sabato 4 aprile 2009

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Predicatore del Papa: il segreto della vita, la speranza - Dipende dal rapporto con lo Spirito Santo, spiega padre Cantalamessa
2) Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nel ricordo di Navarro-Valls - Conferenza dell’ex portavoce vaticano, a Berlino, sui “Papi della modernità” - di Hartwig Bouillon
3) «Così si apre all’eugenetica E le donne sono più a rischio» - L'intervista dopo la sentenza della Consulta sulla legge 40 in merito alla fecondazione assistita - Monsignor Sgreccia
4) Un commento sull'editoriale di Ognibene su Avvenire - La legge 40 non è certo una legge cattolica - Persone di buona volontà oggi sono tratte in inganno da trionfalistici commenti sugli esiti della legge 40… -, Comitato Verità e Vita 2 Aprile 2009
5) Dialogo tra l'arcivescovo Rino Fisichella e Lucia Annunziata - Soluzioni condivise sulla legge 40 e sugli altri temi etici - di Marco Bellizi – L’Osservatore Romano, 4 aprile 2009
6) 03/04/2009 14:45 – VATICANO - Cristiani e buddisti: essere poveri e combattere la cattiva povertà - Messaggio del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso per la festa buddista di Vesakh. Vicini ai buddisti per la povertà come “distacco”. Un invito a operare insieme per combattere quella povertà che è umiliazione della dignità umana, disagio ed emarginazione.
7) Pio XII. Un libro e un saggio fanno luce sulla leggenda nera - L'immagine di Pacelli "papa di Hitler" è contestata da un numero crescente di studiosi. A costruirla furono in molti, anche cattolici. Ma determinante fu la propaganda sovietica. Uno storico gesuita ne svela la strategia - di Sandro Magister
8) La leggenda nera di Pio XII l’ha inventata un cattolico: Mounier - E con lui un altro grande cattolico, Mauriac. La propaganda comunista non fu la sola a creare l’immagine di papa Pacelli filo-nazista. Due saggi su due autorevoli riviste gettano nuova luce su come è nata - di Sandro Magister
9) I primi provvedimenti antiebraici e la Dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo di Giovanni Sale S.I. - La pubblicazione dell'infausto Manifesto della razza segnò il deterioramento dei rapporti fra il Regime fascista e la Chiesa. Il conflitto tra la Santa Sede e il Governo fascista a causa della questione razziale e della legislazione antiebraica, universalmente condannata dai cattolici. - [Da «La Civiltà Cattolica», quaderno 3798, 20 settembre 2008, pp. 461-474]
10) CONVEGNO/ “Logos e dialogo”, così la Cattolica ha ricordato John Henry Newman - Giuseppe Bonvegna - sabato 4 aprile 2009 – ilsussidiario.net


Predicatore del Papa: il segreto della vita, la speranza - Dipende dal rapporto con lo Spirito Santo, spiega padre Cantalamessa
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 3 aprile 2009 (ZENIT.org).- Il segreto della vita è avere speranza, e questo dipende dalla relazione che si instaura con lo Spirito Santo, ha spiegato questo venerdì il predicatore della Casa Pontificia a Benedetto XVI e ai suoi collaboratori della Curia Romana.
Padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha riflettuto nell'ultima meditazione di Quaresima sullo Spirito Santo, "anima dell'escatologia cristiana" ("Anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando", Rom 8, 23).
"Noi abbiamo bisogno di speranza per vivere e abbiamo bisogno di Spirito Santo per sperare!", ha spiegato nella conclusione della sua meditazione, pronunciata nella Cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano.
"Uno dei pericoli principali nel cammino spirituale è quello di scoraggiarsi di fronte al ripetersi degli stessi peccati e all'apparentemente inutile succedersi di propositi e ricadute. La speranza ci salva. Essa ci dà la forza di ricominciare sempre da capo, di credere ogni volta che sarà la volta buona, della vera conversione", ha riconosciuto.
"Così facendo, si commuove il cuore di Dio il quale verrà in nostro soccorso con la sua grazia", ha spiegato.
Il predicatore del Papa ha aggiunto che "non possiamo accontentarci di avere speranza solo per noi. Lo Spirito Santo vuole fare di noi seminatori di speranza".
"Non c'è dono più bello che diffondere in casa, in comunità, nella Chiesa locale e universale, speranza. Essa è come certi moderni prodotti che rigenerano l'aria, profumando tutto un ambiente".
Per questo motivo, ha concluso, la Chiesa ha bisogno di una "perenne Pentecoste; ha bisogno di fuoco nel cuore, di parola sulle labbra, di profezia nello sguardo".
"Ha bisogno, la Chiesa, di riacquistare l'ansia, il gusto e la certezza della sua verità".
Padre Cantalamessa ha infine augurato al Papa e ai suoi collaboratori "una buona e santa Pasqua". Spetterà a lui dirigere la meditazione durante la celebrazione della Passione che il Papa presiederà nella Basilica di San Pietro il Venerdì Santo.


Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nel ricordo di Navarro-Valls - Conferenza dell’ex portavoce vaticano, a Berlino, sui “Papi della modernità” - di Hartwig Bouillon
ROMA, venerdì, 3 aprile 2009 (ZENIT.org).- Berlino. Ci ritorna alla mente questa scena: Papa Giovanni Paolo II, già curvo, che attraversa la porta di Brandeburgo al fianco di Helmut Kohl. Accadde a sette anni dalla caduta del muro. Tanto volle aspettare il Papa. Non doveva essere un trionfo, ma solo la realizzazione di un desiderio.
Anche l’allora portavoce del Papa, Joaquín Navarro-Valls, passò sotto i piccoli archi laterali: “Il Papa volle espressamente camminare senza bastone e il Cancelliere dovette sostenerlo”. ha raccontato Navarro-Valls lunedì 9 marzo a Berlino davanti a 500 ospiti nell’Aula Magna della Deutsche Bank, in una conferenza dal titolo “Papi della modernità”. Ad invitarlo è stato il Feldmark-Forum, un’iniziativa di amici dell’Opus Dei nella capitale.
Un’immagine è più eloquente di mille parole. In quella serata si andò oltre le parole e le immagini, perché le nostre parole e i nostri concetti sono inequivocabili, questa la prima tesi di Navarro-Valls. Questo aveva visto Giovanni Paolo: Dio, vita eterna, coscienza, anima, matrimonio, famiglia, sessualità – le parole-chiave dell’esistenza umana non hanno più per gli uomini lo stesso significato. Manca quindi un sistema comune di idee, un comune vocabolario.
Ecco la sfida del filosofo Giovanni Paolo II. In quattordici encicliche, egli ha cercato di chiarire perché Dio è il punto di riferimento dell’uomo. Infatti, quando Dio è irrilevante, l’uomo diventa il riferimento di se stesso e il risultato è un grande punto interrogativo.
Devo essere convinto
Da qui nasce la spiegazione fondamentale di Giovanni Paolo II, secondo cui una cosa è la speculazione filosofica, altro è una reale comprensione con la testa e il cuore. Per poter capire veramente, devo essere convinto della credibilità di colui che mi sta parlando. Per questo il Papa parlava “con” gli uomini e non solamente “a” loro.
“Santo Padre, perché viaggi così dappertutto?”, gli chiese un bambino romano durante una visita in una parrocchia di periferia. Risposta: “Perché gli uomini di altri posti hanno problemi diversi dai tuoi!”. Il Papa era consapevole che, per capire ed essere capito, doveva rendersi presente all’interno delle altre culture.
Non tutti leggono le encicliche. Ma la quindicesima l’hanno immediatamente capita tutti, credenti e non credenti. La sofferenza del Papa e, appena guarito, l’incontro con il suo attentatore. Questa, secondo Navarro-Valls, è stata la quindicesima enciclica.
La pallottola fu guidata
Ecco un’altra immagine che ha fatto il giro del mondo. Il messaggio non ha bisogno di parole: riconciliazione. Ali Agcà è uno strano personaggio. Prima afferma di non capire come mai lui, provetto tiratore, non sia riuscito a colpire il Papa da così breve distanza. Poi, in prigione, legge sui giornali notizie su Fatima: la Vergine Maria è apparsa la prima volta ai piccoli veggenti proprio il 13 maggio.
Da fedele musulmano, ne trae le sue conseguenze. Conclusione di Agcà: non è riuscito a uccidere il Papa proprio il 13 maggio, perché la Provvidenza ha voluto diversamente. Quando Agcà scopre pure che la suora che gli ha tagliato la strada in modo da farlo catturare dalle guardie di sicurezza si chiama Fatima, si convince (anche lui) del tutto: la pallottola è stata guidata.
L’immagine è il messaggio. Gli ultimi due Papi dimostrano – questa è la seconda tesi di Navarro-Valls – che le idee vengono colte solo se visualizzate. Noi viviamo di immagini.
Nella Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia, Papa Benedetto scendeva da Düsseldorf lungo il Reno in battello. Centinaia di migliaia di giovani si accalcavano sulle sponde, salutandolo entusiasti. Il pensatore Ratzinger si fermò a riflettere : “Questa è la teologia del papato” , bisbigliò poi all’orecchio di un Vescovo che gli stava accanto. Come dire: l’applauso non è rivolto a me, ma a Pietro, al carisma del Papato.
Gli incontri pubblici lo dimostrano: la realtà fattuale è più convincente di quella virtuale. Queste immagini sono la realtà. Certi verbosi attacchi del mondo mediatico, formulati rabbiosamente o elegantemente contro il Papa e la Chiesa, non reggono il confronto.
Il cristiano è uno che vive in modo che le sue parole e il suo agire formino un tutt’uno. Con la sua vita mostra la verità di ciò in cui crede.
Giovanni Paolo, alla fine del XX secolo, è stato uno dei più forti creatori di simboli dell’epoca. Ha costruito con i suoi gesti un linguaggio delle immagini, che portava con sé un contenuto impossibile da trasmettere con le sole parole. Noi vediamo come il Papa attraversa la porta di Brandeburgo, come batte il tempo con il pastorale durante la Giornata Mondiale della Gioventù, come canticchia divertito, come, da forte e giovane Papa, solleva un giovane indio; come, infine, già segnato dalla morte, si affaccia alla finestra senza poter parlare. I media non hanno più bisogno di parole.
Per forza, autenticità e verità questi gesti di Giovanni Paolo II superano le parole più eloquenti.
Allo stesso modo, Navarro-Valls guarda all’immagine del primo Papa tedesco moderno ad Auschwitz e Birkenau nel maggio 2006. Perciò, a suo avviso, è incomprensibile che qualcuno possa avere dubbi sull’atteggiamento di Papa Benedetto verso il popolo ebreo e l’immane tragedia della Shoà. Navarro-Valls dice testualmente: “Se fossi tedesco, sarei molto orgoglioso di questo Papa”.
Attualizzare il Papato
Navarro-Valls è quindi passato alla sua terza tesi. Giovanni Paolo II ha attualizzato il papato in modo mai visto prima e cioè sempre attraverso le immagini: il Papa in canoa, il Papa che gioca a calcio. Fino alla fine si è mostrato come un uomo che fa con grande libertà interiore ciò che ama e che gli sembra giusto. Non recita una parte. Dice ciò che è necessario che il Papa dica.
Giovanni Paolo ha detto una volta al suo portavoce: “Prima la gente andava dal parroco, oggi il parroco deve andare a cercare la gente”. Con ciò il Papa non intendeva riconoscere un dato di fatto, quanto viverlo in prima persona: amministrava tutti e sette i sacramenti; ogni anno battezzava e confessava. Con i suoi viaggi ha portato avanti un tipo di evangelizzazione tale da dare un volto nuovo all’esercizio del ministero papale. La domenica, il suo unico giorno libero, andava regolarmente a visitare le parrocchie di Roma.
Con il suo deciso esempio personale, ci ha fatto capire che il Papa non cerca di sopravvivere in una Chiesa in crisi. Il papato è piuttosto il centro dal quale si irradia la missione apostolica dei cristiani in tutto il mondo.
I media: un rischio
Questa attualizzazione istituzionale è particolarmente evidente nel rapporto del Papa con i media. Il Papa si è rivolto personalmente e sistematicamente ai giornalisti, come nessuno dei suoi predecessori aveva mai fatto. Questo ha avuto inizio sin dal suo primo viaggio in Messico nel 1979. Nessuno nell’aereo, né i giornalisti, né l’entourage se lo aspettava. Il Papa semplicemente si presentò e fece discorsi e domande in sei lingue. Poiché nei viaggi successivi ciò accadeva sempre più spesso, alcune persone del suo seguito cercarono di dissuaderlo, pensando al rischio rappresentato da un incontro informale. Il Santo Padre non si lasciò mai intimidire e continuò questa radicale innovazione.
Questi incontri diretti con i giornalisti si sono rivelati un efficace mezzo per comunicare con l’opinione pubblica di tutto il mondo. Non avevamo quindi a che fare – ha detto Navarro-Valls – con un Papa che in determinate occasioni esponeva qualcosa su cassetta registrata, ma piuttosto si era lasciato coinvolgere nella dialettica del giornalismo moderno, accettandone le regole per trasmettere i suoi valori cristiani.
Ambedue i Papi si sono comportati in maniera del tutto uguale con le proprie pubblicazioni. In precedenza i Papi avevano scritto solo documenti del Magistero. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, invece, hanno scritto anche libri per credenti e non credenti, che si possono comperare nelle comuni librerie.
Navarro-Valls si è detto particolarmente colpito dall’annotazione nella prefazione di Gesù di Nazareth: “Questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del 'volto del Signore' (cfr. Sal 27,8). Perciò ognuno è libero di contraddirmi.”
Non è ancora finita.
Naturalmente, questa analisi non aveva esaurito la serata. Un partecipante ha voluto sapere se Navarro-Valls fosse l’unico dei presenti a non aver sentito parlare degli eventi delle ultime settimane, chiedendo poi in tono quasi di supplica: “E ora, per favore, ci dica come possiamo difendere la Chiesa nel nostro ambiente!”.
L'ex portavoce vaticano ha risposto, seriamente e inaspettatamente: “Ma noi qui presenti preghiamo davvero così tanto per il Papa?”. Poi ha ammesso: “Ci sono momenti in cui determinate informazioni dei media vanno affrontate criticamente”. Per il resto, ha detto di non vedere una situazione particolarmente drammatica.
Poi c’è stata la domanda apparentemente inoffensiva della serata: “In quale paese si capisce meglio che la Chiesa Cattolica è una Chiesa mondiale?”. Risposta: “Mi hanno impressionato gli uomini della Guinea Bissau, con la loro certezza che il Papa rappresenta una realtà che supera se stessa. Lì esiste la comunione dei santi!”.


«Così si apre all’eugenetica E le donne sono più a rischio» - L'intervista dopo la sentenza della Consulta sulla legge 40 in merito alla fecondazione assistita - Monsignor Sgreccia
CITTÀ DEL VATICANO —Che ne pensa, eccellenza? «Mah. Così non va, né per il bene degli embrioni né per il bene della donna. È contraddittorio. Ora si toglie il limite di tre embrioni, giusto? In questo caso si rischia di arrivare alla selezione eugenetica, che però la stessa legge, in un articolo rimasto integro, continua a proibire! E poi: la Corte osserva che manca il riferimento alla tutela della salute della donna proprio mentre, con questa sentenza, viene messa in pericolo! Che senso ha?». Il vescovo Elio Sgreccia, già presidente della pontifica Accademia per la vita e tra i massimi esperti di bioetica, non nasconde le proprie perplessità. «Guardi, non conosco le motivazioni e sarà anche la ristrettezza del comunicato. Però... ».


Però?
«Francamente, riesco a capire il significato letterale della bocciatura decisa dalla Consulta ma non il senso. Che motivo ha, quale intenzione?».
Tra i sostenitori della legge 40 c’è chi dice: poteva andare peggio.
«Non è una mai una grande consolazione. Comunque, sia chiaro: questa non è una legge cattolica né siamo stati noi a volerla. Il pensiero della Chiesa è contrario alla fecondazione assistita, sconsigliamo alle donne di farla».
E allora?
«E allora questa soluzione evita almeno disastri peggiori e salva le cose più importanti. Perché si metteva un limite di tre embrioni al massimo?».
Già, perché?
«Per limitare il danno agli embrioni, è evidente. Ridurre il sacrificio, il rischio di soppressione indiretta. La legge, tra l’altro, non impediva di impiantarne uno per volta, come stanno facendo in molti: la soluzione più efficace, perché più sono e più s’impicciano tra di loro. Ma non basta: si trattava di proteggere le donne, la loro salute».
Chi ha presentato ricorso vedeva nel limite un vincolo contro le donne che desiderano figli.
«Togliendo quel limite, impiantando 4, 5, 6 embrioni e così via, ci saranno rischi di gravidanze plurime, difficili. E in più aumenteranno le gravidanze "ectopiche", cioè fuori posto, fuori dell’utero, con la necessità di intervenire chirurgicamente. Non riesco davvero a capire la logica: è in contraddizione con quanto prescrive la Corte, quando poi dice che il trasferimento di embrioni va fatto "senza pregiudizio della salute della donna". Appunto! Così, invece, i danni aumentano».
E il rischio eugenetica?
«Senza limite è chiaro che saranno sacrificati molti più embrioni. Il medico può essere tentato di selezionarli. E rispetto all’impianto della legge non ha senso: si espongono gli embrioni allo spreco o alla necessità di congelarli, ma il testo vieta tali pratiche e riconosce i diritti del concepito».
Diceva di non capire lo scopo di tutto questo...
«Aspetto le motivazioni. Qual era l’intenzione della sentenza? Non certo di favorire l’impianto, dato che meno embrioni si mettono e più è facile. Visto così sembra una specie di gioco a peggiorare le cose senza dirlo. Di arrivare a un obiettivo senza dichiararlo, visto che la legge proibisce l’eugenetica»,
Che conseguenze potranno avere queste modifiche?
«Staremo a vedere. Certo, se si vuole buttare all’aria la legge per rifarla allora è tutto chiaro. Ma non può essere questo lo scopo della Consulta. Questione di serietà. Se voleva bocciare tutto allora doveva dirlo, ma un ritocco marginale che lascia in piedi il più della legge...Non so, è tutto un po’ strano».
Gian Guido Vecchi
02 aprile 2009


Un commento sull'editoriale di Ognibene su Avvenire - La legge 40 non è certo una legge cattolica - Persone di buona volontà oggi sono tratte in inganno da trionfalistici commenti sugli esiti della legge 40… -, Comitato Verità e Vita 2 Aprile 2009
Pienamente d’accordo con il giornalista Ognibene quando –Avvenire di domenica 29/3,- stigmatizza l’andazzo del sistema mediatico, accreditato presso la cultura egemone, di tacere quando la realtà dei fatti viene a contraddire teorie prefabbricate a tavolino.
Credo che ormai tutti abbiamo raggiunto la consapevolezza che la grancassa dell’informazione nel nostro Paese suona quando lo decidono i maitre a penser, e mette la sordina o tace del tutto quando dovrebbe occuparsi di fatti che non tornano, di argomenti fastidiosi perché non ideologicamente allineati.
E’ ovvio pertanto che la maggior parte dei quotidiani sia stata piuttosto reticente sulla presentazione dell’annuale relazione sulla legge 40, che regolamenta la procreazione artificiale, avvenuta venerdì 27/3 ad opera del sottosegretario Roccella. Ovvio, perché la relazione ha smentito quei paladini della deregulation procreativa che fin dai tempi della discussione alle Camere si erano stracciate le vesti di fronte a quei pochi veti posti dalla maggioranza, preconizzando il sicuro sorgere di un turismo procreatico possibile solo ai ricchi.
Il quale, invece, non si è verificato. Pare che la legge 40 funzioni bene, nel senso che –dice la relazione- ha fatto aumentare il numero di cicli di fecondazione in vitro effettuati e il numero dei bambini nati.
Pienamente d’accordo con Ognibene perciò su questo punto, mentre tocca poi rilevare che lui stesso finisce con l’inciampare nella mala abitudine contestata ad altri giornalisti. Vede insomma la pagliuzza della censura nell’occhio del collega e non si accorge della trave della mistificazione nel proprio.
Perché proprio di mistificazione si tratta quando si tesse l’elogio dei risultati della legge 40 -con l’unica liberatoria- ripetuta ormai come un refrain dagli estimatori della suddetta - che “non è certo una legge cattolica”, omettendo di fornire dati e cifre che farebbero chiarezza sulla pratica della fecondazione in vitro (fivet) che la stessa L. 40 consente e regolamenta.
Pratica che per l’anno 2007 -e sono i dati forniti dalla relazione del sottosegretario- è stata messa in atto su 55.000 coppie per un totale di 75.000 tentativi e che ha visto l’inizio di 11.685 gravidanze con la nascita di ben (sic!) 9137 bambini.
Ciò significa che delle 55.000 coppie che hanno fatto ricorso alla fivet ben 45863 sono tornate a casa senza il bambino desiderato, nonostante la reiterazione per molte di esse dei tentativi (75.000 per 55.000 coppie).
Significa inoltre che, se 75.000 tentativi hanno ottenuto la nascita di 9137 bambini, gli embrioni appositamente prodotti e avviati a morte sono stati più di 190.000 se per ogni ciclo se ne sono usati 3, come consentito dalla legge, e circa 140.000 se ne sono stati prodotti e impiantati solo due, ipotesi che può valere per una parte minoritaria dei tentativi, nel caso, meno frequente, in cui la donna non sia vicina ai 40 anni d’età.
Cifre mostruose in ogni caso, su cui si dovrebbe ragionare e riflettere, che dovrebbero essere fornite –una sorta di consenso informato- a coloro che abbiano intenzione di accedere alle pratiche della procreazione artificiale, e a tutte le persone di buona volontà che oggi sono invece tratte in inganno da trionfalistici commenti sugli esiti della legge 40, anche alla luce anche di quanto è stato ribadito dalla recente Istruzione Dignitas Personae ai nn. 14, 15, 16: “… il numero degli embrioni sacrificati è altissimo” “Tutte le tecniche di fecondazione in vitro si svolgono di fatto come se l’embrione umano fosse un semplice ammasso di cellule che vengono usate, selezionate e scartate” ”Spesso si obietta che tali perdite di embrioni sarebbero il più delle volte preterintenzionali o avverrebbero addirittura contro la volontà dei genitori e dei medici. (….) E’ vero che non tutte le perdite di embrioni nell’ambito della procreazione in vitro non hanno lo stesso rapporto con la volontà dei soggetti interessati. Ma è anche vero che in molti casi l’abbandono, la distruzione o le perdite di embrioni sono previsti e voluti”.
Marisa Orecchia
Vice presidente Comitato Verità e Vita
Comitato Verità e Vita 2 Aprile 2009


Dialogo tra l'arcivescovo Rino Fisichella e Lucia Annunziata - Soluzioni condivise sulla legge 40 e sugli altri temi etici - di Marco Bellizi – L’Osservatore Romano, 4 aprile 2009
La legge 40 sulla fecondazione assistita "non è stata certamente una legge cattolica ma una legge in difesa della salute della donna": così l'arcivescovo Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la vita, e rettore della Pontificia Università Lateranense ha commentato la notizia della sentenza della Corte Costituzionale italiana che ha dichiarato illegittime alcuni parti appunto della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. L'arcivescovo ha partecipato questa mattina - assieme a Lucia Annunziata, già presidente della Rai - a un confronto organizzato dall'Unione cattolica stampa italiana dal titolo "La coscienza in prima pagina", nel corso del quale è stata presentata anche un'indagine realizzata da nove studenti della Libera Università Maria Santissima Assunta su come i principali quotidiani italiani hanno seguito il recente dibattito sui temi etici. Che la legge ledesse la salute della donna - ha spiegato l'arcivescovo - "è tutto da dimostrare. Se una donna deve essere, come era in precedenza, continuamente stimolata a produrre più ovuli, credo non sia una passeggiata". Il presule ha richiamato l'attenzione sulle "tante sperimentazioni selvagge che venivano fatte e che temo possano tornare di nuovo: c'è - ha avvertito - una nuova schiavitù all'orizzonte che proviene da una ricerca che rischia di sfociare nell'eugenetica, dobbiamo guardare al futuro con molto timore". Come in ogni legge - ha aggiunto comunque l'arcivescolo - "deve esserci la capacità di dare ascolto a tutte le istanze presenti nel Paese. In questo caso le istanze fondamentali sono due. L'istanza di libertà che viene dal mondo laico è una, poi c'è l'istanza del rispetto della vita dal concepimento alla fine che viene dal mondo cattolico. Sono convinto che ci debba essere la capacità di ascolto verso entrambe per arrivare come in ogni legge a un compromesso". Nel corso del suo intervento, il presidente della Pontificia Accademia per la vita ha analizzato la realtà del mondo dell'informazione in Italia e il ruolo della religione nella società, sotto l'aspetto in particolare dei rapporti con lo Stato. Elementi che influenzano anche il modo con il quale l'informazione si trova a trattare i temi etici e religiosi. "È vero - ha detto l'arcivescovo - che si fa informazione. Ma è altrettanto vero che in Italia la tradizione informativa è tale per cui si fa anche formazione. E del resto anche riportare semplicemente i fatti implica fatalmente interpretarli e quindi dare un'opinione. La coscienza non è un dato neutrale: si forma dalla nascita alla morte. Certo, per un cristiano la coscienza si forma in maniera determinante sulla parola di Dio. Ma uno degli elementi che attestano la bellezza del cristianesimo, la sua ragionevolezza - se la fede non ragiona non è una fede cattolica - è che l'uomo è sempre chiamato a seguire la propria coscienza, anche se è in errore". La coscienza si forma dunque anche attraverso la lettura dei giornali, che riportano una pluralità di informazioni fra le quali è difficile districarsi per arrivare a una valutazione consapevole. Dal punto di vista politico, in Italia, la distribuzione di cattolici in tutti i partiti ha come conseguenza l'emergere di posizioni non sempre conformi all'identità della Chiesa: "Come fa un cattolico - è la riflessione dell'arcivescovo - a essere d'accordo con l'aborto e l'eutanasia? Questo ha portato la Conferenza episcopale a intervenire quando nella società si pongono questioni che vanno chiarite. Noi non siamo cittadini di "serie b". Crediamo che le nostre posizioni debbano essere ascoltate. Perché se così non fosse verrebbe meno un elemento importante per la formazione delle coscienze. Una delle cose che mi rende, personalmente, più triste è la ridicolizzazione delle nostre posizioni. Oggi addirittura c'è chi afferma che chi ha fede non può essere uomo di scienza. Ricordo a tutti che laicità significa capacità di ragionare indipendentemente dalla fede. Anch'io ne sono capace". Lucia Annunziata nel suo intervento ha invitato a spostare l'attenzione dai mezzi di informazione alla società, della quale i primi sono "specchio fedele". L'Italia - ha spiegato - "è un Paese molto ideologico. Anch'esso, come Berlino, ha avuto il suo muro. Un muro ideale, espressione di una guerra fredda che qui è stata abbastanza calda. La Chiesa si è trovata in mezzo, anche a causa di un rapporto con la politica che ha un'importanza maggiore che in altri Paesi, Spagna compresa. A questo si aggiunge la povertà dell'Italia in termini di lettori. Proporzionalmente oggi i giornali vendono molto meno che nell'immediato dopoguerra. Da qui la lotta ad accaparrarsi una pagina in più, un lettore in più". Facendo più sensazione che informazione. E usando toni esasperati. "In Italia - ha proseguito Annunziata - esiste il reato di vilipendio delle istituzioni, le quali, a differenza dei politici, devo dire godono di un certo rispetto. In compenso abbiamo parlato della Chiesa e del Papa con toni che non si sono mai sentiti nei confronti di qualsiasi altra cosa dal carattere sacro o istituzionale. Mi chiedo perché questo sia accaduto". Annunziata ha riconosciuto alla Chiesa "una trasparenza mai vista. Mi riferisco alla lettera del Papa ai vescovi di tutto il mondo e, per esempio, all'intervento dello stesso monsignor Fisichella sulla vicenda della bambina brasiliana pubblicato da "L'Osservatore Romano". Bisogna chiedersi perché questo non viene apprezzato ma anzi strumentalizzato".
Un'informazione corretta è chiaramente tanto più necessaria quando si tratti temi come quelli etici. Su questo punto è intervenuto Franco Siddi, segretario generale della Federazione nazionale stampa italiana: "L'informazione - ha detto - è sempre più sotto la pressione della piazza, delle fazioni, delle espressioni di potere. In questo contesto è sempre più difficile far capire. Invece sui temi come la vita e la bioetica bisognerebbe fare una ricerca approfondita per arrivare a soluzioni che non lacerino la società. Sarebbe utile sviluppare sui giornali, adesso, un'informazione più serena e completa sui temi etici più sensibili".
(©L'Osservatore Romano - 4 aprile 2009)


03/04/2009 14:45 – VATICANO - Cristiani e buddisti: essere poveri e combattere la cattiva povertà - Messaggio del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso per la festa buddista di Vesakh. Vicini ai buddisti per la povertà come “distacco”. Un invito a operare insieme per combattere quella povertà che è umiliazione della dignità umana, disagio ed emarginazione.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Un ringraziamento ai “cari amici buddisti” per la loro “illuminante testimonianza di distacco ed appagamento per ciò che si ha” e insieme un invito a “combattere” quella povertà “che impedisce alle persone e alle famiglie di vivere secondo la loro dignità; una povertà che offende la giustizia e l’uguaglianza e che, come tale, minaccia la convivenza pacifica”. Sono le due note su cui si basa il messaggio per la festa di Vesakh, che il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso ha diffuso oggi. La festa di Vesakh è la più importante per i buddisti e ricorda la sua nascita, illuminazione e morte, avvenuti tutti nel mese di Vesakh. Quest’anno la festa cade l’8 aprile in Giappone e Taiwan, il 2 maggio in Corea e l’8 maggio in tutti gli altri Paesi di tradizione buddista.
Con parole semplici e amichevoli, il Messaggio esprime la vicinanza dei cattolici alle comunità buddiste. “Insieme – si dice - noi siamo in grado non solo di contribuire, nella fedeltà alle nostre rispettive tradizioni spirituali, al benessere delle nostre comunità, ma anche a quello di tutta la comunità umana”.
Ricordando le parole di Benedetto XVI su una povertà “da scegliere” e una “da combattere” (Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2009; omelia alla messa del 1° gennaio), il Pontificio consiglio esprime apprezzamento perché “monaci, monache e molti laici devoti tra di voi abbracciano la povertà ‘da scegliere’, che nutre spiritualmente il cuore umano, arricchendo in maniera sostanziale la vita con uno sguardo più profondo sul significato dell’esistenza”.
Allo stesso tempo si precisa che “per un cristiano, la povertà che va scelta è quella che consente di camminare sulle orme di Gesù Cristo. Facendo così un cristiano si rende disponibile a ricevere le grazie di Cristo, che da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (cfr. 2 Cor. 8,9)”. Il Messaggio ricorda anche la “povertà da combattere”: “povertà relazionale, morale e spirituale”, l’emarginazione che si vive nelle società ricche e le “diverse forme di disagio nonostante il benessere” e invita le comunità buddiste a “promuovere la buona volontà dell’intera comunità umana”.


Pio XII. Un libro e un saggio fanno luce sulla leggenda nera - L'immagine di Pacelli "papa di Hitler" è contestata da un numero crescente di studiosi. A costruirla furono in molti, anche cattolici. Ma determinante fu la propaganda sovietica. Uno storico gesuita ne svela la strategia - di Sandro Magister
ROMA, 3 aprile 2009 – Nei giorni scorsi il Vaticano ha prodotto due nuovi testi in difesa di Pio XII, il papa più controverso del Novecento. Entrambi mirati a smantellarne la "leggenda nera".

Il primo è un libro in vendita da ieri in Italia, stampato da un'editrice non cattolica, la Marsilio, e scritto da autori anch'essi di varia matrice culturale e religiosa tra i quali due ebrei, tutti però concordi nel giustificare papa Eugenio Pacelli.

Il secondo intervento è il saggio che apre l'ultimo numero de "La Civiltà Cattolica", la rivista le cui pagine sono previamente controllate dalla segreteria di stato. Ne è autore il gesuita Giovanni Sale, storico e specialista della Chiesa del Novecento. E anche qui il titolo va dritto al nocciolo della questione: "La nascita della leggenda nera su Pio XII".

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Il libro, intitolato "In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia", ripropone in forma più elaborata e compiuta scritti apparsi nei mesi scorsi sul giornale della Santa Sede, "L'Osservatore Romano".

Gli autori sono nell'ordine: Paolo Mieli, studioso di storia e per molti anni direttore del "Corriere della Sera", il più importante quotidiano laico italiano; Saul Israel, biologo e scrittore, ospitato e salvato in un convento di Roma durante l'occupazione tedesca; Andrea Riccardi, professore di storia contemporanea e autore nel 2008 del libro "L'inverno più lungo, 1943-1944. Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma"; l'arcivescovo Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense; l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cultura; il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di stato vaticano. Chiude il volume il discorso letto da Benedetto XVI l'8 novembre 2008 a un congresso su "L'eredità del magistero di Pio XII".

Nell'introduzione, Giovanni Maria Vian, curatore del libro e direttore de "L'Osservatore Romano", fa notare che la cattiva immagine di Pio XII si impose a livello mondiale negli anni Sessanta, quindi alcuni anni dopo che Pio XII era morto nel rispetto quasi universale.

La Chiesa di Roma reagì inizialmente in due modi. Anzitutto, nel giugno del 1963, con una lettera in difesa di Pio XII scritta al settimanale cattolico inglese "The Tablet" dall'allora cardinale Giovanni Battista Montini, eletto papa proprio in quei giorni: lettera di cui Vian cita passaggi significativi. E poi con la pubblicazione di dodici grossi volumi di documenti degli anni della guerra, tratti dagli archivi vaticani dell'epoca, tuttora non aperti alla pubblica e completa consultazione.

Ma la "leggenda nera" di Pacelli amico di Hitler era nata molto prima degli anni Sessanta. Vian ricorda che "interrogativi e accuse per i silenzi e l’apparente indifferenza di Pio XII di fronte alle incipienti tragedie e agli orrori della guerra erano venuti da cattolici come Emmanuel Mounier già nel 1939, nelle prime settimane del pontificato".

Vian ha fornito una più dettagliata ricostruzione di questa preistoria cattolica della "leggenda nera" in un saggio su "Archivum Historiae Pontificiae" del 2004, poi pubblicato anche da www.chiesa.

Anche Giovanni Sale, nel saggio uscito sull'ultimo numero de "La Civiltà Cattolica", fa cenno a quei circoli "cattolico-sociali" che già negli anni Quaranta accusavano Pio XII di silenzio complice con gli orrori nazisti. E cita il filosofo cattolico Jacques Maritain, all'epoca ambasciatore della Francia presso la Santa Sede.

Ma oltre e più che in una parte dell'intellettualità cattolica, la "leggenda nera" di Pio XII ha avuto un suo precursore nella propaganda sovietica durante e dopo la guerra.

E proprio a questa propaganda padre Sale dedica il suo ultimo saggio sull'argomento. In esso egli aggiunge nuovi dati a quelli da lui già messi in evidenza in precedenti saggi, in particolare in un articolo de "La Civiltà Cattolica" del 2005.

Ecco dunque qui di seguito un ampio estratto dell'articolo di padre Sale uscito su "La Civiltà Cattolica" del 21 marzo 2009, su come il mondo comunista modellò l'immagine di Pacelli sostenitore di Hitler.

Un'immagine destinata a grande fortuna dagli anni Sessanta in poi, ma oggi in fase discendente, contestata da un numero crescente di studiosi.


La nascita della "leggenda nera" su Pio XII - di Giovanni Sale
La "leggenda nera" di un papa amico di Hitler e sostenitore dei regimi totalitari non nacque, come spesso è stato ritenuto, in ambito ebraico, in risposta ai presunti silenzi di Pio XII nei confronti della Shoah, ma in ambito comunista, nel periodo in cui, poco prima della fine della seconda guerra mondiale, si prospettava la divisione del mondo in due blocchi contrapposti, uno sotto l’influenza sovietica e l’altro sotto quella statunitense. [...]

Dalle fonti risulta che l’"accusa" di un Pio XII amico di Hitler, di Mussolini e degli altri dittatori fascisti è anteriore alla bruciante e ancora controversa accusa dei silenzi del papa sullo sterminio degli ebrei in Europa. [...] In realtà, la percezione di tale sterminio e la sua elaborazione teorica, poco sviluppate negli anni del dopoguerra, si fecero strada soltanto a partire dagli anni Sessanta. Le vicende legate al processo Eichmann [del 1961, celebrato a Gerusalemme], e la successiva esecuzione dell’imputato nel 1962 contribuirono notevolmente a fare del genocidio degli ebrei europei l’evento fondante, sotto il profilo morale, dello Stato di Israele. In proposito scrive lo storico e diplomatico Sergio Romano: "Sino a quel momento gli elementi costitutivi dell’identità israeliana erano stati l’epopea sionista, i faticosi progressi della presenza ebraica in Palestina, la lotta per la vita, la vittoriosa guerra contro gli Stati arabi [...]. Il caso Eichmann mutò il quadro e contribuì a fare del genocidio ebraico la pietra di fondazione di Israele. Allo Stato dei pionieri e dei contadini-soldati subentrò così, nell’autorappresentazione collettiva, lo Stato delle vittime e dei loro eredi".

Il dramma "Il Vicario" di Rolf Hochhuth, rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1963, divulgò tra gli intellettuali e il grosso pubblico l’accusa di un papa silente e indifferente nei confronti della sorte degli ebrei; di un papa che, per paura del comunismo ateo e rivoluzionario, si era schierato con i dittatori del suo tempo. In questo modo Pio XII veniva chiamato dal tribunale della storia al tavolo degli imputati per le vicende della Shoah; tale chiamata di "correo" ampliò, al di là della Germania, il campo delle responsabilità per quanto era accaduto agli "odiati e disprezzati" ebrei nell’Europa cristiana. La letteratura storica anticattolica ebbe poi buon gioco nel creare la leggenda di un papa silenzioso e amico di Hitler; letteratura che ebbe negli anni scorsi molta fortuna in ambito anglosassone e che oggi è sottoposta a una seria e meditata critica storica. Tali fatti, inoltre, furono e sono tuttora strumentalizzati dall’ebraismo più radicale e intransigente, interessato a tenere vivo, anche per motivi più politici che ideali, un vecchio contenzioso con la Chiesa cattolica per il suo antigiudaismo, sostenuto da molti cattolici fino al Concilio Vaticano II. Le recenti prese di posizione del mondo ebraico sul processo di beatificazione di Pio XII rientrano in tale clima di indebita pressione nei confronti della Santa Sede.

Le vicende a cui ora abbiamo fatto riferimento si inquadrano nel contesto storico internazionale degli anni Sessanta, ancora dominato dalla logica della guerra fredda, quando ormai Pio XII era già morto e sulla sede di Pietro era salito un pontefice, Giovanni XXIII, che in pochi anni, con la sua cordiale amabilità, si era guadagnato la simpatia anche di molti non credenti. Lo stesso Pio XII durante i suoi lunghi e difficili anni di pontificato fu molto amato e venerato dai cattolici di tutto il mondo e rispettato dalle grandi personalità di quel tempo. La notizia della sua scomparsa, il 9 ottobre 1958, fu accolta dovunque con grande commozione e umana partecipazione. Uomini di Stato, diplomatici, capi religiosi di diverse fedi inviarono in Vaticano messaggi di cordoglio, sottolineando la prodigiosa opera svolta dal papa durante il conflitto in favore della pace e soprattutto il contributo umanitario dato dalla Santa Sede per alleviare le sofferenze delle vittime della guerra, in particolare gli ebrei, perseguitati nella maggior parte dei Paesi europei. [...]

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Quale fu l’atteggiamento che Pio XII tenne negli anni di guerra nei confronti della Russia sovietica, la quale a partire dal 1941 faceva parte del blocco Alleato? Va ricordato anzitutto che durante il conflitto, secondo la consolidata tradizione della Santa Sede, egli tenne nei confronti delle parti belligeranti un atteggiamento di formale neutralità, tanto più che in entrambe le parti in lotta erano implicati nazioni e popoli di antica tradizione cristiana e cattolica. Alcuni fatti la cui autenticità non può essere messa in dubbio – come, ad esempio, il ruolo che il papa ebbe nel mettere in contatto alcuni esponenti della resistenza antinazista con i rappresentanti del governo di Londra – ci inducono a pensare che Pio XII avrebbe desiderato il rovesciamento del potere hitleriano in Germania e il ristabilimento della democrazia in quel Paese, che egli amava. [...]

Tuttavia, il cosiddetto "pericolo rosso" fu avvertito dal papa con grande lucidità e chiarezza, soprattutto negli ultimi mesi di guerra. [...] Il cambio di presidenza negli Stati Uniti nella primavera del 1945 (il presidente F. D. Roosevelt morì il 12 aprile e gli subentrò H. S. Truman) fece sperare in Vaticano un cambiamento di indirizzo nella politica estera statunitense, considerata eccessivamente benevola nei confronti di Mosca, e una maggiore presa di coscienza del "pericolo comunista" in Europa. [...] Di fatto Truman assunse immediatamente un atteggiamento molto critico, anzi ostile, nei confronti delle scelte politiche di Mosca, cosicché gli Stati Uniti si mobilitarono, sia con la minaccia di una nuova guerra sia con aiuti economici inviati ai Paesi stremati dalla guerra, dove il rischio di un’infiltrazione comunista era più forte, per bloccare l’avanzata del "pericolo rosso" in Europa. Con il passare del tempo, come era prevedibile, il rapporto tra Vaticano e amministrazione statunitense divenne sempre più stretto e solidale soprattutto nella comune lotta – naturalmente su campi e con mezzi diversi – contro il comunismo internazionale.

Il comunismo internazionale, capeggiato da Mosca, assunse negli ultimi mesi della guerra un atteggiamento molto aggressivo nei confronti del Vaticano. [...]. Fu soprattutto l’allocuzione di Pio XII ai cardinali del 2 giugno 1945, pronunciata in occasione della festa del suo onomastico, sant’Eugenio, che mise in moto una concertata campagna di attacchi alla persona del papa. In questo importante messaggio il papa ripercorreva la lotta sostenuta dalla Santa Sede, a partire dai tempi di Pio XI, contro il nazismo e contro le dottrine anticristiane da esso divulgate. [...] "Noi stessi durante la guerra – disse il papa – non abbiamo cessato di contrapporre alle rovinose e inesorabili applicazioni della dottrina nazionalsocialista, che giungevano fino a valersi dei più raffinati metodi scientifici per torturare e sopprimere persone spesso innocenti, le esigenze e le norme indefettibili della umanità e della fede cristiana". In tale allocuzione Pio XII invitava, inoltre, le potenze vincitrici a usare moderazione e a non lasciarsi guidare dallo spirito di vendetta nei confronti dei popoli vinti. Egli acconsentì che fossero legalmente accertate le responsabilità anche individuali, puniti gli eccessi, ma che non venisse addebitata all’intero "popolo tedesco", già gravemente colpito dalla fame e dai bombardamenti alleati, la "colpa collettiva" di una guerra così disastrosa e disumana. Sappiamo che non tutti, anche in ambito cattolico, su questo punto erano dello stesso avviso del papa.

Tale messaggio, che invitava i popoli cristiani alla pacificazione e alla costruzione di un nuovo ordine internazionale fondato sulla giustizia e sulla democrazia, fu abilmente strumentalizzato dalla stampa comunista internazionale per creare la leggenda di un papa amico di Hitler e dei nazisti tedeschi. [...] Di fatto, subito dopo l’allocuzione del 2 giugno, Radio Mosca commentò con parole molto forti, come non era avvenuto fino ad allora, il messaggio del papa. Pio XII fu accusato di essere il papa di Hitler, di non aver condannato il nazionalsocialismo, di essere rimasto in silenzio di fronte alle atrocità dei nazisti: "Chi ha udito il discorso del papa, in occasione della festa di Sant’Eugenio – commentava Radio Mosca –, è rimasto oltremodo meravigliato nell’apprendere che il Vaticano, durante i trascorsi anni del predominio di Hitler in Europa, ha agito con coraggio e audacia contro i delinquenti nazisti. I fatti invece operati veramente dal Vaticano dicono il contrario. [...] Nessuna atrocità compiuta dagli hitleriani ha suscitato lo sdegno e l’indignazione del Vaticano. Il Vaticano ha taciuto quando operavano le macchine tedesche della morte, quando fumavano i camini dei forni crematori di Maidanec e di Osfensil [sic], quando sulla pacifica popolazione di Londra venivano lanciati centinaia di proiettili volanti, quando la dottrina hitleriana di eliminazione e di sterminio di nazioni e popoli si trasformava in una dura realtà. [...] Le voci che partivano dal Vaticano facevano appello alla misericordia e al perdono per i delinquenti nazisti".

Tale testo è di estremo interesse per due ordini di motivi. Anzitutto, esso aveva come fine di indirizzare la stampa comunista internazionale nella propaganda antipacelliana e antivaticana. Inoltre, in tale testo sono già indicati in modo preciso e puntuale tutti i temi della "leggenda nera" su Pio XII; in esso per la prima volta si parla del silenzio del papa sul massacro degli ebrei. [...] Tali motivi verranno ripetuti dalla stampa comunista e filorussa europea, ma anche da quella vicina alla sinistra più moderata. Perfino diversi cattolico-sociali si lasciarono influenzare da tale propaganda.

In Italia la sinistra comunista, capeggiata da Pietro Secchia e Luigi Longo, per lungo tempo strumentalizzò per fini politici la leggenda di un Pio XII prima amico di Hitler e dei totalitarismi e ora sostenitore degli statunitensi imperialisti. In un incontro con alcuni dirigenti comunisti, il 7 gennaio 1946, Longo trattando della necessità di controllare da vicino l’opera della Chiesa e del Vaticano disse: "La Chiesa è responsabile nella persona di Pacelli dell’avvento di Hitler al potere per costruire un fronte contro il pericolo pressante della Russia e questo nel tempo in cui era nunzio a Berlino. Attualmente, dopo la morte di Roosevelt, il papa si è venuto a trovare solo in Europa contro il pericolo russo e allora ecco che si appoggia all’America con nomine di cardinali ecc. al fine di poter costruire un altro fronte antirusso con l’appoggio dei capitalisti americani e italiani". Tale leggenda, poi, fu molto utilizzata in occasione delle elezioni politiche del 1948, quando alcuni dirigenti comunisti, presi dalla foga oratoria, durante alcuni comizi denunciarono, con scandalo di molti, "le bianche mani del papa macchiate di sangue innocente".

La propaganda antipacelliana trovò accoglienza, oltre che in Italia e in Francia, anche in Germania e non solo negli ambienti della sinistra radicale, ma anche in alcuni circoli di intellettuali cristiano-sociali. Al Vaticano veniva rimproverato di aver contribuito, attraverso la firma del Concordato del 1933, al riconoscimento internazionale del nuovo regime hitleriano, e di averlo successivamente sostenuto, nonostante l’atteggiamento antireligioso intrapreso dal nazismo, per paura del comunismo, ritenuto il vero nemico della Chiesa e della cristianità.

Interessante a tale riguardo è una lunga relazione inviata in Vaticano negli ultimi mesi del 1945 da un intellettuale tedesco, probabilmente protestante (del quale nel documento non è riportato il nome), in cui sia Pio XI sia Pio XII sono accusati di aver appoggiato Hitler e di aver così contribuito alla rovina della Germania e dell’Europa.

Se c’è una colpa collettiva – affermava l'autore della relazione – questa non è da imputare ai tedeschi indiscriminatamente, ma "solamente al cristianesimo", per aver fallito la sua alta missione civilizzatrice. "So bene – continuava – che i vescovi tedeschi hanno protestato attraverso circolari contro l’atteggiamento di Hitler. Queste circolari però giravano di nascosto; venivano passate di mano in mano, ma poiché non venivano pubblicate, non raggiunsero mai la totalità dei tedeschi. So pure che molti sacerdoti cattolici sono stati rinchiusi nei campi di concentramento, soltanto per aver pronunciato alcune frasi contro il nazismo: questo però non ha nulla a che vedere con la posizione ufficiale assunta dal Vaticano. Roma non si è mai pronunciata ufficialmente contro Hitler e contro il suo partito; essa non ha mai preso ufficialmente le distanze dal dittatore, non ha mai interrotto i rapporti con lui, non ha mai disdetto il Concordato stipulato con lui. Inoltre, il nunzio del Vaticano non è mai stato richiamato dalla Germania". Lo scrivente, con tono "profetico" un poco sopra le righe, continuava: "Sarebbe stata sufficiente una chiara istruzione da Roma perché i sacerdoti cattolici formassero un fronte comune contro Hitler. È possibile che costui avrebbe trascinato tutti i preti e religiosi della Germania nei campi di concentramento per farli morire, ma così facendo essi avrebbero agito secondo lo spirito del Vangelo" e aiutato il popolo tedesco a prendere coscienza della gravità della situazione.

Tali posizioni contribuirono a creare e a tenere in vita, per motivazioni ideologiche a volte diverse, la leggenda di un papa compromesso con il nazismo e in qualche modo corresponsabile della tenuta del regime hitleriano, leggenda che nel clima politico di quegli anni, segnati dalla contrapposizione ideologico-politica della guerra fredda, nessuno si permetteva di controbattere sul piano storico. Insomma, la "leggenda nera" di un Pacelli amico di Hitler e silente nei confronti delle atrocità del nazismo, creata, come abbiamo visto, per fini propagandistici, poco alla volta assunse i connotati della realtà storica.

Tale leggenda, come si è detto, fu poi arricchita a partire dagli anni Sessanta con altri temi e motivi – come quello dei silenzi del papa sulla Shoah –, anch’essi spesso usati strumentalmente per colpire la Chiesa cattolica e mantenerla sotto continuo ricatto. Studi recenti stanno contribuendo ad analizzare con maggiore oggettività e distacco la figura e l’opera di Pio XII fuori della leggenda e delle ideologie che per troppi anni l’hanno tenuta prigioniera. Crediamo che la futura apertura degli archivi vaticani concernenti il pontificato pacelliano, come anche degli altri archivi governativi sparsi per il mondo, contribuirà a fare chiarezza su tale delicata materia e a rendere giustizia a un papa che è stato, nel difficile clima della guerra, un sapiente operatore di pace e un maestro di umanità.

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Il libro:

"In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia", a cura di Giovanni Maria Vian, Marsilio, Venezia, 2009, pp. 168, euro 13,00.

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La rivista su cui è uscito il saggio di Giovanni Sale:

> La Civiltà Cattolica

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Il servizio di www.chiesa con un precedente articolo di padre Sale e il saggio di Giovanni Maria Vian sulla preistoria cattolica dell'immagine negativa di Pio XII:

> La leggenda nera di Pio XII l’ha inventata un cattolico: Mounier (20.6.2005)


La leggenda nera di Pio XII l’ha inventata un cattolico: Mounier - E con lui un altro grande cattolico, Mauriac. La propaganda comunista non fu la sola a creare l’immagine di papa Pacelli filo-nazista. Due saggi su due autorevoli riviste gettano nuova luce su come è nata - di Sandro Magister
ROMA, 20 giugno 2005 – Sull’ultimo numero di “La Civiltà Cattolica” lo storico gesuita Giovanni Sale ricostruisce con documenti anche inediti la nascita della “leggenda nera” di un Pio XII filo-hitleriano.

“La Civiltà Cattolica” è la rivista dei gesuiti di Roma i cui articoli sono previamente letti e autorizzati dalla segreteria di stato vaticana.

Stando alla ricostruzione di p. Sale, a generare la leggenda nera fu, sul finire della seconda guerra mondiale, la stampa comunista internazionale guidata da Mosca.

Negli stessi giorni, però, sull’ultimo numero di "Archivum Historiae Pontificiae" – la rivista annuale della facoltà di storia ecclesiastica della Pontificia Università Gregoriana, anch’essa affidata ai gesuiti – è uscito un articolo dello storico Giovanni Maria Vian che sulle origini della leggenda nera di Pio XII dà una ricostruzione differente.

Secondo Vian, a dar vita all’accusa contro i “silenzi” di Pio XII, oltre che la propaganda sovietica, furono dei cattolici francesi e polacchi, e in particolare due intellettuali di spicco, Emmanuel Mounier e François Mauriac.

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P. Sale richiama l’attenzione sul primo discorso importante pronunciato da Pio XII dopo la fine della seconda guerra mondiale: il messaggio ai cardinali pronunciato il 2 giugno 1945.

In esso papa Eugenio Pacelli condannò con parole molto forti “le rovinose e inesorabili applicazioni della dottrina nazinalsocialista, che giungevano fin a valersi dei più raffinati metodi scientifici per torturare e sopprimere persone spesso innocenti”.

Queste parole del papa riprendevano quasi alla lettera un suggerimento a lui fatto pochi giorni prima dall’allora ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, il filosofo cattolico Jacques Maritain. Sia nel suggerimento di Maritain sia nel discorso del papa gli ebrei non erano nominati esplicitamente, ma p. Sale vi vede una trasparente “allusione alla soluzione finale posta in esecuzione dai gerarchi nazisti contro gli ebrei”.

Subito dopo, nel suo discorso, Pio XII ricordò l’uccisione di migliaia di sacerdoti cattolici nei campi di concentramento nazisti, con “in prima linea per il numero e per la durezza del trattamento i sacerdoti polacchi”.

Quel discorso di Pio XII ebbe una vasta eco nel mondo. Riportando i commenti della stampa internazionale, p. Sale fa notare che “la parola del papa fu interpretata secondo gli orientamenti ideologici e politici che nei vari paesi si andavano prefigurando, agli esordi della guerra fredda”.

A dettare la linea alla stampa comunista di tutto il mondo fu un commento di Radio Mosca del 7 giugno 1945, nel quale p. Sale vede “già sviluppati alcuni motivi che diventeranno centrali nei decenni successivi nella polemica antipacelliana”.

Radio Mosca accusò Pio XII di farsi vanto tardivamente e a torto della sua opposizione al nazismo, perché invece “aveva taciuto quando operavano le macchine tedesche della morte, quando fumavano i camini dei forni crematori”. Nemmeno da Radio Mosca, in questo commento, gli ebrei furono chiamati per nome. In ogni modo – scrive p. Sale – da lì “iniziò la leggenda nera, la quale in qualche misura è arrivata fino ai giorni nostri, di un Pio XII amico e alleato dei nazisti”.

Nella conclusione del suo saggio, p. Sale ricorda che cinque mesi dopo quel discorso Pio XII “ebbe modo di rilevare tutto l’orrore per le atrocità naziste quando, il 29 novembre 1945, ricevette una delegazione di profughi ebrei venuti a ringraziarlo per l’opera della Chiesa cattolica in loro favore durante la seconda guerra mondiale”. E aggiunge:

“In ogni caso non c’era ancora in quel periodo la percezione esatta (sia psicologica, sia culturale, sia storico-conoscitiva) di ciò che nel cuore dell’Europa era accaduto agli ebrei negli ultimi anni della guerra. [...] Lo stesso concetto di Olocausto e di unicità della Shoah non era ancora stato elaborato neppure in ambiente ebraico”.

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Su "Archivum Historiae Pontificiae" Vian non contraddice la ricostruzione di p. Sale. La integra però gettando luce su accuse contro i “silenzi” papali provenienti in quegli stessi anni anche da cattolici francesi e polacchi. Accuse di cui Pio XII mostrò di essere al corrente nei passaggi sopra citati del suo discorso del 2 giugno 1945.

Ecco qui di seguito l’articolo di Vian apparso su "Archivum Historiae Pontificiae", n. 42, 2004, pp. 223-229. L’articolo (qui senza le note) ricostruisce la genesi e lo sviluppo della leggenda nera di Pio XII dal 1939 fino agli inizi del pontificato di Paolo VI. L’autore è docente di filologia patristica all’università di Roma La Sapienza e membro del Pontificio Comitato di Scienze Storiche.


Il silenzio di Pio XII: alle origini della leggenda nera - di Giovanni Maria Vian
La polemica sul silenzio di Pio XII durante la seconda guerra mondiale – di fronte soprattutto all’orrendo tentativo genocida dei nazisti di sterminare gli ebrei in Europa, una delle maggiori tragedie del Novecento – fa parte ormai della storia. Su questo argomento molto si è scritto e si continua a scrivere, per la sua indubbia rilevanza, per l’interesse sempre vivissimo suscitato anche oltre le cerchie ristrette degli specialisti e per il suo innegabile uso strumentale, che s’intreccia anche con l’introduzione della causa di canonizzazione del pontefice.

Soprattutto questa strumentalizzazione ha finito per creare una vera e propria leggenda nera, al di là delle diverse possibili valutazioni dell’atteggiamento del papa negli anni tragici del conflitto. Ricordare le origini, spesso trascurate, delle accuse al pontefice – formulate dapprima da ambienti cattolici e poi amplificate, già durante gli anni di guerra, dalla propaganda sovietica e poi comunista – è lo scopo di questa nota.

A interrogarsi sui “silenzi di Pio XII” fu per primo Emmanuel Mounier, addirittura poche settimane dopo l’elezione a papa del cardinale segretario di stato Eugenio Pacelli, il 2 marzo 1939. E lo fece a proposito dell’aggressione dell’Italia all’Albania, avvenuta agli inizi di aprile di quell’anno, e dell’assenza di reazioni di condanna da parte del nuovo pontefice.

In un articolo scritto immediatamente dopo, l’intellettuale cattolico francese, pur premettendo di avvertire “il ridicolo che vi sarebbe per un fedele nel sostituirsi alla coscienza pontificale”, sottolineava “che lo scandalo, a causa di questo silenzio” era entrato “in migliaia di cuori”. E aggiungeva: “Non sono in grado di giudicare se questo non era che l’inevitabile tributo di una diplomazia riuscita […]. Io non ho chiesto che alcune parole. Perché capita anche che la Parola vivifichi” .

Il problema delle parole non pronunciate, e già allora invocate da Mounier, avrebbe tormentato la coscienza del pontefice durante i lunghissimi e tremendi sei anni della guerra, scatenata soltanto pochi mesi più tardi dall’aggressione alla Polonia da parte della Germania nazionalsocialista alleata con la Russia sovietica. In questo contesto, ha scritto lo storico gesuita Burkhart Schneider, “il papa venne accusato per il suo apparente silenzio che sembrava indifferenza di fronte ad indicibili sofferenze”. E queste accuse vennero soprattutto da “ambienti dei polacchi in esilio”, dunque di nuovo da parte cattolica.

La linea politica e diplomatica della Santa Sede nei decenni precedenti e soprattutto durante la spaventosa guerra del 1914-1918 aveva cercato di perseguire, senza troppi consensi nemmeno tra i cattolici, una sorta di neutrale imparzialità tra le parti in conflitto. Questa linea aveva incluso la condanna, da parte di Benedetto XV, dell’“inutile strage” e una vera e propria “diplomazia dell’assistenza”, di cui in Germania era stato protagonista lo stesso Pacelli, allora nunzio a Monaco.

Nella nuova tragedia bellica – provocata dai totalitarismi nazista e sovietico che la Santa Sede aveva condannato nel 1937 con le encicliche “Mit Brennender Sorge” e “Divini Redemptoris” – Pio XII intese seguire la stessa linea, anche se invece nei fatti il pontefice compì scelte che non è possibile classificare come neutrali.

Così il papa, con una decisione senza precedenti, appoggiò tra l’autunno del 1939 e la primavera del 1940, già nei primi mesi del conflitto, il tentativo – presto abortito – di rovesciare il regime hitleriano da parte di alcuni circoli militari tedeschi in contatto con i britannici, mentre dopo l’attacco della Germania all’Unione Sovietica a metà del 1941 Pio XII dapprima si rifiutò di schierare la Santa Sede con quella che era presentata come una crociata contro il comunismo e poi si adoperò per smussare l’opposizione di moltissimi cattolici statunitensi all’alleanza degli Stati Uniti con la Russia staliniana.

Certamente, non per questo cambiò il giudizio del papa e dei suoi più stretti collaboratori sul comunismo, giudizio che restò sempre radicalmente negativo, accentuandosi dal 1943 e culminando nel decreto di condanna emanato nel 1949 dal Sant’Uffizio. L’immagine di un Pio XII “al soldo degli Americani” – diffusa e sempre sostenuta dai sovietici a causa dell’indubbio anticomunismo del papa – è però dal punto di vista storico insostenibile.

Proprio in questa polemica – frutto della propaganda sovietica e più in generale comunista, ripresa presto anche da esponenti della Chiesa ortodossa russa – trovarono posto, fin dal 1944, le accuse a papa Pacelli e al Vaticano, che s’innestavano così sugli interrogativi espressi da Mounier e che si ritrovano nei diplomatici accreditati presso la Santa Sede, ma questa volta a proposito della politica nazista di sterminio degli ebrei.

Nel quadro del progressivo distanziamento e irrigidimento dei due blocchi vittoriosi che avrebbe portato negli anni del dopoguerra all’imposizione dell’egemonia sovietica in quasi tutti i paesi dell’Europa orientale e centrale e quindi alla guerra fredda, a Pio XII fu imputato di avere sostenuto la Germania nazista e il fascismo, di averli perdonati, di avere nascosto criminali di guerra tedeschi, di non aver condannato la barbarie hitleriana, di avere taciuto e di essersi schierato con l’Occidente capitalista.

Già durante la guerra, il 13 giugno 1943, il pontefice replicò alle accuse “che il papa ha voluto la guerra, che il papa mantiene la guerra e fornisce il denaro per continuarla, che il papa non fa nulla per la pace. Mai forse fu lanciata una calunnia più mostruosa e assurda di questa”.

Dopo la guerra, il 24 dicembre 1946, Pio XII alluse esplicitamente alla propaganda contro la Santa Sede: “Noi ben sappiamo che tutte le nostre parole, le nostre intenzioni rischiano di essere male interpretate e svisate a scopo di propaganda politica”.

E nel 1951 l’interrogativo che Mounier aveva sollevato una dozzina d’anni prima a proposito dell’aggressione italiana all’Albania diveniva, nelle parole di un altro intellettuale cattolico francese – François Mauriac, che l’anno dopo sarebbe stato insignito del premio Nobel per la letteratura – un duro rimprovero a Pio XII per non aver condannato la mostruosa persecuzione degli ebrei.

Nella prefazione al “Bréviaire de la haine. Le IIIe Reich et les Juifs” di Léon Poliakov, dopo aver sottolineato che il libro era in primo luogo diretto ai tedeschi, Mauriac scriveva:

“Questo breviario è stato scritto anche per noi francesi, il cui tradizionale antisemitismo è sopravvissuto a quegli eccessi di orrore nei quali Vichy ha avuto la sua timida e ignobile parte; per noi cattolici francesi, soprattutto, che, se abbiamo salvato l’onore, senza dubbio ne andiano debitori all’eroismo e alla carità di molti vescovi, preti e religiosi verso gli ebrei braccati, ma che non abbiamo avuto il conforto di sentire il successore del Galileo, Simone Pietro, condannare con parola netta e chiara, e non con allusioni diplomatiche la crocifissione di questi innumerevoli ‘fratelli del Signore’. Al tempo dell’occupazione, chiesi un giorno al venerando cardinale Suhard, che d’altra parte tanto aveva fatto, nell’ombra, a favore dei perseguitati: ‘Eminenza, comandateci di pregare per gli ebrei’, ed egli per tutta risposta levò le braccia al cielo. Certamente, la potenza occupante aveva mezzi di pressione cui non si poteva resistere, e il silenzio del papa e della gerarchia altro non era che un repugnante dovere; si trattava di evitare sciagure peggiori. Ciò non toglie che un crimine di tanta ampiezza ricada in parte non indifferente su tutti i testimoni che hanno taciuto, quali siano state le ragioni del loro silenzio”.

Meno severi invece erano gli accenti dell’ebreo Poliakov che – a proposito della tradizione antiebraica e dell’atteggiamento di Pio XII, e appena prima di alcuni acuti cenni sull’“essenza anticristiana dell’antisemitismo” – esprimeva un giudizio ben più sfumato:
“Non spetta a uno scrittore israelita pronunciarsi in merito a dogmi secolari di un’altra religione; ma, di fronte all’immensità delle conseguenze, non si può non essere profondamente turbati. Che il senso del nostro turbamento non vada frainteso. Noi non ammettiamo che vi sia stato anche soltanto una traccia di antisemitismo nel pensiero del papa. Se, contrariamente a tanti vescovi francesi, egli non fece sentire la sua voce, ciò fu dovuto senza dubbio al fatto che la sua giurisdizione si estendeva all’Europa tutta intera e che egli doveva tener conto non soltanto delle gravi minacce sospese sulla Chiesa, ma anche della condizione di spirito dei suoi fedeli di tutti i paesi”, che erano influenzati dalla tradizione antiebraica del cristianesimo.

In questo contesto si colloca la svolta nella questione del silenzio di Pio XII, quando il pontefice era morto (il 9 ottobre 1958) da più di quattro anni.

Questa svolta fu avviata dal dramma teatrale “Der Stellvertreter” di Rolf Hochhuth, che venne rappresentato per la prima volta a Berlino il 20 febbraio 1963 e che, per le sue tesi estreme avverse a papa Pacelli e per le forti polemiche da subito suscitate, ha da allora esercitato un influsso enorme sulla formazione dell’immagine di Pio XII e della Santa Sede nell’opinione pubblica e nello stesso dibattito storiografico.

Particolarmente significativa, nel divampare immediato della polemica, fu quasi subito la difesa del pontefice da parte di uno dei suoi più stretti collaboratori, Giovanni Battista Montini, che dalla fine del 1954 era arcivescovo di Milano e nel 1958 era stato creato cardinale da Giovanni XXIII.

Occasione dell’intervento di Montini fu un articolo in difesa di Pio XII – pubblicato dalla rivista cattolica inglese “The Tablet” nel numero dell’11 maggio 1963 – che tra l’altro sottolineava la vicinanza del lavoro teatrale di Hochhuth a una “pubblicazione comunista” sul Vaticano e la seconda guerra mondiale.

Il cardinale di Milano – in una lettera giunta a “The Tablet” lo stesso giorno della sua elezione al pontificato, il 21 giugno 1963, quando assunse il nome di Paolo VI – difendeva il comportamento di Pio XII di fronte alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, crimini di cui il papa sarebbe stato corresponsabile per non averli condannati, secondo la tesi di Hochhuth.

“Un atteggiamento di condanna e di protesta, quale costui rimprovera al papa di non avere adottato, sarebbe stato, oltre che inutile, dannoso; questo è tutto”, scriveva tra l’altro l’antico collaboratore di papa Pacelli, e concludeva:

“Non si gioca con questi argomenti e con i personaggi storici che conosciamo con la fantasia creatrice di artisti di teatro, non abbastanza dotati di discernimento storico e, Dio non voglia, di onestà umana. Perché altrimenti, nel caso presente, il dramma vero sarebbe un altro: quello di colui che tenta di scaricare sopra un papa, estremamente coscienzioso del proprio dovere e della realtà storica, e per di più d’un amico, imparziale, sì, ma fedelissimo del popolo germanico, gli orribili crimini del nazismo tedesco. Pio XII avrà egualmente il merito d’essere stato un ‘Vicario’ di Cristo, che ha cercato di compiere coraggiosamente e integralmente, come poteva, la sua missione; ma si potrà ascrivere a merito della cultura e dell’arte una simile ingiustizia teatrale?”.

Gli stessi accenti e spunti critici contro la tesi propagandistica del drammaturgo tedesco si ritrovano quasi due anni più tardi in un articolo dello storico liberale Giovanni Spadolini, pubblicato il 18 febbraio 1965 dopo le prime rappresentazioni del testo teatrale di Hochhuth a Roma, che furono subito proibite e seguite da aspre polemiche.

L’articolo dell’autorevole intellettuale e uomo politico laico esordiva con un attacco diretto alla posizione assunta dai partiti di sinistra e soprattutto dai comunisti: “Il partito che propugna il dialogo coi cattolici ha bandito una specie di crociata per la libertà di pensiero sulla base di questo libello di diffamazione anticlericale e di autodifesa nazionalista”.

E ricordando la difesa di Pio XII da parte di Montini – nel 1963 appena prima di essere eletto papa e poi durante lo storico viaggio del pontefice in Terra Santa nel gennaio del 1964 – Spadolini insisteva sugli elementi di propaganda politica presenti nel dramma appena rappresentato a Roma: così l’allora cardinale di Milano “era insorto, con la lealtà del collaboratore e del discepolo che non dimentica, contro le assurde e inique requisitorie di una propaganda politica appena ammantata di moralismo”, mentre quando “Paolo VI pose piede in terra israeliana, in quella che fu la tappa più significativa e rivoluzionaria della sua missione palestinese, tutti avvertirono che il pontefice intendeva rispondere, dallo stesso cuore del focolare nazionale ebraico, ai sistematici attacchi del mondo comunista che non mancavano di trovare qualche complicità o qualche condiscendenza anche nei cuori cattolici – o almeno in certi cattolici non ignoti neppure all’Italia”.

Nell’articolo di Spadolini chiarissima risulta dunque la percezione dell’origine delle accuse a papa Pacelli: dapprima, tra il 1939 e il 1951, in due intellettuali cattolici francesi come Mounier e Mauriac, e poi soprattutto nella propaganda sovietica degli anni di guerra e più in generale in quella comunista durante il dopoguerra e la guerra fredda.

Accentuatasi dopo la morte di Pio XII e durante il pontificato così diverso di Giovanni XXIII, la polemica esplose definitivamente al tempo di Paolo VI e s’intrecciò con la contrapposizione dei pontificati pacelliano e roncalliano che, tra l’altro, indusse nel 1965 papa Montini a introdurre simultaneamente le cause dei due predecessori:

“Sarà così assecondato il desiderio, che per l’uno e per l’altro è stato in tal senso espresso da innumerevoli voci; sarà così assicurato alla storia il patrimonio della loro eredità spirituale; sarà evitato che alcun altro motivo, che non sia il culto della vera santità e cioè la gloria di Dio e l’edificazione della sua Chiesa, ricomponga le loro autentiche e care figure per la nostra venerazione e per quella dei secoli futuri”.

Con il trascorrere del tempo la questione del silenzio di Pio XII si è molto complicata perché le reiterate accuse a papa Pacelli si sono trasformate in una leggenda nera. Questa non facilita certo i nuovi positivi rapporti tra Chiesa cattolica ed ebraismo, mentre si sono dimenticate le origini delle accuse, nate in ambienti cattolici e amplificate soprattutto dalla propaganda sovietica e comunista e dai suoi nostalgici, che non perdonano a Pio XII il suo anticomunismo.

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Il link alla rivista della facoltà di storia ecclesiastica della Pontificia Università Gregoriana su cui è uscito l’articolo di Giovanni Maria Vian:

> “Archivum Historiae Pontificiae”

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Il saggio di p. Giovanni Sale è invece uscito su “La Civiltà Cattolica” del 4 giugno 2005, pp. 419-432, con il titolo “Pio XII e la fine della seconda guerra mondiale”:

> “La Civiltà Cattolica”

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In questo sito, una valutazione della figura di Pio XII in un saggio di Pietro De Marco:

> Un figlio della Chiesa di Pio XII rompe il silenzio sulla sua santità (27.1.2005)


I primi provvedimenti antiebraici e la Dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo di Giovanni Sale S.I. - La pubblicazione dell'infausto Manifesto della razza segnò il deterioramento dei rapporti fra il Regime fascista e la Chiesa. Il conflitto tra la Santa Sede e il Governo fascista a causa della questione razziale e della legislazione antiebraica, universalmente condannata dai cattolici. - [Da «La Civiltà Cattolica», quaderno 3798, 20 settembre 2008, pp. 461-474]
Le prime leggi antiebraiche furono introdotte in Italia a partire dalla prima settimana del settembre 1938. Tali norme erano comprese nella definizione di «leggi per la difesa della razza» ed erano accorpate con le disposizioni emanate dal Governo fascista, già a partire dall’anno precedente, per scoraggiare le unioni o le convivenze tra italiani e donne indigene nelle colonie africane. Perciò tutto il corpus legislativo veniva denominato «leggi razziali». In realtà, a partire dal settembre 1938, come vedremo, tali norme avevano lo scopo di colpire la popolazione di origine ebraica, e quindi sarebbe meglio parlare di «legislazione antiebraica». Per la prima volta nella storia dell’Italia unita, un testo legislativo aveva per oggetto una parte dei cittadini dello Stato, identificata sulla base di criteri razziali, la quale veniva colpita con una violenza e una radicalità normativa sino ad allora mai sperimentata. Il legislatore fascista non arrivò fino alla revoca formale della cittadinanza per i «cittadini» di origine ebraica, ma di fatto li privò nel giro di pochi mesi di tutti i diritti civili e politici, sradicandoli dal corpo stesso della nazione, di cui avevano fatto parte fin dalla fondazione del Regno d’Italia. Le prime vere e proprie disposizioni legislative antiebraiche emanate dal Governo fascista sono due decreti legge: il primo è del 5 settembre e riguarda la scuola, il secondo è del 7 settembre e riguarda l’espulsione degli ebrei stranieri dal territorio italiano.

Quest’ultimo stabiliva che con la pubblicazione del decreto era «vietato agli ebrei stranieri di fissare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei possedimenti dell’Egeo». Allo stesso tempo venivano revocate «le concessioni di cittadinanza italiana fatte a ebrei stranieri posteriormente al 1° gennaio 1919». Ad essi si intimava, inoltre, di abbandonare il territorio nazionale entro sei mesi dalla pubblicazione del decreto-legge. Tale provvedimento colpiva non soltanto i recenti rifugiati ebrei in fuga dalla Germania nazista o da altri Paesi dell’Europa Centro-Orientale, ma anche coloro che risiedevano in Italia ormai da decenni e che si erano inseriti nella società, portandovi elementi di novità e di progresso, soprattutto nell’ambito delle professioni liberali, specie nelle scienze mediche. Tale provvedimento annullava di colpo una tradizione di asilo per i perseguitati politici, che all’estero era considerata una caratteristica del tratto gentile e accogliente del popolo italiano. Questa legge, insomma, aveva la finalità professata di colpire duramente gli ebrei stranieri, che avevano cercato in Italia «un soggiorno di transito o ancora di più una seconda patria» (1). L’illusione nutrita dagli ebrei «profughi», che l’Italia potesse rappresentare per essi una terra di accoglienza, soggiorno o transito, rischiò, nel giro di poche settimane, di trasformarsi in una vera e propria trappola; di diventare in ogni caso una illusione perduta.

Il decreto-legge Bottai sulla scuola stabiliva l’espulsione, con effetto immediato, dall’insegnamento nelle scuole statali o parastatali di ogni ordine e grado «di persone di razza ebraica». Inoltre, l’art. 2 statuiva: «Alle scuole di ogni ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica». Un ulteriore decreto sulla scuola del 23 settembre 1938 stabiliva la creazione nelle scuole elementari statali di speciali sezioni per gli alunni ebrei (con un minimo di dieci presenze) e dava alle comunità ebraiche la facoltà di istituire proprie scuole elementari. Ai fini di tali provvedimenti era considerato di razza ebraica colui che «è nato da genitori di razza ebraica, anche se professi religione diversa da quella ebraica». La scelta di applicare la legislazione antiebraica partendo dalla scuola non era casuale o senza significato. Innanzitutto, tale provvedimento aveva una valenza psicologico-sociale molto forte: infatti poneva in piena luce, davanti al Paese, il problema degli ebrei e lo faceva in un momento particolare della vita sociale, quando, cioè, tutti gli alunni o studenti del Regno si apprestavano a ritornare a scuola dopo le vacanze estive. Tale provvedimento discriminatorio doveva rappresentare per tutti, ebrei e non ebrei, uno shock salutare e necessario per dare un’indicazione certa sulla volontà governativa di attuare una seria politica razziale, come già si faceva in Germania, attraverso la separazione-segregazione sociale.

Va ricordato, inoltre, che il modo indiscriminato con cui tale decreto fu ideato e poi applicato faceva cadere una volta per tutte ogni illusione proporzionalista — cioè di concedere agli ebrei un peso nella vita sociale proporzionato alla loro consistenza numerica — prevista nell’informativa diplomatica n. 18 del 5 agosto, la quale aveva ottenuto il beneplacito e il sostegno di molti settori del mondo cattolico. Inoltre, cominciare dalla scuola, e da tutto ciò che ruotava intorno ad essa (associazioni giovanili, famiglia ecc.), per meglio «separare e segregare», significava puntare sulla mobilitazione di quel particolare settore della società in cui veniva forgiato l’uomo nuovo fascista, ritenuto più sensibile e permeabile alle istanze volontaristiche che il regime intendeva alimentare.

A volte si dice che la legislazione antiebraica adottata in Italia a partire dal settembre 1938 fu, rispetto a quella in vigore in altri Paesi totalitari, più blanda, forse più umana. Si tratta di un mito da sfatare. Anzi, alcune disposizioni al momento in cui furono emanate dal Governo fascista erano più severe e persecutorie di quelle vigenti nella Germania nazista: ad esempio, non esisteva in quel tempo in Germania una norma sull’espulsione generalizzata degli ebrei stranieri; inoltre, l’espulsione totale degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche fu decisa dal Governo di Berlino due mesi dopo la sua entrata in vigore in Italia e adottando il metodo della gradualità nella sua esecuzione (2).

Il Governo fascista su tale materia, come è stato giustamente notato, optava per l’espulsione di tutti gli ebrei residenti in Italia. Ma tale obiettivo, per diversi motivi, non era raggiungibile in tempi brevi; per il momento l’azione governativa, come stava accadendo in Germania e negli altri Paesi totalitari, si andò orientando con determinazione verso la separazione-segregazione degli ebrei italiani — che a mala pena arrivavano a 50.000 — dal resto della comunità nazionale. Come elemento di discriminazione fu assunto il dato biologico-razziale e non quello di appartenenza religiosa o culturale, come alcuni cattolici avevano sperato. Tale indirizzo fu perseguito ostinatamente da Mussolini fino alla fine: nel febbraio 1940 egli fece comunicare all’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane che tutti gli ebrei di cittadinanza italiana avrebbero dovuto abbandonare definitivamente l’Italia. In effetti, da alcuni mesi il Governo stava preparando un progetto di legge che disciplinava tale espulsione, graduandola in un arco temporale di dieci anni. «L’ingresso dell’Italia — osserva Sarfatti — nel secondo conflitto mondiale e l’estensione della guerra sui mari impedirono la realizzazione dell’ordine mussoliniano, mentre il progetto legislativo fu rinviato al dopoguerra. Sino al 1941, emigrò circa l’8 per cento degli ebrei italiani» (3).

La legislazione antisemita e la Santa Sede
La legislazione antisemita, in particolare quella sulla scuola, fu accolta dalla maggioranza degli italiani, in particolare dai cattolici, con vivo rincrescimento e a volte con rabbia; furono molte le lettere inviate in Vaticano da privati o da gruppi di persone e associazioni (anche non israelitiche), che invitavano le autorità ecclesiastiche e, in particolare, il Papa a intervenire presso il Duce in difesa degli «sventurati ebrei». «Desideriamo che il mondo sappia — scrive a Pio XI un gruppo di fascisti e cattolici di Reggio Calabria — che non siamo dei servi di un tiranno, ma che serviamo un’idea, per il nome di Dio e della Patria. Chi crede o s’illude d’avere in noi dei ciechi strumenti di ogni sua aberrazione, è bene che sappia che noi abbiamo la fierezza di dire no, e di non avanzare oltre le barriere della nostra fede». La lettera collettiva è firmata: «I fascisti d’Italia e figli Vostri e della Chiesa cattolica» (4).

Il giorno successivo all’adozione del decreto-legge sulla scuola, il 6 settembre Pio XI pronunciò un memorabile discorso contro il razzismo e contro l’antisemitismo: era la prima volta che ciò accadeva in modo così esplicito e diretto. Purtroppo esso non fu divulgato in Italia — infatti il 5 agosto il ministro Alfieri aveva dato disposizione ai prefetti di vietare che i discorsi del Papa contro il razzismo fossero pubblicati da riviste e giornali cattolici — e ciò avvantaggiò molto la causa razzista e diede l’impressione che il Papa, per motivi politici, non prendesse posizione su una materia così grave. Gran parte degli intellettuali cattolici, tra cui anche Dossetti, ne ebbero notizia leggendo le riviste cattoliche di oltralpe (5). Il celebre discorso fu tenuto a Castel Gandolfo, dove il Papa si trovava da tempo, davanti a un gruppo di pellegrini belgi, molti dei quali lavoravano nell’ambito delle comunicazioni. Il testo integrale, pubblicato dalla Documentation Catholique, fu stenografato da uno dei presenti, mentre il Papa parlava. Il quotidiano vaticano, L’Osservatore Romano, pubblicò il testo omettendo la parte riguardante gli ebrei, mentre la «cronaca contemporanea» della Civiltà Cattolica non ne fece menzione. Le parole del Papa sono riportate dalla rivista cattolica belga in modo abbastanza colorito: «A questo punto il Papa — è scritto — non riuscì a trattenere la sua emozione… ed è piangendo che egli citò i passi di Paolo che mettono in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo [...]. L’antisemitismo non è compatibile con il sublime pensiero e la realtà evocata in questo testo. L’antisemitismo è un movimento odioso, con cui noi cristiani non dobbiamo avere nulla a che fare [...]. Non è lecito che i cristiani prendano parte all’antisemitismo. Noi riconosciamo che ognuno ha il diritto all’autodifesa e che può intraprendere le azioni necessarie per salvaguardare gli interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti» (6). Le parole di condanna dell’antisemitismo pronunciate con voce commossa dal Papa erano forti e chiare.

Su questa materia la Segreteria di Stato assunse un atteggiamento piuttosto prudente, pensando che in tal modo si potesse ottenere qualcosa di concreto a vantaggio degli ebrei, in particolare di quelli convertiti al cattolicesimo. Il p. P. Tacchi Venturi, fiduciario del Papa presso Mussolini, fu incaricato di trattare la delicata questione degli ebrei presso le autorità governative. Una Nota della Segreteria di Stato dell’8 settembre 1938 suggeriva al gesuita di attirare l’attenzione dell’autorità governativa soprattutto sugli ebrei battezzati e convertiti al cattolicesimo: «Non sarebbe equo — si chiedeva l’estensore — che, indipendentemente dall’origine, gli ebrei convertiti che hanno contratto in precedenza un matrimonio misto ai sensi del diritto canonico [...] fossero considerati cattolici e non già sempre e comunque ebrei sol perché tali erano i loro genitori?». Vale a dire, si chiedeva al Governo fascista di utilizzare come criterio discriminatorio non il dato biologico-razziale, ma quello religioso, cioè l’appartenenza a una determinata fede religiosa, in questo caso quella giudaica. Appare oggi imbarazzante per lo storico cattolico, soprattutto dopo le aperture del Concilio Vaticano II in tale materia, giustificare con categorie morali o religiose tale impostazione di pensiero e tal modo di procedere. Compito dello storico è però quello di ricostruire, per quanto è possibile oggettivamente, la vicenda storica, cercando di comprendere la mentalità e la cultura dei soggetti interessati, senza apriorismi di carattere ideologico. Secondo la cultura cattolica del tempo, anche se non tutti erano d’accordo con tale principio, sembrava che compito della Chiesa fosse quello di proteggere innanzitutto i propri fedeli, senza però in questo venir meno al senso di giustizia e di carità dovuti a tutti gli esseri umani.

Alla luce di tale principio si capiscono meglio i successivi interventi dell’autorità ecclesiastica in questa materia. L’attività svolta dal p. Tacchi Venturi a favore degli ebrei non ebbe, come è noto, grande fortuna, anche perché Mussolini era fortemente determinato a portare avanti la sua politica razziale e, in questo settore, non voleva essere secondo all’alleato tedesco. In un’udienza del 9 settembre, cioè dopo i primi decreti-legge antiebraici, il Papa disse esplicitamente al gesuita di trasmettere a Mussolini il seguente messaggio: «Il Santo Padre come italiano si rattrista veramente di vedere dimenticata tutta una storia di buon senso italiano, per aprire la porta o la finestra a un’ondata di antisemitismo tedesco» (7). Due giorni prima, il 7 settembre, il p. Tacchi Venturi aveva comunicato al Duce che «il Santo Padre per notizie e informazioni purtroppo attendibili è molto preoccupato che questo aspetto o parvenza di antisemitismo che si dà alle disposizioni prese in Italia contro gli ebrei, non abbia a provocare da parte degli ebrei di tutto il mondo delle rappresaglie forse non insensibili all’Italia» (8).

A tali sollecitazioni del Papa, Mussolini rispose, anche se indirettamente, il 18 settembre a Trieste, dove ritornò a parlare del problema del razzismo. Egli riaffermò in modo perentorio che l’Italia non aveva deciso la politica razziale per «fare cosa gradita alla Germania» e che tale questione era stata così impostata dal fascismo già dalle origini. Disse poi, tentando di giustificare le recenti disposizioni ministeriali sugli ebrei, che «l’ebraismo mondiale è sempre stato un nemico irriducibile del fascismo» e preannunciò, per porre un freno alle reazioni negative contro i citati decreti-legge, l’emanazione di disposizioni benevole per gli ebrei di cittadinanza italiana, benemeriti verso la nazione. A molti, però, era parso che Mussolini nel suo discorso avesse voluto rispondere al Papa, facendo intendere che su tale materia egli non accettava consigli da nessuno. Il vescovo di Trieste, mons. A. Santin, durante la visita che il Duce fece alla cattedrale di San Giusto, chiese a Mussolini se nel discorso che aveva fatto era sua intenzione, come qualcuno aveva fatto intendere, attaccare, seppure indirettamente, il Papa. Egli, con sicurezza, rispose al prelato che in nessun modo era sua intenzione offendere il Papa, anche perché, disse: «Il Sommo Pontefice si occupava di razzismo in altro senso e quindi non vi era nessun contrasto [tra le due posizioni]». Mons. Santin raccontò la vicenda, spendendo parole di plauso nei confronti di Mussolini, in una lettera rassicurante indirizzata a Pio XI. Il Papa però, pur rallegrandosi della promessa fatta dal Duce di tener conto nella successiva legislazione antiebraica dei meriti patriottici ottenuti da cittadini ebrei, confidava che anche coloro che avessero ricevuto il battesimo e fossero così diventati figli della Chiesa venissero trattati alla stregua di coloro che eroicamente avevano combattuto per la patria. «Per queste considerazioni — è detto in una Nota vaticana — il Santo Padre confida che le norme per discriminare gli ebrei nello Stato italiano, non vengano applicate a quelli fra essi che ricevettero il battesimo» (9). Lo stesso, egli chiedeva, per gli ebrei stranieri battezzati.

Fatto sta che, a partire dalla pubblicazione del Manifesto della razza, i rapporti tra il Governo italiano e la Santa Sede, o meglio tra Mussolini e Pio XI — nonostante la firma di un «patto di pacificazione» (16 agosto 1938) — andarono gradatamente deteriorandosi, tanto che il Duce disse in privato che quel Papa rappresentava una rovina per l’Italia e per la Chiesa. La stampa internazionale, da parte sua, amplificò in modo caricaturale tale antagonismo, fino a ipotizzare un possibile abbandono della Città Eterna e dell’Italia da parte del Papa: «A seguito del recente conflitto di idee — scriveva alla Segreteria di Stato il Nunzio a Parigi, mons. V. Valeri — che si è manifestato tra le autorità del regime fascista italiano e la Santa Sede a proposito del razzismo, alcuni organi di stampa francese, la quale ha seguito largamente da vicino l’episodio, si sono spinti sino a prevedere nientemeno la possibilità futura di un esilio del Papato da Roma, e, più frequentemente, la nomina di un pontefice non italiano» (10). Tale fatto, riportato anche dal quotidiano cattolico parigino La Croix, dà la misura della serietà del conflitto esistente tra il Governo fascista e la Santa Sede a motivo della questione razziale e della legislazione antiebraica, universalmente condannata dai cattolici.

Per motivi prudenziali la Santa Sede però organizzò il suo attacco contro la nuova legislazione discriminatoria non facendo riferimento a motivazioni di ordine ideale, fondate sul diritto naturale — come, ad esempio, il diritto di tutti gli uomini a non essere discriminati per motivi di razza o di religione, allo stesso modo in cui in diverse occasioni aveva fatto Pio XI —, ma facendo leva sul proprio armamentario giuridico, in particolare il diritto canonico e il Concordato del 1929, per difendere innanzitutto il diritto degli ebrei cattolici, senza pregiudicare quello degli altri. Che cosa si ottenne seguendo tale indirizzo?

Molto poco, anche se la Santa Sede sperava di ottenere di più. Attraverso l’azione del p. Tacchi Venturi, con circolare del Ministero dell’Educazione Nazionale datata 23 ottobre 1938, si ottenne che i bambini di razza ebraica, battezzati, potessero frequentare scuole private cattoliche, anche parificate. «Ove si trattasse di ebrei non battezzati — è detto, però, in una Nota vaticana — il rev. Padre Tacchi Venturi ha rilevato che, a quanto egli ricorda, le scuole cattoliche non usavano in passato, per evidenti ragioni religiose e morali, ammettere alunni israeliti o comunque non battezzati. Tale norma sembra tanto più da seguirsi ora che il far diversamente potrebbe assumere l’apparenza di una opposizione alla politica del Governo» (11). Si ottenne anche, attraverso la mediazione del gesuita, i cui uffici furono presto avvertiti con fastidio dall’autorità governativa, che alcune insegnanti ebree battezzate insegnassero negli istituti cattolici parificati. Tale disposizione era stata già concessa dal ministro Bottai per le suore insegnanti di origine ebraica. Già questa era considerata dall’autorità fascista una concessione molto particolare, in quanto intaccava il principio biologico sotteso alla legislazione.

Motivo di ulteriore attrito tra il Governo fascista e la Santa Sede furono alcune dichiarazioni rese da R. Farinacci mentre si trovava a Norimberga in occasione del congresso annuale nazista, al giornale delle SS, Das Schwarze Korps, e pubblicate il 15 maggio, contro i frequenti discorsi di Pio XI in materia di razzismo. Alla domanda sull’importanza che gli italiani danno alle parole del Papa in materia di politica razziale, egli rispose: «Caro camerata, il popolo italiano è cattolico e oltre 300 milioni di cattolici del mondo guardano a Roma, perciò noi abbiamo fatto la pace col Vaticano [...]. Ora quando il Papa ha preso posizione in forma e maniera politica contro il manifesto fascista sulla razza, io, per primo, mi sono opposto a lui nel mio giornale. Ogni qual volta il Papa fa dichiarazioni politiche, il nostro popolo non dà ascolto a lui ma al Duce. La nota dichiarazione del Papa non ha fatto perciò la minima impressione sul nostro popolo. Una tale confusione sarebbe incomprensibile. Il fascismo realizzerà ognuna delle sue intenzioni, senza badare al Papa» (12). L’intervista fu recepita in Vaticano con profondo malcontento; Pio XI ne fu personalmente colpito, sebbene lo stile irruento e diretto del ras di Cremona gli fosse ben noto. Il 21 settembre 1938 il Cardinale Segretario di Stato consegnava all’Ambasciatore italiano presso la Santa Sede una Nota di protesta per le frasi irrispettose e offensive, pronunciate da Farinacci, verso «l’augusta persona del Santo Padre».

Intanto in Vaticano arrivavano decine di richieste di ebrei colpiti dalle disposizioni governative, chiedendo che il Papa si adoperasse in loro favore. Dalla documentazione vaticana, ora disponibile, risulta che la Santa Sede fece il possibile, intervenendo frequentemente attraverso il proprio fiduciario presso l’autorità governativa, per andare incontro alle necessità degli ebrei, in particolare di quelli battezzati. Va ricordato, infatti, che dal punto di vista umanitario soprattutto questi ultimi avevano estremo bisogno del sostegno papale, poiché essi non beneficiavano della protezione della comunità di appartenenza, che li aveva rigettati, e neppure del sostegno concesso dalle comunità ebraiche internazionali. L’anima di tale attività a favore degli ebrei, ormai socialmente discriminati, fu il p. Tacchi Venturi, che nonostante i suoi limiti — primo fra tutti la sua propensione a comprendere e spesso ad accettare le «ragioni» del regime —, si spese con grande generosità per questa causa.

La Dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo
Dopo i provvedimenti governativi del 5 e del 7 settembre, la seconda tappa del cammino verso l’introduzione in Italia di una legislazione apertamente discriminatoria nei confronti dei cittadini ebrei fu costituita dalle deliberazioni adottate dal Gran Consiglio del Fascismo del 6-7 ottobre 1938, destinate a fissare i pilastri fondamentali della successiva legislazione antiebraica. Tale Dichiarazione, dopo aver ricordato che il fascismo da 16 anni aveva svolto e svolgeva un’attività positiva, «diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana; miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze politiche incalcolabili, da incroci e imbastardimenti», fissava alcuni punti, i quali sostanzialmente colpivano la piccola fetta di popolazione italiana di razza ebraica. In tal modo il cosiddetto «problema razziale», i cui effetti nocivi avrebbero finito per attentare alla stabilità dell’Impero, si ridusse sostanzialmente a quello antiebraico: il problema ebraico, è detto nella Dichiarazione, «non è che l’aspetto metropolitano di un problema di carattere generale».

I diversi punti fissati dalla Dichiarazione del Gran Consiglio possono essere così sintetizzati: 1) Divieto di matrimonio tra italiani/e e appartenenti a razze non ariane; 2) Espulsione degli ebrei dal partito fascista; 3) Divieto per gli ebrei di «essere possessori o dirigenti di aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone», o «essere possessori di oltre cinquanta ettari di terra»; 4) Divieto di prestare servizio militare; 5) Allontanamento dagli uffici pubblici; 6) Speciale regolamentazione per l’accesso alle professioni (13). In tal modo veniva creato agli ebrei uno status giuridico diverso da quello degli altri cittadini italiani; uno status che praticamente li privava dei fondamentali diritti politici e civili, facendone una categoria sociale di livello inferiore. Molto importante, a nostro avviso, è l’ultima parte della Dichiarazione, la quale, oltre ad essere meschinamente ricattatoria, introduceva un nuovo criterio per determinare l’appartenenza all’ebraismo: «Questa eventuale e le altre condizioni fatte agli ebrei potranno essere annullate o aggravate a seconda dell’atteggiamento che l’ebraismo assumerà nei riguardi dell’Italia fascista». Ora, tale indegna trovata rappresentava un ricatto rivolto agli ebrei italiani, perché non si mobilitassero né in Italia né all’estero contro il regime che aveva loro negato la libertà e la dignità di cittadini. Tale affermazione li umiliava una seconda volta, togliendo loro il diritto di dissentire, di ribellarsi a decisioni apertamente ingiuste e ingiustificate. Va inoltre sottolineato che tale passaggio toglieva vigore e forza al principio ispiratore dalle Dichiarazione — cioè la natura biologica del concetto di razza — facendone di fatto un provvedimento scopertamente politico, dove le motivazioni di ordine scientifico avevano lo scopo di nascondere il carattere ideologicamente razzista e antisemita di tale indirizzo politico.

Per quanto riguarda l’analisi storica, la genesi e l’interpretazione di tale documento, rimandiamo alla ricca letteratura esistente (14). Ci chiediamo, invece, in che modo la Santa Sede e la stampa cattolica recepirono la Dichiarazione, la quale non giungeva certo inaspettata. Come sappiamo, a partire dalle disposizioni inviate ai prefetti dal ministro Alfieri il 5 agosto, la stampa cattolica si trovò come imbavagliata. In questo modo le fu impedito di partecipare in modo libero al dibattito pubblico in materia razziale e sulle nuove disposizioni assunte dal Governo contro gli ebrei: coloro che non condividevano l’indirizzo dettato dal regime in tale materia, o che avevano punti di vista differenti, da questo momento in poi dovettero tacere. La Civiltà Cattolica informò la Santa Sede degli ordini ricevuti dalla prefettura di Roma: la serie di articoli previsti sulla materia razziale, che il Papa tempo prima aveva richiesto al direttore, furono — oltre il primo, pubblicato prima della diffida, scritto dal p. A. Messineo — semplicemente sospesi (15). La rivista da quel momento in poi pubblicò le disposizioni legislative e amministrative in materia razziale, senza nessun commento: il che significava che la direzione della rivista disapprovava lo spirito di quelle disposizioni discriminatorie.

La Santa Sede per il momento decise di non intervenire direttamente: si sapeva infatti che un suo intervento pubblico, oltre a esasperare l’animo di Mussolini, ormai completamente maldisposto nei confronti dell’anziano Papa, avrebbe certamente nuociuto alla causa degli ebrei, e non solo di quelli battezzati. Si decise così di aspettare le disposizioni legislative che sarebbero seguite alle Dichiarazioni del Gran Consiglio, in modo da poter intervenire concretamente per ottenere dall’autorità governativa mitigazioni alla legislazione antiebraica, che già si annunciava dura e pesante. Siamo convinti che un intervento della Santa Sede e del Papa in quel momento contro le dichiarazioni dell’organo supremo del fascismo avrebbe innescato una lotta aperta tra il regime e il Vaticano, facendo così il gioco di chi, come Farinacci, avrebbe desiderato una sorta di regolamento di conti tra le due istituzioni, per far conoscere al mondo «chi veramente comanda in Italia». Sappiamo, inoltre, che Mussolini, in quel momento era determinato a bloccare ogni manovra del Vaticano in favore degli ebrei e a contrapporsi con forza agli appelli del Papa: il problema della razza, o meglio degli ebrei, doveva essere risolto con determinazione, come in Germania aveva fatto il suo collega nazista, senza curarsi dell’opposizione delle Confessioni cristiane, in particolare della Chiesa cattolica.
Perciò, la prudenza che la Santa Sede dimostrò in quel momento fu determinata dalla volontà di salvare il salvabile e, in ogni caso, di non voler contribuire a rendere più dura la legislazione antiebraica che nel frattempo si stava mettendo a punto. A questo si aggiunga che la mentalità dominante in quel momento in parte del mondo cattolico italiano, a proposito del problema ebraico era segnata da un certo antigiudaismo, che si radicava in passate, e anche recenti, contrapposizioni di carattere religioso e politico-culturale: pensiamo che per molti non fu facile svestirsi di tale abito mentale, per passare direttamente dall’altra parte, e vedere nell’ebreo un «fratello maggiore», da amare, e, soprattutto in quel momento delicato, da aiutare. L’unica questione che allora fu fatta presente all’autorità governativa fu quella dei «matrimoni misti», poiché tale materia toccava direttamente il diritto della Chiesa e il Concordato: su di essa, infatti, la Santa Sede poteva intervenire senza il timore di indispettire oltre misura l’autorità pubblica. Fu fatto notare che la disposizione del Gran Consiglio concernente tale materia immetteva nell’ordinamento giuridico italiano un nuovo impedimento assoluto alla celebrazione di matrimoni, ledendo così un diritto della Chiesa, in particolare quello di concedere dispense per disparità di culto, quando lo riteneva assolutamente necessario per la salvezza delle anime. Si chiedeva così al legislatore di non porre un divieto assoluto e generale alla celebrazione di matrimoni misti, semmai di concordare con l’autorità ecclesiastica una modalità per tenerli sotto controllo, attraverso un permesso speciale congiunto del Governo e della Santa Sede.

In ogni caso, non è vero, come a volte viene ripetuto, che la Santa Sede subì passivamente la legislazione antiebraica, o che intervenne soltanto, come nella materia dei matrimoni misti, per tutelare gli interessi specificatamente cattolici e confessionali: essa, sebbene con discrezione, cercò di preparare gli spiriti per la futura battaglia contro le nuove disposizioni emanate dal Regime. Un documento vaticano, redatto subito dopo le dichiarazioni del Gran Consiglio, ci informa a tale riguardo sulle direttive «segrete» date dalla Segreteria di Stato (16). L’azione della Santa Sede, è detto nel documento, dovrebbe svolgersi secondo una duplice direzione: «Azione persuasiva sul Governo. Per mezzo di persone adatte e ornate delle opportune qualità, sarebbe bene cercare di insistere su influenti persone del Regime — e non soltanto sul capo del Governo — per far loro comprendere a quali tristi conseguenze conduce una politica razziale esagerata che non si limita a misure tendenti al rinvigorimento della stirpe, ma va all’eccesso del razzismo con provvedimenti che ledono la giustizia e i diritti della Chiesa [...]. Di più far capire che in caso di dissidio colla Santa Sede lo svantaggio maggiore sarebbe per il fascismo». L’altra direzione riguarda l’azione sul clero. Innanzitutto si chiedeva di inviare in via riservata a tutti i metropoliti istruzioni speciali, da comunicare agli altri vescovi, «perché prevengano il clero di non inviare adesione alcuna alla rivista La Difesa della razza, considerata dannosa e non conforme alla dottrina della Chiesa in tale materia. In particolare, si raccomandava a tutto il clero italiano «che non tralasci occasione alcuna per insistere, con la dovuta prudenza si capisce, sui danni e le conseguenze di un nazionalismo e di una razzismo esasperato. Questo si potrebbe fare con speciali riunioni del clero senza dare l’impressione che si voglia fare azione contro il Governo [...]. Questo sembra necessario soprattutto nel momento presente in cui non v’è libertà di stampa e spesso anche i pochi e deboli quotidiani cattolici sono obbligati a pubblicare certe sciocchezze circa il razzismo». Si chiedeva, inoltre, che la stessa azione venisse svolta anche nei seminari maggiori, facendo attenzione però a non violare la lettera dell’accordo del 16 agosto sottoscritto dalla Santa Sede con il Governo fascista. Come già si è detto, la Santa Sede, in quel momento, scelse di agire contro le nuove disposizioni antiebraiche con mezzi discreti e puntando sull’efficacia della propria «diplomazia domestica», opzione da molti non condivisa, ma che nell’immediato sembrava la sola possibile e anche la più efficace.

Note

(1) E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei, Bari-Roma, Laterza, 2003, 69.

(2) Cfr ivi, 77; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2000, 98; V. Di Porto, Le leggi della vergogna, Firenze, Le Monnier, 2000, 67.

(3) M. Sarfatti, Leggi razziali, in Dizionario del fascismo, Torino, Einaudi, 2002, 23.

(4) Cfr Archivio Segreto Vaticano - Affari Ecclesiastici Straordinari (ASV-AAEESS), Italia, 1054, 730, 23. La lettera è datata 2 agosto 1938.

(5) Cfr E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, Torino, Einaudi, 2007, 182.

(6) La Libre Belgique, 14 settembre 1938. Su tale materia si veda Y. Chiron, Pie XI, Paris, Perrin, 2004, 375 s; cfr G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Milano, Rizzoli, 2000, 309.

(7) ASV-AAEESS, Italia, 1.054, 727, 45.

(8) Ivi, 46.

(9) Ivi, 41.

(10) Ivi, 730, 36.

(11) Ivi, 727, 43.

(12) Ivi, 731, 46.

(13) Nella Dichiarazione si fissavano inoltre i criteri che determinavano l’appartenenza alla razza ebraica: «a) È di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei; b) è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica; d) non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione diversa dall’ebraica, alla data del 1° ottobre XVI» (in Civ. Catt. 1938 IV 270). Seguiva poi la lista dei cosiddetti ebrei «discriminati», vale a dire delle famiglie di coloro che, a motivo dei meriti patriottici (o fascisti) acquisiti, non venivano sottoposti a tali delimitazioni: riguardava le famiglie dei caduti nelle ultime quattro guerre sostenute dall’Italia (libica, mondiale, etiopica, spagnola), nonché quelle dei volontari di guerra; le famiglie di coloro che erano stati insigniti della croce al merito di guerra e quelle dei caduti per la causa fascista (o fiumana), nonché quelli che erano iscritti al partito fascista fin dagli anni 1919-22 e nel secondo semestre del 1924. In ultimo, «le famiglie aventi eccezionali benemerenze da accertare da una apposita commissione».

(14) Cfr R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1961; S. Zuccotti, L’Olocausto in Italia, Milano, Mondadori, 1988. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit.; Id., La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, cit.; E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei, cit.; A. Cavaglion - G. P. Romagnani, Le interdizioni del Duce. Le leggi razziali in Italia, Torino, Claudiana, 2002.

(15) La Civiltà Cattolica fu una delle poche riviste italiane che criticò, già nell’agosto 1938, lo spirito della legislazione razziale emanata da Mussolini nei primi giorni del settembre dello stesso anno. Del resto, anche dal nostro archivio risulta che l’autore degli articoli, il p. Antonio Messineo, fu contattato da un membro del Gran Consiglio del Fascismo, di cui non si conosce il nome, il quale gli chiese di scrivere contro le teorie razziste che il Duce era in procinto di applicare anche in Italia, con la speranza che gli articoli riuscissero a bloccare il progetto, che aveva oppositori anche all’interno del fascismo. Gli disse, inoltre, che soltanto La Civiltà Cattolica poteva fare questo servizio di civiltà alla nazione italiana, poiché tutte le altre riviste e giornali erano «imbavagliati» dal regime. Pio XI, al quale l’articolo fu portato in revisione, diede il proprio assenso. Dopo che il primo articolo uscì, il 4 agosto 1938, sfuggendo alle maglie della censura politica, la questura di Roma intimò, a nome del Ministero degli Interni, alla tipografia che stampava allora la nostra rivista, di non pubblicare più scritti contrari alle teorie razziste, pena la chiusura dell’azienda. L’articolo condannava la teoria che riduceva la nazione alla razza, «difesa — scriveva il p. Messineo — con una ostinatezza e un fanatismo ideologico degno di migliore causa e con una povertà di argomenti pseudo-storici e pseudo-scientifici, che fanno poco onore alla scienza, da tutti gli scrittori che traggono ispirazione dal mito razzista della nuova Germania» (in Civ. Catt. 1938 III 216). Tali teorie razziste, oltre che «antiscientifiche, sono mostruosamente illogiche». Qualche mese prima il p. Enrico Rosa (che pure in passato aveva assunto posizioni antigiudaiche, per motivi religiosi) aveva pubblicato sulla rivista un articolo molto forte contro le teorie razziste divulgate in Germania. Egli vedeva come infatuazione o follia collettiva quelle teorie che volevano esaltare «la stirpe o la razza germanica al di sopra di tutte le altre, come la più perfetta [...]. Laddove tutte le altre stirpi del genere umano sarebbero ad essa inferiori, comprese le mediterranee, e più o meno spregevoli, tutte da posporsi o asservirsi alla “grande Germania”, ovvero anche da sterminarsi, come l’ebraica» (ivi, 63).

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Si ringrazia il Direttore GianPaolo Salvini S.I. per aver concesso la riproduzione dell’articolo.


CONVEGNO/ “Logos e dialogo”, così la Cattolica ha ricordato John Henry Newman - Giuseppe Bonvegna - sabato 4 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Nel 1879, il Sacro Collegio dei Cardinali della Chiesa cattolica vedeva l’ingresso di un nuovo porporato, l’inglese John Henry Newman (1801-1890). A 130 anni da quella data, il Centro di Ateneo per la Dottrina Sociale della Chiesa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e l’International Centre of Newman Friends hanno voluto ricordare la figura dell’illustre intellettuale oxoniense e sacerdote cattolico (convertitosi dall’anglicanesimo nel 1845) attraverso un Convegno internazionale, dal titolo John Henry Newman oggi: logos e dialogo, che ha avuto luogo nell’aula Pio XI dell’Università Cattolica di Milano il 26 e il 27 marzo: a partire dalla nozione newmaniana di ragione (tanto cara anche al regnante Pontefice Benedetto XVI) intesa come ragione incarnata nella vita, alcuni tra i più importanti studiosi newmaniani, italiani e stranieri, si sono confrontati sul pensiero e sull’opera di Newman, intrecciando un dialogo con la contemporaneità e con le diverse confessioni cristiane.
I lavori sono iniziati con la lettura, da parte del Magnifico Rettore, professor Lorenzo Ornaghi, del telegramma di augurio inviato dal Papa, tramite il Segratario di Stato, che ha auspicato «una rinnovata esigenza di fede pensata e vissuta per fondare un dialogo sempre più aperto e fecondo tra uomini di diverse e molteplici appartenenze e promuovere una rinnovata disponibilità alla trasmissione e all’accoglienza verità».
La prima sessione del Convegno (introdotta e presieduta dal professor Lorenzo Ornaghi) ha visto alternarsi Jeremy Morris (Trinity Hall, Cambridge) e Ian Ker (Faculty of Theology, Oxford); il primo prete anglicano, il secondo prete cattolico e tra i massimi esperti mondiali di Newman: se per Jeremy Morris il pensiero ecclesiologico di Newman può essere inteso solo se visto come il risultato, insieme, di una tradizione comune della religiosità e della cultura inglese e di una ricerca di un centro di unità spirituale che avrebbe trovato risposta nella figura del Pontefice di Roma, la cui funzione di guida per il popolo cristiano Morris però, da anglicano, non condivide; per Ian Ker c’è una modernità in Newman, ed essa consiste in una nozione di coscienza che riesce a coniugare la fedeltà al magistero della Chiesa e la possibilità che il cattolico esprima un giudizio personale pratico (dettato dalla virtù della prudenza) in merito alle applicazioni e alle ricadute personali che questo magistero può avere.
La seconda sessione del Convegno (introdotta e presieduta da mons. Sergio Lanza Assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore) ha messo a tema il rapporto tra fede e ragione, tramite le relazioni di Micheal Paul Gallagher (Pontificia Università Gregoriana, Roma) e di Fortunato Morrone (Istituto Teologico Calabro, Catanzaro): Morrone si è concentrato sull’amicizia tra fede e ragione in Newman (vedendo nel pensiero del cardinale inglese una ripresa di temi cari alla tradizione e in particolare ad Agostino), Gallagher sulla ripresa della nozione newmaniana di ragione presente, nel Novecento, nel pensiero di Bernard Lonergan, per il quale è stato fondamentale soprattutto il concetto di ragione informata dall’amore.
La sessione della mattinata di venerdì 27 (introdotta e presieduta dal professor Evandro Botto Direttore del Centro di Ateneo per la Dottrina Sociale della Chiesa), mentre ha visto una relazione iniziale di taglio teologico, tenuta da Roman Siebenrock (Internationale Deutsche Fakultät, Innsbruck) e dedicata all’influenza esercitata da Newman sul Concilio Vaticano II, si è poi addentrata nei campi della filosofia, della politica e della storia: all’intervento di Dermot Fenlon (padre oratoriano irlandese e professore all’Università Birmingham), che ha avuto per oggetto la scoperta di nuovi materiali relativi all’influsso determinante che il pensiero di Newman ha esercitato sul movimento antinazista tedesco della Rosa Bianca durante la Seconda Guerra Mondiale, ha fatto seguito la sintesi di Michele Marchetto (della Scuola Superiore Internazionale di Scienze della Formazione di Venezia e curatore della edizione italiana degli scritti filosofici e universitari di Newman recentemente uscita per Bompiani) sulla filosofia della conoscenza di Newman in relazione alle sfide del relativismo moderno e contemporaneo. La mattinata del venerdì si è conclusa con la relazione di monsignor Inos Biffi (Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale) che ha testimoniato (attraverso la presentazione dei due volumi di Newman sulla Chiesa dei Padri e sui Profili storici da lui recentemente tradotti ed editi per Jaca Book) il grande amore del cardinale inglese per i Padri della Chiesa, per Sant’Ambrogio, per Sant’Agostino, per San Benedetto, per la città e per le chiese di Milano che Newman ebbe modo di visitare nel 1846, all’indomani della conversione, sulla strada che doveva portarlo a Roma per entrare nella congregazione degli Oratoriani di San Filippo Neri.
Nell’ultima sessione del Convegno, introdotta e presieduta da padre Hermann Geissler (Direttore dell’International Centre of Newman Friends), la relazione di Graziano Borgonovo (Seminario Internazionale “Giovanni Paolo II”, Roma) che ha descritto la proposta universitaria di Newman così come emerge dall’Idea di Università mettendo in luce la grande passione educativa che emerge dal pensiero e dall’opera di Newman, è stata seguita dalle comunicazioni di un gruppo di nuovi studiosi di Newman che, presentando le loro ricerche svolte sul pensiero del cardinale inglese, si sono soffermati su aspetti a volte inediti all’interno della vicenda biografica e intellettuale del convertito di Oxford: Giuseppe Bonvegna, Davide Brighi, Kathleen Dietz, Alessandra Gerolin, Francesco Maceri.
Le conclusioni del Convegno sono state affidate a padre Geissler, che richiamandosi a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI e leggendo il messaggio inviato da Paul Chavasse (Postulatore della causa di beatificazione di J. H. Newman), ha voluto lasciare all’attenzione e alla meditazione di tutti il pensiero della santità di Newman, introducendo, così, alla Santa Messa, concelebrata presso la Cappella del Sacro Cuore dai sacerdoti presenti al Convegno e presieduta da Sua Em.za Rev.ma Card. Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Milano.