchia di 98 anni che sotto le rovine della sua casa ha aspettato i soccorsi quietamente, lavorando all’uncinetto, in quel ritmo antico delle dita che tramano e legano: simile allo svolgersi fra le dita di una corona di rosario. O il giocatore dell’Aquila Rugby, ventenne, un colosso, che in quell’alba di macerie s’è caricato in spalla una donna e poi suo marito - salvi, dalla loro casa crollata. E su quelle grandi spalle si è poi lasciato mettere da tanti altri, come un giogo accettato, malati in sedia a rotelle, e materassi, e fornelli – poveri resti per sopravvivere. Con quelle spalle da rugbista, con quelle mani come badili, instancabile – a scavare, per gente mai vista.
È questo che ci stupisce dall’Aquila, molto più che le polemiche, e le accuse, e la consueta rabbia. Ci stupisce che in una simile esplosione di dolore e di male, gli uomini reagiscano. Come un pugile che ha incassato un formidabile colpo e, alle corde, si riscuote e torna a combattere. Che si raccolga così la sfida del dolore, introduce un fiato di meraviglia nell’abitudine stanca con cui spesso guardiamo a noi e agli altri. Cos’è che spinge degli uomini a rischiare la vita per uno sconosciuto, a svangare nel fango la notte intera, senza sentirsi stanchi? (Quegli stessi uomini che fino al giorno prima erano assolutamente come gli altri, magari cinici, o arrabbiati, o pigri tentatori della buona sorte al lotto). È, sembra, lo stesso dolore che sfida. E riapre dimenticati pozzi interiori, e nello schiaffo provoca: c’è una sorgente, lì sotto, che avevamo dimenticato di avere. Generosa, gratuita; come straniera, in un mondo che normalmente non dà niente per niente.
Si chiama questa sorgente, parlando cristiano, speranza. Quella speranza che Charles Peguy definì «una irriducibile » . Quel non arrendersi, anche quando tutto sembra perduto. L’improvviso scoprire che il vicino di cui non sai il nome, vale tanto per te da sfidare la massa minacciosa dei muri spezzati e incombenti, per salvare la sua bambina. Come se quel vicino fosse un fratello. Come se davvero, alla radice, fossimo tutti fratelli.
È un’altra Italia quella che s’è vista in tv e sui giornali in questi due giorni. Nella gente d’Abruzzo e nelle colonne di mezzi di soccorso che già all’alba di lunedì si mettevano in marcia da ogni parte d’Italia verso L’Aquila. Nei volontari e nelle offerte di case, di viveri, di pannolini. Nelle cento sottoscrizioni aperte, e indicate da tutte, tutte le tv e i giornali. In questo tempo di crisi. Dove fino a ieri l’Italia, cupa e depressa, sembrava chiusa nelle sue paure e partigiane rivendicazioni.
La sfida del dolore, come un manrovescio, ha rivelato un Paese spesso ignoto agli italiani stessi. Una faccia generosa, che rischia, che non calcola. Un’Italia amante della vita. In questa settimana di Passione e di morte, ci ha stupito, ci ha lasciato muti la madre che raccontava di quegli 'angeli' che le han salvato la figlia; e il gigante dell’Aquila Rugby, accanito, ansante, quella notte, su tutta un’altra meta.
ALLA RICERCA DI UN SENSO PER QUESTE ORE - Più che spiegare il dolore Cristo lo riempie - GIULIO ALBANESE – Avvenire, 8 aprile 2009
Siamo tutti un po’ timorosi e insicuri, soprattutto quando le circostanze della vita ci costringono a misurarci con lo scandalo del male. E se da una parte vorremmo sperimentare, nella fede, quella palingenesi del cuore, capace di dare senso e significato anche alle questioni estreme che assillano il nostro vissuto e la società contemporanea nel suo complesso; dall’altra avvertiamo lo smarrimento di fronte alle sofferenze del giusto e a tutto ciò che ne consegue. Vi sono eventi, come il sisma che s’è abbattuto sull’Aquila e dintorni, in cui, dal punto di vista strettamente causale, l’uomo non c’entra punto. È vero, in questi anni noi italiani abbiamo la responsabilità e il demerito di aver cementificato senza remore città e paesaggi. Ma i sismi sono davvero un’altra cosa.
Stiamo parlando di quei fenomeni che si generano nelle viscere del nostro pianeta seguendo le algide leggi della geofisica, nei confronti delle quali popoli avanzati o attardati che siano appaiono pressoché impotenti. È il mistero di un dolore improvviso, lancinante e angosciante di fronte al quale la lamentazione è l’unica forma di comunicazione.
Quando in un batter d’occhio perdi affetti e beni materiali, tutto è decisamente ben oltre la marca della ragione e parafrasando il Salmo ti senti davvero «terra deserta, arida e senz’acqua». Come ebbe a scrivere un padre spirituale del Novecento, David Maria Turoldo, «possiamo accettare il male perché è parte della vita, la quale a sua volta s’intreccia con la morte, ma accettare il dolore è cosa eroica, perché il dolore è davvero disumano».
E proprio perché il dilemma è grave, affermando la Resurrezione dobbiamo decisamente osare, ponendo quanto meno la questione. In fondo non ci sarebbe assurdità maggiore, per chi crede, del non interrogarsi e lasciare alla metafora dell’eclissi il proprio destino e quello di tanta umanità dolente. L’impotenza è un sentimento condiviso, che forse non potremmo mai governare fino in fondo. Ma essendo stati resi partecipi di un grande privilegio – quello di credere nonostante il nostro fardello di miserie – sarebbe davvero «cosa buona e giusta», durante questa Settimana Santa, contemplare il mistero della Passione, paradigma della sofferenza di quella gente rimasta sotto le macerie o costretta a sopravvivere nelle tendopoli o chissà in quale altro riparo di fortuna. Mai come nel dolore i grandi dilemmi, come la dialettica tra Bene e Male, possono essere affrontati col solo pensiero religioso, agendo attraverso la fede oltre la nostra fine. Dobbiamo conformarci a quanto dice Paul Claudel: «Il Cristo non ci è mandato a spiegare il dolore, ma a riempirlo della sua presenza», senza però misconoscere le nostre responsabilità, quelle d’aver posto anche oggi i nostri chiodi al legno della croce. Ecco che forse prim’ancora di chiederci con Eliezer Wiesel, «Dov’è Dio?», dovremmo domandarci con Primo Levi «Dov’è l’uomo?». Sì, perché ogni volta che siamo scossi da qualche evento terribile, chiamando in causa Dio per un suo silenzio, dimentichiamo che nel subbuglio dell’esistenza ognuno di noi ha le proprie responsabilità. Basti pensare alla mancata applicazione della normativa antisismica nell’edilizia per cui paradossalmente, nel capoluogo abruzzese, in alcuni casi, sono rimaste in piedi costruzioni antiche, mentre molte di quelle recenti sono crollate riducendosi a polvere e detriti.
E qui torniamo al ragionamento di partenza: la sola dimensione in cui possiamo agire, la nostra vita, ci rimanda al confronto con un Dio sì misericordioso, capace di farsi carico dei nostri peccati, ma che esige un coinvolgimento personale e comunitario nel cambiare le sorti della Storia. I terremoti continueranno ad esserci, come tante altre calamità naturali, ma la conversione preventiva sarà sempre e comunque il miglior antidoto contro il male.
Parafrasando allora il Diario di un dolore
di Clive Staples Lewis, anche noi possiamo dire che «l’assenza del dolore è come il cielo, si estende sopra ogni cosa».