Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI durante la catechesi settimanale riafferma la storicità dell'evento pasquale - La risurrezione di Gesù illumina l'enigma umano del dolore - Il racconto evangelico non può essere ridotto a un mito "riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche". Lo ha ribadito Benedetto XVI nella catechesi per la settimanale udienza generale svoltasi in piazza San Pietro mercoledì mattina, 15 aprile. Il Papa ha anche ricordato che nessuno può tenere per sé l'annuncio della "Verità che cambia la vita". – L’Osservatore Romano, 16 aprile 2009
2) TERREMOTO IN ABRUZZO - Passione dell’uomo, passione di Cristo – volantino di CL dopo il terremoto in Abruzzo
3) Messaggio di Pasqua di Benedetto XVI - "La risurrezione di Cristo è la nostra speranza"
4) Il massacro di Katyn? Fu solo l’inizio - Mosca si preparava a far guerra al Terzo Reich sognando di giungere sino alle sponde dell’Atlantico. Berlino l’anticipò di un soffio e il disastro che ne seguì fu pagato a caro prezzo da polacchi, baltici, ucraini e finlandesi…
5) Il manifesto di papa Ratzinger: "Così prenda inizio la trasformazione del mondo"
6) Sindone e sudario al loro posto - Autore: Colosso, Giancarlo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 13 aprile 2009
7) CRISTIANESIMO/ San Francesco, una “Regola” che compie ottocento anni - Redazione - giovedì 16 aprile 2009 – ilsussidiario.net
8) SCUOLA/ Educare partendo dall’esperienza: la via maestra per la scuola dell’infanzia - Feliciana Cicardi - giovedì 16 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto XVI durante la catechesi settimanale riafferma la storicità dell'evento pasquale - La risurrezione di Gesù illumina l'enigma umano del dolore - Il racconto evangelico non può essere ridotto a un mito "riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche". Lo ha ribadito Benedetto XVI nella catechesi per la settimanale udienza generale svoltasi in piazza San Pietro mercoledì mattina, 15 aprile. Il Papa ha anche ricordato che nessuno può tenere per sé l'annuncio della "Verità che cambia la vita". – L’Osservatore Romano, 16 aprile 2009
Cari fratelli e sorelle, la consueta Udienza Generale del mercoledì è oggi pervasa di gaudio spirituale, quel gaudio che nessuna sofferenza e pena possono cancellare, perché è gioia che scaturisce dalla certezza che Cristo, con la sua morte e risurrezione, ha definitivamente trionfato sul male e sulla morte. "Cristo è risorto! Alleluia!", canta la Chiesa in festa. E questo clima festoso, questi sentimenti tipici della Pasqua, si prolungano non soltanto durante questa settimana - l'Ottava di Pasqua - ma si estendono nei cinquanta giorni che vanno fino alla Pentecoste. Anzi, possiamo dire: il mistero della Pasqua abbraccia l'intero arco della nostra esistenza. In questo tempo liturgico sono davvero tanti i riferimenti biblici e gli stimoli alla meditazione che ci vengono offerti per approfondire il significato e il valore della Pasqua. La "via crucis", che nel Triduo Santo abbiamo ripercorso con Gesù sino al Calvario rivivendone la dolorosa passione, nella solenne Veglia pasquale è diventata la consolante "via lucis". Visto dalla risurrezione, possiamo dire che tutta questa via della sofferenza è cammino di luce e di rinascita spirituale, di pace interiore e di salda speranza. Dopo il pianto, dopo lo smarrimento del Venerdì Santo, seguito dal silenzio carico di attesa del Sabato Santo, all'alba del "primo giorno dopo il sabato" è risuonato con vigore l'annuncio della Vita che ha sconfitto la morte: "Dux vitae mortuus/regnat vivus - il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa!". La novità sconvolgente della risurrezione è così importante che la Chiesa non cessa di proclamarla, prolungandone il ricordo specialmente ogni domenica: ogni domenica, infatti, è "giorno del Signore" e Pasqua settimanale del popolo di Dio. I nostri fratelli orientali, quasi a evidenziare questo mistero di salvezza che investe la nostra vita quotidiana, chiamano in lingua russa la domenica "giorno della risurrezione" (voskrescénje). È pertanto fondamentale per la nostra fede e per la nostra testimonianza cristiana proclamare la risurrezione di Gesù di Nazaret come evento reale, storico, attestato da molti e autorevoli testimoni. Lo affermiamo con forza perché, anche in questi nostri tempi, non manca chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, ad una "visione" degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche. Certamente la risurrezione non è stata per Gesù un semplice ritorno alla vita precedente. In questo caso, infatti, sarebbe stata una cosa del passato: duemila anni fa uno è risorto, è ritornato alla sua vita precedente, come per esempio Lazzaro. La risurrezione si pone in un'altra dimensione: è il passaggio ad una dimensione di vita profondamente nuova, che interessa anche noi, che coinvolge tutta la famiglia umana, la storia e l'universo. Questo evento che ha introdotto una nuova dimensione di vita, un'apertura di questo nostro mondo verso la vita eterna, ha cambiato l'esistenza dei testimoni oculari come dimostrano i racconti evangelici e gli altri scritti neotestamentari; è un annuncio che intere generazioni di uomini e donne lungo i secoli hanno accolto con fede e hanno testimoniato non raramente a prezzo del loro sangue, sapendo che proprio così entravano in questa nuova dimensione della vita. Anche quest'anno, a Pasqua risuona immutata e sempre nuova, in ogni angolo della terra, questa buona notizia: Gesù morto in croce è risuscitato, vive glorioso perché ha sconfitto il potere della morte, ha portato l'essere umano in una nuova comunione di vita con Dio e in Dio. Questa è la vittoria della Pasqua, la nostra salvezza! E quindi possiamo con sant'Agostino cantare: "La risurrezione di Cristo è la nostra speranza", perché ci introduce in un nuovo futuro. È vero: la risurrezione di Gesù fonda la nostra salda speranza e illumina l'intero nostro pellegrinaggio terreno, compreso l'enigma umano del dolore e della morte. La fede in Cristo crocifisso e risorto è il cuore dell'intero messaggio evangelico, il nucleo centrale del nostro "Credo". Di tale "Credo" essenziale possiamo trovare una espressione autorevole in un noto passo paolino, contenuto nella Prima Lettera ai Corinzi (15, 3-8) dove, l'Apostolo, per rispondere ad alcuni della comunità di Corinto che paradossalmente proclamavano la risurrezione di Gesù ma negavano quella dei morti - la nostra speranza -, trasmette fedelmente quello che egli - Paolo - aveva ricevuto dalla prima comunità apostolica circa la morte e risurrezione del Signore. Egli inizia con una affermazione quasi perentoria: "Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l'ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano!" (vv. 1-2). Aggiunge subito di aver loro trasmesso quello che lui stesso aveva ricevuto. Segue poi la pericope che abbiamo ascoltato all'inizio di questo nostro incontro. San Paolo presenta innanzitutto la morte di Gesù e pone, in un testo così scarno, due aggiunte alla notizia che "Cristo morì". La prima aggiunta è: morì "per i nostri peccati"; la seconda è: "secondo le Scritture" (v. 3). Questa espressione "secondo le Scritture" pone l'evento della morte del Signore in relazione con la storia dell'alleanza veterotestamentaria di Dio con il suo popolo, e ci fa comprendere che la morte del Figlio di Dio appartiene al tessuto della storia della salvezza, ed anzi ci fa capire che tale storia riceve da essa la sua logica ed il suo vero significato. Fino a quel momento la morte di Cristo era rimasta quasi un enigma, il cui esito era ancora insicuro. Nel mistero pasquale si compiono le parole della Scrittura, cioè, questa morte realizzata "secondo le Scritture" è un avvenimento che porta in sé un logos, una logica: la morte di Cristo testimonia che la Parola di Dio si è fatta sino in fondo "carne", "storia" umana. Come e perché ciò sia avvenuto lo si comprende dall'altra aggiunta che san Paolo fa: Cristo morì "per i nostri peccati". Con queste parole il testo paolino pare riprendere la profezia di Isaia contenuta nel Quarto Canto del Servo di Dio (cfr. Is 53, 12). Il Servo di Dio - così dice il Canto - "ha spogliato se stesso fino alla morte", ha portato "il peccato di molti", ed intercedendo per i "colpevoli" ha potuto recare il dono della riconciliazione degli uomini tra loro e degli uomini con Dio: la sua è dunque una morte che mette fine alla morte; la via della Croce porta alla Risurrezione. Nei versetti che seguono, l'Apostolo si sofferma poi sulla risurrezione del Signore. Egli dice che Cristo "è risorto il terzo giorno secondo le Scritture". Di nuovo: "secondo le Scritture"! Non pochi esegeti intravedono nell'espressione: "È risorto il terzo giorno secondo le Scritture" un significativo richiamo di quanto leggiamo nel Salmo 16, dove il Salmista proclama: "Non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la corruzione" (v.10). È questo uno dei testi dell'Antico Testamento, citati spesso nel cristianesimo primitivo, per provare il carattere messianico di Gesù. Poiché secondo l'interpretazione giudaica la corruzione cominciava dopo il terzo giorno, la parola della Scrittura si adempie in Gesù che risorge il terzo giorno, prima cioè che cominci la corruzione. San Paolo, tramandando fedelmente l'insegnamento degli Apostoli, sottolinea che la vittoria di Cristo sulla morte avviene attraverso la potenza creatrice della Parola di Dio. Questa potenza divina reca speranza e gioia: è questo in definitiva il contenuto liberatore della rivelazione pasquale. Nella Pasqua, Dio rivela se stesso e la potenza dell'amore trinitario che annienta le forze distruttrici del male e della morte. Cari fratelli e sorelle, lasciamoci illuminare dallo splendore del Signore risorto. Accogliamolo con fede e aderiamo generosamente al suo Vangelo, come fecero i testimoni privilegiati della sua risurrezione; come fece, diversi anni dopo, san Paolo che incontrò il divino Maestro in modo straordinario sulla Via di Damasco. Non possiamo tenere solo per noi l'annuncio di questa Verità che cambia la vita di tutti. E con umile fiducia preghiamo: "Gesù, che risorgendo dai morti hai anticipato la nostra risurrezione, noi crediamo in Te!". Mi piace concludere con una esclamazione che amava ripetere Silvano del Monte Athos: "Gioisci, anima mia. È sempre Pasqua, perché Cristo risorto è la nostra risurrezione!". Ci aiuti la Vergine Maria a coltivare in noi, e attorno a noi, questo clima di gioia pasquale, per essere testimoni dell'Amore divino in ogni situazione della nostra esistenza. Ancora una volta, Buona Pasqua a voi tutti!
(©L'Osservatore Romano - 16 aprile 2009)
TERREMOTO IN ABRUZZO - Passione dell’uomo, passione di Cristo – volantino di CL dopo il terremoto in Abruzzo
Ancora una volta siamo stati feriti nell’intimo del nostro essere da un
evento sconvolgente. Così sconvolgente che è difficile sottrarsi alla domanda
circa il suo significato, talmente supera la nostra capacità di comprensione.
La questione è tanto radicale quanto scomoda. Non possiamo cercare di
chiuderla in fretta, desiderando di voltare pagina quanto prima per dimenticare.
Non è ragionevole restare prigionieri di una emotività che ci
soffoca, tanto meno spostare l’attenzione su eventuali responsabili.
La carità sterminata, che si è documentata in questi giorni come moto
spontaneo e che sarà necessaria soprattutto nei prossimi mesi quando ci
sarà più bisogno di aiuto, indica che la dimenticanza non è l’unica strada.
Eppure neanche questa mossa è in grado di esaurire l’urgenza della domanda,
suscitata dall’esperienza della nostra impotenza di fronte al terremoto.
Eventi come questo ci mettono davanti al mistero dell’esistenza, provocando
la nostra ragione e la nostra libertà di uomini. Sprecare l’occasione
di guardarlo in faccia ci lascerebbe ancora più smarriti e scettici. Ma per
stare davanti almistero dell’esistenza abbiamo bisogno di qualcosa di più
della nostra pur giusta solidarietà. Da soli non possiamo.
La compagnia di Cristo - che è all’origine dell’amore all’uomo proprio del
nostro popolo - si rivela ancora una volta decisiva nella nostra storia: una
compagnia che dà senso alla vita e allamorte, alle vittime, ai sopravvissuti
e a noi stessi, e sostiene la speranza.
L’imminenza della Pasqua acquista, allora, una nuova luce. «Egli che non
ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci
donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,32).
Comunione e Liberazione
Messaggio di Pasqua di Benedetto XVI - "La risurrezione di Cristo è la nostra speranza"
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 12 aprile 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il messaggio di Pasqua che Benedetto XVI ha rivolto questa domenica dal balcone della facciata della Basilica di San Pietro alle migliaia di pellegrini riunite in Piazza San Pietro in Vaticano.
* * *
Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero!
Formulo di cuore a voi tutti l'augurio pasquale con le parole di sant'Agostino: "Resurrectio Domini, spes nostra - la risurrezione del Signore è la nostra speranza" (Agostino, Sermo 261, 1). Con questa affermazione, il grande Vescovo spiegava ai suoi fedeli che Gesù è risorto perché noi, pur destinati alla morte, non disperassimo, pensando che con la morte la vita sia totalmente finita; Cristo è risorto per darci la speranza (cfr ibid.).
In effetti, una delle domande che più angustiano l'esistenza dell'uomo è proprio questa: che cosa c'è dopo la morte? A quest'enigma la solennità odierna ci permette di rispondere che la morte non ha l'ultima parola, perché a trionfare alla fine è la Vita. E questa nostra certezza non si fonda su semplici ragionamenti umani, bensì su uno storico dato di fede: Gesù Cristo, crocifisso e sepolto, è risorto con il suo corpo glorioso. Gesù è risorto perché anche noi, credendo in Lui, possiamo avere la vita eterna. Quest'annuncio sta nel cuore del messaggio evangelico. Lo dichiara con vigore san Paolo: "Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede". E aggiunge: "Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini" (1 Cor 15,14.19). Dall'alba di Pasqua una nuova primavera di speranza investe il mondo; da quel giorno la nostra risurrezione è già cominciata, perché la Pasqua non segna semplicemente un momento della storia, ma l'avvio di una nuova condizione: Gesù è risorto non perché la sua memoria resti viva nel cuore dei suoi discepoli, bensì perché Egli stesso viva in noi e in Lui possiamo già gustare la gioia della vita eterna.
La risurrezione pertanto non è una teoria, ma una realtà storica rivelata dall'Uomo Gesù Cristo mediante la sua "pasqua", il suo "passaggio", che ha aperto una "nuova via" tra la terra e il Cielo (cfr Eb 10,20). Non è un mito né un sogno, non è una visione né un'utopia, non è una favola, ma un evento unico ed irripetibile: Gesù di Nazaret, figlio di Maria, che al tramonto del Venerdì è stato deposto dalla croce e sepolto, ha lasciato vittorioso la tomba. Infatti all'alba del primo giorno dopo il sabato, Pietro e Giovanni hanno trovato la tomba vuota. Maddalena e le altre donne hanno incontrato Gesù risorto; lo hanno riconosciuto anche i due discepoli di Emmaus allo spezzare il pane; il Risorto è apparso agli Apostoli la sera nel Cenacolo e quindi a molti altri discepoli in Galilea.
L'annuncio della risurrezione del Signore illumina le zone buie del mondo in cui viviamo. Mi riferisco particolarmente al materialismo e al nichilismo, a quella visione del mondo che non sa trascendere ciò che è sperimentalmente constatabile, e ripiega sconsolata in un sentimento del nulla che sarebbe il definitivo approdo dell'esistenza umana. È un fatto che se Cristo non fosse risorto, il "vuoto" sarebbe destinato ad avere il sopravvento. Se togliamo Cristo e la sua risurrezione, non c'è scampo per l'uomo e ogni sua speranza rimane un'illusione. Ma proprio oggi prorompe con vigore l'annuncio della risurrezione del Signore, ed è risposta alla ricorrente domanda degli scettici, riportata anche dal libro di Qoèlet: "C'è forse qualcosa di cui si possa dire: / Ecco, questa è una novità?" (Qo 1,10). Sì, rispondiamo: nel mattino di Pasqua tutto si è rinnovato. "Mors et vita / duello conflixere mirando: dux vitae mortuus/ regnat vivus - Morte e vita si sono affrontate / in un prodigioso duello: / il Signore della vita era morto; / ma ora, vivo, trionfa. Questa è la novità! Una novità che cambia l'esistenza di chi l'accoglie, come avvenne nei santi. Così, ad esempio, è accaduto per san Paolo.
Più volte, nel contesto dell'Anno Paolino, abbiamo avuto modo di meditare sull'esperienza del grande Apostolo. Saulo di Tarso, l'accanito persecutore dei cristiani, sulla via di Damasco incontrò Cristo risorto e fu da Lui "conquistato". Il resto ci è noto. Avvenne in Paolo quel che più tardi egli scriverà ai cristiani di Corinto: "Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove" (2 Cor 5,17). Guardiamo a questo grande evangelizzatore, che con l'entusiasmo audace della sua azione apostolica, ha recato il Vangelo a tante popolazioni del mondo di allora. Il suo insegnamento e il suo esempio ci stimolino a ricercare il Signore Gesù. Ci incoraggino a fidarci di Lui, perché ormai il senso del nulla, che tende ad intossicare l'umanità, è stato sopraffatto dalla luce e dalla speranza che promanano dalla risurrezione. Ormai sono vere e reali le parole del Salmo: "Nemmeno le tenebre per te sono tenebre / e la notte è luminosa come il giorno" (139[138],12). Non è più il nulla che avvolge ogni cosa, ma la presenza amorosa di Dio. Addirittura il regno stesso della morte è stato liberato, perché anche negli "inferi" è arrivato il Verbo della vita, sospinto dal soffio dello Spirito (v. 8).
Se è vero che la morte non ha più potere sull'uomo e sul mondo, tuttavia rimangono ancora tanti, troppi segni del suo vecchio dominio. Se mediante la Pasqua, Cristo ha estirpato la radice del male, ha però bisogno di uomini e donne che in ogni tempo e luogo lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi: le armi della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell'amore. E' questo il messaggio che, in occasione del recente viaggio apostolico in Camerun e in Angola, ho inteso portare a tutto il Continente africano, che mi ha accolto con grande entusiasmo e disponibilità all'ascolto. L'Africa, infatti, soffre in modo smisurato per i crudeli e interminabili conflitti - spesso dimenticati - che lacerano e insanguinano diverse sue Nazioni e per il numero crescente di suoi figli e figlie che finiscono preda della fame, della povertà, della malattia. Il medesimo messaggio ripeterò con forza in Terrasanta, ove avrò la gioia di recarmi fra qualche settimana. La difficile ma indispensabile riconciliazione, che è premessa per un futuro di sicurezza comune e di pacifica convivenza, non potrà diventare realtà che grazie agli sforzi rinnovati, perseveranti e sinceri, per la composizione del conflitto israelo-palestinese. Dalla Terrasanta, poi, lo sguardo si allargherà sui Paesi limitrofi, sul Medio Oriente, sul mondo intero. In un tempo di globale scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di povertà antiche e nuove, di cambiamenti climatici preoccupanti, di violenze e miseria che costringono molti a lasciare la propria terra in cerca di una meno incerta sopravvivenza, di terrorismo sempre minaccioso, di paure crescenti di fronte all'incertezza del domani, è urgente riscoprire prospettive capaci di ridare speranza. Nessuno si tiri indietro in questa pacifica battaglia iniziata dalla Pasqua di Cristo, il Quale - lo ripeto - cerca uomini e donne che lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi, quelle della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell'amore.
Resurrectio Domini, spes nostra! La risurrezione di Cristo è la nostra speranza! Questo la Chiesa proclama oggi con gioia: annuncia la speranza, che Dio ha reso salda e invincibile risuscitando Gesù Cristo dai morti; comunica la speranza, che essa porta nel cuore e vuole condividere con tutti, in ogni luogo, specialmente là dove i cristiani soffrono persecuzione a causa della loro fede e del loro impegno per la giustizia e la pace; invoca la speranza capace di suscitare il coraggio del bene anche e soprattutto quando costa. Oggi la Chiesa canta "il giorno che ha fatto il Signore" ed invita alla gioia. Oggi la Chiesa prega, invoca Maria, Stella della Speranza, perché guidi l'umanità verso il porto sicuro della salvezza che è il cuore di Cristo, la Vittima pasquale, l'Agnello che "ha redento il mondo", l'Innocente che "ha riconciliato noi peccatori col Padre". A Lui, Re vittorioso, a Lui crocifisso e risorto, noi gridiamo con gioia il nostro Alleluia !
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Il massacro di Katyn? Fu solo l’inizio - Mosca si preparava a far guerra al Terzo Reich sognando di giungere sino alle sponde dell’Atlantico. Berlino l’anticipò di un soffio e il disastro che ne seguì fu pagato a caro prezzo da polacchi, baltici, ucraini e finlandesi…
Nei nostri libri storiograficamente corretti – in primis nei testi scolastici – domina ancora la tesi di una pacifica Unione Sovietica proditoriamente aggredita dalla Germania nazionalsocialista. Solo dopo l’implosione del regime di Mosca e l’apertura, parziale, dei suoi archivi, è risultato evidente come anche l’URSS fosse pronta alla guerra. Diversi storici russi e tedeschi – Valerij Danilov, Juri Gorkov, Viktor Suvorov con il suo Stalin, Hitler. La rivoluzione bolscevica mondiale (trad. it. Spirali, Milano 2000), Joachim Hoffmann (1930-2002) e Werner Maser (1922-2007) – documentano infatti che, attaccando di sorpresa Mosca il 22 giugno 1941, Adolf Hitler anticipò semplicemente di alcune settimane le mosse del rivale. Che le forze sovietiche non fossero attestate sulla difensiva, ma positivamente proiettate a occidente, lo rivelano del resto la catastrofe a cui andarono incontro nei primi giorni di guerra e la politica di sterminio attuata durante il ripiegamento caotico e repentino che ne seguì.
Stalin, Berija e pure Kruscëv
Infatti, dopo l’attacco tedesco scattato il 22 giugno 1941, l’NKVD (Il Commissariato del popolo per gli affari interni) e l’NKGB (il Commissariato del popolo per la sicurezza dello Stato) decisero di eliminare tutti i “nemici del popolo”: e cioè i delinquenti comuni, i lavoratori coatti e i prigionieri politici accusati di “deviazionismo trotzkista” o di “sciovinismo”. Con l’NKVD di Lavrentij P. Berija che si distinse per solerzia, fu in questo quadro che si consumò il tragico crimine perpetrato nella foresta di Katyn e falsamente attribuito ai nazisti.
Chi fosse il vero responsabile dei massacri di prigionieri, lavoratori coatti o semplici civili nonché della distruzione di città intere come Chisinau, capitale della Moldovia data alla fiamme il 18 luglio, o Harkov, in Ucraina, era un interrogativo che si posero addirittura gli stessi comandi tedeschi, perplessi di fronte alle dimensioni di quei fenomeni. Per esempio, in un perplesso rapporto del comando tedesco (citato da Alfred-Maurice de Zayas nell’oramai classico The Wehrmacht War Crimes Bureau, 1939-1945, pubblicato originariamente nel 1979, quindi uscito in sette edizioni rivedute tedesche e quattro statunitensi) si legge: «Non risulta che l’ordine provenga da Stalin».
Del resto, il disfacimento dell’Armata Rossa comportò pure la disgregazione dell’intera struttura socio-economica militarizzata sovietica così che solo il terrore di massa e il controllo ferreo di ogni canale d’informazione impedì il collasso completo del regime. In questo scenario, tutto il potere si concentrò di fatto nei servizi segreti di polizia, ma, anche di principio, le responsabilità politiche degli eccidi ricaddero sull’intera nomenklatura, ivi compreso il Nikita S. Kruscëv; infatti, il futuro “destalinizzatore” prima definì «macellaio dell’Ucraina» il generale Ivan Serov, braccio destro di Berija, poi, dopo la morte di Stalin, ne approvò la nomina alla guida del KGB nel 1954.
Nella Polonia occupata dai sovietici il terrore era pratica corrente; tra il 1939 e il 1941 circa 1,5 milioni di persone vennero arrestate e deportate, e di loro quasi il 90% morì. Inoltre, secondo lo storico statunitense Carroll Quigley (1910-1977), venne ucciso un terzo dei 320mila polacchi catturati come prigionieri di guerra dall’Armata Rossa nel 1939.
Fu poi la volta dei Paesi baltici. Il 24 giugno 1941, a Vilekya, cittadina lettone reinquadrata dai sovietici nella Repubblica di Bielorussia, caddero sotto i colpi dell’NKVD diverse decine di prigionieri politici e molti ufficiali lettoni. Il 9 luglio a Tartu, in Estonia, Paese dove addirittura un terzo della popolazione finì eliminato o deportato, furono uccisi 250 detenuti, poi gettati in fosse comuni. Particolare attenzione venne del resto riservata alla Lituania, a grande maggioranza cattolica: sempre nel giugno 1941, nel carcere di Lukisˇke˙s, costruito nel 1904 dallo zar al centro della capitale Vilnius, gran parte dei detenuti fu liquidata, e tra il 24 e il 25 il “massacro di Rainiai” (dal nome della foresta nei pressi della cittadina di Telsˇiai) costò la vita a una ottantina di prigionieri politici. In quel giugno disgraziato, la prigione di Pravienisˇke˙s, presso Kaunas, vide consumarsi anche il massacro di 260 persone, detenuti politici, certo, ma anche tutto il personale del carcere.
Un’autentica ecatombe
Né il terrore rosso risparmiò la Finlandia, in guerra con l’URSS dal 1941 al 1944: i reparti sovietici entravano infatti regolarmente nel Paese scandinavo e ne massacravano i civili con una efferatezza documentata dalle fotografie rese pubbliche dal governo di Helsinki solo nel novembre 2006.
Più a sud, in Bielorussia, le carneficine assunsero dimensioni ancora maggiori: il 22 giugno 1941 a Grodno si contarono oltre 1700 vittime, il 24 a Berezwecz, nei pressi della cittadina di Vitebsk, i morti furono 800 (tra cui numerosi polacchi), altre migliaia di persone perirono durante le marce forzate verso est e la medesima sorte toccò alle migliaia che tra il 24 e il 27 del mese furono ancora oggetto della repressione sovietica a Chervyen, nei pressi di Minsk.
In Ucraina lo sterminio colpì soprattutto le regioni occidentali, dove forte era la presenza della Chiesa cattolica di rito greco: tra il 23 e il 30 giugno a Leopoli vennero uccisi 4mila prigionieri, epperò ancora il 5 settembre 1959 il giornale comunista locale, Radianska Ukraina, attribuiva il massacro ai “fascisti hitleriani”. Altre numerose vittime (tra le 1500 e le 4mila) furono mietute a Lutsk, quindi a Berezhany, presso Tarnopoli, tra il 22 giugno e il 1° luglio caddero 300 polacchi e molti ucraini, quindi a Vinnitsa, dove i massacrati furono 9mila. A Dubno furono uccisi tutti i prigionieri compresi donne e bambini, a Sambir si contarono 570 morti, a Simferopol, in Crimea, il 31 ottobre 1941 decine di persone vennero massacrate nella locale prigione o nei locali dell’NKVD e così avvenne pure a Jalta il 4 novembre.
Molte delle fosse comuni in cui i sovietici gettarono sommariamente i prigionieri assassinati furono scoperte dai tedeschi nel 1943, i quali invitarono immediatamente una commissione internazionale a visitarle per fare luce. Eppure quanto accadde in Ucraina venne reso noto solo dopo il 1988.
In generale, gli stermini erano motivati dal timore che le popolazioni non russe, una volta liberate dal giogo di Mosca, si schierassero con i tedeschi, cosa che peraltro spesso avvenne e spesso in mera funzione anticomunista e patriottica. Vi erano però, da parte sovietica, anche motivazioni squisitamente ideologiche. Nei pressi di Orel, per esempio, una città della Russia sud-occidentale, nel settembre 1941 vennero fucilati oltre 150 prigionieri politici e tra questi alcuni bolscevichi della prima ora poi considerati “antipartito”.
La memoria, cortissima
Eppure la verità sulle stragi rosse “dimenticate” fu nota prestissimo. Tra i primi a parlarne vi fu infatti nientemeno che Victor Kravcenko, alto funzionario sovietico riparato negli Stati Uniti nel 1944, il quale nel libro Ho scelto la libertà (trad. it., Longanesi, Milano 1948) scrisse: «Eravamo in parecchi al Sovnarkom [Consiglio dei ministri] a sapere che, più volte, i prigionieri (dei gulag e campi di lavoro ) che non si potevano evacuare venivano fucilati in massa. Ciò avvenne per esempio a Minsk, a Smolensk, a Kiev, a Karkov, nella mia città natale di Dniepropetrovsk e a Zaparozhe […]. Nel kombinat per lavorare il molibdeno, a Nalcik nella Kabardino-Balkaria, Nord-Caucaso, tutti i lavoratori coatti uomini e donne furono uccisi dal NKVD prima dell’arrivo dei tedeschi». Com’è possibile che di tutto questo sangue innocente non vi sia sostanzialmente più memoria?
di Augusto Zuliani
Il Domenicale N. 15 - DAL 11 AL 17 APRILE 2009
Il manifesto di papa Ratzinger: "Così prenda inizio la trasformazione del mondo"
La rivoluzione cristiana nasce nella liturgia, dice Benedetto XVI. E il suo "canone", la sua regola costitutiva, è la grande preghiera eucaristica. L'ha spiegato nell'omelia del Giovedì Santo. E prima ancora in una catechesi, altrettanto sorprendente - di Sandro Magister
ROMA, 14 aprile 2009 – Nella scorsa settimana santa Benedetto XVI ha accompagnato ogni celebrazione con una omelia, di quelle genuinamente sue, dalla prima parola all'ultima. Le omelie sono ormai un segno distintivo di questo pontificato. Forse ancora il meno noto e il meno capito. Ma sicuramente il più rivelatore.
Papa Joseph Ratzinger non è soltanto teologo, è ancor prima liturgo e omileta. In www.chiesa questo suo carattere inconfondibile è stato messo in evidenza più volte. Lo scorso anno, ad esempio, mettendo in rete in blocco, subito dopo Pasqua, le sei omelie della precedente settimana santa. E in autunno curando la raccolta in un libro – edito da Scheiwiller del Gruppo 24 Ore – delle omelie di Benedetto XVI dell'intero anno liturgico appena trascorso.
Dopo la settimana santa di quest'anno, invece, il lettore non troverà riportate qui sotto tutte le omelie pronunciate dal papa nell'occasione. Queste le leggerà agevolmente nel sito del Vaticano, cliccando sul link segnalato a fine pagina.
Delle omelie papali dello scorso triduo sacro ne è riprodotta qui di seguito una sola, quella della sera del Giovedì Santo.
E subito dopo il lettore troverà un altro testo di Benedetto XVI di qualche mese precedente: la catechesi da lui tenuta all'udienza generale di mercoledì 7 gennaio 2009.
I due testi sono tra loro strettamente legati. Sia nell'uno che nell'altro papa Ratzinger spiega le parole e il senso profondo del Canone Romano, la preghiera centrale e costitutiva della messa, la più antica tra quelle in uso in tutto il mondo con l'attuale messale della Chiesa di Roma.
Nella messa "in cena Domini" del Giovedì Santo il Canone Romano ha alcune varianti proprie del giorno. E fin dalle prime parole della sua omelia Benedetto XVI ne mette in luce la particolarità.
Ma è al senso complessivo di questa preghiera liturgica capitale che papa Ratzinger dedica l'intero seguito dell'omelia.
E fa lo stesso in un passaggio della catechesi del 7 gennaio, che per il resto è dedicata a illustrare il culto cristiano nel suo insieme. Quel culto che il Canone Romano, sulla traccia di san Paolo, definisce "rationabile".
La traduzione corrente di "rationabile", nelle lingue moderne, è "spirituale". Ma Benedetto XVI mette in guardia dal pensare che il culto cristiano sia qualcosa di metaforico, di moralistico, di puramente interiore. No, spiega, il vero culto cristiano afferra gli uomini e il mondo nella loro interezza, è anche corporeità e materialità, è "liturgia cosmica" nella quale "i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventino gloria di Dio".
È rarissimo, nella moderna produzione teologica e liturgica, incontrare una spiegazione del significato del culto cristiano così penetrante come in questi due testi della predicazione di papa Ratzinger.
Ecco dunque qui di seguito, nell'ordine:
– l'omelia di Benedetto XVI nella messa "in Cena Domini" dello scorso Giovedì Santo;
– la catechesi del 7 gennaio 2009 sul culto "spirituale";
– i link ai testi integrali del Canone Romano in latino e in lingua moderna;
– più altri rimandi all'insieme delle omelie papali.
__________
1. Omelia del Giovedì Santo, 9 aprile 2009, sul Canone Romano
di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, "Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem": così diremo oggi nel Canone della santa Messa. "Hoc est hodie": la liturgia del Giovedì Santo inserisce nel testo della preghiera la parola "oggi", sottolineando con ciò la dignità particolare di questa giornata. È stato "oggi" che Egli l’ha fatto: per sempre ha donato se stesso a noi nel sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Questo "oggi" è anzitutto il memoriale della Pasqua di allora. Tuttavia è di più. Con il Canone entriamo in questo "oggi". Il nostro oggi viene a contatto con il suo oggi. Egli fa questo adesso. Con la parola "oggi", la liturgia della Chiesa vuole indurci a porre grande attenzione interiore al mistero di questa giornata, alle parole in cui esso si esprime. Cerchiamo dunque di ascoltare in modo nuovo il racconto dell’istituzione [dell'Eucaristia] così come la Chiesa, in base alla Scrittura e contemplando il Signore stesso, lo ha formulato.
Come prima cosa ci colpirà che il racconto dell’istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo: "qui pridie". Questo "qui" aggancia l’intero racconto alla precedente parola della preghiera, "… diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo". In questo modo, il racconto è connesso con la preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a se stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera. E soltanto nella preghiera si realizza l’atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo.
Pregando in questo momento centrale, la Chiesa è in totale accordo con l’avvenimento nel cenacolo, poiche l’agire di Gesù viene descritto con le parole: "gratias agens benedixit": rese grazie con la preghiera di benedizione. Con questa espressione, la liturgia romana ha diviso in due parole ciò, che nell’ebraico "berakha" è una parola sola, nel greco invece appare nei due termini "eucharistia" ed "eulogia". Il Signore ringrazia. Ringraziando riconosciamo che una certa cosa è dono che proviene da un altro. Il Signore ringrazia e con ciò restituisce a Dio il pane, "frutto della terra e del lavoro dell’uomo", per riceverlo nuovamente da Lui. Ringraziare diventa benedire. Ciò che è stato dato nelle mani di Dio, ritorna da Lui benedetto e trasformato. La liturgia romana ha ragione, quindi, nell’interpretare il nostro pregare in questo momento sacro mediante le parole: "offriamo", "supplichiamo", "chiediamo di accettare", "di benedire queste offerte". Tutto questo si nasconde nella parola "eucharistia".
C’è un’altra particolarità nel racconto dell’istituzione riportato nel Canone Romano, che vogliamo meditare in quest’ora. La Chiesa orante guarda alle mani e agli occhi del Signore. Vuole quasi osservarlo, vuole percepire il gesto del suo pregare e del suo agire in quell’ora singolare, incontrare la figura di Gesù, per così dire, anche attraverso i sensi. "Egli prese il pane nelle sue mani sante e venerabili…". Guardiamo a quelle mani con cui Egli ha guarito gli uomini; alle mani con cui ha benedetto i bambini; alle mani che ha imposto agli uomini; alle mani che sono state inchiodate alla Croce e che per sempre porteranno le stimmate come segni del suo amore pronto a morire. Ora siamo incaricati noi di fare ciò che Egli ha fatto: prendere nelle mani il pane perche mediante la preghiera eucaristica sia trasformato. Nell’ordinazione sacerdotale, le nostre mani sono state unte, affinche diventino mani di benedizione. Preghiamo in quest’ora il Signore che le nostre mani servano sempre di più a portare la salvezza, a portare la benedizione, a rendere presente la sua bontà!
Dall’introduzione alla preghiera sacerdotale di Gesù (cfr. Giovanni 17, 1), il Canone prende poi le parole: "Alzando gli occhi al cielo a te, Dio Padre suo onnipotente…". Il Signore ci insegna ad alzare gli occhi e soprattutto il cuore, a sollevare lo sguardo, distogliendolo dalle cose del mondo, ad orientarci nella preghiera verso Dio e così a risollevarci. In un inno della preghiera delle ore chiediamo al Signore di custodire i nostri occhi, affinche non accolgano e non lascino entrare in noi le vanitates: le vanità, le nullità, ciò che è solo apparenza. Preghiamo che attraverso gli occhi non entri in noi il male, falsificando e sporcando così il nostro essere. Ma vogliamo pregare soprattutto per avere occhi che vedano tutto ciò che è vero, luminoso e buono; affinche diventiamo capaci di vedere la presenza di Dio nel mondo. Preghiamo, affinche guardiamo il mondo con occhi di amore, con gli occhi di Gesù, riconoscendo così i fratelli e le sorelle, che hanno bisogno di noi, che sono in attesa della nostra parola e della nostra azione.
Benedicendo, il Signore spezza poi il pane e lo distribuisce ai discepoli. Lo spezzare il pane è il gesto del padre di famiglia che si preoccupa dei suoi e dà loro ciò di cui hanno bisogno per la vita. Ma è anche il gesto dell’ospitalità con cui lo straniero, l’ospite viene accolto nella famiglia e gli viene concessa una partecipazione alla sua vita. Dividere, con-dividere, è unire. Mediante il condividere si crea comunione. Nel pane spezzato, il Signore distribuisce se stesso. Il gesto dello spezzare allude misteriosamente anche alla sua morte, all’amore sino alla morte. Egli distribuisce se stesso, il vero "pane per la vita del mondo" (cfr. Giovanni 6, 51). Il nutrimento di cui l’uomo nel più profondo ha bisogno è la comunione con Dio stesso. Ringraziando e benedicendo, Gesù trasforma il pane, non dà più pane terreno, ma la comunione con se stesso. Questa trasformazione, però, vuol essere l’inizio della trasformazione del mondo. Affinche diventi un mondo di risurrezione, un mondo di Dio. Sì, si tratta di trasformazione. Dell’uomo nuovo e del mondo nuovo che prendono inizio nel pane consacrato, trasformato, transustanziato.
Abbiamo detto che lo spezzare il pane è un gesto di comunione, dell’unire attraverso il condividere. Così, nel gesto stesso è già accennata l’intima natura dell’Eucaristia: essa è agape, è amore reso corporeo. Nella parola agape i significati di Eucaristia e amore si compenetrano. Nel gesto di Gesù che spezza il pane, l’amore che si partecipa ha raggiunto la sua radicalità estrema: Gesù si lascia spezzare come pane vivo. Nel pane distribuito riconosciamo il mistero del chicco di grano, che muore e così porta frutto. Riconosciamo la nuova moltiplicazione dei pani, che deriva dal morire del chicco di grano e proseguirà sino alla fine del mondo. Allo stesso tempo vediamo che l’Eucaristia non può mai essere solo un’azione liturgica. È completa solo se l’agape liturgica diventa amore nel quotidiano. Nel culto cristiano le due cose diventano una: l’essere gratificati dal Signore nell’atto cultuale e il culto dell’amore nei confronti del prossimo. Chiediamo in quest’ora al Signore la grazia di imparare a vivere sempre meglio il mistero dell’Eucaristia così che in questo modo prenda inizio la trasformazione del mondo.
Dopo il pane, Gesù prende il calice del vino. Il Canone romano qualifica il calice, che il Signore dà ai discepoli, come "praeclarus calix", come calice glorioso, alludendo con ciò al salmo 23 [22], quel salmo che parla di Dio come del Pastore potente e buono. Lì si legge: "Davanti a me tu prepari una mensa, sotto gli occhi dei miei nemici… Il mio calice trabocca". Il Canone Romano interpreta questa parola del salmo come una profezia, che si adempie nell’Eucaristia: Sì, il Signore ci prepara la mensa in mezzo alle minacce di questo mondo, e ci dona il calice glorioso, il calice della grande gioia, della vera festa, alla quale tutti aneliamo, il calice colmo del vino del suo amore.
Il calice significa le nozze: adesso è arrivata l’"ora" alla quale le nozze di Cana avevano alluso in modo misterioso. Sì, l’Eucaristia è più di un convito, è una festa di nozze. E queste nozze si fondono nell’autodonazione di Dio sino alla morte. Nelle parole dell’Ultima Cena di Gesù e nel Canone della Chiesa, il mistero solenne delle nozze si cela sotto l’espressione "novum testamentum". Questo calice è il nuovo testamento, "la nuova alleanza nel mio sangue", come Paolo riferisce la parola di Gesù sul calice nella seconda lettura di oggi (1 Corinzi 11, 25). Il Canone Romano aggiunge: "per la nuova ed eterna alleanza", per esprime l’indissolubilità del legame nuziale di Dio con l’umanità. Il motivo per cui le antiche traduzioni della Bibbia non parlano di alleanza, ma di testamento, sta nel fatto che non sono due contraenti alla pari che qui si incontrano, ma entra in azione l’infinita distanza tra Dio e l’uomo. Ciò che noi chiamiamo nuova ed antica alleanza non è un atto di intesa tra due parti uguali, ma mero dono di Dio che ci lascia in eredità il suo amore: se stesso. E certo, mediante questo dono del suo amore Egli, superando ogni distanza, ci rende poi veramente partner e si realizza il mistero nuziale dell’amore.
Per poter comprendere che cosa in profondità lì avviene, dobbiamo ascoltare ancora più attentamente le parole della Bibbia e il loro significato originario. Gli studiosi ci dicono che, nei tempi remoti di cui parlano le storie dei Padri di Israele, "ratificare un’alleanza" significa "entrare con altri in un legame basato sul sangue, ovvero accogliere l’altro nella propria federazione ed entrare così un una comunione di diritti l’uno con l’altro". In questo modo si crea una consanguineità reale benche non materiale. I partner diventano in qualche modo "fratelli dalla stessa carne e dalle stesse ossa". L’alleanza opera un’insieme che significa pace (cfr. "Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament" II 105-137). Possiamo adesso farci almeno un’idea di ciò che avvenne nell’ora dell’Ultima Cena e che, da allora, si rinnova ogni volta che celebriamo l’Eucaristia? Dio, il Dio vivente stabilisce con noi una comunione di pace, anzi, Egli crea una "consanguineità" tra se e noi. Mediante l’incarnazione di Gesù, mediante il suo sangue versato siamo stati tirati dentro una consanguineità molto reale con Gesù e quindi con Dio stesso. Il sangue di Gesù è il suo amore, nel quale la vita divina e quella umana sono divenute una cosa sola. Preghiamo il Signore, affinche comprendiamo sempre di più la grandezza di questo mistero! Affinche esso sviluppi la sua forza trasformatrice nel nostro intimo, in modo che diventiamo veramente consanguinei di Gesù, pervasi dalla sua pace e così anche in comunione gli uni con gli altri.
Ora, però, emerge ancora un’altra domanda. Nel cenacolo, Cristo dona ai discepoli il suo Corpo e il suo Sangue, cioè se stesso nella totalità della sua persona. Ma può farlo? È ancora fisicamente presente in mezzo a loro, sta di fronte a loro! La risposta è: in quell’ora Gesù realizza ciò che aveva annunciato precedentemente nel discorso sul Buon Pastore: "Nessuno mi toglie la mia vita: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo…" (Giovanni 10, 18). Nessuno può togliergli la vita: Egli la dà per libera decisione. In quell’ora anticipa la crocifissione e la risurrezione. Ciò che là si realizzerà, per così dire, fisicamente in Lui, Egli lo compie già in anticipo nella libertà del suo amore. Egli dona la sua vita e la riprende nella risurrezione per poterla condividere per sempre.
Signore, oggi Tu ci doni la tua vita, ci doni te stesso. Penetraci con il tuo amore. Facci vivere nel tuo "oggi". Rendici strumenti della tua pace! Amen.
__________
2. Catechesi del 7 gennaio 2009, sul culto "spirituale"
di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, in questa prima udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l’anno nuovo sarà buono e felice.
L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo, di una “spiritualizzazione” dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto.
1. In Romani 3, 25, dopo aver parlato della “redenzione realizzata da Cristo Gesù”, Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo “ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue”. Con questa espressione per noi piuttosto strana – “strumento di espiazione” – san Paolo accenna al cosiddetto “propiziatorio” dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo “propiziatorio”, nel grande giorno della riconciliazione – “yom kippur” – veniva asperso col sangue di animali sacrificati – sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo.
San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita.
Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo. Già prima della distruzione esterna del tempio per Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato un altro tempio “non fatto da mani d’uomo” – il tempio del suo corpo resuscitato (cfr Marco 14, 58; Giovanni 2, 19ss). Questo è il primo testo.
2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12 della lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. In queste parole si verifica un apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano. L'espressione “presentare i vostri corpi”, stante il successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di “dare in oblazione, offrire”. L’esortazione a “offrire i corpi” si riferisce all’intera persona; infatti, in Romani 6, 13 egli invita a “presentare voi stessi”. Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l’invito a “glorificare Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6, 20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e percepibile.
Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come “sacrificio vivente, santo, gradito a Dio”. È qui che incontriamo appunto il vocabolo “sacrificio”. Nell'uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un'altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo – “vivente” – esprime una vitalità. Il secondo – “santo” – ricorda l'idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – “gradito a Dio” – richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio “in odore di soavità” (cfr Levitico 1, 13.17; 23, 18; 26, 31; ecc.).
Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è “il vostro culto spirituale”. I commentatori del testo sanno bene che l'espressione greca (t?n logik?n latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: “rationabile obsequium”. La stessa parola “rationabile” appare nella prima preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti questa offerta come “rationabile”. La consueta traduzione italiana “culto spirituale” non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.
Questa formula paolina, che ritorna poi nella preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell’esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I profeti e molti salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il salmo 50 (49), in cui è Dio che parla: “Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode…” (vv. 12-14). Nello stesso senso dice il salmo seguente, 51 (50): “..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (vv. 18s). Nel libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco – cioè alla persecuzione, alla sofferenza – Azaria prega così: “Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori… Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito …” (Daniele 3, 38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito – il suo desiderio di Dio.
Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il salmo 51 e anche il libro di Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare.
Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l’uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo senso egli dice ai Romani: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il vostro culto spirituale” (Romani 12, 1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l’uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l’intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo “culto spirituale, ragionevole”? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti “uno in Cristo Gesù” (Galati 3, 28), che siamo morti nel battesimo (cfr Romani 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. In questa unione – e solo così – possiamo divenire in Lui e con Lui “sacrificio vivente”, offrire il “culto vero”. Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l’essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio vivente: si realizza il “culto vero”.
Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta diventi “rationabile” – che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta “rationabile” che piace a Dio. Così la preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. sant’Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua "Città di Dio". Cito solo due frasi. “Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo”… “Tutta la comunità (civitas) redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso” (10, 6: CCL 47, 27ss).
3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della lettera ai Romani concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: “La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere “liturgo” di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo” (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è una azione “sacerdotale”. L’apostolo del Vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, “oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo”. Qui appare l’aspetto dinamico, l’aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell’amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia – questo dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il nuovo anno.
Sindone e sudario al loro posto - Autore: Colosso, Giancarlo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 13 aprile 2009
«La tomba non era completamente vuota. C’erano i testimoni, i soli testimoni della resurrezione di Gesù. C’erano i panni. Pur essendo muti, potevano ben comunicare qualche cosa, visto che, dopo averli visti, Giovanni ha creduto». Inizia così lo studio di Charles de Cidrac, professore emerito all’Institut catholique di Parigi. Nove paginette battute al computer, con correzioni a mano, non pubblicate da nessuna rivista ‘scientifica’. Eppure contengono spunti interessanti, gli stessi ripresi da padre Galot nel suo intervento su ‘La Civiltà Cattolica’. Secondo de Cidrac circolano, riguardo alla scena del sepolcro vuoto, molte traduzioni maldestre, che generano malintesi ed errori «contrari ai costumi giudei e anche al buon senso». Per chiarire quanto veramente intendeva descrivere l’autore, il professore francese sottopone il testo a una serrata analisi grammaticale, tenendo conto anche degli usi funerari vigenti in ambiente ebraico a quei tempi. La prima confusione, in molte traduzioni, riguarda i termini con cui si indicano i panni adoperati per l’inumazione. L’originale greco parla ỏθόνια e di σουδάριον: termini tradotti spesso in maniera generica confondendoli tra loro (bende, fasce panni, ecc). In realtà, con la parola ỏθόνια si indicavano tutti i teli impregnati di mirra e di aloe usati nella sepoltura: sia ἥ σινδών (il lenzuolo più ampio, lungo 4 metri e largo 90 centimetri, che veniva disteso sotto e sopra il corpo del defunto per tutta la sua lunghezza, riaccostando i due lembi estremi sotto i piedi), sia le bende con cui si legavano le mani e si cingeva il lenzuolo, per tenerlo aderente. C’era poi il sudario, το σουδάριον, un ampio fazzoletto quadrato piegato sulla sua linea diagonale, a farne un triangolo, e poi arrotolato su se stesso. Formava così una fascia con un certo spessore, che veniva fatta passare sotto il mento del defunto e annodata sulla testa, in modo che la bocca non si aprisse per il rilassamento dei nervi. Le altre imprecisioni di tipo grammaticale generano, a detta di de Cidrac, malintesi sulla posizione in cui i due apostoli rinvennero tutti questi panni. In particolare: nell’originale greco è scritto che Pietro, entrando nel sepolcro, vide τὰ ỏθόνια κείμενα che molte versioni traducono come «i teli posti a terra». Ora, il participio κείμενα indica in realtà la posizione distesa, orizzontale dei teli, senza significare che essi fossero gettati a terra, sul pavimento del sepolcro. Il verbo difettivo κεἶμεναι vuol dire essere giacente, essere in orizzontale. L’espressione significa che i teli funerari erano giacenti al loro posto, afflosciati su se stessi, dopo che non fasciavano più il corpo di Gesù. Probabilmente erano rimasti giacenti nella nicchia scavata nella parete propria dell’architettura funeraria ebraica di tipo signorile, in cui era stato deposto il corpo di Gesù; le ultime espressioni del brano in questione girano intorno alla posizione del sudario. L’originale dice che il sudario era οử μετά τῶν ỏθονίων κείμενον, espressione che viene di solito tradotta (ad esempio, dal Nuovo Testamento pubblicato dalla Conferenza episcopale italiana): «non là con i teli». Si introduce così l’idea che il sudario abbia cambiato posizione rispetto al punto in cui si trovava quando il corpo di Gesù era stato sepolto. Anche le espressioni seguenti (ἀλλὰ χωρὶς ἐντετλιγμένον εἰς ἔνα τόπον) vengono interpretate in modo da confermare la diversa dislocazione del sudario rispetto agli altri panni. Sempre la versione Cei traduce queste espressioni annotando che il sudario non era con gli altri teli «ma in disparte, ripiegato in un luogo». De Cidrac contesta diversi punti di questa traduzione corrente. Secondo lui la negazione ου va riferita non all’espressione locale μετά τῶν ỏθονίων κείμενον (tra i teli) ma al participio κείμενον (disteso, giacente), anche esso dal verbo κείμεναι. Si vuole così indicare che il sudario non era disteso, non era giacente come il resto dei teli. Μετά τῶν ỏθονίων, non più connesso alla negazione ου, va tradotto «in mezzo ai teli», e indica la dislocazione del sudario, che era proprio rimasto sotto la sindone, distintamente arrotolato (così de Cidrac traduce l’avverbio χωρὶς e il participio passato passivo εντετλιγμένον, dal verbo εντετλίσσω) nel suo primo posto (εις ἔνα τόπον). Tutto questo per dire che il sudario non si era spostato dal suo posto iniziale, e adesso, essendo rimasto arrotolato, se ne distingueva lo spessore in rilievo in mezzo agli altri teli giacenti, sotto la parte superiore della sindone. A conti fatti, la traduzione del passo che de Cidrac offre come contributo originale alla ricerca esegetica è la seguente: «[Simon Pietro] entrò nel sepolcro e vide i teli giacenti, e il sudario, che era stato legato sulla testa. Questo era posto in mezzo ai teli, senza essere disteso, ma distintamente arrotolato su se stesso, al suo posto iniziale».
CRISTIANESIMO/ San Francesco, una “Regola” che compie ottocento anni - Redazione - giovedì 16 aprile 2009 – ilsussidiario.net
In questi anni primi anni del secolo ricorrono gli ottavi centenari di momenti importanti della vita di san Francesco e della storia del francescanesimo. Nel 2006 si è celebrata la “conversione” di Francesco, ossia la celebre chiamata del crocefisso di San Damiano a restaurare la piccola chiesa fuori Assisi, principio del cammino verso la santità del giovane assisano. Nel 2008 si è celebrato il “dono dei primi compagni”, quando Bernardo di Quintavalle, dopo aver ospitato Francesco a cena a casa sua (ancora rintracciabile in uno dei vicoli di Assisi) decise di seguirlo, subito imitato da Egidio e Silvestro, di dantesca memoria (cfr. Paradiso, Canto XI, 82-84).
Quest’anno ricorre l’ottavo centenario del viaggio a Roma di Francesco e dei primi compagni, che avevano già raggiunto il numero significativo di dodici, per chiedere al papa Innocenzo III l’approvazione della prima regola. Questo episodio è ovviamente centrale nella vicenda francescana. L’esito dell’incontro è ben noto: Francesco ebbe l’approvazione da parte del papa e al 1209 si fa, quindi, risalire la nascita dell’Ordine francescano.
Molto confusa rimane, invece, la ricostruzione di come andarono i fatti. Le molte fonti medievali raccontano diverse versioni di questo episodio così decisivo, non solo per il francescanesimo, ma per il mondo intero, se si considera l’impronta che San Francesco poi diede alla storia della Chiesa Cattolica e a tutta la civiltà occidentale («...l’uomo più distintivo, l’uomo più esemplare della sensibilità della nostra stirpe...», ebbe a dire, ad esempio, don Luigi Giussani a Padova l’11 febbraio 1994). Nonostante i molti racconti, resta in gran parte incerto come sia riuscito questo piccolo gruppo anonimo di giovani (l’età media doveva superare di poco i vent’anni, Francesco, forse il più anziano, ne aveva ventisette o ventotto) provenienti da Assisi a farsi ricevere e, soprattutto, a farsi prendere sul serio da Innocenzo III, impegnato aspramente in quegli anni a difendere la Chiesa dal diffondersi delle eresia catara e dalle pretese del potere imperiale. Resta incerto come sia riuscito Francesco a ottenere l’approvazione pontificia per una regola semplicissima (che purtroppo abbiamo perduto) fatta di poche frasi, per lo più di citazioni evangeliche, ma che chiedeva qualcosa di finora inaudito: l’autorizzazione per un non chierico (Francesco non era e non fu mai un sacerdote) e per i suoi seguaci a predicare il Vangelo. Fatto sta che tutto ciò è accaduto; non era programmato e gli sviluppi erano allora del tutto imprevedibili per i protagonisti, primo fra tutti lo stesso Francesco. Si può pensare a questo episodio come a uno dei più grandi miracoli accaduti al santo, molto più importante di tanti altri a cui la cultura moderna fa più facilmente riferimento, come la famosa predica agli uccelli.
Per celebrare l’approvazione della prima regola e, quindi, la nascita del primo Ordine francescano, i diversi Ordini attualmente esistenti hanno convocato ad Assisi un “Capitolo delle stuoie” dal 15 al 17 aprile e si concluderà il 18 aprile con un’udienza dal Papa a Castelgandolfo. Il nome di questa riunione fa riferimento a una celebre assemblea generale di tutti i frati, che si tenne a Santa Maria degli Angeli, nei campi di fronte alla Porziuncola, nel 1221; fu l’ultima occasione per la maggioranza di loro di vedere e ascoltare Francesco, che morirà cinque anni dopo. La definizione “delle stuoie” fa riferimento al fatto che la partecipazione fu così numerosa, si calcola tra tremila e cinquemila partecipanti (un numero notevole per l’epoca!), che i frati non trovarono alloggio al coperto e dovettero arrangiarsi con ripari improvvisati fatti di giunchi e rami intrecciati, le “stuoie” appunto. Per i diversi Ordini e gruppi francescani, convocare un capitolo “delle stuoie” significa convocare tutte le diverse esperienze a un gesto di unità. Sia l’ottavo centenario dell’approvazione della prima regola, sia la grande riunione dei francescani ad Assisi ci ricordano che san Francesco è forse stato un santo “unico” (come molti lo definiscono), ma non è certo stato un uomo “solo”!
(Francesco Vignaroli)
SCUOLA/ Educare partendo dall’esperienza: la via maestra per la scuola dell’infanzia - Feliciana Cicardi - giovedì 16 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Non stupisce il fatto che la bozza di Regolamento relativa alla formazione iniziale dei docenti accomuni il percorso di formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia a quello dei docenti della scuola primaria. Diverso il discorso invece sulla quantità esorbitante di ‘discipline’ che i docenti dovrebbero apprendere per essere pronti all’insegnamento: quando la cultura professionale è concepita come enciclopedismo viene svilita e non centra il bersaglio.
Il professionista che ha a cuore lo sviluppo integrale dei soggetti a lui affidati, soprattutto nella scuola dell’infanzia, non è connotato unicamente da competenze ‘disciplinari’, ma anche da altre competenze che gli consentano di essere promotore di apprendimento nella sua accezione più ampia.
Pensando alla scuola dell’infanzia, per troppo tempo caratterizzata da una funzione ‘preparatoria’ alla scuola primaria o come allungamento del contesto ‘familiare’, è spontaneo chiedersi quali siano i must che connotano la sua funzione educativa. Coerezza ha giustamente individuato i pilastri della scuola del’infanzia nella cura, nel gioco e nella capacità di lavorare su tempi e spazi. Aggiungendo la comunicazione verbale e non verbale ad integrazione dell’elenco delle caratteristiche, si deve però sottolineare che tali caratteristiche prendono significato dalla funzione educativa che si attribuisce alla scuola dell’infanzia.
Esemplificando. Si afferma da più parti l’educazione come esperienza. Tale concetto è presente in due autori apparentemente lontani tra loro quali Romano Guardini e John Dewey per i quali non c’è vera educazione se non è reale “esperienza”, cioè rapporto vivo e significativo con le cose, gli avvenimenti e le persone, cioè a dire con la realtà. Se si assumono determinati connotati di ‘esperienza’ si dà significato alle finalità della scuola dell’infanzia che possono essere riassunte in
- costruire la propria identità
- dare un nome alla realtà
- ‘ordinare’ e nominare la propria esperienza pregressa ed in atto
- riconoscere l’altro come ‘prezioso’ da rispettare ed opportunità per sé.
Allora i pilastri correttamente individuati da Coerezza diventano “strumenti” per offrire al bambino occasioni di crescita, ma vanno conosciuti e ri-conosciuti nella loro potenzialità educativa. Se è vero, come sostiene una ricercatrice statunitense, che attività ricreative libere e non strutturate sarebbero da preferire ai metodi tradizionali di apprendimento e ad un’alfabetizzazione troppo precoce, è altrettanto vero che il ‘gioco’ va conosciuto e ‘posseduto’ dall’insegnante in tutta la sua potenzialità formativa a tutto tondo. Termini come osservazione, interazione verbale tra pari, relazionalità simmetrica ed asimmetrica tra pari e con adulti, compaiono spesso nella letteratura relativa alla scuola dell’infanzia, ma poco vengono collegate al gioco, strutturato o spontaneo.
Simili consapevolezze ed una buona padronanza degli ‘strumenti’ educativi dovrebbe scaturire da una formazione iniziale che, unitamente a ‘conoscenze’ psicopedagogiche importanti ed essenziali, dovrebbe offrire occasioni di ‘sensate esperienze’ (Galileo) ai docenti. Tali occasioni potrebbero accadere durante il tirocinio che deve diventare un’opportunità di misurarsi sul campo, perseguendo esso almeno tre obiettivi sulla formazione dei docenti:
- imparare ad essere consapevoli della portata educativa del proprio agire e degli ‘strumenti’ del mestiere,
- imparare a riflettere sull’azione intrapresa a partire da un’ipotesi educativa, acquisire il distanziamento dall’azione per riflettere, capire, rielaborare,
- imparare una competenza comunicativa-relazionale come adozione di uno stile aperto e collaborativo nei confronti degli adulti educatori, anche attraverso l’ascolto attivo e la disponibilità al dialogo.
Tutto ciò porta ad auspicare un aumento quantitativo del tirocinio previsto dalla “bozza Israel”, nonché un’organizzazione del tirocinio stesso che ponga il docente nell’agone scolastico come protagonista guidato (dal tutor?) perché le competenze fondamentali di un educatore si ‘imparano’ e/o si sviluppano in un’azione in contesti di realtà. L’esito del tirocinio potrebbe non essere più una tesina su un determinato argomento, ma la progettazione di un percorso didattico e la verifica/valutazione dello stesso, a fronte dell’attuazione del percorso in una classe/sezione. Si svilupperebbe così nel docente la capacità di auto-osservazione all’interno di una pratica di ricerca-azione che richiede un’indagine riflessiva sul proprio operato mediante la sinergia di teoria e pratica.
In tal senso la figura del tutor (magari più di uno) va rivista e precisata. Perché non concepire il tutor come l’“esperto” che, in un processo di ricerca-azione, aiuta il docente in formazione a pianificare strategie di intervento, fare, riflettere sul fare con tutti gli attori dell’azione didattica educativa, quindi riprogettare, in una situazione reale (contesto d’aula)?
In fondo anche tra gli insegnanti in servizio non mancano le esperienze, bensì una guida che orienti la riflessione sull’agito e il vissuto per riconoscere questi come ‘sensate’ esperienze, cioè cariche di ‘senso’ per il proprio essere ed agire professionale. Con, a monte, un’intenzionalità educativa chiara e precisa nelle sue finalità.
1) Benedetto XVI durante la catechesi settimanale riafferma la storicità dell'evento pasquale - La risurrezione di Gesù illumina l'enigma umano del dolore - Il racconto evangelico non può essere ridotto a un mito "riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche". Lo ha ribadito Benedetto XVI nella catechesi per la settimanale udienza generale svoltasi in piazza San Pietro mercoledì mattina, 15 aprile. Il Papa ha anche ricordato che nessuno può tenere per sé l'annuncio della "Verità che cambia la vita". – L’Osservatore Romano, 16 aprile 2009
2) TERREMOTO IN ABRUZZO - Passione dell’uomo, passione di Cristo – volantino di CL dopo il terremoto in Abruzzo
3) Messaggio di Pasqua di Benedetto XVI - "La risurrezione di Cristo è la nostra speranza"
4) Il massacro di Katyn? Fu solo l’inizio - Mosca si preparava a far guerra al Terzo Reich sognando di giungere sino alle sponde dell’Atlantico. Berlino l’anticipò di un soffio e il disastro che ne seguì fu pagato a caro prezzo da polacchi, baltici, ucraini e finlandesi…
5) Il manifesto di papa Ratzinger: "Così prenda inizio la trasformazione del mondo"
6) Sindone e sudario al loro posto - Autore: Colosso, Giancarlo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 13 aprile 2009
7) CRISTIANESIMO/ San Francesco, una “Regola” che compie ottocento anni - Redazione - giovedì 16 aprile 2009 – ilsussidiario.net
8) SCUOLA/ Educare partendo dall’esperienza: la via maestra per la scuola dell’infanzia - Feliciana Cicardi - giovedì 16 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Benedetto XVI durante la catechesi settimanale riafferma la storicità dell'evento pasquale - La risurrezione di Gesù illumina l'enigma umano del dolore - Il racconto evangelico non può essere ridotto a un mito "riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche". Lo ha ribadito Benedetto XVI nella catechesi per la settimanale udienza generale svoltasi in piazza San Pietro mercoledì mattina, 15 aprile. Il Papa ha anche ricordato che nessuno può tenere per sé l'annuncio della "Verità che cambia la vita". – L’Osservatore Romano, 16 aprile 2009
Cari fratelli e sorelle, la consueta Udienza Generale del mercoledì è oggi pervasa di gaudio spirituale, quel gaudio che nessuna sofferenza e pena possono cancellare, perché è gioia che scaturisce dalla certezza che Cristo, con la sua morte e risurrezione, ha definitivamente trionfato sul male e sulla morte. "Cristo è risorto! Alleluia!", canta la Chiesa in festa. E questo clima festoso, questi sentimenti tipici della Pasqua, si prolungano non soltanto durante questa settimana - l'Ottava di Pasqua - ma si estendono nei cinquanta giorni che vanno fino alla Pentecoste. Anzi, possiamo dire: il mistero della Pasqua abbraccia l'intero arco della nostra esistenza. In questo tempo liturgico sono davvero tanti i riferimenti biblici e gli stimoli alla meditazione che ci vengono offerti per approfondire il significato e il valore della Pasqua. La "via crucis", che nel Triduo Santo abbiamo ripercorso con Gesù sino al Calvario rivivendone la dolorosa passione, nella solenne Veglia pasquale è diventata la consolante "via lucis". Visto dalla risurrezione, possiamo dire che tutta questa via della sofferenza è cammino di luce e di rinascita spirituale, di pace interiore e di salda speranza. Dopo il pianto, dopo lo smarrimento del Venerdì Santo, seguito dal silenzio carico di attesa del Sabato Santo, all'alba del "primo giorno dopo il sabato" è risuonato con vigore l'annuncio della Vita che ha sconfitto la morte: "Dux vitae mortuus/regnat vivus - il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa!". La novità sconvolgente della risurrezione è così importante che la Chiesa non cessa di proclamarla, prolungandone il ricordo specialmente ogni domenica: ogni domenica, infatti, è "giorno del Signore" e Pasqua settimanale del popolo di Dio. I nostri fratelli orientali, quasi a evidenziare questo mistero di salvezza che investe la nostra vita quotidiana, chiamano in lingua russa la domenica "giorno della risurrezione" (voskrescénje). È pertanto fondamentale per la nostra fede e per la nostra testimonianza cristiana proclamare la risurrezione di Gesù di Nazaret come evento reale, storico, attestato da molti e autorevoli testimoni. Lo affermiamo con forza perché, anche in questi nostri tempi, non manca chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, ad una "visione" degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche. Certamente la risurrezione non è stata per Gesù un semplice ritorno alla vita precedente. In questo caso, infatti, sarebbe stata una cosa del passato: duemila anni fa uno è risorto, è ritornato alla sua vita precedente, come per esempio Lazzaro. La risurrezione si pone in un'altra dimensione: è il passaggio ad una dimensione di vita profondamente nuova, che interessa anche noi, che coinvolge tutta la famiglia umana, la storia e l'universo. Questo evento che ha introdotto una nuova dimensione di vita, un'apertura di questo nostro mondo verso la vita eterna, ha cambiato l'esistenza dei testimoni oculari come dimostrano i racconti evangelici e gli altri scritti neotestamentari; è un annuncio che intere generazioni di uomini e donne lungo i secoli hanno accolto con fede e hanno testimoniato non raramente a prezzo del loro sangue, sapendo che proprio così entravano in questa nuova dimensione della vita. Anche quest'anno, a Pasqua risuona immutata e sempre nuova, in ogni angolo della terra, questa buona notizia: Gesù morto in croce è risuscitato, vive glorioso perché ha sconfitto il potere della morte, ha portato l'essere umano in una nuova comunione di vita con Dio e in Dio. Questa è la vittoria della Pasqua, la nostra salvezza! E quindi possiamo con sant'Agostino cantare: "La risurrezione di Cristo è la nostra speranza", perché ci introduce in un nuovo futuro. È vero: la risurrezione di Gesù fonda la nostra salda speranza e illumina l'intero nostro pellegrinaggio terreno, compreso l'enigma umano del dolore e della morte. La fede in Cristo crocifisso e risorto è il cuore dell'intero messaggio evangelico, il nucleo centrale del nostro "Credo". Di tale "Credo" essenziale possiamo trovare una espressione autorevole in un noto passo paolino, contenuto nella Prima Lettera ai Corinzi (15, 3-8) dove, l'Apostolo, per rispondere ad alcuni della comunità di Corinto che paradossalmente proclamavano la risurrezione di Gesù ma negavano quella dei morti - la nostra speranza -, trasmette fedelmente quello che egli - Paolo - aveva ricevuto dalla prima comunità apostolica circa la morte e risurrezione del Signore. Egli inizia con una affermazione quasi perentoria: "Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l'ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano!" (vv. 1-2). Aggiunge subito di aver loro trasmesso quello che lui stesso aveva ricevuto. Segue poi la pericope che abbiamo ascoltato all'inizio di questo nostro incontro. San Paolo presenta innanzitutto la morte di Gesù e pone, in un testo così scarno, due aggiunte alla notizia che "Cristo morì". La prima aggiunta è: morì "per i nostri peccati"; la seconda è: "secondo le Scritture" (v. 3). Questa espressione "secondo le Scritture" pone l'evento della morte del Signore in relazione con la storia dell'alleanza veterotestamentaria di Dio con il suo popolo, e ci fa comprendere che la morte del Figlio di Dio appartiene al tessuto della storia della salvezza, ed anzi ci fa capire che tale storia riceve da essa la sua logica ed il suo vero significato. Fino a quel momento la morte di Cristo era rimasta quasi un enigma, il cui esito era ancora insicuro. Nel mistero pasquale si compiono le parole della Scrittura, cioè, questa morte realizzata "secondo le Scritture" è un avvenimento che porta in sé un logos, una logica: la morte di Cristo testimonia che la Parola di Dio si è fatta sino in fondo "carne", "storia" umana. Come e perché ciò sia avvenuto lo si comprende dall'altra aggiunta che san Paolo fa: Cristo morì "per i nostri peccati". Con queste parole il testo paolino pare riprendere la profezia di Isaia contenuta nel Quarto Canto del Servo di Dio (cfr. Is 53, 12). Il Servo di Dio - così dice il Canto - "ha spogliato se stesso fino alla morte", ha portato "il peccato di molti", ed intercedendo per i "colpevoli" ha potuto recare il dono della riconciliazione degli uomini tra loro e degli uomini con Dio: la sua è dunque una morte che mette fine alla morte; la via della Croce porta alla Risurrezione. Nei versetti che seguono, l'Apostolo si sofferma poi sulla risurrezione del Signore. Egli dice che Cristo "è risorto il terzo giorno secondo le Scritture". Di nuovo: "secondo le Scritture"! Non pochi esegeti intravedono nell'espressione: "È risorto il terzo giorno secondo le Scritture" un significativo richiamo di quanto leggiamo nel Salmo 16, dove il Salmista proclama: "Non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la corruzione" (v.10). È questo uno dei testi dell'Antico Testamento, citati spesso nel cristianesimo primitivo, per provare il carattere messianico di Gesù. Poiché secondo l'interpretazione giudaica la corruzione cominciava dopo il terzo giorno, la parola della Scrittura si adempie in Gesù che risorge il terzo giorno, prima cioè che cominci la corruzione. San Paolo, tramandando fedelmente l'insegnamento degli Apostoli, sottolinea che la vittoria di Cristo sulla morte avviene attraverso la potenza creatrice della Parola di Dio. Questa potenza divina reca speranza e gioia: è questo in definitiva il contenuto liberatore della rivelazione pasquale. Nella Pasqua, Dio rivela se stesso e la potenza dell'amore trinitario che annienta le forze distruttrici del male e della morte. Cari fratelli e sorelle, lasciamoci illuminare dallo splendore del Signore risorto. Accogliamolo con fede e aderiamo generosamente al suo Vangelo, come fecero i testimoni privilegiati della sua risurrezione; come fece, diversi anni dopo, san Paolo che incontrò il divino Maestro in modo straordinario sulla Via di Damasco. Non possiamo tenere solo per noi l'annuncio di questa Verità che cambia la vita di tutti. E con umile fiducia preghiamo: "Gesù, che risorgendo dai morti hai anticipato la nostra risurrezione, noi crediamo in Te!". Mi piace concludere con una esclamazione che amava ripetere Silvano del Monte Athos: "Gioisci, anima mia. È sempre Pasqua, perché Cristo risorto è la nostra risurrezione!". Ci aiuti la Vergine Maria a coltivare in noi, e attorno a noi, questo clima di gioia pasquale, per essere testimoni dell'Amore divino in ogni situazione della nostra esistenza. Ancora una volta, Buona Pasqua a voi tutti!
(©L'Osservatore Romano - 16 aprile 2009)
TERREMOTO IN ABRUZZO - Passione dell’uomo, passione di Cristo – volantino di CL dopo il terremoto in Abruzzo
Ancora una volta siamo stati feriti nell’intimo del nostro essere da un
evento sconvolgente. Così sconvolgente che è difficile sottrarsi alla domanda
circa il suo significato, talmente supera la nostra capacità di comprensione.
La questione è tanto radicale quanto scomoda. Non possiamo cercare di
chiuderla in fretta, desiderando di voltare pagina quanto prima per dimenticare.
Non è ragionevole restare prigionieri di una emotività che ci
soffoca, tanto meno spostare l’attenzione su eventuali responsabili.
La carità sterminata, che si è documentata in questi giorni come moto
spontaneo e che sarà necessaria soprattutto nei prossimi mesi quando ci
sarà più bisogno di aiuto, indica che la dimenticanza non è l’unica strada.
Eppure neanche questa mossa è in grado di esaurire l’urgenza della domanda,
suscitata dall’esperienza della nostra impotenza di fronte al terremoto.
Eventi come questo ci mettono davanti al mistero dell’esistenza, provocando
la nostra ragione e la nostra libertà di uomini. Sprecare l’occasione
di guardarlo in faccia ci lascerebbe ancora più smarriti e scettici. Ma per
stare davanti almistero dell’esistenza abbiamo bisogno di qualcosa di più
della nostra pur giusta solidarietà. Da soli non possiamo.
La compagnia di Cristo - che è all’origine dell’amore all’uomo proprio del
nostro popolo - si rivela ancora una volta decisiva nella nostra storia: una
compagnia che dà senso alla vita e allamorte, alle vittime, ai sopravvissuti
e a noi stessi, e sostiene la speranza.
L’imminenza della Pasqua acquista, allora, una nuova luce. «Egli che non
ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci
donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,32).
Comunione e Liberazione
Messaggio di Pasqua di Benedetto XVI - "La risurrezione di Cristo è la nostra speranza"
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 12 aprile 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il messaggio di Pasqua che Benedetto XVI ha rivolto questa domenica dal balcone della facciata della Basilica di San Pietro alle migliaia di pellegrini riunite in Piazza San Pietro in Vaticano.
* * *
Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero!
Formulo di cuore a voi tutti l'augurio pasquale con le parole di sant'Agostino: "Resurrectio Domini, spes nostra - la risurrezione del Signore è la nostra speranza" (Agostino, Sermo 261, 1). Con questa affermazione, il grande Vescovo spiegava ai suoi fedeli che Gesù è risorto perché noi, pur destinati alla morte, non disperassimo, pensando che con la morte la vita sia totalmente finita; Cristo è risorto per darci la speranza (cfr ibid.).
In effetti, una delle domande che più angustiano l'esistenza dell'uomo è proprio questa: che cosa c'è dopo la morte? A quest'enigma la solennità odierna ci permette di rispondere che la morte non ha l'ultima parola, perché a trionfare alla fine è la Vita. E questa nostra certezza non si fonda su semplici ragionamenti umani, bensì su uno storico dato di fede: Gesù Cristo, crocifisso e sepolto, è risorto con il suo corpo glorioso. Gesù è risorto perché anche noi, credendo in Lui, possiamo avere la vita eterna. Quest'annuncio sta nel cuore del messaggio evangelico. Lo dichiara con vigore san Paolo: "Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede". E aggiunge: "Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini" (1 Cor 15,14.19). Dall'alba di Pasqua una nuova primavera di speranza investe il mondo; da quel giorno la nostra risurrezione è già cominciata, perché la Pasqua non segna semplicemente un momento della storia, ma l'avvio di una nuova condizione: Gesù è risorto non perché la sua memoria resti viva nel cuore dei suoi discepoli, bensì perché Egli stesso viva in noi e in Lui possiamo già gustare la gioia della vita eterna.
La risurrezione pertanto non è una teoria, ma una realtà storica rivelata dall'Uomo Gesù Cristo mediante la sua "pasqua", il suo "passaggio", che ha aperto una "nuova via" tra la terra e il Cielo (cfr Eb 10,20). Non è un mito né un sogno, non è una visione né un'utopia, non è una favola, ma un evento unico ed irripetibile: Gesù di Nazaret, figlio di Maria, che al tramonto del Venerdì è stato deposto dalla croce e sepolto, ha lasciato vittorioso la tomba. Infatti all'alba del primo giorno dopo il sabato, Pietro e Giovanni hanno trovato la tomba vuota. Maddalena e le altre donne hanno incontrato Gesù risorto; lo hanno riconosciuto anche i due discepoli di Emmaus allo spezzare il pane; il Risorto è apparso agli Apostoli la sera nel Cenacolo e quindi a molti altri discepoli in Galilea.
L'annuncio della risurrezione del Signore illumina le zone buie del mondo in cui viviamo. Mi riferisco particolarmente al materialismo e al nichilismo, a quella visione del mondo che non sa trascendere ciò che è sperimentalmente constatabile, e ripiega sconsolata in un sentimento del nulla che sarebbe il definitivo approdo dell'esistenza umana. È un fatto che se Cristo non fosse risorto, il "vuoto" sarebbe destinato ad avere il sopravvento. Se togliamo Cristo e la sua risurrezione, non c'è scampo per l'uomo e ogni sua speranza rimane un'illusione. Ma proprio oggi prorompe con vigore l'annuncio della risurrezione del Signore, ed è risposta alla ricorrente domanda degli scettici, riportata anche dal libro di Qoèlet: "C'è forse qualcosa di cui si possa dire: / Ecco, questa è una novità?" (Qo 1,10). Sì, rispondiamo: nel mattino di Pasqua tutto si è rinnovato. "Mors et vita / duello conflixere mirando: dux vitae mortuus/ regnat vivus - Morte e vita si sono affrontate / in un prodigioso duello: / il Signore della vita era morto; / ma ora, vivo, trionfa. Questa è la novità! Una novità che cambia l'esistenza di chi l'accoglie, come avvenne nei santi. Così, ad esempio, è accaduto per san Paolo.
Più volte, nel contesto dell'Anno Paolino, abbiamo avuto modo di meditare sull'esperienza del grande Apostolo. Saulo di Tarso, l'accanito persecutore dei cristiani, sulla via di Damasco incontrò Cristo risorto e fu da Lui "conquistato". Il resto ci è noto. Avvenne in Paolo quel che più tardi egli scriverà ai cristiani di Corinto: "Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove" (2 Cor 5,17). Guardiamo a questo grande evangelizzatore, che con l'entusiasmo audace della sua azione apostolica, ha recato il Vangelo a tante popolazioni del mondo di allora. Il suo insegnamento e il suo esempio ci stimolino a ricercare il Signore Gesù. Ci incoraggino a fidarci di Lui, perché ormai il senso del nulla, che tende ad intossicare l'umanità, è stato sopraffatto dalla luce e dalla speranza che promanano dalla risurrezione. Ormai sono vere e reali le parole del Salmo: "Nemmeno le tenebre per te sono tenebre / e la notte è luminosa come il giorno" (139[138],12). Non è più il nulla che avvolge ogni cosa, ma la presenza amorosa di Dio. Addirittura il regno stesso della morte è stato liberato, perché anche negli "inferi" è arrivato il Verbo della vita, sospinto dal soffio dello Spirito (v. 8).
Se è vero che la morte non ha più potere sull'uomo e sul mondo, tuttavia rimangono ancora tanti, troppi segni del suo vecchio dominio. Se mediante la Pasqua, Cristo ha estirpato la radice del male, ha però bisogno di uomini e donne che in ogni tempo e luogo lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi: le armi della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell'amore. E' questo il messaggio che, in occasione del recente viaggio apostolico in Camerun e in Angola, ho inteso portare a tutto il Continente africano, che mi ha accolto con grande entusiasmo e disponibilità all'ascolto. L'Africa, infatti, soffre in modo smisurato per i crudeli e interminabili conflitti - spesso dimenticati - che lacerano e insanguinano diverse sue Nazioni e per il numero crescente di suoi figli e figlie che finiscono preda della fame, della povertà, della malattia. Il medesimo messaggio ripeterò con forza in Terrasanta, ove avrò la gioia di recarmi fra qualche settimana. La difficile ma indispensabile riconciliazione, che è premessa per un futuro di sicurezza comune e di pacifica convivenza, non potrà diventare realtà che grazie agli sforzi rinnovati, perseveranti e sinceri, per la composizione del conflitto israelo-palestinese. Dalla Terrasanta, poi, lo sguardo si allargherà sui Paesi limitrofi, sul Medio Oriente, sul mondo intero. In un tempo di globale scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di povertà antiche e nuove, di cambiamenti climatici preoccupanti, di violenze e miseria che costringono molti a lasciare la propria terra in cerca di una meno incerta sopravvivenza, di terrorismo sempre minaccioso, di paure crescenti di fronte all'incertezza del domani, è urgente riscoprire prospettive capaci di ridare speranza. Nessuno si tiri indietro in questa pacifica battaglia iniziata dalla Pasqua di Cristo, il Quale - lo ripeto - cerca uomini e donne che lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi, quelle della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell'amore.
Resurrectio Domini, spes nostra! La risurrezione di Cristo è la nostra speranza! Questo la Chiesa proclama oggi con gioia: annuncia la speranza, che Dio ha reso salda e invincibile risuscitando Gesù Cristo dai morti; comunica la speranza, che essa porta nel cuore e vuole condividere con tutti, in ogni luogo, specialmente là dove i cristiani soffrono persecuzione a causa della loro fede e del loro impegno per la giustizia e la pace; invoca la speranza capace di suscitare il coraggio del bene anche e soprattutto quando costa. Oggi la Chiesa canta "il giorno che ha fatto il Signore" ed invita alla gioia. Oggi la Chiesa prega, invoca Maria, Stella della Speranza, perché guidi l'umanità verso il porto sicuro della salvezza che è il cuore di Cristo, la Vittima pasquale, l'Agnello che "ha redento il mondo", l'Innocente che "ha riconciliato noi peccatori col Padre". A Lui, Re vittorioso, a Lui crocifisso e risorto, noi gridiamo con gioia il nostro Alleluia !
[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Il massacro di Katyn? Fu solo l’inizio - Mosca si preparava a far guerra al Terzo Reich sognando di giungere sino alle sponde dell’Atlantico. Berlino l’anticipò di un soffio e il disastro che ne seguì fu pagato a caro prezzo da polacchi, baltici, ucraini e finlandesi…
Nei nostri libri storiograficamente corretti – in primis nei testi scolastici – domina ancora la tesi di una pacifica Unione Sovietica proditoriamente aggredita dalla Germania nazionalsocialista. Solo dopo l’implosione del regime di Mosca e l’apertura, parziale, dei suoi archivi, è risultato evidente come anche l’URSS fosse pronta alla guerra. Diversi storici russi e tedeschi – Valerij Danilov, Juri Gorkov, Viktor Suvorov con il suo Stalin, Hitler. La rivoluzione bolscevica mondiale (trad. it. Spirali, Milano 2000), Joachim Hoffmann (1930-2002) e Werner Maser (1922-2007) – documentano infatti che, attaccando di sorpresa Mosca il 22 giugno 1941, Adolf Hitler anticipò semplicemente di alcune settimane le mosse del rivale. Che le forze sovietiche non fossero attestate sulla difensiva, ma positivamente proiettate a occidente, lo rivelano del resto la catastrofe a cui andarono incontro nei primi giorni di guerra e la politica di sterminio attuata durante il ripiegamento caotico e repentino che ne seguì.
Stalin, Berija e pure Kruscëv
Infatti, dopo l’attacco tedesco scattato il 22 giugno 1941, l’NKVD (Il Commissariato del popolo per gli affari interni) e l’NKGB (il Commissariato del popolo per la sicurezza dello Stato) decisero di eliminare tutti i “nemici del popolo”: e cioè i delinquenti comuni, i lavoratori coatti e i prigionieri politici accusati di “deviazionismo trotzkista” o di “sciovinismo”. Con l’NKVD di Lavrentij P. Berija che si distinse per solerzia, fu in questo quadro che si consumò il tragico crimine perpetrato nella foresta di Katyn e falsamente attribuito ai nazisti.
Chi fosse il vero responsabile dei massacri di prigionieri, lavoratori coatti o semplici civili nonché della distruzione di città intere come Chisinau, capitale della Moldovia data alla fiamme il 18 luglio, o Harkov, in Ucraina, era un interrogativo che si posero addirittura gli stessi comandi tedeschi, perplessi di fronte alle dimensioni di quei fenomeni. Per esempio, in un perplesso rapporto del comando tedesco (citato da Alfred-Maurice de Zayas nell’oramai classico The Wehrmacht War Crimes Bureau, 1939-1945, pubblicato originariamente nel 1979, quindi uscito in sette edizioni rivedute tedesche e quattro statunitensi) si legge: «Non risulta che l’ordine provenga da Stalin».
Del resto, il disfacimento dell’Armata Rossa comportò pure la disgregazione dell’intera struttura socio-economica militarizzata sovietica così che solo il terrore di massa e il controllo ferreo di ogni canale d’informazione impedì il collasso completo del regime. In questo scenario, tutto il potere si concentrò di fatto nei servizi segreti di polizia, ma, anche di principio, le responsabilità politiche degli eccidi ricaddero sull’intera nomenklatura, ivi compreso il Nikita S. Kruscëv; infatti, il futuro “destalinizzatore” prima definì «macellaio dell’Ucraina» il generale Ivan Serov, braccio destro di Berija, poi, dopo la morte di Stalin, ne approvò la nomina alla guida del KGB nel 1954.
Nella Polonia occupata dai sovietici il terrore era pratica corrente; tra il 1939 e il 1941 circa 1,5 milioni di persone vennero arrestate e deportate, e di loro quasi il 90% morì. Inoltre, secondo lo storico statunitense Carroll Quigley (1910-1977), venne ucciso un terzo dei 320mila polacchi catturati come prigionieri di guerra dall’Armata Rossa nel 1939.
Fu poi la volta dei Paesi baltici. Il 24 giugno 1941, a Vilekya, cittadina lettone reinquadrata dai sovietici nella Repubblica di Bielorussia, caddero sotto i colpi dell’NKVD diverse decine di prigionieri politici e molti ufficiali lettoni. Il 9 luglio a Tartu, in Estonia, Paese dove addirittura un terzo della popolazione finì eliminato o deportato, furono uccisi 250 detenuti, poi gettati in fosse comuni. Particolare attenzione venne del resto riservata alla Lituania, a grande maggioranza cattolica: sempre nel giugno 1941, nel carcere di Lukisˇke˙s, costruito nel 1904 dallo zar al centro della capitale Vilnius, gran parte dei detenuti fu liquidata, e tra il 24 e il 25 il “massacro di Rainiai” (dal nome della foresta nei pressi della cittadina di Telsˇiai) costò la vita a una ottantina di prigionieri politici. In quel giugno disgraziato, la prigione di Pravienisˇke˙s, presso Kaunas, vide consumarsi anche il massacro di 260 persone, detenuti politici, certo, ma anche tutto il personale del carcere.
Un’autentica ecatombe
Né il terrore rosso risparmiò la Finlandia, in guerra con l’URSS dal 1941 al 1944: i reparti sovietici entravano infatti regolarmente nel Paese scandinavo e ne massacravano i civili con una efferatezza documentata dalle fotografie rese pubbliche dal governo di Helsinki solo nel novembre 2006.
Più a sud, in Bielorussia, le carneficine assunsero dimensioni ancora maggiori: il 22 giugno 1941 a Grodno si contarono oltre 1700 vittime, il 24 a Berezwecz, nei pressi della cittadina di Vitebsk, i morti furono 800 (tra cui numerosi polacchi), altre migliaia di persone perirono durante le marce forzate verso est e la medesima sorte toccò alle migliaia che tra il 24 e il 27 del mese furono ancora oggetto della repressione sovietica a Chervyen, nei pressi di Minsk.
In Ucraina lo sterminio colpì soprattutto le regioni occidentali, dove forte era la presenza della Chiesa cattolica di rito greco: tra il 23 e il 30 giugno a Leopoli vennero uccisi 4mila prigionieri, epperò ancora il 5 settembre 1959 il giornale comunista locale, Radianska Ukraina, attribuiva il massacro ai “fascisti hitleriani”. Altre numerose vittime (tra le 1500 e le 4mila) furono mietute a Lutsk, quindi a Berezhany, presso Tarnopoli, tra il 22 giugno e il 1° luglio caddero 300 polacchi e molti ucraini, quindi a Vinnitsa, dove i massacrati furono 9mila. A Dubno furono uccisi tutti i prigionieri compresi donne e bambini, a Sambir si contarono 570 morti, a Simferopol, in Crimea, il 31 ottobre 1941 decine di persone vennero massacrate nella locale prigione o nei locali dell’NKVD e così avvenne pure a Jalta il 4 novembre.
Molte delle fosse comuni in cui i sovietici gettarono sommariamente i prigionieri assassinati furono scoperte dai tedeschi nel 1943, i quali invitarono immediatamente una commissione internazionale a visitarle per fare luce. Eppure quanto accadde in Ucraina venne reso noto solo dopo il 1988.
In generale, gli stermini erano motivati dal timore che le popolazioni non russe, una volta liberate dal giogo di Mosca, si schierassero con i tedeschi, cosa che peraltro spesso avvenne e spesso in mera funzione anticomunista e patriottica. Vi erano però, da parte sovietica, anche motivazioni squisitamente ideologiche. Nei pressi di Orel, per esempio, una città della Russia sud-occidentale, nel settembre 1941 vennero fucilati oltre 150 prigionieri politici e tra questi alcuni bolscevichi della prima ora poi considerati “antipartito”.
La memoria, cortissima
Eppure la verità sulle stragi rosse “dimenticate” fu nota prestissimo. Tra i primi a parlarne vi fu infatti nientemeno che Victor Kravcenko, alto funzionario sovietico riparato negli Stati Uniti nel 1944, il quale nel libro Ho scelto la libertà (trad. it., Longanesi, Milano 1948) scrisse: «Eravamo in parecchi al Sovnarkom [Consiglio dei ministri] a sapere che, più volte, i prigionieri (dei gulag e campi di lavoro ) che non si potevano evacuare venivano fucilati in massa. Ciò avvenne per esempio a Minsk, a Smolensk, a Kiev, a Karkov, nella mia città natale di Dniepropetrovsk e a Zaparozhe […]. Nel kombinat per lavorare il molibdeno, a Nalcik nella Kabardino-Balkaria, Nord-Caucaso, tutti i lavoratori coatti uomini e donne furono uccisi dal NKVD prima dell’arrivo dei tedeschi». Com’è possibile che di tutto questo sangue innocente non vi sia sostanzialmente più memoria?
di Augusto Zuliani
Il Domenicale N. 15 - DAL 11 AL 17 APRILE 2009
Il manifesto di papa Ratzinger: "Così prenda inizio la trasformazione del mondo"
La rivoluzione cristiana nasce nella liturgia, dice Benedetto XVI. E il suo "canone", la sua regola costitutiva, è la grande preghiera eucaristica. L'ha spiegato nell'omelia del Giovedì Santo. E prima ancora in una catechesi, altrettanto sorprendente - di Sandro Magister
ROMA, 14 aprile 2009 – Nella scorsa settimana santa Benedetto XVI ha accompagnato ogni celebrazione con una omelia, di quelle genuinamente sue, dalla prima parola all'ultima. Le omelie sono ormai un segno distintivo di questo pontificato. Forse ancora il meno noto e il meno capito. Ma sicuramente il più rivelatore.
Papa Joseph Ratzinger non è soltanto teologo, è ancor prima liturgo e omileta. In www.chiesa questo suo carattere inconfondibile è stato messo in evidenza più volte. Lo scorso anno, ad esempio, mettendo in rete in blocco, subito dopo Pasqua, le sei omelie della precedente settimana santa. E in autunno curando la raccolta in un libro – edito da Scheiwiller del Gruppo 24 Ore – delle omelie di Benedetto XVI dell'intero anno liturgico appena trascorso.
Dopo la settimana santa di quest'anno, invece, il lettore non troverà riportate qui sotto tutte le omelie pronunciate dal papa nell'occasione. Queste le leggerà agevolmente nel sito del Vaticano, cliccando sul link segnalato a fine pagina.
Delle omelie papali dello scorso triduo sacro ne è riprodotta qui di seguito una sola, quella della sera del Giovedì Santo.
E subito dopo il lettore troverà un altro testo di Benedetto XVI di qualche mese precedente: la catechesi da lui tenuta all'udienza generale di mercoledì 7 gennaio 2009.
I due testi sono tra loro strettamente legati. Sia nell'uno che nell'altro papa Ratzinger spiega le parole e il senso profondo del Canone Romano, la preghiera centrale e costitutiva della messa, la più antica tra quelle in uso in tutto il mondo con l'attuale messale della Chiesa di Roma.
Nella messa "in cena Domini" del Giovedì Santo il Canone Romano ha alcune varianti proprie del giorno. E fin dalle prime parole della sua omelia Benedetto XVI ne mette in luce la particolarità.
Ma è al senso complessivo di questa preghiera liturgica capitale che papa Ratzinger dedica l'intero seguito dell'omelia.
E fa lo stesso in un passaggio della catechesi del 7 gennaio, che per il resto è dedicata a illustrare il culto cristiano nel suo insieme. Quel culto che il Canone Romano, sulla traccia di san Paolo, definisce "rationabile".
La traduzione corrente di "rationabile", nelle lingue moderne, è "spirituale". Ma Benedetto XVI mette in guardia dal pensare che il culto cristiano sia qualcosa di metaforico, di moralistico, di puramente interiore. No, spiega, il vero culto cristiano afferra gli uomini e il mondo nella loro interezza, è anche corporeità e materialità, è "liturgia cosmica" nella quale "i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventino gloria di Dio".
È rarissimo, nella moderna produzione teologica e liturgica, incontrare una spiegazione del significato del culto cristiano così penetrante come in questi due testi della predicazione di papa Ratzinger.
Ecco dunque qui di seguito, nell'ordine:
– l'omelia di Benedetto XVI nella messa "in Cena Domini" dello scorso Giovedì Santo;
– la catechesi del 7 gennaio 2009 sul culto "spirituale";
– i link ai testi integrali del Canone Romano in latino e in lingua moderna;
– più altri rimandi all'insieme delle omelie papali.
__________
1. Omelia del Giovedì Santo, 9 aprile 2009, sul Canone Romano
di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, "Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem": così diremo oggi nel Canone della santa Messa. "Hoc est hodie": la liturgia del Giovedì Santo inserisce nel testo della preghiera la parola "oggi", sottolineando con ciò la dignità particolare di questa giornata. È stato "oggi" che Egli l’ha fatto: per sempre ha donato se stesso a noi nel sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Questo "oggi" è anzitutto il memoriale della Pasqua di allora. Tuttavia è di più. Con il Canone entriamo in questo "oggi". Il nostro oggi viene a contatto con il suo oggi. Egli fa questo adesso. Con la parola "oggi", la liturgia della Chiesa vuole indurci a porre grande attenzione interiore al mistero di questa giornata, alle parole in cui esso si esprime. Cerchiamo dunque di ascoltare in modo nuovo il racconto dell’istituzione [dell'Eucaristia] così come la Chiesa, in base alla Scrittura e contemplando il Signore stesso, lo ha formulato.
Come prima cosa ci colpirà che il racconto dell’istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo: "qui pridie". Questo "qui" aggancia l’intero racconto alla precedente parola della preghiera, "… diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo". In questo modo, il racconto è connesso con la preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a se stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera. E soltanto nella preghiera si realizza l’atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo.
Pregando in questo momento centrale, la Chiesa è in totale accordo con l’avvenimento nel cenacolo, poiche l’agire di Gesù viene descritto con le parole: "gratias agens benedixit": rese grazie con la preghiera di benedizione. Con questa espressione, la liturgia romana ha diviso in due parole ciò, che nell’ebraico "berakha" è una parola sola, nel greco invece appare nei due termini "eucharistia" ed "eulogia". Il Signore ringrazia. Ringraziando riconosciamo che una certa cosa è dono che proviene da un altro. Il Signore ringrazia e con ciò restituisce a Dio il pane, "frutto della terra e del lavoro dell’uomo", per riceverlo nuovamente da Lui. Ringraziare diventa benedire. Ciò che è stato dato nelle mani di Dio, ritorna da Lui benedetto e trasformato. La liturgia romana ha ragione, quindi, nell’interpretare il nostro pregare in questo momento sacro mediante le parole: "offriamo", "supplichiamo", "chiediamo di accettare", "di benedire queste offerte". Tutto questo si nasconde nella parola "eucharistia".
C’è un’altra particolarità nel racconto dell’istituzione riportato nel Canone Romano, che vogliamo meditare in quest’ora. La Chiesa orante guarda alle mani e agli occhi del Signore. Vuole quasi osservarlo, vuole percepire il gesto del suo pregare e del suo agire in quell’ora singolare, incontrare la figura di Gesù, per così dire, anche attraverso i sensi. "Egli prese il pane nelle sue mani sante e venerabili…". Guardiamo a quelle mani con cui Egli ha guarito gli uomini; alle mani con cui ha benedetto i bambini; alle mani che ha imposto agli uomini; alle mani che sono state inchiodate alla Croce e che per sempre porteranno le stimmate come segni del suo amore pronto a morire. Ora siamo incaricati noi di fare ciò che Egli ha fatto: prendere nelle mani il pane perche mediante la preghiera eucaristica sia trasformato. Nell’ordinazione sacerdotale, le nostre mani sono state unte, affinche diventino mani di benedizione. Preghiamo in quest’ora il Signore che le nostre mani servano sempre di più a portare la salvezza, a portare la benedizione, a rendere presente la sua bontà!
Dall’introduzione alla preghiera sacerdotale di Gesù (cfr. Giovanni 17, 1), il Canone prende poi le parole: "Alzando gli occhi al cielo a te, Dio Padre suo onnipotente…". Il Signore ci insegna ad alzare gli occhi e soprattutto il cuore, a sollevare lo sguardo, distogliendolo dalle cose del mondo, ad orientarci nella preghiera verso Dio e così a risollevarci. In un inno della preghiera delle ore chiediamo al Signore di custodire i nostri occhi, affinche non accolgano e non lascino entrare in noi le vanitates: le vanità, le nullità, ciò che è solo apparenza. Preghiamo che attraverso gli occhi non entri in noi il male, falsificando e sporcando così il nostro essere. Ma vogliamo pregare soprattutto per avere occhi che vedano tutto ciò che è vero, luminoso e buono; affinche diventiamo capaci di vedere la presenza di Dio nel mondo. Preghiamo, affinche guardiamo il mondo con occhi di amore, con gli occhi di Gesù, riconoscendo così i fratelli e le sorelle, che hanno bisogno di noi, che sono in attesa della nostra parola e della nostra azione.
Benedicendo, il Signore spezza poi il pane e lo distribuisce ai discepoli. Lo spezzare il pane è il gesto del padre di famiglia che si preoccupa dei suoi e dà loro ciò di cui hanno bisogno per la vita. Ma è anche il gesto dell’ospitalità con cui lo straniero, l’ospite viene accolto nella famiglia e gli viene concessa una partecipazione alla sua vita. Dividere, con-dividere, è unire. Mediante il condividere si crea comunione. Nel pane spezzato, il Signore distribuisce se stesso. Il gesto dello spezzare allude misteriosamente anche alla sua morte, all’amore sino alla morte. Egli distribuisce se stesso, il vero "pane per la vita del mondo" (cfr. Giovanni 6, 51). Il nutrimento di cui l’uomo nel più profondo ha bisogno è la comunione con Dio stesso. Ringraziando e benedicendo, Gesù trasforma il pane, non dà più pane terreno, ma la comunione con se stesso. Questa trasformazione, però, vuol essere l’inizio della trasformazione del mondo. Affinche diventi un mondo di risurrezione, un mondo di Dio. Sì, si tratta di trasformazione. Dell’uomo nuovo e del mondo nuovo che prendono inizio nel pane consacrato, trasformato, transustanziato.
Abbiamo detto che lo spezzare il pane è un gesto di comunione, dell’unire attraverso il condividere. Così, nel gesto stesso è già accennata l’intima natura dell’Eucaristia: essa è agape, è amore reso corporeo. Nella parola agape i significati di Eucaristia e amore si compenetrano. Nel gesto di Gesù che spezza il pane, l’amore che si partecipa ha raggiunto la sua radicalità estrema: Gesù si lascia spezzare come pane vivo. Nel pane distribuito riconosciamo il mistero del chicco di grano, che muore e così porta frutto. Riconosciamo la nuova moltiplicazione dei pani, che deriva dal morire del chicco di grano e proseguirà sino alla fine del mondo. Allo stesso tempo vediamo che l’Eucaristia non può mai essere solo un’azione liturgica. È completa solo se l’agape liturgica diventa amore nel quotidiano. Nel culto cristiano le due cose diventano una: l’essere gratificati dal Signore nell’atto cultuale e il culto dell’amore nei confronti del prossimo. Chiediamo in quest’ora al Signore la grazia di imparare a vivere sempre meglio il mistero dell’Eucaristia così che in questo modo prenda inizio la trasformazione del mondo.
Dopo il pane, Gesù prende il calice del vino. Il Canone romano qualifica il calice, che il Signore dà ai discepoli, come "praeclarus calix", come calice glorioso, alludendo con ciò al salmo 23 [22], quel salmo che parla di Dio come del Pastore potente e buono. Lì si legge: "Davanti a me tu prepari una mensa, sotto gli occhi dei miei nemici… Il mio calice trabocca". Il Canone Romano interpreta questa parola del salmo come una profezia, che si adempie nell’Eucaristia: Sì, il Signore ci prepara la mensa in mezzo alle minacce di questo mondo, e ci dona il calice glorioso, il calice della grande gioia, della vera festa, alla quale tutti aneliamo, il calice colmo del vino del suo amore.
Il calice significa le nozze: adesso è arrivata l’"ora" alla quale le nozze di Cana avevano alluso in modo misterioso. Sì, l’Eucaristia è più di un convito, è una festa di nozze. E queste nozze si fondono nell’autodonazione di Dio sino alla morte. Nelle parole dell’Ultima Cena di Gesù e nel Canone della Chiesa, il mistero solenne delle nozze si cela sotto l’espressione "novum testamentum". Questo calice è il nuovo testamento, "la nuova alleanza nel mio sangue", come Paolo riferisce la parola di Gesù sul calice nella seconda lettura di oggi (1 Corinzi 11, 25). Il Canone Romano aggiunge: "per la nuova ed eterna alleanza", per esprime l’indissolubilità del legame nuziale di Dio con l’umanità. Il motivo per cui le antiche traduzioni della Bibbia non parlano di alleanza, ma di testamento, sta nel fatto che non sono due contraenti alla pari che qui si incontrano, ma entra in azione l’infinita distanza tra Dio e l’uomo. Ciò che noi chiamiamo nuova ed antica alleanza non è un atto di intesa tra due parti uguali, ma mero dono di Dio che ci lascia in eredità il suo amore: se stesso. E certo, mediante questo dono del suo amore Egli, superando ogni distanza, ci rende poi veramente partner e si realizza il mistero nuziale dell’amore.
Per poter comprendere che cosa in profondità lì avviene, dobbiamo ascoltare ancora più attentamente le parole della Bibbia e il loro significato originario. Gli studiosi ci dicono che, nei tempi remoti di cui parlano le storie dei Padri di Israele, "ratificare un’alleanza" significa "entrare con altri in un legame basato sul sangue, ovvero accogliere l’altro nella propria federazione ed entrare così un una comunione di diritti l’uno con l’altro". In questo modo si crea una consanguineità reale benche non materiale. I partner diventano in qualche modo "fratelli dalla stessa carne e dalle stesse ossa". L’alleanza opera un’insieme che significa pace (cfr. "Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament" II 105-137). Possiamo adesso farci almeno un’idea di ciò che avvenne nell’ora dell’Ultima Cena e che, da allora, si rinnova ogni volta che celebriamo l’Eucaristia? Dio, il Dio vivente stabilisce con noi una comunione di pace, anzi, Egli crea una "consanguineità" tra se e noi. Mediante l’incarnazione di Gesù, mediante il suo sangue versato siamo stati tirati dentro una consanguineità molto reale con Gesù e quindi con Dio stesso. Il sangue di Gesù è il suo amore, nel quale la vita divina e quella umana sono divenute una cosa sola. Preghiamo il Signore, affinche comprendiamo sempre di più la grandezza di questo mistero! Affinche esso sviluppi la sua forza trasformatrice nel nostro intimo, in modo che diventiamo veramente consanguinei di Gesù, pervasi dalla sua pace e così anche in comunione gli uni con gli altri.
Ora, però, emerge ancora un’altra domanda. Nel cenacolo, Cristo dona ai discepoli il suo Corpo e il suo Sangue, cioè se stesso nella totalità della sua persona. Ma può farlo? È ancora fisicamente presente in mezzo a loro, sta di fronte a loro! La risposta è: in quell’ora Gesù realizza ciò che aveva annunciato precedentemente nel discorso sul Buon Pastore: "Nessuno mi toglie la mia vita: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo…" (Giovanni 10, 18). Nessuno può togliergli la vita: Egli la dà per libera decisione. In quell’ora anticipa la crocifissione e la risurrezione. Ciò che là si realizzerà, per così dire, fisicamente in Lui, Egli lo compie già in anticipo nella libertà del suo amore. Egli dona la sua vita e la riprende nella risurrezione per poterla condividere per sempre.
Signore, oggi Tu ci doni la tua vita, ci doni te stesso. Penetraci con il tuo amore. Facci vivere nel tuo "oggi". Rendici strumenti della tua pace! Amen.
__________
2. Catechesi del 7 gennaio 2009, sul culto "spirituale"
di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, in questa prima udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l’anno nuovo sarà buono e felice.
L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo, di una “spiritualizzazione” dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto.
1. In Romani 3, 25, dopo aver parlato della “redenzione realizzata da Cristo Gesù”, Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo “ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue”. Con questa espressione per noi piuttosto strana – “strumento di espiazione” – san Paolo accenna al cosiddetto “propiziatorio” dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo “propiziatorio”, nel grande giorno della riconciliazione – “yom kippur” – veniva asperso col sangue di animali sacrificati – sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo.
San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita.
Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo. Già prima della distruzione esterna del tempio per Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato un altro tempio “non fatto da mani d’uomo” – il tempio del suo corpo resuscitato (cfr Marco 14, 58; Giovanni 2, 19ss). Questo è il primo testo.
2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12 della lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. In queste parole si verifica un apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano. L'espressione “presentare i vostri corpi”, stante il successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di “dare in oblazione, offrire”. L’esortazione a “offrire i corpi” si riferisce all’intera persona; infatti, in Romani 6, 13 egli invita a “presentare voi stessi”. Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l’invito a “glorificare Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6, 20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e percepibile.
Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come “sacrificio vivente, santo, gradito a Dio”. È qui che incontriamo appunto il vocabolo “sacrificio”. Nell'uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un'altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo – “vivente” – esprime una vitalità. Il secondo – “santo” – ricorda l'idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – “gradito a Dio” – richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio “in odore di soavità” (cfr Levitico 1, 13.17; 23, 18; 26, 31; ecc.).
Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è “il vostro culto spirituale”. I commentatori del testo sanno bene che l'espressione greca (t?n logik?n latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: “rationabile obsequium”. La stessa parola “rationabile” appare nella prima preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti questa offerta come “rationabile”. La consueta traduzione italiana “culto spirituale” non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.
Questa formula paolina, che ritorna poi nella preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell’esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I profeti e molti salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il salmo 50 (49), in cui è Dio che parla: “Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode…” (vv. 12-14). Nello stesso senso dice il salmo seguente, 51 (50): “..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (vv. 18s). Nel libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco – cioè alla persecuzione, alla sofferenza – Azaria prega così: “Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori… Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito …” (Daniele 3, 38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito – il suo desiderio di Dio.
Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il salmo 51 e anche il libro di Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare.
Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l’uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo senso egli dice ai Romani: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il vostro culto spirituale” (Romani 12, 1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l’uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l’intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo “culto spirituale, ragionevole”? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti “uno in Cristo Gesù” (Galati 3, 28), che siamo morti nel battesimo (cfr Romani 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. In questa unione – e solo così – possiamo divenire in Lui e con Lui “sacrificio vivente”, offrire il “culto vero”. Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l’essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio vivente: si realizza il “culto vero”.
Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta diventi “rationabile” – che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta “rationabile” che piace a Dio. Così la preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. sant’Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua "Città di Dio". Cito solo due frasi. “Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo”… “Tutta la comunità (civitas) redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso” (10, 6: CCL 47, 27ss).
3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della lettera ai Romani concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: “La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere “liturgo” di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo” (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è una azione “sacerdotale”. L’apostolo del Vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, “oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo”. Qui appare l’aspetto dinamico, l’aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell’amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia – questo dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il nuovo anno.
Sindone e sudario al loro posto - Autore: Colosso, Giancarlo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 13 aprile 2009
«La tomba non era completamente vuota. C’erano i testimoni, i soli testimoni della resurrezione di Gesù. C’erano i panni. Pur essendo muti, potevano ben comunicare qualche cosa, visto che, dopo averli visti, Giovanni ha creduto». Inizia così lo studio di Charles de Cidrac, professore emerito all’Institut catholique di Parigi. Nove paginette battute al computer, con correzioni a mano, non pubblicate da nessuna rivista ‘scientifica’. Eppure contengono spunti interessanti, gli stessi ripresi da padre Galot nel suo intervento su ‘La Civiltà Cattolica’. Secondo de Cidrac circolano, riguardo alla scena del sepolcro vuoto, molte traduzioni maldestre, che generano malintesi ed errori «contrari ai costumi giudei e anche al buon senso». Per chiarire quanto veramente intendeva descrivere l’autore, il professore francese sottopone il testo a una serrata analisi grammaticale, tenendo conto anche degli usi funerari vigenti in ambiente ebraico a quei tempi. La prima confusione, in molte traduzioni, riguarda i termini con cui si indicano i panni adoperati per l’inumazione. L’originale greco parla ỏθόνια e di σουδάριον: termini tradotti spesso in maniera generica confondendoli tra loro (bende, fasce panni, ecc). In realtà, con la parola ỏθόνια si indicavano tutti i teli impregnati di mirra e di aloe usati nella sepoltura: sia ἥ σινδών (il lenzuolo più ampio, lungo 4 metri e largo 90 centimetri, che veniva disteso sotto e sopra il corpo del defunto per tutta la sua lunghezza, riaccostando i due lembi estremi sotto i piedi), sia le bende con cui si legavano le mani e si cingeva il lenzuolo, per tenerlo aderente. C’era poi il sudario, το σουδάριον, un ampio fazzoletto quadrato piegato sulla sua linea diagonale, a farne un triangolo, e poi arrotolato su se stesso. Formava così una fascia con un certo spessore, che veniva fatta passare sotto il mento del defunto e annodata sulla testa, in modo che la bocca non si aprisse per il rilassamento dei nervi. Le altre imprecisioni di tipo grammaticale generano, a detta di de Cidrac, malintesi sulla posizione in cui i due apostoli rinvennero tutti questi panni. In particolare: nell’originale greco è scritto che Pietro, entrando nel sepolcro, vide τὰ ỏθόνια κείμενα che molte versioni traducono come «i teli posti a terra». Ora, il participio κείμενα indica in realtà la posizione distesa, orizzontale dei teli, senza significare che essi fossero gettati a terra, sul pavimento del sepolcro. Il verbo difettivo κεἶμεναι vuol dire essere giacente, essere in orizzontale. L’espressione significa che i teli funerari erano giacenti al loro posto, afflosciati su se stessi, dopo che non fasciavano più il corpo di Gesù. Probabilmente erano rimasti giacenti nella nicchia scavata nella parete propria dell’architettura funeraria ebraica di tipo signorile, in cui era stato deposto il corpo di Gesù; le ultime espressioni del brano in questione girano intorno alla posizione del sudario. L’originale dice che il sudario era οử μετά τῶν ỏθονίων κείμενον, espressione che viene di solito tradotta (ad esempio, dal Nuovo Testamento pubblicato dalla Conferenza episcopale italiana): «non là con i teli». Si introduce così l’idea che il sudario abbia cambiato posizione rispetto al punto in cui si trovava quando il corpo di Gesù era stato sepolto. Anche le espressioni seguenti (ἀλλὰ χωρὶς ἐντετλιγμένον εἰς ἔνα τόπον) vengono interpretate in modo da confermare la diversa dislocazione del sudario rispetto agli altri panni. Sempre la versione Cei traduce queste espressioni annotando che il sudario non era con gli altri teli «ma in disparte, ripiegato in un luogo». De Cidrac contesta diversi punti di questa traduzione corrente. Secondo lui la negazione ου va riferita non all’espressione locale μετά τῶν ỏθονίων κείμενον (tra i teli) ma al participio κείμενον (disteso, giacente), anche esso dal verbo κείμεναι. Si vuole così indicare che il sudario non era disteso, non era giacente come il resto dei teli. Μετά τῶν ỏθονίων, non più connesso alla negazione ου, va tradotto «in mezzo ai teli», e indica la dislocazione del sudario, che era proprio rimasto sotto la sindone, distintamente arrotolato (così de Cidrac traduce l’avverbio χωρὶς e il participio passato passivo εντετλιγμένον, dal verbo εντετλίσσω) nel suo primo posto (εις ἔνα τόπον). Tutto questo per dire che il sudario non si era spostato dal suo posto iniziale, e adesso, essendo rimasto arrotolato, se ne distingueva lo spessore in rilievo in mezzo agli altri teli giacenti, sotto la parte superiore della sindone. A conti fatti, la traduzione del passo che de Cidrac offre come contributo originale alla ricerca esegetica è la seguente: «[Simon Pietro] entrò nel sepolcro e vide i teli giacenti, e il sudario, che era stato legato sulla testa. Questo era posto in mezzo ai teli, senza essere disteso, ma distintamente arrotolato su se stesso, al suo posto iniziale».
CRISTIANESIMO/ San Francesco, una “Regola” che compie ottocento anni - Redazione - giovedì 16 aprile 2009 – ilsussidiario.net
In questi anni primi anni del secolo ricorrono gli ottavi centenari di momenti importanti della vita di san Francesco e della storia del francescanesimo. Nel 2006 si è celebrata la “conversione” di Francesco, ossia la celebre chiamata del crocefisso di San Damiano a restaurare la piccola chiesa fuori Assisi, principio del cammino verso la santità del giovane assisano. Nel 2008 si è celebrato il “dono dei primi compagni”, quando Bernardo di Quintavalle, dopo aver ospitato Francesco a cena a casa sua (ancora rintracciabile in uno dei vicoli di Assisi) decise di seguirlo, subito imitato da Egidio e Silvestro, di dantesca memoria (cfr. Paradiso, Canto XI, 82-84).
Quest’anno ricorre l’ottavo centenario del viaggio a Roma di Francesco e dei primi compagni, che avevano già raggiunto il numero significativo di dodici, per chiedere al papa Innocenzo III l’approvazione della prima regola. Questo episodio è ovviamente centrale nella vicenda francescana. L’esito dell’incontro è ben noto: Francesco ebbe l’approvazione da parte del papa e al 1209 si fa, quindi, risalire la nascita dell’Ordine francescano.
Molto confusa rimane, invece, la ricostruzione di come andarono i fatti. Le molte fonti medievali raccontano diverse versioni di questo episodio così decisivo, non solo per il francescanesimo, ma per il mondo intero, se si considera l’impronta che San Francesco poi diede alla storia della Chiesa Cattolica e a tutta la civiltà occidentale («...l’uomo più distintivo, l’uomo più esemplare della sensibilità della nostra stirpe...», ebbe a dire, ad esempio, don Luigi Giussani a Padova l’11 febbraio 1994). Nonostante i molti racconti, resta in gran parte incerto come sia riuscito questo piccolo gruppo anonimo di giovani (l’età media doveva superare di poco i vent’anni, Francesco, forse il più anziano, ne aveva ventisette o ventotto) provenienti da Assisi a farsi ricevere e, soprattutto, a farsi prendere sul serio da Innocenzo III, impegnato aspramente in quegli anni a difendere la Chiesa dal diffondersi delle eresia catara e dalle pretese del potere imperiale. Resta incerto come sia riuscito Francesco a ottenere l’approvazione pontificia per una regola semplicissima (che purtroppo abbiamo perduto) fatta di poche frasi, per lo più di citazioni evangeliche, ma che chiedeva qualcosa di finora inaudito: l’autorizzazione per un non chierico (Francesco non era e non fu mai un sacerdote) e per i suoi seguaci a predicare il Vangelo. Fatto sta che tutto ciò è accaduto; non era programmato e gli sviluppi erano allora del tutto imprevedibili per i protagonisti, primo fra tutti lo stesso Francesco. Si può pensare a questo episodio come a uno dei più grandi miracoli accaduti al santo, molto più importante di tanti altri a cui la cultura moderna fa più facilmente riferimento, come la famosa predica agli uccelli.
Per celebrare l’approvazione della prima regola e, quindi, la nascita del primo Ordine francescano, i diversi Ordini attualmente esistenti hanno convocato ad Assisi un “Capitolo delle stuoie” dal 15 al 17 aprile e si concluderà il 18 aprile con un’udienza dal Papa a Castelgandolfo. Il nome di questa riunione fa riferimento a una celebre assemblea generale di tutti i frati, che si tenne a Santa Maria degli Angeli, nei campi di fronte alla Porziuncola, nel 1221; fu l’ultima occasione per la maggioranza di loro di vedere e ascoltare Francesco, che morirà cinque anni dopo. La definizione “delle stuoie” fa riferimento al fatto che la partecipazione fu così numerosa, si calcola tra tremila e cinquemila partecipanti (un numero notevole per l’epoca!), che i frati non trovarono alloggio al coperto e dovettero arrangiarsi con ripari improvvisati fatti di giunchi e rami intrecciati, le “stuoie” appunto. Per i diversi Ordini e gruppi francescani, convocare un capitolo “delle stuoie” significa convocare tutte le diverse esperienze a un gesto di unità. Sia l’ottavo centenario dell’approvazione della prima regola, sia la grande riunione dei francescani ad Assisi ci ricordano che san Francesco è forse stato un santo “unico” (come molti lo definiscono), ma non è certo stato un uomo “solo”!
(Francesco Vignaroli)
SCUOLA/ Educare partendo dall’esperienza: la via maestra per la scuola dell’infanzia - Feliciana Cicardi - giovedì 16 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Non stupisce il fatto che la bozza di Regolamento relativa alla formazione iniziale dei docenti accomuni il percorso di formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia a quello dei docenti della scuola primaria. Diverso il discorso invece sulla quantità esorbitante di ‘discipline’ che i docenti dovrebbero apprendere per essere pronti all’insegnamento: quando la cultura professionale è concepita come enciclopedismo viene svilita e non centra il bersaglio.
Il professionista che ha a cuore lo sviluppo integrale dei soggetti a lui affidati, soprattutto nella scuola dell’infanzia, non è connotato unicamente da competenze ‘disciplinari’, ma anche da altre competenze che gli consentano di essere promotore di apprendimento nella sua accezione più ampia.
Pensando alla scuola dell’infanzia, per troppo tempo caratterizzata da una funzione ‘preparatoria’ alla scuola primaria o come allungamento del contesto ‘familiare’, è spontaneo chiedersi quali siano i must che connotano la sua funzione educativa. Coerezza ha giustamente individuato i pilastri della scuola del’infanzia nella cura, nel gioco e nella capacità di lavorare su tempi e spazi. Aggiungendo la comunicazione verbale e non verbale ad integrazione dell’elenco delle caratteristiche, si deve però sottolineare che tali caratteristiche prendono significato dalla funzione educativa che si attribuisce alla scuola dell’infanzia.
Esemplificando. Si afferma da più parti l’educazione come esperienza. Tale concetto è presente in due autori apparentemente lontani tra loro quali Romano Guardini e John Dewey per i quali non c’è vera educazione se non è reale “esperienza”, cioè rapporto vivo e significativo con le cose, gli avvenimenti e le persone, cioè a dire con la realtà. Se si assumono determinati connotati di ‘esperienza’ si dà significato alle finalità della scuola dell’infanzia che possono essere riassunte in
- costruire la propria identità
- dare un nome alla realtà
- ‘ordinare’ e nominare la propria esperienza pregressa ed in atto
- riconoscere l’altro come ‘prezioso’ da rispettare ed opportunità per sé.
Allora i pilastri correttamente individuati da Coerezza diventano “strumenti” per offrire al bambino occasioni di crescita, ma vanno conosciuti e ri-conosciuti nella loro potenzialità educativa. Se è vero, come sostiene una ricercatrice statunitense, che attività ricreative libere e non strutturate sarebbero da preferire ai metodi tradizionali di apprendimento e ad un’alfabetizzazione troppo precoce, è altrettanto vero che il ‘gioco’ va conosciuto e ‘posseduto’ dall’insegnante in tutta la sua potenzialità formativa a tutto tondo. Termini come osservazione, interazione verbale tra pari, relazionalità simmetrica ed asimmetrica tra pari e con adulti, compaiono spesso nella letteratura relativa alla scuola dell’infanzia, ma poco vengono collegate al gioco, strutturato o spontaneo.
Simili consapevolezze ed una buona padronanza degli ‘strumenti’ educativi dovrebbe scaturire da una formazione iniziale che, unitamente a ‘conoscenze’ psicopedagogiche importanti ed essenziali, dovrebbe offrire occasioni di ‘sensate esperienze’ (Galileo) ai docenti. Tali occasioni potrebbero accadere durante il tirocinio che deve diventare un’opportunità di misurarsi sul campo, perseguendo esso almeno tre obiettivi sulla formazione dei docenti:
- imparare ad essere consapevoli della portata educativa del proprio agire e degli ‘strumenti’ del mestiere,
- imparare a riflettere sull’azione intrapresa a partire da un’ipotesi educativa, acquisire il distanziamento dall’azione per riflettere, capire, rielaborare,
- imparare una competenza comunicativa-relazionale come adozione di uno stile aperto e collaborativo nei confronti degli adulti educatori, anche attraverso l’ascolto attivo e la disponibilità al dialogo.
Tutto ciò porta ad auspicare un aumento quantitativo del tirocinio previsto dalla “bozza Israel”, nonché un’organizzazione del tirocinio stesso che ponga il docente nell’agone scolastico come protagonista guidato (dal tutor?) perché le competenze fondamentali di un educatore si ‘imparano’ e/o si sviluppano in un’azione in contesti di realtà. L’esito del tirocinio potrebbe non essere più una tesina su un determinato argomento, ma la progettazione di un percorso didattico e la verifica/valutazione dello stesso, a fronte dell’attuazione del percorso in una classe/sezione. Si svilupperebbe così nel docente la capacità di auto-osservazione all’interno di una pratica di ricerca-azione che richiede un’indagine riflessiva sul proprio operato mediante la sinergia di teoria e pratica.
In tal senso la figura del tutor (magari più di uno) va rivista e precisata. Perché non concepire il tutor come l’“esperto” che, in un processo di ricerca-azione, aiuta il docente in formazione a pianificare strategie di intervento, fare, riflettere sul fare con tutti gli attori dell’azione didattica educativa, quindi riprogettare, in una situazione reale (contesto d’aula)?
In fondo anche tra gli insegnanti in servizio non mancano le esperienze, bensì una guida che orienti la riflessione sull’agito e il vissuto per riconoscere questi come ‘sensate’ esperienze, cioè cariche di ‘senso’ per il proprio essere ed agire professionale. Con, a monte, un’intenzionalità educativa chiara e precisa nelle sue finalità.