Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI ripercorre il suo viaggio in Camerun e Angola - Durante l'Udienza generale del mercoledì
2) Proposta a Firenze la cittadinanza onoraria per suor Rosangela - La religiosa che ha accudito per molti anni Eluana Englaro - di Antonio Gaspari
3) Scambio di lettere fra Benedetto XVI e il primo ministro del Regno Unito, Gordon Brown, alla vigilia del g20 - Fiducia nell'uomo per uscire dalla crisi – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
4) Nell'anniversario della morte di Giovanni Paolo II - Il cammino mistico della Chiesa di Roma - di Andrzej Koprowski - Gesuita, direttore dei Programmi della Radio vaticana – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
5) Rosmini e le degenerazioni totalitarie - Un sogno di rinnovamento diventato un incubo - di Marco Testi – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
6) E se imparassimo dal Libano? - Roberto Fontolan - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
7) SOCIETÀ/ Chiosso: Giussani, Morin e McIntyre, l’educazione ancora possibile - INT. Giorgio Chiosso - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
8) LEGGE 40/ Morresi (CNB): la decisione della Corte? Apparentemente inspiegabile - INT. Assuntina Morresi - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
9) LA CORTE SI LIMITA A «CORREGGERE» - MA SI MANTIENE L’IMPIANTO DELLA LEGGE - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 2 aprile 2009
10) Organi umani in vendita, la moderna schiavitù – Anche Singapore, dopo Iran e Arabia, approva la cessione di parti del corpo dietro compenso Gli stranieri potranno accedere al 'servizio' E le denunce restano isolate: saranno i poveri del mondo a 'donare' e i ricchi a 'ricevere' - Avvenire, 2 aprile 2009
11) Uno studio scientifico dimostra come stia affiorando in casi 'estremi' la tendenza ad asportare gli organi senza le dovute condizioni. Il rischio è che il 'mercato' metta in sordina il rispetto dell’integrità della persona - di Carlo Bellieni - Vita senza senso? Espiantiamo – Avvenire, 2 aprile 2009
Benedetto XVI ripercorre il suo viaggio in Camerun e Angola - Durante l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 1° aprile 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sul suo recente viaggio apostolico in Camerun e Angola.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Come ho preannunciato domenica scorsa all’Angelus, quest’oggi mi soffermo a parlare del recente viaggio apostolico in Africa, il primo del mio pontificato in quel continente. Esso si è limitato al Camerun e all’Angola, ma idealmente con la mia visita ho voluto abbracciare tutti i popoli africani e benedirli nel nome del Signore. Ho sperimentato la tradizionale calorosa accoglienza africana, che mi è stata riservata dappertutto, e colgo volentieri questa occasione per esprimere nuovamente la mia viva gratitudine agli Episcopati dei due Paesi, ai Capi di Stato, a tutte le Autorità e a quanti in vario modo si sono prodigati per la riuscita di questa mia visita pastorale.
Il mio soggiorno in terra africana è iniziato il 17 marzo a Yaoundé, capitale del Camerun, dove sono venuto a trovarmi immediatamente nel cuore dell’Africa, e non solo geograficamente. Questo Paese infatti riassume molte caratteristiche di quel grande continente, prima fra tutte la sua anima profondamente religiosa, che accomuna tutti i numerosissimi gruppi etnici che lo popolano. In Camerun, oltre un quarto degli abitanti sono cattolici, e convivono pacificamente con le altre comunità religiose. Per questo il mio amato predecessore Giovanni Paolo II, nel 1995, scelse proprio la capitale di questa nazione per promulgare l’Esortazione apostolica Ecclesia in Africa, dopo la prima Assemblea sinodale dedicata appunto al continente africano. Questa volta, il Papa vi è tornato per consegnare l’Instrumentum laboris della seconda Assemblea sinodale per l’Africa, in programma a Roma per il prossimo ottobre e che avrà per tema: "La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace: «Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13-14)".
Negli incontri che, a due giorni di distanza, ho avuto con gli Episcopati, rispettivamente del Camerun e dell’Angola e São Tomé e Príncipe, ho voluto – tanto più in questo Anno Paolino – richiamare l’urgenza dell’evangelizzazione, che compete in primo luogo proprio ai Vescovi, sottolineando la dimensione collegiale, fondata sulla comunione sacramentale. Li ho esortati ad essere sempre di esempio per i loro sacerdoti e per tutti i fedeli, e a seguire attentamente la formazione dei seminaristi, che grazie a Dio sono numerosi, e dei catechisti, che diventano sempre più necessari per la vita della Chiesa in Africa. Ho incoraggiato i Vescovi a promuovere la pastorale del matrimonio e della famiglia, della liturgia e della cultura, anche per mettere in grado i laici di resistere all’attacco delle sette e dei gruppi esoterici. Li ho voluti confermare con affetto nell’esercizio della carità e nella difesa dei diritti dei poveri.
Ripenso poi alla solenne celebrazione dei Vespri che si è tenuta a Yaoundé, nella chiesa di Maria Regina degli Apostoli, Patrona del Camerun, un tempio grande e moderno, che sorge nel luogo in cui operarono i primi evangelizzatori del Camerun, i Missionari Spiritani. Nella vigilia della solennità di san Giuseppe, alla cui custodia premurosa Dio ha affidato i suoi tesori più preziosi, Maria e Gesù, abbiamo reso gloria all’unico Padre che è nei cieli, insieme ai rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali. Contemplando la figura spirituale di san Giuseppe, che ha consacrato la sua esistenza a Cristo e alla Vergine Maria, ho invitato i sacerdoti, le persone consacrate e i membri dei movimenti ecclesiali a restare sempre fedeli alla loro vocazione, vivendo alla presenza di Dio e nell’obbedienza gioiosa alla sua Parola.
Nella Nunziatura Apostolica di Yaoundé ho avuto l’opportunità di incontrare anche i rappresentanti della comunità musulmana in Camerun, ribadendo l’importanza del dialogo inter-religioso e della collaborazione tra cristiani e musulmani per aiutare il mondo ad aprirsi a Dio. E’ stato un incontro veramente molto cordiale.
Sicuramente uno dei momenti culminanti del viaggio è stata la consegna dell’Instrumentum laboris della II Assemblea sinodale per l’Africa, avvenuta il 19 marzo – giorno di San Giuseppe e mio onomastico - nello stadio di Yaoundé, al termine della solenne Celebrazione eucaristica in onore di san Giuseppe. Ciò è avvenuto nella coralità del popolo di Dio, "tra canti di gioia e di lode di una moltitudine in festa" – come dice il Salmo (42,5), del quale abbiamo fatto una concreta esperienza. L’Assemblea sinodale si svolgerà a Roma, ma essa è in un certo senso già iniziata nel cuore del continente africano, nel cuore della famiglia cristiana che là vive, soffre e spera. Per questo mi è parsa felice la coincidenza della pubblicazione dello "Strumento di lavoro" con la festa di san Giuseppe, modello di fede e di speranza come il primo patriarca Abramo. La fede nel "Dio vicino", che in Gesù ci ha mostrato il suo volto d’amore, è la garanzia di una speranza affidabile, per l’Africa e per il mondo intero, garanzia di un futuro di riconciliazione, di giustizia e di pace.
Dopo la solenne assemblea liturgica e la festosa presentazione del Documento di lavoro, nella Nunziatura Apostolica di Yaoundé ho potuto intrattenermi con i Membri del Consiglio Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi e vivere con essi un momento di intensa comunione: abbiamo insieme riflettuto sulla storia dell’Africa in una prospettiva teologica e pastorale. Era quasi come una prima riunione del Sinodo stesso, in un dibattito fraterno tra i diversi episcopati e il Papa sulle prospettive del Sinodo della riconciliazione e della pace in Africa. Il cristianesimo, infatti, - e questo si poteva vedere - ha affondato fin dalle origini profonde radici nel suolo africano, come attestano i numerosi martiri e santi, pastori, dottori e catechisti fioriti dapprima nel nord e poi, in epoche successive, nel resto del continente: pensiamo a Cipriano, ad Agostino, alla madre Monica, ad Atanasio; e poi ai martiri dell’Uganda, a Giuseppina Bakhita e a tanti altri. Nella stagione attuale, che vede l’Africa impegnata a consolidare l’indipendenza politica e la costruzione delle identità nazionali in un contesto ormai globalizzato, la Chiesa accompagna gli africani richiamando il grande messaggio del Concilio Vaticano II, applicato mediante la prima e, ora, la seconda Assemblea sinodale speciale. In mezzo ai conflitti purtroppo numerosi e drammatici che ancora affliggono diverse regioni di quel continente, la Chiesa sa di dover essere segno e strumento di unità e di riconciliazione, perché tutta l’Africa possa costruire insieme un avvenire di giustizia, di solidarietà e di pace, attuando gli insegnamenti del Vangelo.
Un segno forte dell’azione umanizzante del messaggio di Cristo è senz’altro il Centro Cardinal Léger di Yaoundé, destinato alla riabilitazione delle persone portatrici di handicap. Ne fu fondatore il Cardinale canadese Paul Émil Léger, che là volle ritirarsi dopo il Concilio, nel 1968, per lavorare tra i poveri. In quel Centro, successivamente ceduto allo Stato, ho incontrato numerosi fratelli e sorelle che versano in situazioni di sofferenza, condividendo con loro – ma anche attingendo da loro – la speranza che proviene dalla fede, anche in situazioni di sofferenza.
Seconda tappa – e seconda parte del mio viaggio – è stata l’Angola, Paese anch’esso per certi aspetti emblematico: uscito infatti da una lunga guerra interna, è ora impegnato nell’opera di riconciliazione e di ricostruzione nazionale. Ma come potrebbero essere autentiche questa riconciliazione e questa ricostruzione se avvenissero a scapito dei più poveri, che hanno diritto come tutti a partecipare alle risorse della loro terra? Ecco perché, con questa mia visita, il cui primo obiettivo è stato ovviamente di confermare nella fede la Chiesa, ho inteso anche incoraggiare il processo sociale in atto. In Angola si tocca veramente con mano quanto più volte i miei venerati Predecessori hanno ripetuto: tutto è perduto con la guerra, tutto può rinascere con la pace. Ma per ricostruire una nazione ci vogliono grandi energie morali. E qui, ancora una volta, risulta importante il ruolo della Chiesa, chiamata a svolgere una funzione educativa, lavorando in profondità per rinnovare e formare le coscienze.
Il Patrono della città di Luanda, capitale dell’Angola, è san Paolo: per questo ho scelto di celebrare l’Eucaristia con i sacerdoti, i seminaristi, i religiosi, i catechisti e gli altri operatori pastorali, sabato 21 marzo, nella chiesa dedicata all’Apostolo. Ancora una volta l’esperienza personale di san Paolo ci ha parlato dell’incontro con Cristo Risorto, capace di trasformare le persone e la società. Cambiano i contesti storici – e bisogna tenerne conto –, ma Cristo resta la vera forza di rinnovamento radicale dell’uomo e della comunità umana. Perciò ritornare a Dio, convertirsi a Cristo significa andare avanti, verso la pienezza della vita.
Per esprimere la vicinanza della Chiesa agli sforzi di ricostruzione dell’Angola e di tante regioni africane, a Luanda ho voluto dedicare due incontri speciali rispettivamente ai giovani e alle donne. Con i giovani, nello stadio, è stata una festa di gioia e di speranza, rattristata purtroppo dalla morte di due ragazze, rimaste schiacciate nella calca dell’ingresso. L’Africa è un continente molto giovane, ma troppi suoi figli, bambini e adolescenti hanno già subito gravi ferite, che solo Gesù Cristo, il Crocifisso-Risorto, può sanare infondendo in loro, con il suo Spirito, la forza di amare e di impegnarsi per la giustizia e la pace. Alle donne, poi, ho reso omaggio per il servizio che tante di loro offrono alla fede, alla dignità umana, alla vita, alla famiglia. Ho ribadito il loro pieno diritto ad impegnarsi nella vita pubblica, tuttavia senza che venga mortificato il loro ruolo nella famiglia, missione questa fondamentale da svolgere sempre in responsabile condivisione con tutti gli altri elementi della società e soprattutto con i mariti e padri. Ecco dunque il messaggio che ho lasciato alle nuove generazioni e al mondo femminile, estendendolo poi a tutti nella grande assemblea eucaristica di domenica 22 marzo, concelebrata con i Vescovi dei Paesi dell’Africa Australe, con la partecipazione di un milione di fedeli. Se i popoli africani – ho detto loro –, come l’antico Israele, fondano la loro speranza sulla Parola di Dio, ricchi del loro patrimonio religioso e culturale, possono realmente costruire un futuro di riconciliazione e di stabile pacificazione per tutti.
Cari fratelli e sorelle, quante altre considerazioni ho nel cuore e quanti ricordi mi riaffiorano alla mente pensando a questo viaggio! Vi chiedo di ringraziare il Signore per le meraviglie che Egli ha compiuto e che continua a compiere in Africa grazie all’azione generosa dei missionari, dei religiosi e delle religiose, dei volontari, dei sacerdoti, dei catechisti, in giovani comunità piene di entusiasmo e di fede. Vi domando pure di pregare per le popolazioni africane, a me molto care, perché possano affrontare con coraggio le grandi sfide sociali, economiche e spirituali del momento presente. Tutto e tutti affidiamo alla materna intercessione di Maria Santissima, Regina dell’Africa, e dei Santi e Beati africani.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli di Genova che, guidati dal loro Arcivescovo, il Cardinale Angelo Bagnasco, sono venuti a ricambiare la mia visita alla loro Comunità diocesana. Saluto i pellegrini delle Diocesi di Carpi, con il loro Pastore Mons. Elio Tinti, di Isernia-Venafro, accompagnati dal Vescovo Mons. Salvatore Visco, e i fedeli della parrocchia Sant’Anna in Nettuno, con il Vescovo di Albano, Mons. Marcello Semeraro. Saluto il pellegrinaggio delle Suore Calasanziane in occasione della chiusura dell’anno dedicato alla fondatrice la Beata Celestina Donati. Ringrazio tutti per la gradita presenza, ed assicuro la mia preghiera affinché si rafforzi in ciascuno il desiderio di testimoniare con ardore missionario Cristo e il suo Vangelo.
Rivolgo ora un pensiero speciale ai rappresentanti della "Fondazione Don Primo Mazzolari" di Bozzolo, guidati dal Vescovo di Mantova, Mons. Roberto Busti. Cari amici, il cinquantesimo anniversario della morte di don Mazzolari sia occasione opportuna per riscoprirne l’eredità spirituale e promuovere la riflessione sull’attualità del pensiero di un così significativo protagonista del cattolicesimo italiano del Novecento. Auspico che il suo profilo sacerdotale limpido di alta umanità e di filiale fedeltà al messaggio cristiano e alla Chiesa, possa contribuire a una fervorosa celebrazione dell’Anno Sacerdotale, che avrà inizio il 19 giugno prossimo.
Saluto infine i giovani, i malati, gli sposi novelli. Nell'imminenza della Settimana Santa, in cui ripercorreremo i momenti della passione, morte e risurrezione di Cristo, desidero invitarvi a compiere una pausa di intimo raccoglimento, per contemplare questo sommo Mistero, da cui scaturisce la nostra salvezza. Troverete in esso, cari giovani, la sorgente della gioia e voi, cari ammalati, la consolazione sentendo a voi vicino il volto sofferente del Salvatore. A voi, cari sposi novelli, auguro di andare avanti con fiducia nella strada comune appena intrapresa, sostenuti dalla gioia di Cristo crocifisso e risorto.
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Proposta a Firenze la cittadinanza onoraria per suor Rosangela - La religiosa che ha accudito per molti anni Eluana Englaro - di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 1° aprile 2009 (ZENIT.org).-Proprio nel giorno in cui il Comune di Firenze ha assegnato la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro per come ha condotto la vicenda della figlia Eluana morta per disidratazione il 9 febbraio scorso, Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita, ha chiesto di attribuire l’onorificenza a suor Rosangela, che ha accudito la ragazza per molti anni.
Martedì 30 marzo la Giunta che governa la città di Firenze ha assegnato la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro.
La cerimonia è stata al centro di proteste e polemiche con l’opposizione che ha lasciato l’aula per protesta, sostenendo che l’onorificenza “non ha altra spiegazione se non forse quella di voler apportare con un atto simbolico il proprio irresponsabile contributo alla campagna di legittimazione dell’eutanasia”.
Il Presidente del Movimento per la Vita, che è fiorentino, è intervenuto nella vicenda chiedendo che “il Comune di Firenze attribuisca la cittadinanza onoraria a suor Rosangela che per anni è stata accanto a Eluana e che insieme alle sue consorelle aveva chiesto di poterla continuare ad assistere amorevolmente senza chiedere niente in cambio se non il silenzio”.
“Non ignoro il dolore che avvolge la vicenda di Eluana e non intendo condannare nessuno, - ha precisato Casini - ma un tenace accanimento giudiziario il cui esito è la morte di una persona cara, non può essere proposto come modello ai molti che assistono persone sofferenti, morenti o portatrici di handicap”.
La tragica fine di Eluana Englaro solleva ancora una infinità di domande: è stato un affare privato o una vicenda che riguarda tutti? E' stato il trionfo dell’autodeterminazione del paziente e del rifiuto dell’accanimento terapeutico? E i giudici: si sono limitati ad applicare la Costituzione e le leggi o hanno pronunciato una ingiusta condanna a morte?
Per trovare una risposta a queste e altre domande, Giacomo Rocchi, Giudice Penale presso il Tribunale di Firenze, ha scritto il libro “Il caso Englaro, le domande che bruciano” (Edizioni Studio Domenicano, 124 pagine, 9,50 Euro).
Secondo il giudice Rocchi, Eluana “non ha mai chiesto di essere uccisa, nemmeno quando si è rappresentata lo stato di incoscienza in cui avrebbe potuto cadere”.
La stessa Corte di Cassazione, nella sentenza dell’ottobre 2007, parla di “volontà presunta, non accertata ed attuale; volontà desunta anche se non esplicita, quindi volontà non accertata”.
Il libro di Rocchi solleva dubbi sulla istruttoria tenuta dalla Corte d'Appello di Milano svolta senza contraddittorio, senza che nessun difensore di Eluana potesse controesaminare i testimoni o indicare testi che riferissero circostanze diverse
Secondo il Giudice di Firenze “la Corte smentisce se stessa”, perchè nel 2006 aveva sostenuto che non si poteva “evincere una volontà sicura di Eluana contraria alle prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita”.
Rocchi critica la Corte che “indica come fonte principale di conoscenza la testimonianza dello stesso tutore che chiede la morte dell’incapace” e che “inizia ad argomentare in modo confuso e inconcludente sul carattere indipendente, amante della vita e deciso della ragazza”.
L’autore del libro precisa che anche la testimonianza sulle parole dette da Eluana di fronte all’amico caduto in coma a seguito di un incidente - “era meglio che fosse morto piuttosto che rimanere immobile in un ospedale in balìa di altri attaccato ad un tubo, per cui era meglio morire” - non permettono affatto di affermare che la giovane voleva essere uccisa nel caso ciò fosse capitato a lei.
Eluana aveva pronunciato quelle frasi senza alcuna consapevolezza che sarebbero state utilizzate contro di lei in un procedimento giudiziario, la ragazza non sapeva che i medici che l’avrebbero curata avrebbero considerato quelle frasi come vincolanti e che quella frase sarebbe stata interpretata come una condanna a morte nei suoi confronti.
“Giustamente – ha sottolineato Rocchi – è stato detto che, dopo la sentenza della Cassazione, dobbiamo stare tutti attenti a quello che diciamo, in qualsiasi occasione e parlando con qualsiasi persona”.
In conclusione il giudice di Firenze sostiene che “non è stata Eluana, ma il padre a decidere la sua morte; e infatti la Corte d’Appello di Milano ritiene necessario e sufficiente accertare che la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore rifletta gli orientamenti di vita della figlia”.
Scambio di lettere fra Benedetto XVI e il primo ministro del Regno Unito, Gordon Brown, alla vigilia del g20 - Fiducia nell'uomo per uscire dalla crisi – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
A Sua Eccellenza
l'On. Gordon Brown,
Primo Ministro del Regno Unito
Signor Primo Ministro, Nella Sua recente visita in Vaticano, Ella ha voluto cortesemente informarmi sul Vertice delle 20 economie più grandi del mondo, che si terrà a Londra nei giorni 2-3 aprile 2009, allo scopo di coordinare con urgenza le misure necessarie per stabilizzare i mercati finanziari e consentire alle aziende e alle famiglie di superare il presente periodo di grave recessione, per rilanciare una crescita sostenibile dell'economia mondiale e per riformare e rafforzare sostanzialmente i sistemi di governabilità globale affinché tale crisi non si ripeta nel futuro. Vorrei ora, con questa mia lettera, manifestare a Lei e ai Capi di Stato e ai Capi di Governo che parteciperanno al Vertice il ringraziamento della Chiesa Cattolica, così come il mio apprezzamento personale, per gli alti obiettivi che l'incontro si propone e che si fondano sulla convinzione, condivisa da tutti i Governi e gli Organismi internazionali partecipanti, che l'uscita dall'attuale crisi globale solo si può realizzare insieme, evitando soluzioni improntate all'egoismo nazionalistico e al protezionismo.
Scrivo questo messaggio di ritorno dall'Africa, dove ho potuto toccare con mano sia la realtà di una povertà bruciante e di una esclusione cronica, che la crisi rischia di aggravare drammaticamente, sia le straordinarie risorse umane di cui quel Continente gode e che può mettere a disposizione dell'intero pianeta. Il Vertice di Londra, così come il Vertice di Washington che lo precedette nel 2008, per motivi pratici di urgenza si è limitato a convocare gli Stati che rappresentano il 90 per cento del Pil e l'80 per cento del commercio mondiale. In questo contesto, l'Africa subsahariana è presente con un unico Stato e qualche Organismo regionale. Tale situazione deve indurre i partecipanti al Vertice a una profonda riflessione, perché appunto coloro la cui voce ha meno forza nello scenario politico sono quelli che soffrono di più i danni di una crisi di cui non portano la responsabilità. Essi poi, a lungo termine, sono quelli che hanno più potenzialità per contribuire al progresso di tutti. Occorre pertanto fare ricorso ai meccanismi e agli strumenti multilaterali esistenti nel complesso delle Nazioni Unite e delle agenzie ad esse collegate, affinché sia ascoltata la voce di tutti i Paesi del mondo e affinché le misure e i provvedimenti decisi negli incontri del G20 siano condivisi da tutti. Allo stesso tempo, vorrei aggiungere un altro motivo di riflessione per il Vertice. Le crisi finanziarie scattano nel momento in cui, anche a causa del venir meno di un corretto comportamento etico, manca la fiducia degli agenti economici negli strumenti e nei sistemi finanziari. Tuttavia, la finanza, il commercio e i sistemi di produzione sono creazioni umane contingenti che, quando diventano oggetto di fiducia cieca, portano in sé stesse la radice del loro fallimento. L'unico fondamento vero e solido è la fiducia nell'uomo. Perciò tutte le misure proposte per arginare la crisi devono cercare, in ultima analisi, di offrire sicurezza alle famiglie e stabilità ai lavoratori e di ripristinare, tramite opportune regole e controlli, l'etica nelle finanze. La crisi attuale ha sollevato lo spettro della cancellazione o della drastica riduzione dei piani di aiuto estero, specialmente per l'Africa e per gli altri Paesi meno sviluppati. L'aiuto allo sviluppo, comprese le condizioni commerciali e finanziarie favorevoli ai Paesi meno sviluppati e la remissione del debito estero dei Paesi più poveri e più indebitati, non è stata la causa della crisi e, per un motivo di giustizia fondamentale, non deve esserne la vittima. Se un elemento centrale della crisi attuale è da riscontrare in un deficit di etica nelle strutture economiche, questa stessa crisi ci insegna che l'etica non è "fuori" dall'economia, ma "dentro" e che l'economia non funziona se non porta in sé l'elemento etico. Perciò, la rinnovata fiducia nell'uomo, che deve informare ogni passo verso la soluzione della crisi, troverà la sua migliore concretizzazione nel coraggioso e generoso potenziamento di una cooperazione internazionale capace di promuovere un reale sviluppo umano ed integrale. La fattiva fiducia nell'uomo, soprattutto la fiducia negli uomini e nelle donne più povere - dell'Africa e di altre regioni del mondo colpite dalla povertà estrema - sarà la prova che veramente si vuole uscire dalla crisi senza esclusioni e in modo permanente e che si vuole evitare decisamente il ripetersi di situazioni simili a quelle che oggi ci tocca vivere.
Vorrei inoltre unire la mia voce a quella degli appartenenti a diverse religioni e culture che condividono la convinzione che l'eliminazione della povertà estrema entro il 2015, a cui si sono impegnati i Governanti nel Vertice Onu del Millennio, continua ad essere uno dei compiti più importanti del nostro tempo. Implorando la benedizione di Dio per il Vertice di Londra e per tutti gli incontri multilaterali che, in questi tempi, cercano di trovare elementi per la soluzione della crisi finanziaria, colgo l'occasione per esprimerLe di nuovo, Onorevole Signor Primo Ministro, la mia stima e porgerLe un deferente e cordiale saluto.
Dal Vaticano, 30 marzo 2009
BENEDICTUS PP.XVI
(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2009)
Nell'anniversario della morte di Giovanni Paolo II - Il cammino mistico della Chiesa di Roma - di Andrzej Koprowski - Gesuita, direttore dei Programmi della Radio vaticana – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
Nella primavera del 1957 il cappellano degli universitari di Cracovia, don Karol Wojtyla, insieme con il vescovo di Wroclaw, Boleslaw Kominek, organizzò un incontro di studenti universitari provenienti da tutta la Polonia. Era la prima volta in un Paese del socialismo reale, dove per anni non era stato possibile uscire dall'ambito parrocchiale. Il tema era il ruolo dei laici nella Chiesa e, in estate, per un gruppo più ristretto furono organizzati degli esercizi spirituali. Ricordo questo come un fatto molto significativo: si rifletteva sul ruolo dei laici, ma sulla base di una profonda formazione spirituale.
Quindici anni più tardi, nel 1972, si tenne il sinodo diocesano di Cracovia, che oltrepassava i confini della diocesi per fare incontrare docenti universitari, studenti e operai, con l'obiettivo di assorbire contenuto e spirito del concilio, nella linea della Gaudium et spes - un testo del cuore per Wojtyla - secondo la quale vi è una dinamica tra Cristo redentore degli uomini, la Chiesa come lumen gentium e il mondo. Divenuto Papa, Wojtyla ha approfondito l'analisi della situazione sociale e culturale in America ed Europa, e questa lettura è passata nelle encicliche, come nella Sollicitudo rei socialis dove ha parlato di "strutture di peccato", che si radicano "nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere" (36). Con convinzione profonda, Giovanni Paolo II ha scritto che il secolo xxi, per la Chiesa, sarà segnato dalla sfida rappresentata dall'Africa e dall'Asia, intorno alla realtà salvifica di Cristo, per il bene del mondo. Come vescovo di Roma, Giovanni Paolo II ha cercato di portare Cristo dalla sua diocesi sino ai confini della terra. È stato un vero mistico, che ha saputo vedere non le folle, ma le singole persone. In questo, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, suo successore, sono due Pontefici simili. Negli incontri con loro, la gente si sentiva e si sente profondamente toccata da questo sguardo molto personale e molto profondo. Secondo il cardinale Roberto Tucci il primo viaggio di Giovanni Paolo II in Polonia fu cruciale per l'ambiente vaticano perché rappresentò l'occasione di conoscere le linee principali di tutto il pontificato. Ma per questo sono importanti anche le encicliche Redemptor hominis e Dives in misericordia, nelle quali traspare una visione integrale da realizzare in modo efficace, nel tempo, tenendo conto delle tappe necessarie alla loro attuazione. Durante il primo viaggio in Polonia, il Papa toccò i temi riguardanti i fondamenti della fede e quelli sociali e culturali che derivano dalla visione cristiana dell'uomo. I successivi viaggi nel Paese gli hanno offerto l'occasione di ritornare su questi temi, ma con accenti diversi, che riflettevano nuovi contesti e bisogni. Al centro delle sue riflessioni c'era sempre Cristo redentore. Appare significativo, quindi, il metodo a lunga scadenza di Giovanni Paolo II, con una visione precisa degli obiettivi e la coscienza del tempo necessario a far maturare la comunità cristiana.
Dall'inizio del pontificato, Giovanni Paolo II ha menzionato spesso la realtà della misericordia di Dio, dedicandole nel 1980 la Dives in misericordia, e accelerando la beatificazione e la canonizzazione di Faustyna Kowalska, legata al messaggio della misericordia divina, alla quale durante il viaggio in Polonia del 2002 il Papa ha affidato il mondo. Lo sguardo a lunga scadenza lo ha motivato ad appoggiare i movimenti cattolici. La sensibilità umana e pastorale ha portato, talvolta, frutti non previsti all'inizio. E la dinamica degli incontri con i giovani è sfociata nelle giornate mondiali della gioventù.
Come motto papale, Wojtyla scelse totus tuus, con il pieno affidamento a Maria che conduce a Cristo e una devozione profonda al Sacro Cuore di Gesù. Lo sguardo a lunga scadenza ha oltrepassato i limiti del pontificato, e proprio Benedetto XVI ha deciso di cominciare l'Anno sacerdotale il 19 giugno prossimo, solennità del Sacro Cuore di Gesù. L'anniversario della morte di Giovanni Paolo II è, quindi, un'occasione per riflettere su come lo Spirito Santo e Gesù di Nazaret, Cristo Salvatore, guidano la Chiesa. Talvolta, dopo gli incontri con i più stretti collaboratori sulle bozze dei documenti e sulle decisioni ufficiali, Giovanni Paolo II diceva a quanti gli erano più vicini: "Dobbiamo ritornare sul tema ancora una volta. Dall'espressione che aveva si capisce che il cardinale Ratzinger non è pienamente convinto. Dobbiamo riflettere ancora". Giovanni Paolo II ha guidato il cristianesimo nell'areopago sociale, culturale e politico puntando sui temi essenziali del messaggio cristiano. Benedetto XVI fa un passo avanti: verso l'approfondimento della fede in Gesù di Nazaret, verso il significato della Chiesa come comunità radicata nella vita di preghiera e sacramentale, verso la riflessione sugli effetti di uno stile di vita davvero cristiano nella promozione sociale, con una eccezionale sensibilità per la concretezza. In questo senso, è significativo quanto ha detto il Papa sulla prossima enciclica sociale: "Eravamo quasi arrivati a pubblicarla, quando si è scatenata questa crisi e abbiamo ripreso il testo per rispondere, più adeguatamente, nell'ambito delle nostre competenze, della dottrina sociale della Chiesa, ma con riferimento agli elementi reali della crisi attuale. Così spero che l'enciclica possa anche essere un elemento, una forza per superare la difficile situazione presente". Il grido che invocava "santo subito" dopo la morte di Giovanni Paolo II ha avuto un significato forte. Ma come viene ripetuto dai media è sbagliato: il riconoscimento ufficiale della santità dovrebbe infatti essere collegato a un processo di santificazione della Chiesa. Che è una comunità di fede e non una qualsiasi istituzione mondana. La Chiesa è la comunità in cammino dal cenacolo dell'Ultima cena e della Pentecoste sino alla fine dei tempi. Sino all'incontro con Dio.
(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2009)
Rosmini e le degenerazioni totalitarie - Un sogno di rinnovamento diventato un incubo - di Marco Testi – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
Quando Antonio Rosmini Serbati uscì dal silenzio dei suoi studi per dedicarsi alla politica attiva sollevò un vespaio di polemiche che, a dire il vero, non mancavano nella sua vita: in quello stesso periodo usciva infatti la sua opera di maggior impatto polemico, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, scritta tra il 1832 e il 1833 ma pubblicata solo nel 1848, un libro che Fogazzaro aveva ben presente allorché mise mano all'episodio del colloquio segreto tra Piero Maironi e il Pontefice nel Santo, a sua volta posto all'indice nel 1905. Altri scrittori erano stati affascinati da Rosmini, non ultimo Manzoni, che nel Dialogo dell'Invenzione si dichiarò seguace del suo pensiero, e non è un caso che uno dei più grandi poeti del Novecento italiano, Clemente Rebora, allorché abbandonò il secolo per farsi sacerdote, scelse proprio la congregazione dei Rosminiani. Le speranze sorte con l'intervento di Pio ix erano andate più in là dei meri fatti storici, culminati con la decisione pontificia di evitare la guerra contro la cattolica Austria, e avevano scavalcato il discrimine dei tempi perché alle loro stesse radici vi erano almeno tre secoli di occupazione straniera in una entità geografica in cui era maturata una coscienza unitaria. Rosmini dunque si era formato una sua idea dei rapporti tra Stato e Chiesa, e questa idea non cavalcava la tigre dei tempi, perché non guardava alle ideologie dominanti allora, ma cercava di trovare le radici politiche dell'impegno cristiano al di là delle visioni del mondo forti che in quella temperie storica si erano affacciate all'orizzonte ottocentesco: il socialismo e il comunismo. Rosmini guarda con attenzione a queste due facce del medesimo pensiero che si affermava di contro alle debolezze dei tradizionali partiti borghesi, alle loro incertezze sulle alleanze tattiche e strategiche da stringere e sugli obiettivi da raggiungere dopo il vertiginoso sviluppo economico che aveva portato una nuova classe sociale a delinearsi come soggetto storico e non più come mero elemento di sfruttamento. Proprio perché ormai il problema del proletariato e della sua configurazione politica si poneva con estrema urgenza all'interno delle coscienze più avvertite del tempo, Rosmini non può fare a meno di guardare alle linee essenziali che emergevano dentro il calderone ideologico della questione sociale, ma, come dicevamo prima, lo fa senza corteggiamenti e senza timori reverenziali verso quei pensatori che andavano formulando nuove teorie sul lavoro e sullo sfruttamento. È così che Rosmini pone mano a un saggio che sarà letto, per pressante invito del cardinale Giovanni Soglia, in una riunione dell'Accademia dei risorgenti a Osimo, di cui lo scrittore fu nominato membro. Siamo nel 1847, prima del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, prima della pubblicazione di una visione "scientifica" dei conflitti di classe, che si allontanava dalle romantiche e utopiche visioni di una società organizzata in modo o quasi militare o tesa a ricreare un paradiso sulla Terra. Un paradiso, come avverte Luigi Compagna, curatore di questa nuova edizione del Saggio sul comunismo e sul socialismo (Roma, Talete, 2008, pagine 54, euro 13,50), che finiva "per avvicinarsi ai peggiori inferni". A questa altezza cronologica Rosmini ha di fronte non l'analisi dei meccanismi economici e sociali del padre del comunismo, ma le utopie sociali di Owen, di Saint-Simon, di Fourier e di altri epigoni. Per Rosmini l'individuo è l'inizio e la fine dello Stato, non un semplice mezzo di riproduzione e conservazione di un organismo sovraindividuale. Inoltre il filosofo rivendica la primogenitura del cristianesimo sul socialismo e sul comunismo: come scrive Compagna nella sua introduzione, "la filantropia dei comunisti utopisti per Rosmini va fatta risalire al cristianesimo", vale a dire che non solo il cristianesimo viene prima ma che esso possiede in sé già i mezzi per realizzare l'incontro tra socialismo e liberalismo, e cioè tra effettiva necessità di aiutare nella loro emancipazione dalla miseria le masse sfruttate e rispetto per la dignità umana del singolo. Già il punto di partenza del beato Rosmini è un capolavoro di sagacia politica e insieme di realismo cristiano. Dopo aver esordito accennando alla bellezza del mondo come traccia del divino, l'autore rincara la dose: "E tuttavia nei progressi dell'umanità e della società, giunge un tempo, in cui alla vaghezza delle forme ciascuno brama vedere congiunta dall'arte l'utilità e la grandezza morale della materia". In poche parole, Rosmini riprende il grande discorso francescano della bellezza del creato e della sua provvidenzialità materiale, nel senso che la materia è creazione di Dio e quindi deve essere considerata e apprezzata, pur sempre all'interno di un discorso complessivo che non la separi dallo spirito e dalla bellezza. Lo riprende perché vuole togliere terreno sotto i piedi di quanti ritengono il pensiero cattolico arretrato, attaccato unicamente alla Scolastica, incapace di tenere il passo con i tempi. Insomma, Rosmini pone in anticipo la grande questione che diverrà uno dei nodi del modernismo: il rapporto del cristiano con il suo tempo. Rosmini sta dicendo che semmai è il comunismo utopico che deve porsi la questione del ritardo sui tempi, perché si è appropriato senza citarlo delle basi del cristianesimo. Le idee di Owen e Saint-Simon, scrive lo scrittore di Rovereto, "(non) sono un loro trovato: il cristianesimo le proclamò con efficacia: e un secreto lavoro di diciannove secoli le inserì nelle menti, le inscrisse nei cuori, le trasfuse nelle abitudini; col vantarsi autori di ciò che appresero nel Catechismo, gli utopisti incominciarono la riforma sociale dalla millanteria e dalla usurpazione".
Rosmini chiude agli utopisti non perché teme che questi possano entrare in concorrenza con il magistero della Chiesa e corrodere porzioni di consenso in campo ideologico e politico, bensì perché sente che quelle idee, una volta realizzate, diverrebbero esse stesse il male, in quanto la loro realizzazione significherebbe la creazione di immensi campi di concentramento, di caserme mascherate da opifici. È la mancanza del libero arbitrio in questi progetti di società che spaventa Rosmini, e lo spinge ad anticipare quello che in realtà accadrà cento anni dopo: il sogno di rinnovamento radicale diventerà il mostro che mangia i propri figli.
(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2009)
E se imparassimo dal Libano? - Roberto Fontolan - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Nella ricerca spasmodica di esempi moderni di convivenza tra culture e fedi diverse, in specie da quando i modelli “assimilazionista” della Francia e “comunitarista” della Gran Bretagna hanno mostrato crepe paurose, abbiamo completamente dimenticato il Libano. Il piccolo Paese mediterraneo annovera 18 confessioni religiose ufficialmente riconosciute: dodici cristiane, 5 musulmane e una microscopica comunità ebraica. Realtà multiconfessionale e multietnica (arabi e armeni), il Libano ha attuato un singolare sistema di partizione del potere, garantendo ad ogni cittadino non solo i diritti civili ma anche il rispetto dell’identità religiosa. Ciò grazie al Patto Nazionale che nel 1943, confermando la Costituzione risalente al 1926, venne firmato dai leader cristiani e dai leader musulmani. In virtù di quell’accordo la presidenza della Repubblica spetta ad un cristiano maronita, quella del Consiglio dei Ministri ad un musulmano sunnita, quella del Parlamento ad un musulmano sciita. Il Parlamento conta 120 membri, metà musulmani e metà cristiani. Nell’ambito delle due metà le confessioni ripartiscono i seggi in proporzione all’appartenenza ai diversi riti. Lo stesso criterio viene utilizzato per la composizione del Consiglio dei Ministri e per l’amministrazione pubblica delle cinque regioni. Il sistema è stato riconfermato, con qualche piccola variante, dagli accordi di Taif, raggiunti esattamente venti anni fa alla fine dell’interminabile guerra interna (in parte civile, in parte no) che ha sconvolto il Paese dal 1975. La Costituzione sancisce la libertà di coscienza e garantisce ad ogni culto riconosciuto la protezione del potere istituzionale. La legge stabilisce poi le materie di competenza delle comunità: la gestione dei beni religiosi, dei luoghi di culto, delle istituzioni educative e di beneficenza non governative e molte questioni attinenti la sfera personale, come il matrimonio, le adozioni, la tutela dei minori. Il matrimonio civile non esiste, ed esiste un ampio numero di leggi civili cui tutti i libanesi devono rispetto.
E’ evidente che si tratti di un assetto fragilissimo, e oltretutto basato su dati dell’ultimo censimento effettuato: nel 1932! Allora i cristiani costituivano quasi il 60% della popolazione e oggi si pensa che a stento raggiungano il 40%. Ma oggi nessun libanese desidera svelare una verità che distruggerebbe il filo sottile che lega quel che a noi appare come un bizzarro patchwork di liturgie, lingue, partiti e immagini religiose. Il fatto stupefacente è che il Libano è l’unico paese del mondo a maggioranza musulmana che riesce a combinare democrazia reale, piena parità confessionale e tutela dei diritti fondamentali individuali, e che non sono bastati ad annientarlo i continui tentativi interni ed esterni, ininterrottamente perseguiti fin dagli anni ’50. I libanesi (parte di loro) hanno sempre tenacemente difeso il loro esempio, e lo hanno sempre pazientemente ricostruito dalle macerie delle guerre e dalle imboscate dei terroristi. La pazienza dei cristiani e la consapevolezza dei musulmani sono stati i fondamentali mattoni di una costruzione sociale, lambiccata quanto si vuole, ma capace di garantire piena libertà per tutti. Molti considerano il Libano una specie di fossile istituzionale, e usano la parola “libanizzazione” per designare un fosco panorama di particolarismi e micropoteri in conflitto tra loro. E se invece il paradigma libanese fosse stato adottato (e adattato) per i nuovi assetti dell’Irak? E se si provasse in Bosnia e in Kossovo? Sono sicuro che se lo conoscessimo meglio anche noi europei potremmo trovarci qualcosa da imparare.
SOCIETÀ/ Chiosso: Giussani, Morin e McIntyre, l’educazione ancora possibile - INT. Giorgio Chiosso - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Nell’ottobre del 2007 l’Università degli Studi di Torino ospitò un convegno dal titolo Tre icone per l'educazione del futuro. Giussani, Morin, MacIntyre. All’evento partecipò un gran numero, oltre che di relatori, di spettatori attratti dall’accostamento di queste tre importanti figure di intellettuali, diverse per storia, ma accomunate dalla passione educativa. A poco più di un anno da allora la casa editrice SEI ha pubblicato la raccolta degli atti del convegno, curata dal professor Giorgio Chiosso, in un volume intitolato Sperare nell’uomo. Abbiamo dunque chiesto a lui sia di presentarci l’opera in questione sia di offrirci il proprio punto di vista sull’attuale situazione educativa nella società contemporanea.
Professor Chiosso, il convegno e, conseguentemente, il volume di cui parliamo ha ospitato relatori per lo più estranei allo studio pedagogico ed educativo. Per quale motivo?
Fondamentalmente perché la convinzione dei promotori del convegno, e mia personale, è che il problema dell’educazione sia un problema che coinvolge più competenze, sollecita più responsabilità e comunque sia oggetto di interesse culturale anche da parte di chi professionalmente non svolge attività educativa. Il libro è il risultato di questa convergente serie di contributi dove appunto trova posto l’opinione di sociologi come per esempio Luciano Gallino, Sergio Manghi o Guglielmo Malizia, filosofi come Enrico Berti, Massimo Mori e Costantino Esposito, economisti e giuristi come Lorenzo Caselli e Mario Dogliani, oltre a un certo numero, ovviamente, anche di studiosi di pedagogia come Roberto Sani, Anna Marina Mariani, Carla Xodo e altri.
Come mai la scelta è stata quella di incentrare l’evento e il volume proprio su queste tre figure?
È sembrato giusto, anziché affrontare il tema dell’educazione nei suoi connotati generali, concentrarci su tre protagonisti dell’educazione contemporanea e anche su tre figure che non sono immediatamente riconducibili alla cultura pedagogica educativa come normalmente la si intende. Abbiamo infatti un sacerdote che si è rapportato con i giovani ed ha maturato una sensibilità pedagogica acutissima facendo del tema educativo quasi uno degli assi portanti della sua spiritualità, un filosofo-sociologo che si confronta con il problema delle trasformazioni del mondo e della società globale e su quali rapporti esistano tra questa “società-mondo” e i nuovi processi di apprendimento e, infine, un filosofo “comunitarista” come McIntyre che invece pone al centro dell’esperienza umana la partecipazione ad un’avventura collettiva dentro una comunità sociale. Ci sono quindi parsi tre approcci oggettivamente differenti ma uniti e formanti un fronte comune nei confronti dell’individualismo esasperato del nostro tempo.
Qual è, a suo avviso, il contributo pedagogico più rilevante che diede mons. Luigi Giussani al di là del proprio ambiente, ovvero in ambito scientifico e accademico?
Io penso che i meriti di Giussani da un punto di vista generale e culturale siano principalmente due. Il primo consiste in questo suo insistito richiamo alla libertà dell’uomo e all’educazione di tale libertà. Educazione perché la libertà non si traduca in un evento per così dire “anarchico”, ma sia sempre accompagnata dal principio della responsabilità. Da questo punto di vista la sua idea di “rischio” è, secondo me, davvero produttiva, ricca. In una società che non ha più punti di riferimento, che è pluralista sotto tutti i punti di vista, la libertà per Giussani si associa sempre ad un rischio, ad un’avventura e a un incontro con una realtà, quella dell’educatore, che si configura estremamente complessa e assume i toni di una vera e propria “sfida”. L’educazione viene concepita come una sfida per far crescere la libertà dell’altro. E questo è un grande insegnamento in primo luogo per gli adulti, perché raccolgano questa sfida, e anche per i giovani perché non la sprechino.
Quindi è un insegnamento bilaterale?
Certo, perché educa sia chi lo riceve sia chi lo esercita.
Il secondo elemento è l’idea del maestro. In un contesto che tende a negare i principi di autorità e autorevolezza, che immagina che l’individuo si possa formare da sé, Giussani ci dice che l’individuo si fa sempre insieme ad un altro, grazie all’incontro con un altro. E l’altro contiene sempre un portato significativo, non viene concepito come “quello che ti fa la predica”, ma colui che racconta e traduce un’esperienza. Tale principio Giussani lo riprende da Romano Guardini rilanciandolo però con originalità e forza.
A questi due elementi si aggiunge il principio che l’educazione si deve radicare ad una tradizione. Un altro pericolo del mondo d’oggi è che il relativismo dissolva la tradizione, svuotandola di senso. Giussani fa risorgere la tradizione proprio in quanto la pone a piedistallo dei due elementi che ho sopra indicato: educazione alla libertà e figura del maestro.
Visto gli appunti che lei fa alla società attuale viene da chiederle un commento al titolo del volume che raccoglie questi contributi. “Sperare nell’uomo” ha un suono strano in un mondo che dà sempre maggior spazio al dominio della tecnica, anche sull’uomo stesso, e relega la persona al ruolo di componente di un meccanismo più vasto. Che speranza si può riporre dunque nell’uomo?
Il titolo in un certo senso ha l’ambizione di unire in tre parole il senso complessivo del convegno e del libro. Perché questi tre personaggi, diversi per collocazione culturale, per formazione e per luoghi di attività, a noi è sembrato che avessero, ripeto, un elemento in comune. Questo è la centralità dell’uomo. Per tutti e tre questi pensatori il futuro positivo del mondo e dell’educazione indissolubilmente legato alla capacità dell’uomo di non essere e rappresentare soltanto uno strumento usato per fini economici e concepito in termini esclusivamente biologici, ma come un’esperienza che dà senso alle cose.
Per Giussani l’uomo è l’esperienza che dà senso alla realtà, per Edgar Morin lo dà alla società e per Alasdair McIntyre al vivere in una comunità.
Come commenta il IX Forum del Progetto Culturale organizzato dalla Cei e dedicato all’emergenza educativa?
Quanto più si attivano energie in favore dell’educazione, è questa coglie particolarmente l’invito di Sua Santità Benedetto XVI a cercare di risolvere il problema educativo, tanto più facilmente e velocemente si potrà sperare in un’inversione di tendenza. Oggi il problema educativo è un’emergenza assai sentita perché, nel momento in cui si assiste a una totale relativizzazione dei valori, si avverte anche il rischio che l’autentica educazione sfumi e che predomini l’idea di un’autoformazione da parte degli esseri umani. Il processo educativo si realizza solo insieme alla presenza e agli sforzi della famiglia, della scuola, della comunità e via dicendo, insomma mediante una logica di più interventi.
Si può dire "mediante una compagnia dotata di uno sguardo autenticamente umano"?
L’educazione è in primo luogo un “fatto umano” e non può essere ridotta né ad addestramento, il che accade laddove prevale la logica della tecnica e la convinzione che se uno ha imparato delle competenze è automaticamente educato, né a una logica che renda l’individuo totalmente autarchico
L’aiuto di questi tre grandi intellettuali di alto profilo è forse in primo luogo questo. Per tutta la loro vita hanno dimostrato quanto la realtà già di suo ha sempre reso evidente, ma che sembra sempre più dimenticato, ossia che l’educazione è il prodotto di persone che interagiscono in un rapporto.
GIOVANNI PAOLO II/ Quel testimone che ha saputo parlare ad ogni uomo
Mons. Massimo Camisasca
giovedì 2 aprile 2009
Sono passati soltanto quattro anni dalla scomparsa di Giovanni Paolo II. Eppure è già possibile una impressione più distaccata, consapevole, del peso che il suo lungo pontificato ha avuto nella storia della Chiesa. Un pontificato che, per estensione, ha coperto un numero di anni secondo soltanto a quello di Pio IX. Iniziato negli anni del terrorismo italiano, è terminato dopo la fine della guerra fredda, nell’epoca delle guerre americane contro il terrorismo internazionale. Un lunghissimo periodo anche per la storia della Chiesa: ancora segnata dalle profonde difficoltà del post-Concilio, è stata percorsa in lungo e il largo da Giovanni Paolo II attraverso le sue centinaia e centinaia di viaggi, per portare ad ogni continente, ad ogni popolo, la certezza di una fede che sembrava smarrita, coniugata con la difesa dei diritti degli uomini e dei popoli. Un’impresa titanica che appare in tutta la sua visibilità nell’immenso numero di pagine del magistero di Giovanni Paolo II, nella quantità di argomenti trattati, nel numero di discorsi pronunciati.
Dietro a tutto questo non stava una macchina, ma un uomo vero. Un uomo certamente dotato di doni particolari: la conoscenza delle lingue che lo rendeva capace di parlare direttamente ad ogni uditorio, l’abilità oratoria che aveva ereditato dalla sua antica esperienza di attore, la finezza nell’uso della parola che l’aveva reso poeta, l’attitudine filosofica di penetrare gli strati più profondi della vita dell’uomo. Ma il centro di tutto questo era l’incontro con Cristo, venuto a lui dalla tradizione della sua famiglia e del suo popolo. Una signoria, quella di Cristo, avvertita da Karol Wojtyla come fonte di gioia e di sicurezza, di pienezza umana, fonte perciò di coraggio, di proposta, e anche di provocazione.
Ma Cristo era per Giovanni Paolo II soprattutto una persona incontrata e viva, un “tu” con cui dialogare, il Dio fatto uomo che lo aveva chiamato a non avere più niente per sé, e a donare tutto se stesso per farlo conoscere agli altri uomini.
Giovanni Paolo II era un uomo positivo e coraggioso. Veniva da lontano, come lui stesso disse appena dopo la sua elezione, e desiderava che questo lontano diventasse vicino, voleva far sì che iniziasse un nuovo rapporto fra l’oriente e l’occidente dell’Europa. Amava dire che l’Europa avrebbe dovuto tornare a respirare a due polmoni. Con questa intenzione scrisse molte encicliche e documenti, e fu anche disposto a ridiscutere l’esercizio storico del ministero petrino. Purtroppo non riuscì ad andare fino a Mosca, forse perché le comuni origini slave, anziché facilitarlo, resero più arduo l’ascolto reciproco.
Voleva che ogni punto della Chiesa si sentisse centro e non periferia. Per questo ha viaggiato così tanto, forse più di ogni uomo mai apparso sulla terra. Resistette fino a quando le condizioni fisiche lo permisero.
Ogni sua apparizione sullo schermo costituiva un grande evento. La sua capacità di colpire era al servizio della testimonianza. Parlava alle folle, ma sembrava sempre parlare ai singoli. Come quando, a tavola con don Giussani, in Vaticano o a Castel Gandolfo, lo vedevo rivolgere domande, curioso di sapere, attento ad ascoltare, per captare ogni nuovo evento, ogni nuova parola che potesse giovare alla sua comprensione dell’uomo e alla sua missione.
LEGGE 40/ Morresi (CNB): la decisione della Corte? Apparentemente inspiegabile - INT. Assuntina Morresi - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale sulla legge 40, che regola la procreazione medicalmente assistita in Italia, ilsussidiario.net ha intervistato Assuntina Morresi, docente di Chimica Fisica all’Università di Perugia, componente del Comitato Nazionale di Bioetica e consulente su queste tematiche al Ministero del Welfare.
Innanzitutto, cosa cambia della legge 40 dopo questa sentenza?
Nella pratica concreta, a quanto pare, poco. La Corte Costituzionale ha abolito nell’art.14, al comma 2, la frase "ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre", eliminando il limite dei tre embrioni.
Sempre all’articolo 14, al comma successivo, la Corte ha aggiunto che il trasferimento di embrioni deve essere effettuato senza pregiudizio per la salute della donna.
Quindi la norma da oggi in vigore dice con queste tecniche non si devono creare embrioni in numero superiore a quello strettamente necessario, ma non si dà un limite numerico, e poiché si mantiene il divieto al congelamento, alla soppressione degli embrioni, alla loro selezione eugenetica, ed anche al loro uso per ricerca, mi chiedo: un medico che domani crea tre embrioni, con queste nuove norme, che farà, visto che non ne può congelare o sopprimere nessuno? Li dovrà trasferire tutti e tre, esattamente come prima.
Vorrebbe dire che non cambia niente?
Voglio dire semplicemente che se si creano embrioni in più rispetto a quelli che si vogliono trasferire in utero, non si sa poi che farsene, visto che la legge permette solo di trasferirli in utero. Quale sarebbe allora il vantaggio di produrne di più rispetto a quel numero massimo di tre che valeva fino ad oggi? Se il medico crea quattro embrioni, che ne fa? Non può congelarli, non può sopprimerli. Li trasferisce tutti?
E allora?
Allora bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza, e poi probabilmente ci sarà bisogno di nuove linee guida, per chiarire effettivamente quali siano adesso le procedure permesse, e quali le pratiche da seguire.
Le associazioni radicali che da sempre contrastano la legge cantano vittoria e dicono che in questo modo saranno i medici a decidere il numero di embrioni da creare, in base alle condizioni di salute e di età della donna.
Ma questo era possibile anche prima. Non c’era l’obbligo di produrre e impiantare tre embrioni. Quello era il numero massimo. Se ne potevano trasferire in utero due o uno, come oramai indicano tutti gli esperti (in Belgio vengono dati incentivi economici a chi accetta di trasferire un solo embrione). E intanto si potevano congelare gli ovociti, per fecondarli successivamente.
Fermo restando il fatto che rimane confermato il divieto di congelare embrioni, vorrei comunque ricordare che l’efficacia delle tecniche di fecondazione assistita crolla quando si ha a che fare con embrioni congelati, rispetto a quelli freschi. Si parla di una differenza di otto-dieci punti percentuale, maggiore per i freschi. Con embrioni freschi le tecniche sono più efficaci.
Ma chi critica la legge dice che questo limite di tre embrioni costringe le donne a sottoporsi a più stimolazioni ovariche, per produrre sempre nuovi embrioni, e questa è una procedura pericolosa.
Chi critica le legge non vuole guardare i risultati dell’applicazione della 40. In questi tre anni nel nostro paese, proprio grazie alla legge 40, sono crollate le complicazioni da stimolazioni ovariche: sono lo 0.5%, mentre in Europa la media è dell’ 1.2%. Come si potrà mantenere questo ottimo risultato se si aumenteranno le stimolazioni ovariche per produrre più ovociti? Io vedo innanzitutto questo pericolo dopo l’intervento della Corte Costituzionale.
Ma in Italia abbiamo troppe gravidanze trigemine, proprio per questo limite di tre embrioni.
I parti trigemini in Italia sono stabili al 2.7%. Ma come è spiegato nella relazione sulla legge 40 che abbiamo presentato al parlamento venerdì scorso, questo numero è una media fra 0 e 13.3%: cioè ci sono centri che hanno zero parti trigemini, e centri che ne hanno il 13.3%. Centri che lavorano ottimamente, con medie inferiori rispetto a quella europea, e centri con risultati estremamente critici, superiori al 10%! Se la percentuale di trigemini dipendesse dalla legge, la media sarebbe su dati più omogenei, con una forbice minore. Evidentemente c’è una grande disomogeneità nella qualità dei centri.
E per quello che riguarda il paragone con l’Europa, è bene ricordare che in molti stati ci sono poche trigemine ma molte riduzioni embrionarie, cioè aborti selettivi in caso di gravidanze plurigemellari. In Spagna, ad esempio, di fronte a 25 parti trigemini (che corrispondono ad una percentuale dell’1%) sono stati dichiarati 107 interventi di riduzioni embrionarie. In Italia queste riduzioni sono vietate (e la Corte Costituzionale ha confermato il divieto). Dati analoghi si hanno per Francia e Gran Bretagna. Quale sarebbe la percentuale di trigemini senza questi aborti selettivi?
Insomma, vorrebbe dire che la legge 40 funziona?
Che qualcuno mi dimostri il contrario. Nella relazione per il Parlamento (consultabile nel sito del Ministero) i dati ci sono tutti, chiari: dal 2005 al 2007 considerando tutte le tecniche, sono aumentate le coppie (da 43024 a 55437), i cicli di trattamento (da 63.585 a 75.280), i bambini nati (da 4940 a 9137). Le gravidanze (per trasferimento di embrione) dal 2006 al 2007 sono aumentate dal 24.5 al 25.5%, nonostante l’elevata età media delle donne che si sottopongono a questi trattamenti: il 25% dei cicli sono su donne con più di 40 anni, quando crolla la possibilità di avere figli anche per chi non ha problemi di sterilità.
Ma allora perché si dice che legge non funziona?
Bisognerebbe chiederlo a chi dice questo. E bisognerebbe chiedere su quali dati si basa. L’impressione è di un forte pregiudizio ideologico, di chi non ha mai accettato l’esito di un voto parlamentare e il risultato di un referendum. Basta pensare che solo Avvenire, Il Foglio e Il Messaggero hanno pubblicato i risultati della relazione al Parlamento. Tutti gli altri giornali non ne hanno dato neppure notizia, in Italia chi non legge quei due quotidiani non sa neppure che è stata presentata la relazione per il Parlamento. In compenso Repubblica ha parlato di turismo procreativo.
Ma tante coppie italiane vanno all’estero proprio per i divieti in vigore nel nostro paese...
Sa qual è il maggior flusso di turismo procreativo al mondo? Quello fra Stati Uniti ed India. Tantissimi americani vanno a fare fecondazione in vitro in India, e non certo per chissà quali divieti. Negli Usa, come in India, si fa di tutto. Ma in India costa meno.
Certo, se continuiamo a dire che in Italia la legge non funziona, non ci dobbiamo lamentare se poi le coppie italiane vanno all’estero.
LA CORTE SI LIMITA A «CORREGGERE» - MA SI MANTIENE L’IMPIANTO DELLA LEGGE - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 2 aprile 2009
U na lacerazione, non uno squarcio. È indiscutibile che da ieri nella legge 40 si sia aperta una ferita, ma non si tratta affatto di una lesione mortale. La sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcune parole dell’articolo 14 – piuttosto ermetica nella inevitabile brevità delle otto righe di dispositivo divulgate in serata – concede non poco a chi ha avversato la norma che regolamenta la fecondazione assistita in Italia ma lascia pressoché inalterata la griglia di garanzie per la salvaguardia dell’embrione che il legislatore aveva saggiamente predisposto in modo che si intrecciassero l’una all’altra. Insieme erano state pensate, insieme si potevano far cadere, come un castello di carte: ma la Corte, significativamente, non ha voluto farlo.
Varando la legge 40, cinque anni fa, il Parlamento mostrò infatti di aver chiaro un dato di fatto: l’embrione è vita umana, e come tale – Costituzione alla mano – va tutelato. La Consulta, che della Carta fondamentale è massima interprete, ha tenuto conto di quella ratio così trasparente da una lettura serena dei 18 articoli della legge. E ha lasciato intatti i paletti. Tutti tranne uno, nient’affatto secondario ma che da solo non fa collassare la struttura varata dalle aule parlamentari con un voto trasversale e largamente maggioritario, uscita senza conseguenze dal giudizio di quattro referendum abrogativi nel giugno 2005.
Dalla legge sparisce il limite massimo di tre embrioni realizzabili in provetta a ogni ciclo, così come viene meno l’obbligo del loro «unico e contemporaneo impianto ». In tutto cadono sotto le forbici dei giudici undici parole in coda al comma 2 dell’articolo 14. Un intervento senza dubbio preoccupante, perché ora è possibile produrre anche più di tre embrioni, come esigono i fautori della diagnosi preimpianto che puntavano a poter disporre nei propri laboratori di una gran quantità di vite umane in germoglio tra le quali scegliere quella desiderata. Ma degli embrioni creati e non impiantati che cosa si intende fare? In attesa delle motivazioni della sentenza, la domanda resta solo apparentemente senza risposta. La parte dello stesso comma lasciata indenne prescrive infatti che il numero di embrioni da formare sia «quello strettamente necessario». Non solo. La Corte ha esplicitamente salvato le parti della legge che vietano crioconservazione, soppressione ed eliminazione degli embrioni dopo l’impianto (la cosiddetta 'riduzione embrionaria di gravidanze plurime'). Ma ha anche lasciato al suo posto il fondamentale articolo 13, che continua a vietare senza mezzi termini «ogni forma di selezione a scopo eugenetico». E allora, la 'bocciatura' della legge 40 dov’è?
Ieri sera mentre ancora andava in scena il circo delle esternazioni ideologiche e acriticamente esultanti davanti a un verdetto che i giuristi più accorti stavano invece soppesando in tutti i suoi aspetti, iniziava ad affacciarsi la sensazione che il pronunciamento apra una fase di incertezza interpretativa. Ed è su questo fronte che occorrerà lavorare, per evitare che le parole della Corte vengano piegate da qualche operatore a vantaggio di applicazioni estensive non autorizzate dal contesto della norma.
Il quadro dei centri italiani dove si pratica la fecondazione artificiale lascia credere che questo genere di avventurieri – per quanto rumorosi – possa restare ai margini. La relazione annuale sulla legge consegnata solo pochi giorni fa dal ministero del Welfare alle Camere mostra infatti che le cliniche italiane per la maternità assistita hanno acquisito uno standard di serietà ed efficienza proprio lavorando dentro le regole della legge 40, un vertice di eccellenza che certo non vorranno giocarsi per andare dietro le semplificazioni politiche e ideologiche della sentenza di ieri. La scienza medica vuole agire nella legalità. E la legge 40, malgrado tutto, parla ancora molto chiaro.
Organi umani in vendita, la moderna schiavitù – Anche Singapore, dopo Iran e Arabia, approva la cessione di parti del corpo dietro compenso Gli stranieri potranno accedere al 'servizio' E le denunce restano isolate: saranno i poveri del mondo a 'donare' e i ricchi a 'ricevere' - Avvenire, 2 aprile 2009
INSINTESI
1Singapore ha approvato la vendita di organi tra viventi a scopo di trapianto.
2Si tratta di un altro passo verso la monetizzazione della vita, nella logica di mercato della domanda e dell’offerta.
di Giulia Galeotti
E così, dopo Iran e Arabia Saudita, è la volta di Singapore: da qualche giorno, anche nella Città-Stato asiatica la vendita di organi umani tra viventi è una pratica legale. La disciplina è oculata: chi cede un organo (così prevede la legge) ha diritto al rimborso delle cure mediche, ai mancati guadagni e al risarcimento del danno psicologico. Con un solo voto contrario, il gioco è fatto. È prevedibile, del resto, che Singapore diventi rapidamente la meta preferita dei ricchi malati di ogni parte del globo, che accorreranno come api sul miele.
Questa volta, infatti, l’accesso al 'servizio' non è limitato ai cittadini dello Stato. Porte aperte, quindi, anche agli acquirenti stranieri.
La scandalosa notizia, però, non ci ha realmente sorpresi. A fronte della turpe compravendita illegale di organi umani che va crescendo nel mondo (se fino a qualche anno fa Cina e India erano i centri principali di questa 'linea commerciale', ora l’offerta si è molto ampliata, coinvolgendo Filippine, Brasile, Sud Africa e diversi Paesi dell’Europa dell’Est), si stanno facendo sempre più pressanti le nobili richieste affinché tale mercato venga legalizzato.
Nell’opinione pubblica americana, ad esempio, si sta registrando un nuovo atteggiamento, non più critico verso tali comportamenti, che risultano sempre più accettati socialmente. Il cambiamento è sicuramente imputabile anche alle illustri voci che sostengono tale liberalizzazione, come quelle dell’economista Richard Posner e del premio Nobel Gary Backer.
Questo moderno favore verso l’acquisto di parti del corpo umano è, del resto, coerente con quell’atteggiamento generalizzato che in buona parte del mondo occidentale va sempre più monetizzando la vita. Se si abortisce perché v’è la crisi, se si comprano i figli in provetta (giacché non vengono, o v’è il rischio che vengano male), se difficilmente ormai riusciamo ad avvicinarci ad handicap e malattia prescindendo dal versante 'dei costi', v’è la seria possibilità che una sostanziale apertura alla compravendita di parti umane non rimanga confinata a pochi e lontani Paesi.
I fautori della legalizzazione del mercato degli organi argomentano che la autodeterminazione, principio sovrano della modernità, implica anche la libertà di 'donare'. Ciò, tra l’altro, in nome di una nozione radicale di proprietà, secondo cui ogni individuo proprietario di un bene ha il diritto di disporne come meglio crede, attraverso l’interazione con altri. Il tutto analogamente all’ottica di mercato per cui, a seguito di scambi volontari, le persone raggiungono una situazione finale migliore rispetto a quella iniziale. Smembrando i poveri a beneficio dei ricchi, cioè, non solo questi ultimi staranno meglio, ma anche i poveri si ritroveranno in finale un po’ meno poveri.
Dietro, v’è la più classica delle leggi di mercato: anche nello scambio di pezzi del corpo umano vige infatti la regola della domanda e dell’offerta, il cui disequilibrio sta crescendo oltre misura. Grazie ai progressi medici e tecnologici, e all’aumento dell’età media delle popolazioni ricche, la pratica dei trapianti si è molto diffusa, con ottimi risultati. Il dato preoccupante, però, è che l’offerta non ha subito un’adeguata impennata. Dal 2000, infatti, la domanda di organi è lievitata del 33%, a fronte di un aumento nella disponibilità del solo 3%. La domanda è cioè aumentata di ben 11 volte rispetto all’offerta.
La questione è indubbiamente molto più complessa di quanto non si voglia far credere. Resta ad esempio il fatto che nelle ipotesi di trapianto da vivente, la cessione di un organo, effettuata per amore e solidarietà, si combina inevitabilmente con la menomazione di chi la subisce. Allo stesso tempo, la relazione tra medico e cedente è delicata ed estranea alle coordinate deontologiche tradizionali: il medico compie un atto che, senza giustificazione terapeutica, danneggia inequivocabilmente il cedente.
Ovviamente, in pochi si pongono domande scomode, ad esempio se rientri tra i doveri degli ordinamenti incentivare scelte altruistiche. Come spesso accade invece, per risolvere il problema, si opta per la via più facile, più rapida e più 'conveniente'. Così, anche qui (assimilando reni ad abiti, creme o marmitte), v’è chi passa dal post hoc al propter hoc. Dato che il traffico illegale comunque esiste, non conoscendo confini né geografici né politici né culturali, dato che esso crea innumerevoli vittime negli angoli più poveri del mondo (e delle nostre città), e dato che comunque a noi, ricchi occidentali un po’ acciaccati, gli organi servono, ecco che la soluzione più ovvia finisce per essere quella di legalizzarne il traffico.
Con enorme soddisfazione di tutti, e buona pace delle nostre coscienze.
Ma davvero crediamo che il solo rimedio per affrontare questo spaventoso fenomeno sia la sua regolamentazione? Una delle più fiere oppositrici a tale soluzione è la battagliera Nancy Scheper-Hughes, che ricorda come a vendere siano le persone senza casa e in condizioni economiche disastrose, i rifugiati politici, gli ex soldati, i prigionieri, i soggetti con disturbi mentali (del resto, se le donne sono raramente le riceventi, spessissimo sono le donatrici).
a sua voce resta, però, isolata. In pochi manifestano la preoccupazione di non esporre i deboli a nuove forme di cannibalismo.
Ancora una volta, in nome della libertà e dell’autodeterminazione, parti delle nostre società mirano a reintrodurre – sia pure in forma moderna, e con la mediazione della scienza – la schiavitù tra gli esseri umani.
È la solita ipocrisia del non considerare le effettive condizioni in cui il singolo viene a trovarsi. Che senso hanno autodeterminazione e libertà quando la fame e la disperazione inducono un essere umano a privarsi di una parte di sé per dare da mangiare ai propri figli?
Che società è quella che sceglie di dare a tutto un prezzo di mercato?
Uno studio scientifico dimostra come stia affiorando in casi 'estremi' la tendenza ad asportare gli organi senza le dovute condizioni. Il rischio è che il 'mercato' metta in sordina il rispetto dell’integrità della persona - di Carlo Bellieni - Vita senza senso? Espiantiamo – Avvenire, 2 aprile 2009
Davvero la vita finisce quando ha 'perso significato', come affermano certi politici e massmedia? E cosa fare di questa vita che 'finisce' e ciononostante continua? Un’allarmante risposta indiretta viene dalla letteratura medica: un recente studio pubblicato sul New England Journal of Medicine (Nejm), spiega come stia entrando nell’uso per i trapianti l’asportazione di organi nei pazienti con gravissimi danni neurologici dopo il solo arresto cardiaco. «Nei protocolli per questo tipo di donazione di organi – spiega l’editoriale del Nejm – i pazienti che non sono in morte cerebrale ma su cui è in corso una sospensione dei trattamenti di supporto vitale, vengono monitorizzati per cogliere l’insorgenza di arresto cardiaco» e «sono dichiarati morti dopo 2-5 minuti dall’arresto cardiaco e gli organi vengono rimossi». Continua così l’editoriale: «Sebbene tutti concordino che molti pazienti possano essere ancora rianimati dopo 2-5 minuti di arresto cardiaco, i sostenitori di questi protocolli dicono che possono essere considerati morti perché è stata presa la decisione di non rianimarli». Per i neonati, avverte James Bernat, sempre sul Nejm, il periodo scenderebbe a 75 secondi. Addirittura, si scrive, esistono protocolli in cui una volta dichiarata la morte cardiaca, viene garantita l’ossigenazione artificiale solo agli organi addominali da trapiantare occludendo l’aorta che porterebbe sangue a cuore e cervello, cosicché non si infici la dichiarazione di morte.
D’altronde, lasciando passare del tempo dopo l’arresto cardiaco, gli organi iniziano a deteriorarsi ed essere inservibili per un trapianto e inoltre qui si parla di persone con danni cerebrali gravissimi; ciononostante, dei problemi etici sono presenti. «Molti obietteranno che non si dovrebbero togliere gli organi e provocare così la morte. Ma, si risponde, nelle moderne rianimazioni le decisioni etiche sono già la causa terminale di morte». E «sia che la morte avvenga come risultato di sospensione della ventilazione o di espianto di organi, la condizione perché sia etica è il consenso valido del paziente o del tutore. Col consenso non c’è danno o errore nel togliere gli organi prima della morte, sempre che si somministri anestesia. Con le giuste garanzie, per l’asportazione di organi non morirà nessuno che non sarebbe morto come risultato della sospensione delle cure vitali».
È bene rileggere con calma queste parole, per vedere dove arriva la distanza tra la realtà clinica e quella dettata dalle condizioni di un’etica 'utilitarista' oggi molto diffusa.
D’altronde, sul sito Practical Ethics dell’Università di Oxford, eminenti filosofi così descrivono la situazione-trapianti: «C’è un altro modo più radicale per aumentare la raccolta di organi.
Potremmo abbandonare il principio del donatore-morto. Potremmo per esempio permettere che gli organi vengano presi da persone che non sono in morte cerebrale, ma che hanno un danno cerebrale talmente grave che resteranno permanentemente incoscienti, come Terry Schiavo, che sarebbe stata lasciata comunque morire rimuovendo il trattamento medico». Ecco allora che arriviamo al nocciolo della questione: l’utilitarismo etico che ingaggia la lotta col rispetto dell’integrità della persona. E ritornano in ballo i casi di Terry Schiavo e simili, su cui non ci si attarda a domandare le prove di una morte cerebrale, che vengono considerati socialmente morti quando morti non sono ancora; il tutto, magari per il bene di terzi.
1) Benedetto XVI ripercorre il suo viaggio in Camerun e Angola - Durante l'Udienza generale del mercoledì
2) Proposta a Firenze la cittadinanza onoraria per suor Rosangela - La religiosa che ha accudito per molti anni Eluana Englaro - di Antonio Gaspari
3) Scambio di lettere fra Benedetto XVI e il primo ministro del Regno Unito, Gordon Brown, alla vigilia del g20 - Fiducia nell'uomo per uscire dalla crisi – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
4) Nell'anniversario della morte di Giovanni Paolo II - Il cammino mistico della Chiesa di Roma - di Andrzej Koprowski - Gesuita, direttore dei Programmi della Radio vaticana – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
5) Rosmini e le degenerazioni totalitarie - Un sogno di rinnovamento diventato un incubo - di Marco Testi – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
6) E se imparassimo dal Libano? - Roberto Fontolan - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
7) SOCIETÀ/ Chiosso: Giussani, Morin e McIntyre, l’educazione ancora possibile - INT. Giorgio Chiosso - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
8) LEGGE 40/ Morresi (CNB): la decisione della Corte? Apparentemente inspiegabile - INT. Assuntina Morresi - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
9) LA CORTE SI LIMITA A «CORREGGERE» - MA SI MANTIENE L’IMPIANTO DELLA LEGGE - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 2 aprile 2009
10) Organi umani in vendita, la moderna schiavitù – Anche Singapore, dopo Iran e Arabia, approva la cessione di parti del corpo dietro compenso Gli stranieri potranno accedere al 'servizio' E le denunce restano isolate: saranno i poveri del mondo a 'donare' e i ricchi a 'ricevere' - Avvenire, 2 aprile 2009
11) Uno studio scientifico dimostra come stia affiorando in casi 'estremi' la tendenza ad asportare gli organi senza le dovute condizioni. Il rischio è che il 'mercato' metta in sordina il rispetto dell’integrità della persona - di Carlo Bellieni - Vita senza senso? Espiantiamo – Avvenire, 2 aprile 2009
Benedetto XVI ripercorre il suo viaggio in Camerun e Angola - Durante l'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 1° aprile 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sul suo recente viaggio apostolico in Camerun e Angola.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Come ho preannunciato domenica scorsa all’Angelus, quest’oggi mi soffermo a parlare del recente viaggio apostolico in Africa, il primo del mio pontificato in quel continente. Esso si è limitato al Camerun e all’Angola, ma idealmente con la mia visita ho voluto abbracciare tutti i popoli africani e benedirli nel nome del Signore. Ho sperimentato la tradizionale calorosa accoglienza africana, che mi è stata riservata dappertutto, e colgo volentieri questa occasione per esprimere nuovamente la mia viva gratitudine agli Episcopati dei due Paesi, ai Capi di Stato, a tutte le Autorità e a quanti in vario modo si sono prodigati per la riuscita di questa mia visita pastorale.
Il mio soggiorno in terra africana è iniziato il 17 marzo a Yaoundé, capitale del Camerun, dove sono venuto a trovarmi immediatamente nel cuore dell’Africa, e non solo geograficamente. Questo Paese infatti riassume molte caratteristiche di quel grande continente, prima fra tutte la sua anima profondamente religiosa, che accomuna tutti i numerosissimi gruppi etnici che lo popolano. In Camerun, oltre un quarto degli abitanti sono cattolici, e convivono pacificamente con le altre comunità religiose. Per questo il mio amato predecessore Giovanni Paolo II, nel 1995, scelse proprio la capitale di questa nazione per promulgare l’Esortazione apostolica Ecclesia in Africa, dopo la prima Assemblea sinodale dedicata appunto al continente africano. Questa volta, il Papa vi è tornato per consegnare l’Instrumentum laboris della seconda Assemblea sinodale per l’Africa, in programma a Roma per il prossimo ottobre e che avrà per tema: "La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace: «Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13-14)".
Negli incontri che, a due giorni di distanza, ho avuto con gli Episcopati, rispettivamente del Camerun e dell’Angola e São Tomé e Príncipe, ho voluto – tanto più in questo Anno Paolino – richiamare l’urgenza dell’evangelizzazione, che compete in primo luogo proprio ai Vescovi, sottolineando la dimensione collegiale, fondata sulla comunione sacramentale. Li ho esortati ad essere sempre di esempio per i loro sacerdoti e per tutti i fedeli, e a seguire attentamente la formazione dei seminaristi, che grazie a Dio sono numerosi, e dei catechisti, che diventano sempre più necessari per la vita della Chiesa in Africa. Ho incoraggiato i Vescovi a promuovere la pastorale del matrimonio e della famiglia, della liturgia e della cultura, anche per mettere in grado i laici di resistere all’attacco delle sette e dei gruppi esoterici. Li ho voluti confermare con affetto nell’esercizio della carità e nella difesa dei diritti dei poveri.
Ripenso poi alla solenne celebrazione dei Vespri che si è tenuta a Yaoundé, nella chiesa di Maria Regina degli Apostoli, Patrona del Camerun, un tempio grande e moderno, che sorge nel luogo in cui operarono i primi evangelizzatori del Camerun, i Missionari Spiritani. Nella vigilia della solennità di san Giuseppe, alla cui custodia premurosa Dio ha affidato i suoi tesori più preziosi, Maria e Gesù, abbiamo reso gloria all’unico Padre che è nei cieli, insieme ai rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali. Contemplando la figura spirituale di san Giuseppe, che ha consacrato la sua esistenza a Cristo e alla Vergine Maria, ho invitato i sacerdoti, le persone consacrate e i membri dei movimenti ecclesiali a restare sempre fedeli alla loro vocazione, vivendo alla presenza di Dio e nell’obbedienza gioiosa alla sua Parola.
Nella Nunziatura Apostolica di Yaoundé ho avuto l’opportunità di incontrare anche i rappresentanti della comunità musulmana in Camerun, ribadendo l’importanza del dialogo inter-religioso e della collaborazione tra cristiani e musulmani per aiutare il mondo ad aprirsi a Dio. E’ stato un incontro veramente molto cordiale.
Sicuramente uno dei momenti culminanti del viaggio è stata la consegna dell’Instrumentum laboris della II Assemblea sinodale per l’Africa, avvenuta il 19 marzo – giorno di San Giuseppe e mio onomastico - nello stadio di Yaoundé, al termine della solenne Celebrazione eucaristica in onore di san Giuseppe. Ciò è avvenuto nella coralità del popolo di Dio, "tra canti di gioia e di lode di una moltitudine in festa" – come dice il Salmo (42,5), del quale abbiamo fatto una concreta esperienza. L’Assemblea sinodale si svolgerà a Roma, ma essa è in un certo senso già iniziata nel cuore del continente africano, nel cuore della famiglia cristiana che là vive, soffre e spera. Per questo mi è parsa felice la coincidenza della pubblicazione dello "Strumento di lavoro" con la festa di san Giuseppe, modello di fede e di speranza come il primo patriarca Abramo. La fede nel "Dio vicino", che in Gesù ci ha mostrato il suo volto d’amore, è la garanzia di una speranza affidabile, per l’Africa e per il mondo intero, garanzia di un futuro di riconciliazione, di giustizia e di pace.
Dopo la solenne assemblea liturgica e la festosa presentazione del Documento di lavoro, nella Nunziatura Apostolica di Yaoundé ho potuto intrattenermi con i Membri del Consiglio Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi e vivere con essi un momento di intensa comunione: abbiamo insieme riflettuto sulla storia dell’Africa in una prospettiva teologica e pastorale. Era quasi come una prima riunione del Sinodo stesso, in un dibattito fraterno tra i diversi episcopati e il Papa sulle prospettive del Sinodo della riconciliazione e della pace in Africa. Il cristianesimo, infatti, - e questo si poteva vedere - ha affondato fin dalle origini profonde radici nel suolo africano, come attestano i numerosi martiri e santi, pastori, dottori e catechisti fioriti dapprima nel nord e poi, in epoche successive, nel resto del continente: pensiamo a Cipriano, ad Agostino, alla madre Monica, ad Atanasio; e poi ai martiri dell’Uganda, a Giuseppina Bakhita e a tanti altri. Nella stagione attuale, che vede l’Africa impegnata a consolidare l’indipendenza politica e la costruzione delle identità nazionali in un contesto ormai globalizzato, la Chiesa accompagna gli africani richiamando il grande messaggio del Concilio Vaticano II, applicato mediante la prima e, ora, la seconda Assemblea sinodale speciale. In mezzo ai conflitti purtroppo numerosi e drammatici che ancora affliggono diverse regioni di quel continente, la Chiesa sa di dover essere segno e strumento di unità e di riconciliazione, perché tutta l’Africa possa costruire insieme un avvenire di giustizia, di solidarietà e di pace, attuando gli insegnamenti del Vangelo.
Un segno forte dell’azione umanizzante del messaggio di Cristo è senz’altro il Centro Cardinal Léger di Yaoundé, destinato alla riabilitazione delle persone portatrici di handicap. Ne fu fondatore il Cardinale canadese Paul Émil Léger, che là volle ritirarsi dopo il Concilio, nel 1968, per lavorare tra i poveri. In quel Centro, successivamente ceduto allo Stato, ho incontrato numerosi fratelli e sorelle che versano in situazioni di sofferenza, condividendo con loro – ma anche attingendo da loro – la speranza che proviene dalla fede, anche in situazioni di sofferenza.
Seconda tappa – e seconda parte del mio viaggio – è stata l’Angola, Paese anch’esso per certi aspetti emblematico: uscito infatti da una lunga guerra interna, è ora impegnato nell’opera di riconciliazione e di ricostruzione nazionale. Ma come potrebbero essere autentiche questa riconciliazione e questa ricostruzione se avvenissero a scapito dei più poveri, che hanno diritto come tutti a partecipare alle risorse della loro terra? Ecco perché, con questa mia visita, il cui primo obiettivo è stato ovviamente di confermare nella fede la Chiesa, ho inteso anche incoraggiare il processo sociale in atto. In Angola si tocca veramente con mano quanto più volte i miei venerati Predecessori hanno ripetuto: tutto è perduto con la guerra, tutto può rinascere con la pace. Ma per ricostruire una nazione ci vogliono grandi energie morali. E qui, ancora una volta, risulta importante il ruolo della Chiesa, chiamata a svolgere una funzione educativa, lavorando in profondità per rinnovare e formare le coscienze.
Il Patrono della città di Luanda, capitale dell’Angola, è san Paolo: per questo ho scelto di celebrare l’Eucaristia con i sacerdoti, i seminaristi, i religiosi, i catechisti e gli altri operatori pastorali, sabato 21 marzo, nella chiesa dedicata all’Apostolo. Ancora una volta l’esperienza personale di san Paolo ci ha parlato dell’incontro con Cristo Risorto, capace di trasformare le persone e la società. Cambiano i contesti storici – e bisogna tenerne conto –, ma Cristo resta la vera forza di rinnovamento radicale dell’uomo e della comunità umana. Perciò ritornare a Dio, convertirsi a Cristo significa andare avanti, verso la pienezza della vita.
Per esprimere la vicinanza della Chiesa agli sforzi di ricostruzione dell’Angola e di tante regioni africane, a Luanda ho voluto dedicare due incontri speciali rispettivamente ai giovani e alle donne. Con i giovani, nello stadio, è stata una festa di gioia e di speranza, rattristata purtroppo dalla morte di due ragazze, rimaste schiacciate nella calca dell’ingresso. L’Africa è un continente molto giovane, ma troppi suoi figli, bambini e adolescenti hanno già subito gravi ferite, che solo Gesù Cristo, il Crocifisso-Risorto, può sanare infondendo in loro, con il suo Spirito, la forza di amare e di impegnarsi per la giustizia e la pace. Alle donne, poi, ho reso omaggio per il servizio che tante di loro offrono alla fede, alla dignità umana, alla vita, alla famiglia. Ho ribadito il loro pieno diritto ad impegnarsi nella vita pubblica, tuttavia senza che venga mortificato il loro ruolo nella famiglia, missione questa fondamentale da svolgere sempre in responsabile condivisione con tutti gli altri elementi della società e soprattutto con i mariti e padri. Ecco dunque il messaggio che ho lasciato alle nuove generazioni e al mondo femminile, estendendolo poi a tutti nella grande assemblea eucaristica di domenica 22 marzo, concelebrata con i Vescovi dei Paesi dell’Africa Australe, con la partecipazione di un milione di fedeli. Se i popoli africani – ho detto loro –, come l’antico Israele, fondano la loro speranza sulla Parola di Dio, ricchi del loro patrimonio religioso e culturale, possono realmente costruire un futuro di riconciliazione e di stabile pacificazione per tutti.
Cari fratelli e sorelle, quante altre considerazioni ho nel cuore e quanti ricordi mi riaffiorano alla mente pensando a questo viaggio! Vi chiedo di ringraziare il Signore per le meraviglie che Egli ha compiuto e che continua a compiere in Africa grazie all’azione generosa dei missionari, dei religiosi e delle religiose, dei volontari, dei sacerdoti, dei catechisti, in giovani comunità piene di entusiasmo e di fede. Vi domando pure di pregare per le popolazioni africane, a me molto care, perché possano affrontare con coraggio le grandi sfide sociali, economiche e spirituali del momento presente. Tutto e tutti affidiamo alla materna intercessione di Maria Santissima, Regina dell’Africa, e dei Santi e Beati africani.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli di Genova che, guidati dal loro Arcivescovo, il Cardinale Angelo Bagnasco, sono venuti a ricambiare la mia visita alla loro Comunità diocesana. Saluto i pellegrini delle Diocesi di Carpi, con il loro Pastore Mons. Elio Tinti, di Isernia-Venafro, accompagnati dal Vescovo Mons. Salvatore Visco, e i fedeli della parrocchia Sant’Anna in Nettuno, con il Vescovo di Albano, Mons. Marcello Semeraro. Saluto il pellegrinaggio delle Suore Calasanziane in occasione della chiusura dell’anno dedicato alla fondatrice la Beata Celestina Donati. Ringrazio tutti per la gradita presenza, ed assicuro la mia preghiera affinché si rafforzi in ciascuno il desiderio di testimoniare con ardore missionario Cristo e il suo Vangelo.
Rivolgo ora un pensiero speciale ai rappresentanti della "Fondazione Don Primo Mazzolari" di Bozzolo, guidati dal Vescovo di Mantova, Mons. Roberto Busti. Cari amici, il cinquantesimo anniversario della morte di don Mazzolari sia occasione opportuna per riscoprirne l’eredità spirituale e promuovere la riflessione sull’attualità del pensiero di un così significativo protagonista del cattolicesimo italiano del Novecento. Auspico che il suo profilo sacerdotale limpido di alta umanità e di filiale fedeltà al messaggio cristiano e alla Chiesa, possa contribuire a una fervorosa celebrazione dell’Anno Sacerdotale, che avrà inizio il 19 giugno prossimo.
Saluto infine i giovani, i malati, gli sposi novelli. Nell'imminenza della Settimana Santa, in cui ripercorreremo i momenti della passione, morte e risurrezione di Cristo, desidero invitarvi a compiere una pausa di intimo raccoglimento, per contemplare questo sommo Mistero, da cui scaturisce la nostra salvezza. Troverete in esso, cari giovani, la sorgente della gioia e voi, cari ammalati, la consolazione sentendo a voi vicino il volto sofferente del Salvatore. A voi, cari sposi novelli, auguro di andare avanti con fiducia nella strada comune appena intrapresa, sostenuti dalla gioia di Cristo crocifisso e risorto.
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Proposta a Firenze la cittadinanza onoraria per suor Rosangela - La religiosa che ha accudito per molti anni Eluana Englaro - di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 1° aprile 2009 (ZENIT.org).-Proprio nel giorno in cui il Comune di Firenze ha assegnato la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro per come ha condotto la vicenda della figlia Eluana morta per disidratazione il 9 febbraio scorso, Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita, ha chiesto di attribuire l’onorificenza a suor Rosangela, che ha accudito la ragazza per molti anni.
Martedì 30 marzo la Giunta che governa la città di Firenze ha assegnato la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro.
La cerimonia è stata al centro di proteste e polemiche con l’opposizione che ha lasciato l’aula per protesta, sostenendo che l’onorificenza “non ha altra spiegazione se non forse quella di voler apportare con un atto simbolico il proprio irresponsabile contributo alla campagna di legittimazione dell’eutanasia”.
Il Presidente del Movimento per la Vita, che è fiorentino, è intervenuto nella vicenda chiedendo che “il Comune di Firenze attribuisca la cittadinanza onoraria a suor Rosangela che per anni è stata accanto a Eluana e che insieme alle sue consorelle aveva chiesto di poterla continuare ad assistere amorevolmente senza chiedere niente in cambio se non il silenzio”.
“Non ignoro il dolore che avvolge la vicenda di Eluana e non intendo condannare nessuno, - ha precisato Casini - ma un tenace accanimento giudiziario il cui esito è la morte di una persona cara, non può essere proposto come modello ai molti che assistono persone sofferenti, morenti o portatrici di handicap”.
La tragica fine di Eluana Englaro solleva ancora una infinità di domande: è stato un affare privato o una vicenda che riguarda tutti? E' stato il trionfo dell’autodeterminazione del paziente e del rifiuto dell’accanimento terapeutico? E i giudici: si sono limitati ad applicare la Costituzione e le leggi o hanno pronunciato una ingiusta condanna a morte?
Per trovare una risposta a queste e altre domande, Giacomo Rocchi, Giudice Penale presso il Tribunale di Firenze, ha scritto il libro “Il caso Englaro, le domande che bruciano” (Edizioni Studio Domenicano, 124 pagine, 9,50 Euro).
Secondo il giudice Rocchi, Eluana “non ha mai chiesto di essere uccisa, nemmeno quando si è rappresentata lo stato di incoscienza in cui avrebbe potuto cadere”.
La stessa Corte di Cassazione, nella sentenza dell’ottobre 2007, parla di “volontà presunta, non accertata ed attuale; volontà desunta anche se non esplicita, quindi volontà non accertata”.
Il libro di Rocchi solleva dubbi sulla istruttoria tenuta dalla Corte d'Appello di Milano svolta senza contraddittorio, senza che nessun difensore di Eluana potesse controesaminare i testimoni o indicare testi che riferissero circostanze diverse
Secondo il Giudice di Firenze “la Corte smentisce se stessa”, perchè nel 2006 aveva sostenuto che non si poteva “evincere una volontà sicura di Eluana contraria alle prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita”.
Rocchi critica la Corte che “indica come fonte principale di conoscenza la testimonianza dello stesso tutore che chiede la morte dell’incapace” e che “inizia ad argomentare in modo confuso e inconcludente sul carattere indipendente, amante della vita e deciso della ragazza”.
L’autore del libro precisa che anche la testimonianza sulle parole dette da Eluana di fronte all’amico caduto in coma a seguito di un incidente - “era meglio che fosse morto piuttosto che rimanere immobile in un ospedale in balìa di altri attaccato ad un tubo, per cui era meglio morire” - non permettono affatto di affermare che la giovane voleva essere uccisa nel caso ciò fosse capitato a lei.
Eluana aveva pronunciato quelle frasi senza alcuna consapevolezza che sarebbero state utilizzate contro di lei in un procedimento giudiziario, la ragazza non sapeva che i medici che l’avrebbero curata avrebbero considerato quelle frasi come vincolanti e che quella frase sarebbe stata interpretata come una condanna a morte nei suoi confronti.
“Giustamente – ha sottolineato Rocchi – è stato detto che, dopo la sentenza della Cassazione, dobbiamo stare tutti attenti a quello che diciamo, in qualsiasi occasione e parlando con qualsiasi persona”.
In conclusione il giudice di Firenze sostiene che “non è stata Eluana, ma il padre a decidere la sua morte; e infatti la Corte d’Appello di Milano ritiene necessario e sufficiente accertare che la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore rifletta gli orientamenti di vita della figlia”.
Scambio di lettere fra Benedetto XVI e il primo ministro del Regno Unito, Gordon Brown, alla vigilia del g20 - Fiducia nell'uomo per uscire dalla crisi – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
A Sua Eccellenza
l'On. Gordon Brown,
Primo Ministro del Regno Unito
Signor Primo Ministro, Nella Sua recente visita in Vaticano, Ella ha voluto cortesemente informarmi sul Vertice delle 20 economie più grandi del mondo, che si terrà a Londra nei giorni 2-3 aprile 2009, allo scopo di coordinare con urgenza le misure necessarie per stabilizzare i mercati finanziari e consentire alle aziende e alle famiglie di superare il presente periodo di grave recessione, per rilanciare una crescita sostenibile dell'economia mondiale e per riformare e rafforzare sostanzialmente i sistemi di governabilità globale affinché tale crisi non si ripeta nel futuro. Vorrei ora, con questa mia lettera, manifestare a Lei e ai Capi di Stato e ai Capi di Governo che parteciperanno al Vertice il ringraziamento della Chiesa Cattolica, così come il mio apprezzamento personale, per gli alti obiettivi che l'incontro si propone e che si fondano sulla convinzione, condivisa da tutti i Governi e gli Organismi internazionali partecipanti, che l'uscita dall'attuale crisi globale solo si può realizzare insieme, evitando soluzioni improntate all'egoismo nazionalistico e al protezionismo.
Scrivo questo messaggio di ritorno dall'Africa, dove ho potuto toccare con mano sia la realtà di una povertà bruciante e di una esclusione cronica, che la crisi rischia di aggravare drammaticamente, sia le straordinarie risorse umane di cui quel Continente gode e che può mettere a disposizione dell'intero pianeta. Il Vertice di Londra, così come il Vertice di Washington che lo precedette nel 2008, per motivi pratici di urgenza si è limitato a convocare gli Stati che rappresentano il 90 per cento del Pil e l'80 per cento del commercio mondiale. In questo contesto, l'Africa subsahariana è presente con un unico Stato e qualche Organismo regionale. Tale situazione deve indurre i partecipanti al Vertice a una profonda riflessione, perché appunto coloro la cui voce ha meno forza nello scenario politico sono quelli che soffrono di più i danni di una crisi di cui non portano la responsabilità. Essi poi, a lungo termine, sono quelli che hanno più potenzialità per contribuire al progresso di tutti. Occorre pertanto fare ricorso ai meccanismi e agli strumenti multilaterali esistenti nel complesso delle Nazioni Unite e delle agenzie ad esse collegate, affinché sia ascoltata la voce di tutti i Paesi del mondo e affinché le misure e i provvedimenti decisi negli incontri del G20 siano condivisi da tutti. Allo stesso tempo, vorrei aggiungere un altro motivo di riflessione per il Vertice. Le crisi finanziarie scattano nel momento in cui, anche a causa del venir meno di un corretto comportamento etico, manca la fiducia degli agenti economici negli strumenti e nei sistemi finanziari. Tuttavia, la finanza, il commercio e i sistemi di produzione sono creazioni umane contingenti che, quando diventano oggetto di fiducia cieca, portano in sé stesse la radice del loro fallimento. L'unico fondamento vero e solido è la fiducia nell'uomo. Perciò tutte le misure proposte per arginare la crisi devono cercare, in ultima analisi, di offrire sicurezza alle famiglie e stabilità ai lavoratori e di ripristinare, tramite opportune regole e controlli, l'etica nelle finanze. La crisi attuale ha sollevato lo spettro della cancellazione o della drastica riduzione dei piani di aiuto estero, specialmente per l'Africa e per gli altri Paesi meno sviluppati. L'aiuto allo sviluppo, comprese le condizioni commerciali e finanziarie favorevoli ai Paesi meno sviluppati e la remissione del debito estero dei Paesi più poveri e più indebitati, non è stata la causa della crisi e, per un motivo di giustizia fondamentale, non deve esserne la vittima. Se un elemento centrale della crisi attuale è da riscontrare in un deficit di etica nelle strutture economiche, questa stessa crisi ci insegna che l'etica non è "fuori" dall'economia, ma "dentro" e che l'economia non funziona se non porta in sé l'elemento etico. Perciò, la rinnovata fiducia nell'uomo, che deve informare ogni passo verso la soluzione della crisi, troverà la sua migliore concretizzazione nel coraggioso e generoso potenziamento di una cooperazione internazionale capace di promuovere un reale sviluppo umano ed integrale. La fattiva fiducia nell'uomo, soprattutto la fiducia negli uomini e nelle donne più povere - dell'Africa e di altre regioni del mondo colpite dalla povertà estrema - sarà la prova che veramente si vuole uscire dalla crisi senza esclusioni e in modo permanente e che si vuole evitare decisamente il ripetersi di situazioni simili a quelle che oggi ci tocca vivere.
Vorrei inoltre unire la mia voce a quella degli appartenenti a diverse religioni e culture che condividono la convinzione che l'eliminazione della povertà estrema entro il 2015, a cui si sono impegnati i Governanti nel Vertice Onu del Millennio, continua ad essere uno dei compiti più importanti del nostro tempo. Implorando la benedizione di Dio per il Vertice di Londra e per tutti gli incontri multilaterali che, in questi tempi, cercano di trovare elementi per la soluzione della crisi finanziaria, colgo l'occasione per esprimerLe di nuovo, Onorevole Signor Primo Ministro, la mia stima e porgerLe un deferente e cordiale saluto.
Dal Vaticano, 30 marzo 2009
BENEDICTUS PP.XVI
(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2009)
Nell'anniversario della morte di Giovanni Paolo II - Il cammino mistico della Chiesa di Roma - di Andrzej Koprowski - Gesuita, direttore dei Programmi della Radio vaticana – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
Nella primavera del 1957 il cappellano degli universitari di Cracovia, don Karol Wojtyla, insieme con il vescovo di Wroclaw, Boleslaw Kominek, organizzò un incontro di studenti universitari provenienti da tutta la Polonia. Era la prima volta in un Paese del socialismo reale, dove per anni non era stato possibile uscire dall'ambito parrocchiale. Il tema era il ruolo dei laici nella Chiesa e, in estate, per un gruppo più ristretto furono organizzati degli esercizi spirituali. Ricordo questo come un fatto molto significativo: si rifletteva sul ruolo dei laici, ma sulla base di una profonda formazione spirituale.
Quindici anni più tardi, nel 1972, si tenne il sinodo diocesano di Cracovia, che oltrepassava i confini della diocesi per fare incontrare docenti universitari, studenti e operai, con l'obiettivo di assorbire contenuto e spirito del concilio, nella linea della Gaudium et spes - un testo del cuore per Wojtyla - secondo la quale vi è una dinamica tra Cristo redentore degli uomini, la Chiesa come lumen gentium e il mondo. Divenuto Papa, Wojtyla ha approfondito l'analisi della situazione sociale e culturale in America ed Europa, e questa lettura è passata nelle encicliche, come nella Sollicitudo rei socialis dove ha parlato di "strutture di peccato", che si radicano "nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere" (36). Con convinzione profonda, Giovanni Paolo II ha scritto che il secolo xxi, per la Chiesa, sarà segnato dalla sfida rappresentata dall'Africa e dall'Asia, intorno alla realtà salvifica di Cristo, per il bene del mondo. Come vescovo di Roma, Giovanni Paolo II ha cercato di portare Cristo dalla sua diocesi sino ai confini della terra. È stato un vero mistico, che ha saputo vedere non le folle, ma le singole persone. In questo, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, suo successore, sono due Pontefici simili. Negli incontri con loro, la gente si sentiva e si sente profondamente toccata da questo sguardo molto personale e molto profondo. Secondo il cardinale Roberto Tucci il primo viaggio di Giovanni Paolo II in Polonia fu cruciale per l'ambiente vaticano perché rappresentò l'occasione di conoscere le linee principali di tutto il pontificato. Ma per questo sono importanti anche le encicliche Redemptor hominis e Dives in misericordia, nelle quali traspare una visione integrale da realizzare in modo efficace, nel tempo, tenendo conto delle tappe necessarie alla loro attuazione. Durante il primo viaggio in Polonia, il Papa toccò i temi riguardanti i fondamenti della fede e quelli sociali e culturali che derivano dalla visione cristiana dell'uomo. I successivi viaggi nel Paese gli hanno offerto l'occasione di ritornare su questi temi, ma con accenti diversi, che riflettevano nuovi contesti e bisogni. Al centro delle sue riflessioni c'era sempre Cristo redentore. Appare significativo, quindi, il metodo a lunga scadenza di Giovanni Paolo II, con una visione precisa degli obiettivi e la coscienza del tempo necessario a far maturare la comunità cristiana.
Dall'inizio del pontificato, Giovanni Paolo II ha menzionato spesso la realtà della misericordia di Dio, dedicandole nel 1980 la Dives in misericordia, e accelerando la beatificazione e la canonizzazione di Faustyna Kowalska, legata al messaggio della misericordia divina, alla quale durante il viaggio in Polonia del 2002 il Papa ha affidato il mondo. Lo sguardo a lunga scadenza lo ha motivato ad appoggiare i movimenti cattolici. La sensibilità umana e pastorale ha portato, talvolta, frutti non previsti all'inizio. E la dinamica degli incontri con i giovani è sfociata nelle giornate mondiali della gioventù.
Come motto papale, Wojtyla scelse totus tuus, con il pieno affidamento a Maria che conduce a Cristo e una devozione profonda al Sacro Cuore di Gesù. Lo sguardo a lunga scadenza ha oltrepassato i limiti del pontificato, e proprio Benedetto XVI ha deciso di cominciare l'Anno sacerdotale il 19 giugno prossimo, solennità del Sacro Cuore di Gesù. L'anniversario della morte di Giovanni Paolo II è, quindi, un'occasione per riflettere su come lo Spirito Santo e Gesù di Nazaret, Cristo Salvatore, guidano la Chiesa. Talvolta, dopo gli incontri con i più stretti collaboratori sulle bozze dei documenti e sulle decisioni ufficiali, Giovanni Paolo II diceva a quanti gli erano più vicini: "Dobbiamo ritornare sul tema ancora una volta. Dall'espressione che aveva si capisce che il cardinale Ratzinger non è pienamente convinto. Dobbiamo riflettere ancora". Giovanni Paolo II ha guidato il cristianesimo nell'areopago sociale, culturale e politico puntando sui temi essenziali del messaggio cristiano. Benedetto XVI fa un passo avanti: verso l'approfondimento della fede in Gesù di Nazaret, verso il significato della Chiesa come comunità radicata nella vita di preghiera e sacramentale, verso la riflessione sugli effetti di uno stile di vita davvero cristiano nella promozione sociale, con una eccezionale sensibilità per la concretezza. In questo senso, è significativo quanto ha detto il Papa sulla prossima enciclica sociale: "Eravamo quasi arrivati a pubblicarla, quando si è scatenata questa crisi e abbiamo ripreso il testo per rispondere, più adeguatamente, nell'ambito delle nostre competenze, della dottrina sociale della Chiesa, ma con riferimento agli elementi reali della crisi attuale. Così spero che l'enciclica possa anche essere un elemento, una forza per superare la difficile situazione presente". Il grido che invocava "santo subito" dopo la morte di Giovanni Paolo II ha avuto un significato forte. Ma come viene ripetuto dai media è sbagliato: il riconoscimento ufficiale della santità dovrebbe infatti essere collegato a un processo di santificazione della Chiesa. Che è una comunità di fede e non una qualsiasi istituzione mondana. La Chiesa è la comunità in cammino dal cenacolo dell'Ultima cena e della Pentecoste sino alla fine dei tempi. Sino all'incontro con Dio.
(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2009)
Rosmini e le degenerazioni totalitarie - Un sogno di rinnovamento diventato un incubo - di Marco Testi – L’Osservatore Romano, 2 aprile 2009
Quando Antonio Rosmini Serbati uscì dal silenzio dei suoi studi per dedicarsi alla politica attiva sollevò un vespaio di polemiche che, a dire il vero, non mancavano nella sua vita: in quello stesso periodo usciva infatti la sua opera di maggior impatto polemico, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, scritta tra il 1832 e il 1833 ma pubblicata solo nel 1848, un libro che Fogazzaro aveva ben presente allorché mise mano all'episodio del colloquio segreto tra Piero Maironi e il Pontefice nel Santo, a sua volta posto all'indice nel 1905. Altri scrittori erano stati affascinati da Rosmini, non ultimo Manzoni, che nel Dialogo dell'Invenzione si dichiarò seguace del suo pensiero, e non è un caso che uno dei più grandi poeti del Novecento italiano, Clemente Rebora, allorché abbandonò il secolo per farsi sacerdote, scelse proprio la congregazione dei Rosminiani. Le speranze sorte con l'intervento di Pio ix erano andate più in là dei meri fatti storici, culminati con la decisione pontificia di evitare la guerra contro la cattolica Austria, e avevano scavalcato il discrimine dei tempi perché alle loro stesse radici vi erano almeno tre secoli di occupazione straniera in una entità geografica in cui era maturata una coscienza unitaria. Rosmini dunque si era formato una sua idea dei rapporti tra Stato e Chiesa, e questa idea non cavalcava la tigre dei tempi, perché non guardava alle ideologie dominanti allora, ma cercava di trovare le radici politiche dell'impegno cristiano al di là delle visioni del mondo forti che in quella temperie storica si erano affacciate all'orizzonte ottocentesco: il socialismo e il comunismo. Rosmini guarda con attenzione a queste due facce del medesimo pensiero che si affermava di contro alle debolezze dei tradizionali partiti borghesi, alle loro incertezze sulle alleanze tattiche e strategiche da stringere e sugli obiettivi da raggiungere dopo il vertiginoso sviluppo economico che aveva portato una nuova classe sociale a delinearsi come soggetto storico e non più come mero elemento di sfruttamento. Proprio perché ormai il problema del proletariato e della sua configurazione politica si poneva con estrema urgenza all'interno delle coscienze più avvertite del tempo, Rosmini non può fare a meno di guardare alle linee essenziali che emergevano dentro il calderone ideologico della questione sociale, ma, come dicevamo prima, lo fa senza corteggiamenti e senza timori reverenziali verso quei pensatori che andavano formulando nuove teorie sul lavoro e sullo sfruttamento. È così che Rosmini pone mano a un saggio che sarà letto, per pressante invito del cardinale Giovanni Soglia, in una riunione dell'Accademia dei risorgenti a Osimo, di cui lo scrittore fu nominato membro. Siamo nel 1847, prima del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, prima della pubblicazione di una visione "scientifica" dei conflitti di classe, che si allontanava dalle romantiche e utopiche visioni di una società organizzata in modo o quasi militare o tesa a ricreare un paradiso sulla Terra. Un paradiso, come avverte Luigi Compagna, curatore di questa nuova edizione del Saggio sul comunismo e sul socialismo (Roma, Talete, 2008, pagine 54, euro 13,50), che finiva "per avvicinarsi ai peggiori inferni". A questa altezza cronologica Rosmini ha di fronte non l'analisi dei meccanismi economici e sociali del padre del comunismo, ma le utopie sociali di Owen, di Saint-Simon, di Fourier e di altri epigoni. Per Rosmini l'individuo è l'inizio e la fine dello Stato, non un semplice mezzo di riproduzione e conservazione di un organismo sovraindividuale. Inoltre il filosofo rivendica la primogenitura del cristianesimo sul socialismo e sul comunismo: come scrive Compagna nella sua introduzione, "la filantropia dei comunisti utopisti per Rosmini va fatta risalire al cristianesimo", vale a dire che non solo il cristianesimo viene prima ma che esso possiede in sé già i mezzi per realizzare l'incontro tra socialismo e liberalismo, e cioè tra effettiva necessità di aiutare nella loro emancipazione dalla miseria le masse sfruttate e rispetto per la dignità umana del singolo. Già il punto di partenza del beato Rosmini è un capolavoro di sagacia politica e insieme di realismo cristiano. Dopo aver esordito accennando alla bellezza del mondo come traccia del divino, l'autore rincara la dose: "E tuttavia nei progressi dell'umanità e della società, giunge un tempo, in cui alla vaghezza delle forme ciascuno brama vedere congiunta dall'arte l'utilità e la grandezza morale della materia". In poche parole, Rosmini riprende il grande discorso francescano della bellezza del creato e della sua provvidenzialità materiale, nel senso che la materia è creazione di Dio e quindi deve essere considerata e apprezzata, pur sempre all'interno di un discorso complessivo che non la separi dallo spirito e dalla bellezza. Lo riprende perché vuole togliere terreno sotto i piedi di quanti ritengono il pensiero cattolico arretrato, attaccato unicamente alla Scolastica, incapace di tenere il passo con i tempi. Insomma, Rosmini pone in anticipo la grande questione che diverrà uno dei nodi del modernismo: il rapporto del cristiano con il suo tempo. Rosmini sta dicendo che semmai è il comunismo utopico che deve porsi la questione del ritardo sui tempi, perché si è appropriato senza citarlo delle basi del cristianesimo. Le idee di Owen e Saint-Simon, scrive lo scrittore di Rovereto, "(non) sono un loro trovato: il cristianesimo le proclamò con efficacia: e un secreto lavoro di diciannove secoli le inserì nelle menti, le inscrisse nei cuori, le trasfuse nelle abitudini; col vantarsi autori di ciò che appresero nel Catechismo, gli utopisti incominciarono la riforma sociale dalla millanteria e dalla usurpazione".
Rosmini chiude agli utopisti non perché teme che questi possano entrare in concorrenza con il magistero della Chiesa e corrodere porzioni di consenso in campo ideologico e politico, bensì perché sente che quelle idee, una volta realizzate, diverrebbero esse stesse il male, in quanto la loro realizzazione significherebbe la creazione di immensi campi di concentramento, di caserme mascherate da opifici. È la mancanza del libero arbitrio in questi progetti di società che spaventa Rosmini, e lo spinge ad anticipare quello che in realtà accadrà cento anni dopo: il sogno di rinnovamento radicale diventerà il mostro che mangia i propri figli.
(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2009)
E se imparassimo dal Libano? - Roberto Fontolan - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Nella ricerca spasmodica di esempi moderni di convivenza tra culture e fedi diverse, in specie da quando i modelli “assimilazionista” della Francia e “comunitarista” della Gran Bretagna hanno mostrato crepe paurose, abbiamo completamente dimenticato il Libano. Il piccolo Paese mediterraneo annovera 18 confessioni religiose ufficialmente riconosciute: dodici cristiane, 5 musulmane e una microscopica comunità ebraica. Realtà multiconfessionale e multietnica (arabi e armeni), il Libano ha attuato un singolare sistema di partizione del potere, garantendo ad ogni cittadino non solo i diritti civili ma anche il rispetto dell’identità religiosa. Ciò grazie al Patto Nazionale che nel 1943, confermando la Costituzione risalente al 1926, venne firmato dai leader cristiani e dai leader musulmani. In virtù di quell’accordo la presidenza della Repubblica spetta ad un cristiano maronita, quella del Consiglio dei Ministri ad un musulmano sunnita, quella del Parlamento ad un musulmano sciita. Il Parlamento conta 120 membri, metà musulmani e metà cristiani. Nell’ambito delle due metà le confessioni ripartiscono i seggi in proporzione all’appartenenza ai diversi riti. Lo stesso criterio viene utilizzato per la composizione del Consiglio dei Ministri e per l’amministrazione pubblica delle cinque regioni. Il sistema è stato riconfermato, con qualche piccola variante, dagli accordi di Taif, raggiunti esattamente venti anni fa alla fine dell’interminabile guerra interna (in parte civile, in parte no) che ha sconvolto il Paese dal 1975. La Costituzione sancisce la libertà di coscienza e garantisce ad ogni culto riconosciuto la protezione del potere istituzionale. La legge stabilisce poi le materie di competenza delle comunità: la gestione dei beni religiosi, dei luoghi di culto, delle istituzioni educative e di beneficenza non governative e molte questioni attinenti la sfera personale, come il matrimonio, le adozioni, la tutela dei minori. Il matrimonio civile non esiste, ed esiste un ampio numero di leggi civili cui tutti i libanesi devono rispetto.
E’ evidente che si tratti di un assetto fragilissimo, e oltretutto basato su dati dell’ultimo censimento effettuato: nel 1932! Allora i cristiani costituivano quasi il 60% della popolazione e oggi si pensa che a stento raggiungano il 40%. Ma oggi nessun libanese desidera svelare una verità che distruggerebbe il filo sottile che lega quel che a noi appare come un bizzarro patchwork di liturgie, lingue, partiti e immagini religiose. Il fatto stupefacente è che il Libano è l’unico paese del mondo a maggioranza musulmana che riesce a combinare democrazia reale, piena parità confessionale e tutela dei diritti fondamentali individuali, e che non sono bastati ad annientarlo i continui tentativi interni ed esterni, ininterrottamente perseguiti fin dagli anni ’50. I libanesi (parte di loro) hanno sempre tenacemente difeso il loro esempio, e lo hanno sempre pazientemente ricostruito dalle macerie delle guerre e dalle imboscate dei terroristi. La pazienza dei cristiani e la consapevolezza dei musulmani sono stati i fondamentali mattoni di una costruzione sociale, lambiccata quanto si vuole, ma capace di garantire piena libertà per tutti. Molti considerano il Libano una specie di fossile istituzionale, e usano la parola “libanizzazione” per designare un fosco panorama di particolarismi e micropoteri in conflitto tra loro. E se invece il paradigma libanese fosse stato adottato (e adattato) per i nuovi assetti dell’Irak? E se si provasse in Bosnia e in Kossovo? Sono sicuro che se lo conoscessimo meglio anche noi europei potremmo trovarci qualcosa da imparare.
SOCIETÀ/ Chiosso: Giussani, Morin e McIntyre, l’educazione ancora possibile - INT. Giorgio Chiosso - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Nell’ottobre del 2007 l’Università degli Studi di Torino ospitò un convegno dal titolo Tre icone per l'educazione del futuro. Giussani, Morin, MacIntyre. All’evento partecipò un gran numero, oltre che di relatori, di spettatori attratti dall’accostamento di queste tre importanti figure di intellettuali, diverse per storia, ma accomunate dalla passione educativa. A poco più di un anno da allora la casa editrice SEI ha pubblicato la raccolta degli atti del convegno, curata dal professor Giorgio Chiosso, in un volume intitolato Sperare nell’uomo. Abbiamo dunque chiesto a lui sia di presentarci l’opera in questione sia di offrirci il proprio punto di vista sull’attuale situazione educativa nella società contemporanea.
Professor Chiosso, il convegno e, conseguentemente, il volume di cui parliamo ha ospitato relatori per lo più estranei allo studio pedagogico ed educativo. Per quale motivo?
Fondamentalmente perché la convinzione dei promotori del convegno, e mia personale, è che il problema dell’educazione sia un problema che coinvolge più competenze, sollecita più responsabilità e comunque sia oggetto di interesse culturale anche da parte di chi professionalmente non svolge attività educativa. Il libro è il risultato di questa convergente serie di contributi dove appunto trova posto l’opinione di sociologi come per esempio Luciano Gallino, Sergio Manghi o Guglielmo Malizia, filosofi come Enrico Berti, Massimo Mori e Costantino Esposito, economisti e giuristi come Lorenzo Caselli e Mario Dogliani, oltre a un certo numero, ovviamente, anche di studiosi di pedagogia come Roberto Sani, Anna Marina Mariani, Carla Xodo e altri.
Come mai la scelta è stata quella di incentrare l’evento e il volume proprio su queste tre figure?
È sembrato giusto, anziché affrontare il tema dell’educazione nei suoi connotati generali, concentrarci su tre protagonisti dell’educazione contemporanea e anche su tre figure che non sono immediatamente riconducibili alla cultura pedagogica educativa come normalmente la si intende. Abbiamo infatti un sacerdote che si è rapportato con i giovani ed ha maturato una sensibilità pedagogica acutissima facendo del tema educativo quasi uno degli assi portanti della sua spiritualità, un filosofo-sociologo che si confronta con il problema delle trasformazioni del mondo e della società globale e su quali rapporti esistano tra questa “società-mondo” e i nuovi processi di apprendimento e, infine, un filosofo “comunitarista” come McIntyre che invece pone al centro dell’esperienza umana la partecipazione ad un’avventura collettiva dentro una comunità sociale. Ci sono quindi parsi tre approcci oggettivamente differenti ma uniti e formanti un fronte comune nei confronti dell’individualismo esasperato del nostro tempo.
Qual è, a suo avviso, il contributo pedagogico più rilevante che diede mons. Luigi Giussani al di là del proprio ambiente, ovvero in ambito scientifico e accademico?
Io penso che i meriti di Giussani da un punto di vista generale e culturale siano principalmente due. Il primo consiste in questo suo insistito richiamo alla libertà dell’uomo e all’educazione di tale libertà. Educazione perché la libertà non si traduca in un evento per così dire “anarchico”, ma sia sempre accompagnata dal principio della responsabilità. Da questo punto di vista la sua idea di “rischio” è, secondo me, davvero produttiva, ricca. In una società che non ha più punti di riferimento, che è pluralista sotto tutti i punti di vista, la libertà per Giussani si associa sempre ad un rischio, ad un’avventura e a un incontro con una realtà, quella dell’educatore, che si configura estremamente complessa e assume i toni di una vera e propria “sfida”. L’educazione viene concepita come una sfida per far crescere la libertà dell’altro. E questo è un grande insegnamento in primo luogo per gli adulti, perché raccolgano questa sfida, e anche per i giovani perché non la sprechino.
Quindi è un insegnamento bilaterale?
Certo, perché educa sia chi lo riceve sia chi lo esercita.
Il secondo elemento è l’idea del maestro. In un contesto che tende a negare i principi di autorità e autorevolezza, che immagina che l’individuo si possa formare da sé, Giussani ci dice che l’individuo si fa sempre insieme ad un altro, grazie all’incontro con un altro. E l’altro contiene sempre un portato significativo, non viene concepito come “quello che ti fa la predica”, ma colui che racconta e traduce un’esperienza. Tale principio Giussani lo riprende da Romano Guardini rilanciandolo però con originalità e forza.
A questi due elementi si aggiunge il principio che l’educazione si deve radicare ad una tradizione. Un altro pericolo del mondo d’oggi è che il relativismo dissolva la tradizione, svuotandola di senso. Giussani fa risorgere la tradizione proprio in quanto la pone a piedistallo dei due elementi che ho sopra indicato: educazione alla libertà e figura del maestro.
Visto gli appunti che lei fa alla società attuale viene da chiederle un commento al titolo del volume che raccoglie questi contributi. “Sperare nell’uomo” ha un suono strano in un mondo che dà sempre maggior spazio al dominio della tecnica, anche sull’uomo stesso, e relega la persona al ruolo di componente di un meccanismo più vasto. Che speranza si può riporre dunque nell’uomo?
Il titolo in un certo senso ha l’ambizione di unire in tre parole il senso complessivo del convegno e del libro. Perché questi tre personaggi, diversi per collocazione culturale, per formazione e per luoghi di attività, a noi è sembrato che avessero, ripeto, un elemento in comune. Questo è la centralità dell’uomo. Per tutti e tre questi pensatori il futuro positivo del mondo e dell’educazione indissolubilmente legato alla capacità dell’uomo di non essere e rappresentare soltanto uno strumento usato per fini economici e concepito in termini esclusivamente biologici, ma come un’esperienza che dà senso alle cose.
Per Giussani l’uomo è l’esperienza che dà senso alla realtà, per Edgar Morin lo dà alla società e per Alasdair McIntyre al vivere in una comunità.
Come commenta il IX Forum del Progetto Culturale organizzato dalla Cei e dedicato all’emergenza educativa?
Quanto più si attivano energie in favore dell’educazione, è questa coglie particolarmente l’invito di Sua Santità Benedetto XVI a cercare di risolvere il problema educativo, tanto più facilmente e velocemente si potrà sperare in un’inversione di tendenza. Oggi il problema educativo è un’emergenza assai sentita perché, nel momento in cui si assiste a una totale relativizzazione dei valori, si avverte anche il rischio che l’autentica educazione sfumi e che predomini l’idea di un’autoformazione da parte degli esseri umani. Il processo educativo si realizza solo insieme alla presenza e agli sforzi della famiglia, della scuola, della comunità e via dicendo, insomma mediante una logica di più interventi.
Si può dire "mediante una compagnia dotata di uno sguardo autenticamente umano"?
L’educazione è in primo luogo un “fatto umano” e non può essere ridotta né ad addestramento, il che accade laddove prevale la logica della tecnica e la convinzione che se uno ha imparato delle competenze è automaticamente educato, né a una logica che renda l’individuo totalmente autarchico
L’aiuto di questi tre grandi intellettuali di alto profilo è forse in primo luogo questo. Per tutta la loro vita hanno dimostrato quanto la realtà già di suo ha sempre reso evidente, ma che sembra sempre più dimenticato, ossia che l’educazione è il prodotto di persone che interagiscono in un rapporto.
GIOVANNI PAOLO II/ Quel testimone che ha saputo parlare ad ogni uomo
Mons. Massimo Camisasca
giovedì 2 aprile 2009
Sono passati soltanto quattro anni dalla scomparsa di Giovanni Paolo II. Eppure è già possibile una impressione più distaccata, consapevole, del peso che il suo lungo pontificato ha avuto nella storia della Chiesa. Un pontificato che, per estensione, ha coperto un numero di anni secondo soltanto a quello di Pio IX. Iniziato negli anni del terrorismo italiano, è terminato dopo la fine della guerra fredda, nell’epoca delle guerre americane contro il terrorismo internazionale. Un lunghissimo periodo anche per la storia della Chiesa: ancora segnata dalle profonde difficoltà del post-Concilio, è stata percorsa in lungo e il largo da Giovanni Paolo II attraverso le sue centinaia e centinaia di viaggi, per portare ad ogni continente, ad ogni popolo, la certezza di una fede che sembrava smarrita, coniugata con la difesa dei diritti degli uomini e dei popoli. Un’impresa titanica che appare in tutta la sua visibilità nell’immenso numero di pagine del magistero di Giovanni Paolo II, nella quantità di argomenti trattati, nel numero di discorsi pronunciati.
Dietro a tutto questo non stava una macchina, ma un uomo vero. Un uomo certamente dotato di doni particolari: la conoscenza delle lingue che lo rendeva capace di parlare direttamente ad ogni uditorio, l’abilità oratoria che aveva ereditato dalla sua antica esperienza di attore, la finezza nell’uso della parola che l’aveva reso poeta, l’attitudine filosofica di penetrare gli strati più profondi della vita dell’uomo. Ma il centro di tutto questo era l’incontro con Cristo, venuto a lui dalla tradizione della sua famiglia e del suo popolo. Una signoria, quella di Cristo, avvertita da Karol Wojtyla come fonte di gioia e di sicurezza, di pienezza umana, fonte perciò di coraggio, di proposta, e anche di provocazione.
Ma Cristo era per Giovanni Paolo II soprattutto una persona incontrata e viva, un “tu” con cui dialogare, il Dio fatto uomo che lo aveva chiamato a non avere più niente per sé, e a donare tutto se stesso per farlo conoscere agli altri uomini.
Giovanni Paolo II era un uomo positivo e coraggioso. Veniva da lontano, come lui stesso disse appena dopo la sua elezione, e desiderava che questo lontano diventasse vicino, voleva far sì che iniziasse un nuovo rapporto fra l’oriente e l’occidente dell’Europa. Amava dire che l’Europa avrebbe dovuto tornare a respirare a due polmoni. Con questa intenzione scrisse molte encicliche e documenti, e fu anche disposto a ridiscutere l’esercizio storico del ministero petrino. Purtroppo non riuscì ad andare fino a Mosca, forse perché le comuni origini slave, anziché facilitarlo, resero più arduo l’ascolto reciproco.
Voleva che ogni punto della Chiesa si sentisse centro e non periferia. Per questo ha viaggiato così tanto, forse più di ogni uomo mai apparso sulla terra. Resistette fino a quando le condizioni fisiche lo permisero.
Ogni sua apparizione sullo schermo costituiva un grande evento. La sua capacità di colpire era al servizio della testimonianza. Parlava alle folle, ma sembrava sempre parlare ai singoli. Come quando, a tavola con don Giussani, in Vaticano o a Castel Gandolfo, lo vedevo rivolgere domande, curioso di sapere, attento ad ascoltare, per captare ogni nuovo evento, ogni nuova parola che potesse giovare alla sua comprensione dell’uomo e alla sua missione.
LEGGE 40/ Morresi (CNB): la decisione della Corte? Apparentemente inspiegabile - INT. Assuntina Morresi - giovedì 2 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale sulla legge 40, che regola la procreazione medicalmente assistita in Italia, ilsussidiario.net ha intervistato Assuntina Morresi, docente di Chimica Fisica all’Università di Perugia, componente del Comitato Nazionale di Bioetica e consulente su queste tematiche al Ministero del Welfare.
Innanzitutto, cosa cambia della legge 40 dopo questa sentenza?
Nella pratica concreta, a quanto pare, poco. La Corte Costituzionale ha abolito nell’art.14, al comma 2, la frase "ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre", eliminando il limite dei tre embrioni.
Sempre all’articolo 14, al comma successivo, la Corte ha aggiunto che il trasferimento di embrioni deve essere effettuato senza pregiudizio per la salute della donna.
Quindi la norma da oggi in vigore dice con queste tecniche non si devono creare embrioni in numero superiore a quello strettamente necessario, ma non si dà un limite numerico, e poiché si mantiene il divieto al congelamento, alla soppressione degli embrioni, alla loro selezione eugenetica, ed anche al loro uso per ricerca, mi chiedo: un medico che domani crea tre embrioni, con queste nuove norme, che farà, visto che non ne può congelare o sopprimere nessuno? Li dovrà trasferire tutti e tre, esattamente come prima.
Vorrebbe dire che non cambia niente?
Voglio dire semplicemente che se si creano embrioni in più rispetto a quelli che si vogliono trasferire in utero, non si sa poi che farsene, visto che la legge permette solo di trasferirli in utero. Quale sarebbe allora il vantaggio di produrne di più rispetto a quel numero massimo di tre che valeva fino ad oggi? Se il medico crea quattro embrioni, che ne fa? Non può congelarli, non può sopprimerli. Li trasferisce tutti?
E allora?
Allora bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza, e poi probabilmente ci sarà bisogno di nuove linee guida, per chiarire effettivamente quali siano adesso le procedure permesse, e quali le pratiche da seguire.
Le associazioni radicali che da sempre contrastano la legge cantano vittoria e dicono che in questo modo saranno i medici a decidere il numero di embrioni da creare, in base alle condizioni di salute e di età della donna.
Ma questo era possibile anche prima. Non c’era l’obbligo di produrre e impiantare tre embrioni. Quello era il numero massimo. Se ne potevano trasferire in utero due o uno, come oramai indicano tutti gli esperti (in Belgio vengono dati incentivi economici a chi accetta di trasferire un solo embrione). E intanto si potevano congelare gli ovociti, per fecondarli successivamente.
Fermo restando il fatto che rimane confermato il divieto di congelare embrioni, vorrei comunque ricordare che l’efficacia delle tecniche di fecondazione assistita crolla quando si ha a che fare con embrioni congelati, rispetto a quelli freschi. Si parla di una differenza di otto-dieci punti percentuale, maggiore per i freschi. Con embrioni freschi le tecniche sono più efficaci.
Ma chi critica la legge dice che questo limite di tre embrioni costringe le donne a sottoporsi a più stimolazioni ovariche, per produrre sempre nuovi embrioni, e questa è una procedura pericolosa.
Chi critica le legge non vuole guardare i risultati dell’applicazione della 40. In questi tre anni nel nostro paese, proprio grazie alla legge 40, sono crollate le complicazioni da stimolazioni ovariche: sono lo 0.5%, mentre in Europa la media è dell’ 1.2%. Come si potrà mantenere questo ottimo risultato se si aumenteranno le stimolazioni ovariche per produrre più ovociti? Io vedo innanzitutto questo pericolo dopo l’intervento della Corte Costituzionale.
Ma in Italia abbiamo troppe gravidanze trigemine, proprio per questo limite di tre embrioni.
I parti trigemini in Italia sono stabili al 2.7%. Ma come è spiegato nella relazione sulla legge 40 che abbiamo presentato al parlamento venerdì scorso, questo numero è una media fra 0 e 13.3%: cioè ci sono centri che hanno zero parti trigemini, e centri che ne hanno il 13.3%. Centri che lavorano ottimamente, con medie inferiori rispetto a quella europea, e centri con risultati estremamente critici, superiori al 10%! Se la percentuale di trigemini dipendesse dalla legge, la media sarebbe su dati più omogenei, con una forbice minore. Evidentemente c’è una grande disomogeneità nella qualità dei centri.
E per quello che riguarda il paragone con l’Europa, è bene ricordare che in molti stati ci sono poche trigemine ma molte riduzioni embrionarie, cioè aborti selettivi in caso di gravidanze plurigemellari. In Spagna, ad esempio, di fronte a 25 parti trigemini (che corrispondono ad una percentuale dell’1%) sono stati dichiarati 107 interventi di riduzioni embrionarie. In Italia queste riduzioni sono vietate (e la Corte Costituzionale ha confermato il divieto). Dati analoghi si hanno per Francia e Gran Bretagna. Quale sarebbe la percentuale di trigemini senza questi aborti selettivi?
Insomma, vorrebbe dire che la legge 40 funziona?
Che qualcuno mi dimostri il contrario. Nella relazione per il Parlamento (consultabile nel sito del Ministero) i dati ci sono tutti, chiari: dal 2005 al 2007 considerando tutte le tecniche, sono aumentate le coppie (da 43024 a 55437), i cicli di trattamento (da 63.585 a 75.280), i bambini nati (da 4940 a 9137). Le gravidanze (per trasferimento di embrione) dal 2006 al 2007 sono aumentate dal 24.5 al 25.5%, nonostante l’elevata età media delle donne che si sottopongono a questi trattamenti: il 25% dei cicli sono su donne con più di 40 anni, quando crolla la possibilità di avere figli anche per chi non ha problemi di sterilità.
Ma allora perché si dice che legge non funziona?
Bisognerebbe chiederlo a chi dice questo. E bisognerebbe chiedere su quali dati si basa. L’impressione è di un forte pregiudizio ideologico, di chi non ha mai accettato l’esito di un voto parlamentare e il risultato di un referendum. Basta pensare che solo Avvenire, Il Foglio e Il Messaggero hanno pubblicato i risultati della relazione al Parlamento. Tutti gli altri giornali non ne hanno dato neppure notizia, in Italia chi non legge quei due quotidiani non sa neppure che è stata presentata la relazione per il Parlamento. In compenso Repubblica ha parlato di turismo procreativo.
Ma tante coppie italiane vanno all’estero proprio per i divieti in vigore nel nostro paese...
Sa qual è il maggior flusso di turismo procreativo al mondo? Quello fra Stati Uniti ed India. Tantissimi americani vanno a fare fecondazione in vitro in India, e non certo per chissà quali divieti. Negli Usa, come in India, si fa di tutto. Ma in India costa meno.
Certo, se continuiamo a dire che in Italia la legge non funziona, non ci dobbiamo lamentare se poi le coppie italiane vanno all’estero.
LA CORTE SI LIMITA A «CORREGGERE» - MA SI MANTIENE L’IMPIANTO DELLA LEGGE - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 2 aprile 2009
U na lacerazione, non uno squarcio. È indiscutibile che da ieri nella legge 40 si sia aperta una ferita, ma non si tratta affatto di una lesione mortale. La sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcune parole dell’articolo 14 – piuttosto ermetica nella inevitabile brevità delle otto righe di dispositivo divulgate in serata – concede non poco a chi ha avversato la norma che regolamenta la fecondazione assistita in Italia ma lascia pressoché inalterata la griglia di garanzie per la salvaguardia dell’embrione che il legislatore aveva saggiamente predisposto in modo che si intrecciassero l’una all’altra. Insieme erano state pensate, insieme si potevano far cadere, come un castello di carte: ma la Corte, significativamente, non ha voluto farlo.
Varando la legge 40, cinque anni fa, il Parlamento mostrò infatti di aver chiaro un dato di fatto: l’embrione è vita umana, e come tale – Costituzione alla mano – va tutelato. La Consulta, che della Carta fondamentale è massima interprete, ha tenuto conto di quella ratio così trasparente da una lettura serena dei 18 articoli della legge. E ha lasciato intatti i paletti. Tutti tranne uno, nient’affatto secondario ma che da solo non fa collassare la struttura varata dalle aule parlamentari con un voto trasversale e largamente maggioritario, uscita senza conseguenze dal giudizio di quattro referendum abrogativi nel giugno 2005.
Dalla legge sparisce il limite massimo di tre embrioni realizzabili in provetta a ogni ciclo, così come viene meno l’obbligo del loro «unico e contemporaneo impianto ». In tutto cadono sotto le forbici dei giudici undici parole in coda al comma 2 dell’articolo 14. Un intervento senza dubbio preoccupante, perché ora è possibile produrre anche più di tre embrioni, come esigono i fautori della diagnosi preimpianto che puntavano a poter disporre nei propri laboratori di una gran quantità di vite umane in germoglio tra le quali scegliere quella desiderata. Ma degli embrioni creati e non impiantati che cosa si intende fare? In attesa delle motivazioni della sentenza, la domanda resta solo apparentemente senza risposta. La parte dello stesso comma lasciata indenne prescrive infatti che il numero di embrioni da formare sia «quello strettamente necessario». Non solo. La Corte ha esplicitamente salvato le parti della legge che vietano crioconservazione, soppressione ed eliminazione degli embrioni dopo l’impianto (la cosiddetta 'riduzione embrionaria di gravidanze plurime'). Ma ha anche lasciato al suo posto il fondamentale articolo 13, che continua a vietare senza mezzi termini «ogni forma di selezione a scopo eugenetico». E allora, la 'bocciatura' della legge 40 dov’è?
Ieri sera mentre ancora andava in scena il circo delle esternazioni ideologiche e acriticamente esultanti davanti a un verdetto che i giuristi più accorti stavano invece soppesando in tutti i suoi aspetti, iniziava ad affacciarsi la sensazione che il pronunciamento apra una fase di incertezza interpretativa. Ed è su questo fronte che occorrerà lavorare, per evitare che le parole della Corte vengano piegate da qualche operatore a vantaggio di applicazioni estensive non autorizzate dal contesto della norma.
Il quadro dei centri italiani dove si pratica la fecondazione artificiale lascia credere che questo genere di avventurieri – per quanto rumorosi – possa restare ai margini. La relazione annuale sulla legge consegnata solo pochi giorni fa dal ministero del Welfare alle Camere mostra infatti che le cliniche italiane per la maternità assistita hanno acquisito uno standard di serietà ed efficienza proprio lavorando dentro le regole della legge 40, un vertice di eccellenza che certo non vorranno giocarsi per andare dietro le semplificazioni politiche e ideologiche della sentenza di ieri. La scienza medica vuole agire nella legalità. E la legge 40, malgrado tutto, parla ancora molto chiaro.
Organi umani in vendita, la moderna schiavitù – Anche Singapore, dopo Iran e Arabia, approva la cessione di parti del corpo dietro compenso Gli stranieri potranno accedere al 'servizio' E le denunce restano isolate: saranno i poveri del mondo a 'donare' e i ricchi a 'ricevere' - Avvenire, 2 aprile 2009
INSINTESI
1Singapore ha approvato la vendita di organi tra viventi a scopo di trapianto.
2Si tratta di un altro passo verso la monetizzazione della vita, nella logica di mercato della domanda e dell’offerta.
di Giulia Galeotti
E così, dopo Iran e Arabia Saudita, è la volta di Singapore: da qualche giorno, anche nella Città-Stato asiatica la vendita di organi umani tra viventi è una pratica legale. La disciplina è oculata: chi cede un organo (così prevede la legge) ha diritto al rimborso delle cure mediche, ai mancati guadagni e al risarcimento del danno psicologico. Con un solo voto contrario, il gioco è fatto. È prevedibile, del resto, che Singapore diventi rapidamente la meta preferita dei ricchi malati di ogni parte del globo, che accorreranno come api sul miele.
Questa volta, infatti, l’accesso al 'servizio' non è limitato ai cittadini dello Stato. Porte aperte, quindi, anche agli acquirenti stranieri.
La scandalosa notizia, però, non ci ha realmente sorpresi. A fronte della turpe compravendita illegale di organi umani che va crescendo nel mondo (se fino a qualche anno fa Cina e India erano i centri principali di questa 'linea commerciale', ora l’offerta si è molto ampliata, coinvolgendo Filippine, Brasile, Sud Africa e diversi Paesi dell’Europa dell’Est), si stanno facendo sempre più pressanti le nobili richieste affinché tale mercato venga legalizzato.
Nell’opinione pubblica americana, ad esempio, si sta registrando un nuovo atteggiamento, non più critico verso tali comportamenti, che risultano sempre più accettati socialmente. Il cambiamento è sicuramente imputabile anche alle illustri voci che sostengono tale liberalizzazione, come quelle dell’economista Richard Posner e del premio Nobel Gary Backer.
Questo moderno favore verso l’acquisto di parti del corpo umano è, del resto, coerente con quell’atteggiamento generalizzato che in buona parte del mondo occidentale va sempre più monetizzando la vita. Se si abortisce perché v’è la crisi, se si comprano i figli in provetta (giacché non vengono, o v’è il rischio che vengano male), se difficilmente ormai riusciamo ad avvicinarci ad handicap e malattia prescindendo dal versante 'dei costi', v’è la seria possibilità che una sostanziale apertura alla compravendita di parti umane non rimanga confinata a pochi e lontani Paesi.
I fautori della legalizzazione del mercato degli organi argomentano che la autodeterminazione, principio sovrano della modernità, implica anche la libertà di 'donare'. Ciò, tra l’altro, in nome di una nozione radicale di proprietà, secondo cui ogni individuo proprietario di un bene ha il diritto di disporne come meglio crede, attraverso l’interazione con altri. Il tutto analogamente all’ottica di mercato per cui, a seguito di scambi volontari, le persone raggiungono una situazione finale migliore rispetto a quella iniziale. Smembrando i poveri a beneficio dei ricchi, cioè, non solo questi ultimi staranno meglio, ma anche i poveri si ritroveranno in finale un po’ meno poveri.
Dietro, v’è la più classica delle leggi di mercato: anche nello scambio di pezzi del corpo umano vige infatti la regola della domanda e dell’offerta, il cui disequilibrio sta crescendo oltre misura. Grazie ai progressi medici e tecnologici, e all’aumento dell’età media delle popolazioni ricche, la pratica dei trapianti si è molto diffusa, con ottimi risultati. Il dato preoccupante, però, è che l’offerta non ha subito un’adeguata impennata. Dal 2000, infatti, la domanda di organi è lievitata del 33%, a fronte di un aumento nella disponibilità del solo 3%. La domanda è cioè aumentata di ben 11 volte rispetto all’offerta.
La questione è indubbiamente molto più complessa di quanto non si voglia far credere. Resta ad esempio il fatto che nelle ipotesi di trapianto da vivente, la cessione di un organo, effettuata per amore e solidarietà, si combina inevitabilmente con la menomazione di chi la subisce. Allo stesso tempo, la relazione tra medico e cedente è delicata ed estranea alle coordinate deontologiche tradizionali: il medico compie un atto che, senza giustificazione terapeutica, danneggia inequivocabilmente il cedente.
Ovviamente, in pochi si pongono domande scomode, ad esempio se rientri tra i doveri degli ordinamenti incentivare scelte altruistiche. Come spesso accade invece, per risolvere il problema, si opta per la via più facile, più rapida e più 'conveniente'. Così, anche qui (assimilando reni ad abiti, creme o marmitte), v’è chi passa dal post hoc al propter hoc. Dato che il traffico illegale comunque esiste, non conoscendo confini né geografici né politici né culturali, dato che esso crea innumerevoli vittime negli angoli più poveri del mondo (e delle nostre città), e dato che comunque a noi, ricchi occidentali un po’ acciaccati, gli organi servono, ecco che la soluzione più ovvia finisce per essere quella di legalizzarne il traffico.
Con enorme soddisfazione di tutti, e buona pace delle nostre coscienze.
Ma davvero crediamo che il solo rimedio per affrontare questo spaventoso fenomeno sia la sua regolamentazione? Una delle più fiere oppositrici a tale soluzione è la battagliera Nancy Scheper-Hughes, che ricorda come a vendere siano le persone senza casa e in condizioni economiche disastrose, i rifugiati politici, gli ex soldati, i prigionieri, i soggetti con disturbi mentali (del resto, se le donne sono raramente le riceventi, spessissimo sono le donatrici).
a sua voce resta, però, isolata. In pochi manifestano la preoccupazione di non esporre i deboli a nuove forme di cannibalismo.
Ancora una volta, in nome della libertà e dell’autodeterminazione, parti delle nostre società mirano a reintrodurre – sia pure in forma moderna, e con la mediazione della scienza – la schiavitù tra gli esseri umani.
È la solita ipocrisia del non considerare le effettive condizioni in cui il singolo viene a trovarsi. Che senso hanno autodeterminazione e libertà quando la fame e la disperazione inducono un essere umano a privarsi di una parte di sé per dare da mangiare ai propri figli?
Che società è quella che sceglie di dare a tutto un prezzo di mercato?
Uno studio scientifico dimostra come stia affiorando in casi 'estremi' la tendenza ad asportare gli organi senza le dovute condizioni. Il rischio è che il 'mercato' metta in sordina il rispetto dell’integrità della persona - di Carlo Bellieni - Vita senza senso? Espiantiamo – Avvenire, 2 aprile 2009
Davvero la vita finisce quando ha 'perso significato', come affermano certi politici e massmedia? E cosa fare di questa vita che 'finisce' e ciononostante continua? Un’allarmante risposta indiretta viene dalla letteratura medica: un recente studio pubblicato sul New England Journal of Medicine (Nejm), spiega come stia entrando nell’uso per i trapianti l’asportazione di organi nei pazienti con gravissimi danni neurologici dopo il solo arresto cardiaco. «Nei protocolli per questo tipo di donazione di organi – spiega l’editoriale del Nejm – i pazienti che non sono in morte cerebrale ma su cui è in corso una sospensione dei trattamenti di supporto vitale, vengono monitorizzati per cogliere l’insorgenza di arresto cardiaco» e «sono dichiarati morti dopo 2-5 minuti dall’arresto cardiaco e gli organi vengono rimossi». Continua così l’editoriale: «Sebbene tutti concordino che molti pazienti possano essere ancora rianimati dopo 2-5 minuti di arresto cardiaco, i sostenitori di questi protocolli dicono che possono essere considerati morti perché è stata presa la decisione di non rianimarli». Per i neonati, avverte James Bernat, sempre sul Nejm, il periodo scenderebbe a 75 secondi. Addirittura, si scrive, esistono protocolli in cui una volta dichiarata la morte cardiaca, viene garantita l’ossigenazione artificiale solo agli organi addominali da trapiantare occludendo l’aorta che porterebbe sangue a cuore e cervello, cosicché non si infici la dichiarazione di morte.
D’altronde, lasciando passare del tempo dopo l’arresto cardiaco, gli organi iniziano a deteriorarsi ed essere inservibili per un trapianto e inoltre qui si parla di persone con danni cerebrali gravissimi; ciononostante, dei problemi etici sono presenti. «Molti obietteranno che non si dovrebbero togliere gli organi e provocare così la morte. Ma, si risponde, nelle moderne rianimazioni le decisioni etiche sono già la causa terminale di morte». E «sia che la morte avvenga come risultato di sospensione della ventilazione o di espianto di organi, la condizione perché sia etica è il consenso valido del paziente o del tutore. Col consenso non c’è danno o errore nel togliere gli organi prima della morte, sempre che si somministri anestesia. Con le giuste garanzie, per l’asportazione di organi non morirà nessuno che non sarebbe morto come risultato della sospensione delle cure vitali».
È bene rileggere con calma queste parole, per vedere dove arriva la distanza tra la realtà clinica e quella dettata dalle condizioni di un’etica 'utilitarista' oggi molto diffusa.
D’altronde, sul sito Practical Ethics dell’Università di Oxford, eminenti filosofi così descrivono la situazione-trapianti: «C’è un altro modo più radicale per aumentare la raccolta di organi.
Potremmo abbandonare il principio del donatore-morto. Potremmo per esempio permettere che gli organi vengano presi da persone che non sono in morte cerebrale, ma che hanno un danno cerebrale talmente grave che resteranno permanentemente incoscienti, come Terry Schiavo, che sarebbe stata lasciata comunque morire rimuovendo il trattamento medico». Ecco allora che arriviamo al nocciolo della questione: l’utilitarismo etico che ingaggia la lotta col rispetto dell’integrità della persona. E ritornano in ballo i casi di Terry Schiavo e simili, su cui non ci si attarda a domandare le prove di una morte cerebrale, che vengono considerati socialmente morti quando morti non sono ancora; il tutto, magari per il bene di terzi.