venerdì 17 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Quell'evento di Pasqua su cui la Chiesa sta o cade - È la risurrezione di Gesù. "Su questo ti sentiremo un'altra volta", dissero a Paolo gli intellettuali di Atene, lasciandolo solo. Ma Benedetto XVI è ostinato e rilancia l'annuncio "urbi et orbi". L'ha fatto per due volte in quattro giorni. E ha spiegato perché di Sandro Magister
2) QUELLO CHE NESSUNO DICE SU TERREMOTO E CRISI ECONOMICA 16.04.2009 – Antonio Socci - Da “Libero” 15 aprile 2009
3) Avvenire 16 Aprile 2009 - Il personalismo? Non è individualismo
4) Il suicidio di Roberta Tatafiori - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 16 aprile 2009 - "La donna è infine perfetta./Il suo corpo/Morto porta il sorriso del compimento/L’illusione di una greca necessità/Fluisce, nelle pieghe della sua toga,/I suoi piedi/Nudi sembrano dire:/Abbiamo camminato tanto, è finita
5) 17/04/2009 09:06 – MYANMAR - Cristiani kachin costretti a versare una tassa per la festa buddista - Il Thingyan celebra il nuovo anno birmano ed è caratterizzato da giochi ed eventi legati all’acqua. I funzionari della giunta militare hanno sancito il versamento di una “tassa fissa” raccogliendo i soldi casa per casa. La dittatura professa un buddismo di facciata e discrimina le minoranze religiose.
6) «La meta» o «il viaggio»? - Pigi Colognesi - venerdì 17 aprile 2009 – ilsussidiario.net
7) TERREMOTO ABRUZZO/ Così siamo cresciuti aiutando chi non aveva più niente - Redazione - martedì 14 aprile 2009 – ilsussidiario.net
8) 16/04/2009 13.16.17 – Radio Vaticana - Benedetto XVI compie 82 anni: l’amicizia con Cristo segno distintivo della sua vita
9) 16/04/2009 15.17.06 – Radio Vaticana - Il cardinale Sandri: Benedetto XVI, maestro di verità e padre della carità. Magister: risponde all'indebolimento della fede dentro e fuori la Chiesa
10) CHE COSA È DIVENTATA LA VITA? - UCCIDERE PER UN PARCHEGGIO SOTTO GLI OCCHI DEI FAMILIARI - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 17 aprile 2009


Quell'evento di Pasqua su cui la Chiesa sta o cade - È la risurrezione di Gesù. "Su questo ti sentiremo un'altra volta", dissero a Paolo gli intellettuali di Atene, lasciandolo solo. Ma Benedetto XVI è ostinato e rilancia l'annuncio "urbi et orbi". L'ha fatto per due volte in quattro giorni. E ha spiegato perché di Sandro Magister
ROMA, 17 aprile 2009 – La domenica di Pasqua, nel messaggio al mondo dalla loggia centrale della basilica vaticana, e poi il mercoledì successivo, nell'udienza generale in piazza San Pietro, Benedetto XVI ha messo al centro della sua predicazione l'evento della risurrezione di Gesù.

L'ha fatto in coerenza con il calendario liturgico. Ma anche con quello che è il suo obiettivo dichiarato, da papa: ravvivare la fede là dove è in pericolo di spegnersi, aprire agli uomini l'accesso a Dio: "non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell'amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto".

I due discorsi papali di Pasqua e del mercoledì "in albis" formano un dittico profondamente unitario, che esprime più che mai il senso di questo pontificato.

Si sa che papa Joseph Ratzinger sta scrivendo il secondo volume del suo libro "Gesù di Nazaret", dedicato principalmente ai racconti evangelici della passione e della risurrezione di Gesù. Pare che sia piuttosto avanti nella stesura. In ogni caso, chi ne volesse un'anticipazione, la trova proprio nei due discorsi citati, riportati integralmente più sotto.

Benedetto XVI ha insistito sul fatto che la risurrezione di Gesù "non è una teoria, ma una realtà storica, non è un mito né un sogno, non è una visione né un’utopia, non è una favola, ma un evento unico ed irripetibile".

E ancora:

"Lo affermiamo con forza perché, anche in questi nostri tempi, non manca chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, a una visione degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche".

Già nel primo volume di "Gesù di Nazaret" papa Ratzinger aveva mostrato che questo era l'intento del suo libro: dire la verità intera su Gesù vero Dio e vero uomo.

Senza questa verità intera di Gesù crocifisso e risorto – ha insistito il papa nel messaggio di Pasqua – non c'è luce che illumini "le zone buie del mondo in cui viviamo" e "non c'è scampo per l'uomo".

Nella catechesi del mercoledì "in albis" Benedetto XVI ha fatto un passo ulteriore. Ha illustrato il senso della risurrezione di Gesù sulla traccia delle parole del "Credo", la sintesi della fede cristiana che i fedeli di tutto il mondo recitano in ogni messa.

L'ha fatto risalendo a ritroso, a quel passaggio della prima lettera di Paolo ai Corinzi che è all'origine degli articoli centrali del "Credo".

In particolare, il papa ha voluto spiegare il senso della formula che sia in san Paolo sia nel "Credo" accompagna l'annuncio della risurrezione di Gesù: "secondo le Scritture".

Tale formula, ha detto, mostra che l'evento della morte e risurrezione del Figlio di Dio "porta in sé un logos, una logica", l'unica capace di spiegare il significato dell'intera storia dell'uomo e del mondo.

Ma non una parola di più, qui. Non c'è che da leggere per intero questi due straordinari testi di papa Benedetto:
1. Messaggio della domenica di Pasqua: "La risurrezione di Cristo è la nostra speranza" di Benedetto XVI
2. Catechesi del mercoledì di Pasqua: "È risorto il terzo giorno secondo le Scritture"di Benedetto XVI

I due testi sono stati pubblicati sul blog ieri 16 aprile 2009.


QUELLO CHE NESSUNO DICE SU TERREMOTO E CRISI ECONOMICA 16.04.2009 – Antonio Socci - Da “Libero” 15 aprile 2009
Pare che un giornalista inviato in Abruzzo se ne sia uscito con un lapsus memorabile: “Finalmente all’Aquila qualcosa si muove”. Anche più di qualcosa.Di certo il terremoto è arrivato anche nelle coscienze: degli abruzzesi e di tutti noi. Ma intellettuali e giornalisti hanno la malattia sessantottina: quel “tutto è politica” che acceca e induce a ridurre sempre tutto alla polemica politica e sociale, come se il terremoto fosse colpa del governo. Perdendo di vista le questioni di fondo, le grandi domande sul senso della vita, ritenute, marxianamente, “sovrastruttura”.

Come insegna il Leopardi dello “sterminator Vesuvio”, la vera saggezza sta anzitutto nel riconoscere quello smarrimento, quella fragilità della nostra esistenza e la precarietà delle cose più solide su cui investiamo (il mitico “mattone”). Fragilità e mortalità che è la nostra vera condizione, sempre, pure senza terremoti: è la realtà che non vogliamo vedere.

L’invito di Gesù a costruire la propria casa sulla Roccia anziché sulla sabbia non era relativo al regolamento edilizio e alle tecniche architettoniche (anche se – considerati i fatti – andrebbe preso alla lettera pure in quel senso). Ma era una esortazione a fondare la propria vita sulla Roccia che nessuno può spazzar via o demolire: lui stesso. Capace di vincere perfino la morte e dunque di restituirci per sempre tutti coloro che abbiamo amato e perduto. Questa è l’unica novità, ha gridato il Papa a Pasqua e ritrovare coloro che ci sono stati strappati sarà una festa senza fine.

Anche la recente esplosione della crisi finanziaria ed economica aveva prodotto lo stesso senso di insicurezza e lo stesso smarrimento. E Benedetto XVI aveva ricordato che l’unico “investimento” che non va incontro a crolli, fregature e delusioni, ma frutta sempre un capitale infinito, è quello fatto da coloro che seguirono Gesù che ricevettero e ricevono quaggiù il centuplo di quello che avevano investito e poi la vita eterna.

Pure Lucia Annunziata ieri sulla “Stampa” ha messo in relazione il senso di insicurezza prodotta dal terremoto con quello analogo derivato dal crollo delle Borse e dalla crisi. Scrive: “Il tremito che ha scosso l’Abruzzo… è stato nel nostro paese un momento quasi catartico di risveglio: la materializzazione dello sfascio, della fragilità, della insicurezza su cui poggiano i nostri piedi, è stata la stessa che la crisi economica filtra nella nostra coscienza. Il tremore della terra è diventato il segno di tempi più duri per tutti”.

Poi l’Annunziata ha citato l’economista francese Jean-Paul Fitoussi che sente aria di rivolta popolare per la crisi e annuncia: “le fondamenta della democrazia sono in pericolo”. Ecco il problema: le fondamenta. Noi che sappiamo renderci conto che le case hanno bisogno di fondamenta stabili per non crollare al terremoto non sappiamo accorgerci che anche la nostra vita, la democrazia e la nostra civiltà hanno bisogno di fondamenta certe e stabili. E non sappiamo interrogarci su quali esse siano. Un albero senza radici muore e crolla. Quali sono le nostre radici?

Qualche anno fa i cinesi si sono posti il problema di capire quali fossero stati le radici del grande sviluppo e del grande benessere che, nel corso dei secoli, è fiorito in Occidente e che è dilagato poi in tutto il mondo. I cinesi hanno interpellato gli esperti e l’Accademia delle scienze sociali della Repubblica popolare cinese, sebbene comunista, nel 2002 è arrivata a queste clamorose conclusioni: “Una delle cose che ci è stato chiesto di indagare era che cosa spiegasse il successo, anzi, la superiorità dell’Occidente su tutto il mondo. Abbiamo studiato tutto ciò che è stato possibile dal punto di vista storico, politico, economico e culturale.

Inizialmente abbiamo pensato che la causa fosse che avevate cannoni più potenti dei nostri. Poi abbiamo pensato che fosse perché avevate il sistema politico migliore. Poi ci siamo concentrati sul vostro sistema economico. Ma negli ultimi vent’anni abbiamo compreso che il cuore della vostra cultura è la vostra religione: il cristianesimo. Questa è la ragione per cui l’Occidente è stato così potente. Il fondamento morale cristiano della vita sociale e culturale è ciò che ha reso possibile la comparsa del capitalismo e poi la riuscita transizione alla politica democratica. Su questo non abbiamo alcun dubbio”.

La controprova è evidente: quando l’Europa ha violentemente abbandonato il cristianesimo, con le ideologie anticristiane del XX secolo, ha segato il ramo su cui stava seduta e si è buttata nel baratro e nella rovina. La stessa attuale crisi finanziaria ha ragioni morali, è stata provocata dalla secolarizzazione cioè dalla sostituzione di una vera moralità con la religione del profitto ad ogni costo, la religione del pescecane: Usura, Lussuria e Potere.

Tutto questo dovrebbe far riflettere l’establishment che domina i media, sempre così animato da ostilità anticristiana. Dovrebbe riflettere chi indica come traguardi di civiltà quelle battaglie radicali che spazzano via i valori umani insegnatici dal cristianesimo (la sacralità della vita, la famiglia naturale, la sessualità fra uomo e donna). E anche coloro che di fronte al terremoto non hanno trovato di meglio che proporre di sottrarre alla Chiesa le offerte ad essa devolute dagli italiani con l’otto per mille. Sono così tanti nel nostro sistema gli sperperi, i ladrocini e le regalìe che se vogliamo trovare i fondi per la ricostruzione davvero non manca dove cercarli. Evitando di assestare un colpo sulla Chiesa, dopo che il terremoto lo ha assestato sulle “99 chiese” dell’Aquila. Anche perché il sistema dell’otto per mille e prima della congrua è nato come parziale risarcimento dei colossali espropri compiuti contro la Chiesa dallo stato risorgimentale. La Chiesa, prima dell’enorme confisca, viveva tranquillamente con quei fondi e quelle proprietà che nel corso dei secoli le erano state donate dai suoi figli. Essa è un mare, diceva il Manzoni, che redistribuisce ciò che i fiumi gli portano.

Da ricostruire dunque non è solo l’Aquila, ma la nostra stessa civiltà e anche un sistema economico più corretto. Ma si può costruire solo sul fondamento saldo della nostra storia. L’albero può crescere solo se ha radici profonde. E le case se c’è una chiesa.

Nella seconda guerra mondiale Londra fu distrutta dai bombardamenti tedeschi. Nel dopoguerra, il grande poeta Thomas S. Eliot, per raccogliere fondi per la ricostruzione delle chiese, scrisse una delle sue opere più straordinarie, “La Roccia”, che è la metafora di Cristo e di San Pietro. In quel poema Eliot s’interrogava proprio sul senso del tempo, sul male nella storia, sul fluire delle cose, sulla stabilità delle case e sulla costruzione della città umana. Dove c’è sempre qualcuno che dice: possiamo fare a meno della Chiesa. E dove tutto frana se il cristianesimo è sostituito dalla nuova religione fondata su “Usura, Lussuria e Potere”.

Il suo Canto dei Costruttori dice: “Le braccia si tenderanno/ Con dita non piegate/ mentre le voci discuteranno/ Di denaro speso male/ e il letto senza coperta/ e la grata senza fuoco/ e il lume non alimentato?/ Fino a quando attenderemo? Una Chiesa per noi tutti e lavoro per ognuno/ e il mondo di Dio per tutti noi fino a quando esso durerà”.

Anche la bella e significativa iniziativa di Libero (la ricostruzione dell’oratorio Don Bosco dell’Aquila) si può spiegare con i versi di Eliot: “costruiremo l’inizio e la fine di questa strada/ Noi costruiamo il senso”. Da giovane ho partecipato, con i campi di Comunione e liberazione, sia al soccorso del Friuli che a quello per l’Irpinia. Dove leggevamo questo bellissimo poema di Eliot, su cui dovremmo riflettere anche oggi che le fluttuazioni della City londinese o newyorkese che vollero fare a meno della Chiesa e dai suoi valori morali, come intuiva il poeta, rischiano di portare alla rovina della città.
Antonio Socci
Da “Libero” 15 aprile 2009


Avvenire 16 Aprile 2009 - Il personalismo? Non è individualismo
Da qualche tempo a questa parte è in atto un inquie­tante processo di trasformazione (o, piuttosto, di deformazione) del concetto di persona. Nato nei primi decenni del Novecento per reagire all’individualismo borghese (e a un’etica, quella kantiana, incentrata esclusiva­mente sul soggetto) il personali­smo si è sempre connotato, al di là dell’estrema varietà dei suoi per­corsi interni, per l’accentuazione della dimensione relazionale del­l’io: non a caso, del resto, una del­le sue più importanti ed incisive espressioni storiche è stata quella del personalismo comunitario (di Emmanuel Mounier, e non solo).


Ciò che ha sempre distinto il per­sonalismo dall’individualismo (al di là delle formule e talora dalla terminologia usata) è stato il rap­porto con l’altro: occasionale e puramente esteriore per l’indivi­dualismo, strutturale e determi­nante per il personalismo. L’indi­viduo è un essere solitario e auto­referenziale, la persona un essere sociale e radicato nella rete di re­lazioni. Questa distinzione può apparire astratta e un poco scolastica, ma è ricca di conseguenze. Per l’indivi­dualismo ciascuno è libero di di­sporre liberamente di se stesso e del proprio corpo, in nome del principio di un’assoluta e insinda- cabile «autodeterminazione»; per il personalismo l’uomo è un esse­re sociale inserito in una serie di relazioni e di correlativi obblighi. Per l’individualismo l’uomo non deve «rispondere» di alcunché a chicchessia; per il personalismo l’uomo è al centro di una rete di responsabilità. E così via. Sono evidenti le implicazioni pra­tiche di questa distinzione.

Abor­tire o non abortire è scelta «indivi­duale » della sola donna, e non un confronto con l’altro (il nascituro) e gli altri (il padre, la società, la co­munità che attende di essere ar­ricchita da un figlio). Continuare a vivere o decidere di morire, ricor­rendo al suicidio, è una scelta sulla quale nessuno può interferire e che anzi, a giudi­zio di taluni, la so­cietà dovrebbe non solo non im­pedire ma favorire attraverso il «sui­cidio assistito» e così via.

È su questo sfondo che suscita non poche perplessità – almeno in chi si sente erede ed in qualche modo interprete della tradizione personalista – sentire parlare di «riscoperta del personalismo» (se­condo quanto recentemente af­fermato da Vannino Chiti su Euro­pa) a proposito di posizioni che appaiono di chiara marca indivi­dualistica, come individualistico è il «principio di autodeterminazio­ne » quando sia fondato sulla tesi secondo cui ciascuno è responsa­bile soltanto di fronte a se stesso, e non anche di fronte agli altri ed al­la società (e, per il credente, anche a Dio).

La questione merita di essere svi­luppata ed approfondita in sedi ben più qualificate di quanto non siano le colonne di un giornale. Ma chi si ispira al personalismo comunitario non può non provare un segreto brivido nel constatare quanta parte della cultura «di sini­stra Emmanuel Mounier » – un tempo fortemente lega­ta ad una visione solidaristica del­la vita e per questa ragione ogget­to di penetrante attenzione da parte del personalismo comunita­rio – si sia fatta invischiare nelle secche di quello che Mounier chiamava lo «spirito borghese» (come borghese, appunto, è il principio dell’assoluta e indiscri­minata autoreferenzialità, sul pia­no degli affari come su quello del­la vita).

Non è questo lo spirito della Co­stituzione, fortemente impregnata della cultura del personalismo comunitario, quando tesse attorno alla persona umana (pur se essa è espressamente invocata con so­brietà) una fitta rete di relazioni che vanno dalle «formazioni so­ciali » (art. 3), alle autonomie locali (art. 5) alla famiglia (art. 29). «Ri­scoprire il personalismo» non può significare accettare l’esclusiva autoreferenzialità del singolo ma recuperare la relazionalità struttu­rale della perso­na, come un «io» che si rapporta sempre, anche nelle situazioni più drammati­che della vita, a un «tu» che lo fronteggia e in­sieme lo trascen­de. Rompere l’estre­ma solitudine dell’io, anche alle frontiere della vita, non è un’invasione di campo di un presunto «Stato etico» (im­propriamente evocato da uno de­gli eredi di questa metafisica scuola di pensiero) ma un riaffer­mare la dimensione comunitaria dell’esistenza. L’uomo non è mai solo, anche nell’apparentemente solitudine della morte.
Giorgio Campanini


Il suicidio di Roberta Tatafiori - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 16 aprile 2009 - "La donna è infine perfetta./Il suo corpo/Morto porta il sorriso del compimento/L’illusione di una greca necessità/Fluisce, nelle pieghe della sua toga,/I suoi piedi/Nudi sembrano dire:/Abbiamo camminato tanto, è finita
In questa nostra pazza società, dove i padri sono optional riproduttivi e educativi, dove l’autorità dei maestri è un rimpianto, dove maschio o femmina non è un modo in cui si nasce, ma una scelta consapevole, dove dissentire, è segno di razzismo o fobia, dove la libertà è la scelta su tutto sino all’estrema scelta di decidere quando morire, in questa società smarrita, una donna di sessantasei anni, Roberta Tatafiore, giornalista, scrittrice, femminista, ha scelto di morire, di pianificare la sua morte, di lasciare questo mondo scrivendo un diario di quest’ultima esperienza "La mia è stata una scelta", dice il suo ultimo biglietto, e anche se tutti parlano di un addio shock, a dire il vero pare proprio che in pochi osino trovarci qualcosa da ridire. Anzi, ‘passeggiando’ tra i blog, si possono trovare messaggi di “profondo dispiacere” come su – noidonne - per la quale Roberta Tatafiore aveva collaborato negli anni ’80 e ’90, ma anche molti messaggi di ammirazione per un gesto che a molti è sembrato “molto commovente”.

Sotto, sotto in qualche scritto si intravede anche un certo imbarazzo, per un gesto che si comprende non possa essere giustificato dal desiderio di autodeterminazione.

Molti si sono affrettati a scrivere che rispettano la sua scelta di essere libera sino al gesto estremo, forse perché se non sai dare un significato al morire, non ne sai parlare, quindi meglio trincerarsi dietro al rispetto per chi non essendoci più non può replicare.
Chi l’ha conosciuta la descrive come una donna senza compromessi, sul sito Donnealtri.it si può leggere un pezzo di Letizia Paolozzi: “Non era sola, malata, handicappata. Non aveva un tumore. Non viveva la vecchiaia come un dramma. Non era avvolta dal velo della depressione. Bella, vitale, carnale. Però Roberta Tatafiore si è uccisa. Per delle sue motivazioni. Con una sua grandezza. Compiendo un gesto di cui noi che, in tante e tanti l’amavamo, possiamo solo riconoscere la verità (...) So bene che le ragioni che potrei portare non sarebbero mai le sue ragioni. D’altronde, con quel gesto Roberta si è resa vulnerabile. (...) Si tratta, dunque, di ascoltarla. Con una attenzione e una cura più dolorosa del solito. Perché Roberta non era mai semplice”.

Già, non era semplice. Da Il Foglio apprendiamo che aveva scelto di morire in un albergo accanto a casa e che si è spenta in ospedale, la cameriera l’ha trovata ancora in vita e all’ospedale non hanno potuto salvarla.
Chissà se questo faceva parte del suo piano o se si sia trattato di un imprevisto, il solito imprevisto che riafferma che la vita in fondo non è nostra, ma che importa? Si attende un memoriale che dovrebbe arrivare ai giornali a giorni e forse anche per questo tutti vanno cauti nel pronunciarsi.

Chissà che dirà, la femminista che disse: "Trattiamo le prostitute come operai. Aboliamo la Merlin", che … scrisse “Sesso al lavoro. Da prostitute a sex-worker. Miti e realtà dell’eros commerciale“ (il Saggiatore) e “Uomini di piacere …e donne che li comprano“ (Frontiera), la donna che scrisse agli amici “state sereni” come se fosse possibile saper morta un’amica e far finta che nulla sia accaduto se non la sua volontà.

La sua scelta sembra voler essere la manifestazione estrema dello slogan femminista - IO SONO MIA– ma come allora, anche oggi è un manifesto di morte e non di libertà, qualcuno l’ha paragonata a Silvia Plath (la scrittrice nata a Boston nel 1932), che mandati i figli dai vicini, si suicidò aprendo il gas e mettendo la testa nel forno, qualche giorno prima aveva scritto la sua ultima poesia "Orlo".
Forse dietro a questa estremizzazione di una libertà che rende cadaveri, c'è la solitudine di donne intelligenti, sensibili, di belle persone che hanno creduto che riconoscere di avere un destino che sfugge di mano, fosse un privilegio che non si possono concedere coloro che del destino proprio si dicono artefici e preferiscono perire che abbandonarsi alla vita.
Incuranti di chi resta, di chi le ha sfiorate, incontrate, amate di chi si sforza di capire, di dare alla morte un nome che non le appartiene "libertà" ma sente questo nome stridere.

ORLO
La donna è infine perfetta.
Il suo corpo
Morto porta il sorriso del compimento
L’illusione di una greca necessità
Fluisce, nelle pieghe della sua toga,
I suoi piedi
Nudi sembrano dire:
Abbiamo camminato tanto, è finita.
Ogni bimbo morto, riavvolto, bianco serpente
Uno a ogni piccola
Brocca di latte, ora vuota
Li ha piegati
Di nuovo nel corpo di lei come petali
Di una rosa si chiudono quando il giardino
S’intorpidisce e odori sanguinano
Dalle dolci, profonde gole del fiore notturno.
La luna non ha nulla di cui essere triste,
fissando dal suo cappuccio di osso
è abituata a questo tipo di cose.
Le sue macchie nere crepitano e tirano.
Silvia Plath


17/04/2009 09:06 – MYANMAR - Cristiani kachin costretti a versare una tassa per la festa buddista - Il Thingyan celebra il nuovo anno birmano ed è caratterizzato da giochi ed eventi legati all’acqua. I funzionari della giunta militare hanno sancito il versamento di una “tassa fissa” raccogliendo i soldi casa per casa. La dittatura professa un buddismo di facciata e discrimina le minoranze religiose.
Yangon (AsiaNews/Agenzie) – La giunta militare ha costretto i cristiani di etnia kachin – nell’omonimo Stato, nel nord del Myanmar – a versare contributi per la festa buddista di Thingyan. Esso caratterizza l’inizio del nuovo anno birmano e si celebra nel segno dell’acqua; quest’anno la festa è iniziata il 12 aprile e si è conclusa ieri.
Fonti cristiane – citate da Kachin News Group (Kng) – riferiscono che le “donazioni” nel distretto di Bhamo sono state raccolta in maniera forzosa da funzionari degli uffici amministrativi locali della giunta; grazie ai soldi raccolti, le autorità avrebbero finanziato la costruzione di palchi dai quali la gente si rovesciava addosso ondate di acqua, secondo i tradizionali riti della festa.
La comunità cristiana parla di una “tassa fissa” da versare al fondo predisposto per le festività dalle amministrazioni locali. Ogni quartiere a Bhamo ha dovuto allestire un palco, in base alle direttive fornite dall’ufficio locale del Consiglio per la pace e lo sviluppo, il partito che rappresenta la giunta militare al potere nella ex-Birmania.
Un cristiano Kachin del quartiere di Min Hla, dove vivono 50 famiglie fra protestanti e cattoliche, dice di aver versato 1000 kyat (circa 112 euro) al fondo per il Thingyan e, la scorsa settimana, altri 500 come tassa municipale “su richiesta delle autorità”. Una donna di Jinghpaw Lawk dice di aver versato 500 kyat l’11 aprile scorso.
La quota costituisce una cifra enorme per una popolazione che lotta ancora oggi per la sopravvivenza; gran parte della popolazione vive infatti al di sotto della soglia della povertà, soprattutto nelle zone colpite dal ciclone Nargis nel maggio 2008. Entrambe le fonti confermano il versamento obbligatorio di una quota fissa per la festa; in caso di mancato pagamento, la quota sarà riscossa dai funzionari nei giorni successivi. Fonti locali aggiungono che le autorità “sono entrate in tutte le case delle famiglie cristiane”, risparmiando solo le parrocchie e le abitazioni dei pastori.
In Myanmar i leader della giunta militare al potere si definiscono devoti buddisti, in molti casi più per tradizione o superstizione, che per vera convinzione; i fedeli delle altre religioni, fra cui quella cristiana, sono spesso vittima di discriminazioni e soprusi, soprattutto per la loro appartenenza a minoranze etniche come i kachin o i karen.


«La meta» o «il viaggio»? - Pigi Colognesi - venerdì 17 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Pubblicità di un’auto di gran marca: il guidatore esce dalla città e si trova di fronte ad alcuni bivi con una strana segnaletica. Uno indica la scelta tra «Sentirsi arrivati» e «Mettere tutto in discussione». Va da sé che l’autista sceglie questa seconda opzione. Così come è ovvio cosa preferisca tra «La strada più facile» e «La meno battuta»: la sua è un’auto di lusso e il proprietario non può che volersi distinguere dalla massa; andrà per la strada dei pochi fortunati. Lo stesso senso di superiorità elitaria gli fa scegliere «Una domanda» invece di «Mille risposte». Il tutto si conclude con un’alternativa impegnativa: «Il grande amore» o «Una nuova avventura»?
In una versione dello spot i due cartelli indicano direzioni opposte; l’autista si blocca insicuro e mette le quattro frecce. In un’altra, più tranquillizzante, i due cartelli vanno dalla stessa parte; quindi nessun problema. Ma è su un’altra variante dello spot che mi interessa soffermarmi.
L’opzione proposta al nostro autista è tra «La meta» e «Il viaggio».
Ovviamente, lui sceglie il viaggio. Senza stare a scomodare le ideologie sessantottine dell’on the road («Non importa dove; l’importante è andare») e senza dar troppo peso a una pubblicità che si guarda un po’ distrattamente in attesa della ripresa del film, la cosa mi ha fatto riflettere.
Pensavo: se la meta fosse incontrare la persona a cui si tiene più nella vita, chi ragionevolmente sceglierebbe di continuare il viaggio? Se avessi davvero bisogno di qualcosa – pensate a chi ha perso la casa nel terremoto – e il compimento di questo desiderio fosse vicino, a portata di mano, continuerei il mio girovagare da turista di lusso?
Chi può permettersi un viaggio che non è autentica ricerca; tanto che, di fronte alla meta, sceglie di andare da un’altra parte? Chi, in fondo, è sazio di quello che ha. Un testo non canonico, ma da alcuni ritenuto autentico, attribuisce a Cristo questa frase: «Venni tra loro, e li trovai tutti ubriachi. Nessuno di loro aveva sete». Nessuno cercava veramente la meta; il loro viaggiare non era per andare da qualche parte, era una distrazione. Invece noi abbiamo proprio bisogno della meta.
Quella che non coincide con la tranquilla immobilità del «Sentirsi arrivati», ma neppure si soddisfa dei «Mettere tutto in discussione» (Cosa resterebbe? Il puto gusto solitario di muoversi per sentirsi vivi). Quella che non si confonde con le «Mille [parziali] riposte», ma accetta ogni imprevedibile «Domanda». Quell’unica meta che consenta di viaggiare senza affanno e senza distrazione.


TERREMOTO ABRUZZO/ Così siamo cresciuti aiutando chi non aveva più niente - Redazione - martedì 14 aprile 2009 – ilsussidiario.net
È la mattina del 6 aprile, dopo una notte insonne e realizzando mano a mano che una tragedia nella notte si era compiuta, per di più ad appena 70 chilometri di distanza, ognuno di noi si è posto di fronte al dramma del terremoto che aveva colpito L’Aquila con la preoccupazione di capire cosa fare, di come muoversi, di come mettersi a disposizione per qualsiasi evenienza.
Giro di messaggini, siamo tutti allertati, il presidente dell’associazione ci avvisa che il Banco di Solidarietà di Roseto, per ordinanza prefettizia e per scelta del Comune, sarebbe stato riferimento per Roseto e per la Provincia di Teramo per quel che riguardava la raccolta e la distribuzione di aiuti per i terremotati che era previsto sarebbero stati accolti lungo la costa, solo 1200 circa nel nostro comune. La realtà era quella: rispondere ad un aiuto che ci veniva richiesto. In breve tempo viene messo a disposizione un capannone presso l’auto porto del comune dove far arrivare i grossi quantitativi di alimenti e anche di vestiario. In maniera rapidissima si sparge la voce in città della raccolta di aiuti. La nostra piccola sede, situata in paese, è stata presa d’assalto da chiunque avesse qualcosa da donare, i pochi che eravamo abbiamo fatto di tutto per ordinare al meglio la roba e poter già essere operativi per i primi aquilani che arrivavano.
La nostra piccola realtà di banco, grazie ai rapporti che in questi anni abbiamo saputo creare, mantenere con associazioni e istituzioni, ha creato una rete di coinvolgimento di volontari che non ci saremmo mai aspettati. Dagli ultras del Basket, ai gruppi parrocchiali a gente normale che portava alimenti e poi dava la disponibilità per qualche turno e tanti altri. Nel magazzino più grande, intanto, cominciavano ad arrivare i camion di alimenti, vestiario, coperte. Il martedì mattina erano operativi circa 200 volontari soprattutto ragazzi: chi selezionava il vestiario, chi preparava i pacchi di alimenti richiesti dalle varie strutture di accoglienza dove quotidianamente sono punto di riferimento tanti ragazzi con motorini, bici, macchine e che accolgono le richieste di questa povera gente.
Altri caricavano camioncini per aiuti ai paesi vicini che ospitano anche loro terremotati, perchè essendo punto di riferimento per la distribuzione, quotidianamente è un via vai di mezzi che scaricano e caricano. Le ore passavano con negli occhi i primi volti umili di chi voleva mangiare ma anche di chi da due giorni non si lavava o aveva bisogno di vestirsi. Non è facile raccontare il dramma di tanta gente scappata dalla propria casa lasciando tutto,qui aveva la possibilità di un alloggio, di mangiare, ma soprattutto doveva ed ha, attraverso noi, incontrato un luogo,una compagnia non di generosi ma di persone che da tempo si aiutano e si educano alla carità, cioè al dono di sè.Da qui nasce tutto,in fretta ,con tanti limiti,con preoccupazione,con il pensiero di poter rispondere a ciò che la realtà ci presentava ,senza fronzoli,senza teorie,senza moralismi ma con la certezza che in quell’istante ci era chiesto di giocarci con tutto noi stessi in questa vicenda.
Ormai oggi ,vigilia di Pasqua, sono 4000 le persone accolte nel nostro comune e 400 volontari che si alternano nei turni,nel magazzino grande e nella nostra sede. In sede, punto di riferimento per tanti si respira un aria di stupore e commozione per tutto ciò che quotidianamente siamo chiamati a vivere e a condividere nel rapporto diretto con la gente che viene umilmente a prendere alimenti o chiede saponi,o deve vestirsi ma attraverso questa condivisione non può non passare che ciò che soddisfa pienamente la persona è l’essere accolti da un abbraccio più grande, l’essere guardati e trattati non solo per il piatto di pasta che manca ma per l’uomo che sei, con tutto il dramma che ti porti dentro ma con la certezza che si è uomini veri in un abbraccio più grande di noi incontrabile ora,adesso. La sera tarda ci ritroviamo a sistemare la roba per la mattina seguente cercando anche di rendere la sede più accogliente possibile e raccontandoci le varie esperienze della giornata che spesso sono di stupore,di condivisione, di gratuità.
Come Ada che prima del lavoro in un bar passa in sede poi va a lavorare e la sera quando finisce rimane qui fino a tarda notte,con noi si ma con altre madri di famiglia o ragazzi che rimangono anche solo per condividere la fatica della giornata.Essendo in due strutture lontane si ha l’occasione anche di apprezzare il gran lavoro che nel magazzino i 200 ragazzi svolgono tutta la giornata coordinati da Paolo, Marino con l’aiuto di altri.
Certo non ci sentiamo più bravi di altri perchè siamo capaci di affrontare un emergenza in questa maniera, nei pochi momenti che abbiamo per guardarci negli occhi siamo capaci solo di riconoscere che la nostra piccola compagnia sta crescendo vivendo questo dramma al punto di essere riferimento come luogo non solo per i terremotati ma per tanta gente che con noi si è coinvolta coscienti di non essere una nostra capacità ma il frutto di aver affidato la nostra esistenza a chi ne è il vero senso e la vera sussistenza.
Gli amici dell’Associazione Banco di Solidarietà di Roseto degli Abruzzi


16/04/2009 13.16.17 – Radio Vaticana - Benedetto XVI compie 82 anni: l’amicizia con Cristo segno distintivo della sua vita
Benedetto XVI compie oggi 82 anni, avvenimento che il Papa festeggia in forma familiare insieme al fratello Georg nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo. Tanti gli auguri e i doni pervenuti al Pontefice da tutto il mondo. Tra questi, in particolare, quelli del presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano che in una lettera sottolinea la “personale partecipazione” di Benedetto XVI “al dolore delle famiglie colpite” dal terremoto in Abruzzo. Una partecipazione, scrive Napolitano, che “ha confortato l’intera comunità nazionale e ci ha incoraggiato ad accogliere con profondità il messaggio di speranza” pasquale. Il medesimo sentimento, si legge ancora, “deve ispirarci anche nel più ampio contesto della crisi che attraversa l’economia mondiale”. In occasione della felice ricorrenza del genetliaco del Papa, riproponiamo alcune riflessioni autobiografiche di Benedetto XVI, nel servizio di Alessandro Gisotti:http://62.77.60.84/audio/ra/00157997.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00157997.RM

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Un uomo innamorato di Dio e della sua Chiesa, un pastore al servizio della Verità: fin dall’infanzia, è stata l’amicizia con Gesù a contraddistinguere la vita di Joseph Ratzinger. E’ il Papa stesso a ricordarlo con gratitudine in occasione del suo 80.mo compleanno:

“L’amicizia di Gesù Cristo è amicizia di Colui che fa di noi persone che perdonano, di Colui che perdona anche a noi, ci risolleva di continuo dalla nostra debolezza e proprio così ci educa, infonde in noi la consapevolezza del dovere interiore dell’amore, del dovere di corrispondere alla sua fiducia con la nostra fedeltà (Omelia 15 aprile 2007, Piazza San Pietro)”.

Il piccolo Joseph nasce il 16 aprile del 1927, Sabato Santo. Il futuro Pontefice viene battezzato il giorno stesso e così, sottolinea, la sua nascita è “nel segno dell’inizio della Pasqua”, in uno stesso giorno diviene membro della propria famiglia e della grande famiglia di Dio:

“Ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza di che cosa significa 'famiglia'; ho potuto fare l’esperienza di che cosa vuol dire paternità, cosicché la parola su Dio come Padre mi si è resa comprensibile dal di dentro; sulla base dell’esperienza umana mi si è schiuso l’accesso al grande e benevolo Padre che è nel cielo. (Omelia 15 aprile 2007, Piazza San Pietro)”.

Sempre in occasione del suo 80.mo genetliaco, Benedetto XVI rammenta la “chiamata al ministero sacerdotale”. Un dono “nuovo ed esigente”, nelle parole del Papa:
“Nella festa dei santi Pietro e Paolo del 1951, quando noi – c’erano oltre quaranta compagni – ci trovammo nella cattedrale di Frisinga prostrati sul pavimento e su di noi furono invocati tutti i santi, la consapevolezza della povertà della mia esistenza di fronte a questo compito mi pesava. Sì, era una consolazione il fatto che la protezione dei santi di Dio, dei vivi e dei morti, venisse invocata su di noi. Sapevo che non sarei rimasto solo”.

E della sua vocazione, il Santo Padre parla ampiamente nell’incontro con i giovani della diocesi romana, il 6 aprile del 2006. Benedetto XVI ricorda il difficile contesto in cui è cresciuto nella Germania nazista che voleva sbarazzarsi dei sacerdoti. Ma, è il suo ricordo, proprio in contrasto alla brutalità di quel regime, si rese conto che c’era bisogno di sacerdoti, di voci forti che annunciassero il Vangelo:

“In questa situazione, la vocazione al sacerdozio è cresciuta quasi naturalmente insieme con me e senza grandi avvenimenti di conversione. Inoltre due cose mi hanno aiutato in questo cammino: già da ragazzo, aiutato dai miei genitori e dal parroco, ho scoperto la bellezza della Liturgia e l’ho sempre più amata, perché sentivo che in essa ci appare la bellezza divina e ci si apre dinanzi il cielo”.

L’amore per la liturgia, dunque, ma anche per la teologia, “la grande avventura del dialogo con Dio”. Tuttavia, confida il Papa ai giovani, nei primi anni del sacerdozio non mancarono le difficoltà, sempre però superate nel totale affidamento a Cristo:

“Sapevo anche che non basta amare la Teologia per essere un buon sacerdote, ma vi è la necessità di essere disponibile sempre verso i giovani, gli anziani, gli ammalati, i poveri; la necessità di essere semplice con i semplici!"
(musica)


16/04/2009 15.17.06 – Radio Vaticana - Il cardinale Sandri: Benedetto XVI, maestro di verità e padre della carità. Magister: risponde all'indebolimento della fede dentro e fuori la Chiesa
“Dal primo giorno della sua elezione, il Papa ha dimostrato non solo di essere un maestro della verità ma anche un padre della carità e dell’amore”. E’ quanto sottolinea il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali: ascoltiamolo al microfono di Amedeo Lomonaco:http://62.77.60.84/audio/ra/00157994.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00157994.RM

R. – Il Papa, in ogni suo gesto, in ogni suo atto durante questi quattro anni di Pontificato, non soltanto ha illuminato il mondo con la sua dottrina, con le sue parole, con le sue omelie, ma soprattutto con il suo amore: tutto quello che il Papa ha insegnato e tutto quello che ha fatto è per far capire il senso dell’amore di Dio che si è manifestato in Cristo Gesù. Quindi, per tutta la Chiesa questi avvenimenti del quarto anniversario dell’elezione del Papa e del suo genetliaco sono avvenimenti di gioia, di serenità, di fede in Gesù. Tutti gli avvenimenti, anche gli ultimi, dimostrano un grande amore paterno del Papa verso la Chiesa. Questo amore è ripagato con l’affetto che si vede anche in tutti gli atti pubblici: tutti hanno sete di quello che dice il Papa, tutti hanno sete di amore.


D. – Il Papa si è sempre espresso a difesa della vita, della famiglia, della libertà, del bene comune. Ma su questi valori fondamentali sono anche state sollevate delle polemiche. Perché?


R. – Perché purtroppo la forza degli anti-valori è molto forte: viene promossa questa forza degli anti-valori anche dai mezzi di comunicazione. Il Papa con la ‘spada della verità’ va facendo vedere proprio che se non c’è amore per la vita, se non c’è la costruzione della famiglia cristiana, il mondo va perdendo poco a poco il senso della vera felicità, il senso di Dio. Manca Dio e nel mondo viene fuori questa specie di angoscia, di nichilismo, di non-senso. Dobbiamo predicare sapendo che siamo stati salvati da Cristo con la Sua morte, la Sua risurrezione. Auguriamo al Papa un lungo Pontificato, perché abbiamo bisogno di avere testimonianza della verità e di essere tutti noi cooperatori della verità.


Ma in quale contesto avviene questo 82.mo compleanno di Benedetto XVI? Fabio Colagrande lo ha chiesto al vaticanista Sandro Magister, curatore del sito www.chiesa:http://62.77.60.84/audio/ra/00158004.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00158004.RM

R. – Man mano che passa il tempo dalla sua elezione, mostra sempre di più a mio parere quello che è il senso generale del suo Pontificato, che è un senso generale non slegato dalla storia in cui si vive. Il suo compito è quello, come ha detto - e mi riferisco sostanzialmente a quello che ha detto lui - di rispondere ad un indebolimento della fede, che egli vede percepibile in tutto il mondo, dentro e fuori la Chiesa. E la sua riposta è quanto di più essenziale si può fare: portare, accompagnare l’uomo di oggi a Dio e non ad un Dio qualsiasi, ma al Dio di Gesù Cristo. E’ tutto qui questo Papa, e lo si riconosce sempre di più in questa sua essenzialità, anche in mezzo alle turbolenze che talvolta punteggiano il suo Pontificato.


D. – Nonostante le critiche che arrivano a volte alle parole e ai gesti del Papa, i suoi viaggi e la partecipazione agli Angelus e alle udienze generali in qualche modo confermano la popolarità di Benedetto XVI...


R. – I suoi viaggi riscuotono un successo, un’attenzione del pubblico più generale, superiore sistematicamente alle attese, ed è un’attenzione non di carattere tipico di chi cerca la curiosità, il grande gesto, ma l’attenzione di chi si rende conto di essere di fronte ad una persona che dice delle cose forti e importanti. La ragione a mio parere della popolarità di questo Papa è esattamente in quello che dice e in quello che fa: egli va a toccare quei temi che l’ascoltatore comune percepisce come quelli essenziali, come quelli che toccano la vita di ciascuno nel senso profondo della parola, di quelli che toccano il destino dell’uomo e del mondo. Egli viene rispettato e ammirato. E’ un elemento a mio parere caratteristico di questo Pontificato. (Montaggio a cura di Maria Brigini)


CHE COSA È DIVENTATA LA VITA? - UCCIDERE PER UN PARCHEGGIO SOTTO GLI OCCHI DEI FAMILIARI - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 17 aprile 2009
P er il parcheggio o per tutta la vita? In­somma, questa ira che acceca e fa al­zare la mano assassina di un uomo su un altro uomo è per la lotta per il parcheggio o perché tutta la vita s’è trasformata in u­na lotta? Il fatto accaduto l’altra sera a Ro­ma provoca uno sgomento enorme. Mori­re per un parcheggio? Ma è uno sgomen­to, se si può così dire, raddoppiato, molti­plicato per il fatto d’esser stata la violenza micidiale compiuta mentre la famiglia del­la vittima era in auto. E mentre lo era an­che quella dell’assassino. Come se quei due uomini fossero usciti dalla loro vita, dalla loro intera vita, l’amore, i figli, gli affetti, le fatiche, per proiettarsi fuori come lottato­ri. Usciti fuori dalla scatoletta metallica del­le auto che contengono, comprimendole, le intere vite, per lottare.
Ma davvero per un parcheggio? O un’ira così cieca e idiota, così micidiale e dispe­rante scaturisce non dal futile motivo ma da una trasformazione della vita in lotta perpetua, per il parcheggio, sì, ma anche per la strada, per l’auto, per fare quella fa­miglia benedetta e straziata, per il lavoro o per l’aria, forse, persino per respirare. Lo spettacolo estremo e definitivo di uccide­re (e di morire) davanti agli occhi della pro­pria famiglia per un futile motivo è scritta nella scena di quale più vasto copione, tessuto di rabbia e d’insofferenza? In quegli occhi incredu­li nell’abitacolo ve­diamo la vita stessa spalancare lo sguar­do, non credere che possa andare così. In quegli occhi incredu­li nell’abitacolo ve­diamo, contempora­neamente all’orrore, un emblema della vi­ta stessa che muta supplica che non sia vero, che non può fi­nire così, che non si deve vivere e morire per questa rabbia.
Nella scena della strada di Roma, in quegli occhi rimasti senza parcheggio e senza pa­dre, senza marito, vediamo un simbolo che tutti ci riguarda. Se nei fatti che accadono non leggiamo i segni che ci riguardano, non ricaveremo nient’altro da tali fatti se non qualche indignazione o sgomento passeggero. Invece occorre guardare, guar­dare bene. Perché la scena di questo as­sassinio è simile ma anche diversa da mol­te, troppe altre. Perché la famiglia che in macchina fa da quinta, fa da fondale alla scena del sangue, aggiunge qualcosa di tre­mendo. Che ci fa ammutolire. Come se in quei pochi passi che separano l’auto dalla morte si sia perduto tutto. Non solo la lu­cidità di piantarla lì, che non ha senso liti­gare tanto per un parcheggio. Non solo la lucidità, ma anche la coscienza di essere in strada con altri, i primi altri che sono i tuoi cari, di essere non da soli come lupo tra i lupi, ma insieme, in una prima cellula del più generale organismo sociale.
Questo prendersi a pugnalate, a spari, a brani, questo auto-divorarsi dell’organi­smo comune che siamo dinanzi agli oc­chi di quelli che formano la prima cellula della nostra vita, che non è nulla (diceva il poeta Eliot) se non è vita in comune, è un segno estremo. Da leggere senza riparare gli occhi dietro a facili e inutili analisi psi­cologiche. La teoria del 'raptus' è nel no­vantanove per cento dei casi un modo co­modo per chiudere il problema. Per non guardare da quali oscuri serbatoi è ribol­lita e poi esplosa quella rabbia che colpi­sce alla cieca, senza vedere più nemmeno che alle spalle, a pochi passi, c’è una fa­miglia. La cui sola presenza avrebbe do­vuto fermare quella mano. Avrebbe dovu­to provocare una pronta moderazione. Un supplemento di pazienza, di attenzione. E invece no, la si è lasciata con gli occhi smarriti dietro i vetri a vedere l’assurdo della vita dominata dalla lotta per il pos­sesso. Di un parcheggio, di un posto di la­voro, di un po’ di soldi, di onore o di qual­cun altro tra tutti gli idoli, momentanei o più duraturi, che ci tolgono la luce dal cuo­re e dallo sguardo.