Nella rassegna stampa di oggi:
1) 26/04/2009 11.37.49 – Radio Vaticana - Benedetto XVI durante la cerimonia di canonizzazione di 5 beati: "Questi nuovi Santi ci mostrano il rinnovamento profondo che nel cuore dell’uomo opera il mistero della risurrezione di Cristo" - La luce del volto di Cristo risorto risplende oggi attraverso i tratti evangelici di cinque nuovi Santi: Arcangelo Tadini, Bernardo Tolomei, Nuno de Santa Maria Alvares Pereira, Gertrude Comensoli e Caterina Volpicelli. Alla cerimonia di canonizzazione, presieduta da Benedetto XVI in Piazza San Pietro, hanno partecipato pellegrini e fedeli provenienti da varie nazioni. Al Regina Coeli, il Papa ha poi sottolineato che i nuovi Santi aiutano a meditare sull'opera salvifica di Cristo.
2) Luigi Bianco, pastore accanto agli ultimi - Ieri sera a Casale Monferrato il cardinale Bertone ha ordinato il nuovo nunzio apostolico in Honduras - DAL NOSTRO INVIATO A CASALE MONFERRATO - PAOLO VIANA – Avvenire, 26 Aprile 2009
3) Benedetto XVI rivendica la piena cittadinanza della fede nei luoghi dell'educazione e della cultura - La dimensione religiosa rende l'uomo più uomo - L'altissimo numero di quanti scelgono di avvalersi dell'insegnamento della religione dimostra il valore insostituibile che essa riveste nel percorso formativo. Lo ha ribadito il Papa ricevendo sabato mattina, 25 aprile, nell'Aula Paolo VI, gli insegnanti di religione cattolica nelle scuole italiane, accompagnati dal cardinale Angelo Bagnasco. - L'Osservatore Romano, 26 Aprile 2009
4) Neuro-mania - Il cervello non spiega chi siamo - di Lucetta Scaraffia - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
5) Le confessioni di Agostino (e di molti altri) - Quella sottile paura di rinascere - Si è aperto a Foggia, nella cripta della cattedrale, il terzo ciclo della "Lectura patrum Fodiensis" quest'anno dedicata a biografia e autobiografia in età cristiana. L'autore della relazione inaugurale ha sintetizzato per il nostro giornale il suo intervento. - di Marcello Marin - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
6) L'essenza del cristianesimo - Calcolo o gratuità? - "Benedetto XVI e l'essenza del cristianesimo" è stato il tema di un dibattito tenutosi a Catania il 20 aprile per iniziativa della Fondazione Sant'Agata e del Centro Culturale di Catania. Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi che l'autore, docente di Filosofia del diritto nell'ateneo catanese, ha scritto per "L'Osservatore Romano". - di Pietro Barcellona - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
7) Cattolici ed ebrei per la pace in Terra Santa - di David Rosen Gran rabbino, presidente dell'«International Jewish Committee for interreligious consultations», direttore internazionale per gli affari interreligiosi dell'«;American Jewish Committee» - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
8) 25 Aprile 2009 - L'INEDITO - La «regola» di Wojtyla per le coppie di sposi - Avvenire, 25 aprile 2009
9) LA VICENDA DELLA GIOVANE ROM DI MILANO - L’etnia non è un destino Riscossa da scuola e amicizia - DAVIDE RONDONI - Avvenire, 25 aprile 2009
10) Fine vita, i medici cattolici: sì all’alleanza terapeutica - La presidenza Amci: dovute idratazione e alimentazione agli stati vegetativi - DA MILANO ENRICO NEGROTTI - Avvenire, 25 aprile 2009
11) classici - Una iniziativa editoriale colma un vuoto italiano con una collana dedicata all’inventore di padre Brown, proprio mentre c’è una riscoperta internazionale dell’autore. - In questo romanzo, il suo più complesso, il protagonista è l’alter ego dello scrittore in lotta con il razionalismo tipico della modernità - Chesterton l’anti-Cartesio - DI FULVIO PANZERI - Avvenire, 25 aprile 2009
12) Guangzhou (AsiaNews) - Questa mattina alle 5 (ora locale) è morto all’età di 93 anni p. Francesco Tan Tiande, una delle personalità più stimate e conosciute della diocesi di Guangzhou, un vero apostolo e martire della fede, che ha passato 30 anni in carcere ai lavori forzati, ma non ha mai perduto la gioia della fede.
13) YES, WE CAN - Effetto Barack sull’agenda gay - Così negli Stati Uniti il vento del cambiamento gonfia le vele dei fautori del matrimonio omosex. Un fronte che avanza con l’aiuto dei giudici, evitando di fare i conti con la volontà popolare… - Tempi, 21 aprile 2009
14) A proposito dello Stato etico - Il diritto non è neutrale - di Stefano Semplici Università di Roma Tor Vergata - L'Osservatore Romano, 26 Aprile 2009
15) A colloquio con l'arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, in occasione della canonizzazione di quattro italiani e un portoghese - Nuovi testimoni della santità - di Nicola Gori - L'Osservatore Romano, 26 Aprile 2009
16) Il custode dell'amore - Pigi Colognesi - venerdì 24 aprile 2009 – ilsussidiario.net
17) TERREMOTO ABRUZZO/ Diario da L’Aquila: dopo l’emergenza, fatica e dolore si affrontano con gli amici - Redazione - domenica 26 aprile 2009 – ilsussidiario.net
18) «Eluana? Hanno tentato di alterare la verità dei fatti» - Le suore Misericordine di Lecco a un dibattito dei Medici cattolici «Per noi non è mai stata un caso. Ma qualcuno voleva proprio questo» - DA CAVA DE’TIRRENI (SALERNO) - VALERIA CHIANESE – Avvenire, 26 aprile 2009
19) Berlino oggi al voto per l’ora di religione - sfida nella capitale - Referendum popolare per reintrodurre l’insegnamento nelle scuole. Fronte del «sì» in vantaggio. Ma i rivali puntano sull’astensionismo - DA BERLINO VINCENZO SAVIGNANO – Avvenire, 26 aprile 2009
20) Ratzinger Chiesa e Israele: un incontro possibile? – Avvenire, 26 aprile 2009
26/04/2009 11.37.49 – Radio Vaticana - Benedetto XVI durante la cerimonia di canonizzazione di 5 beati: "Questi nuovi Santi ci mostrano il rinnovamento profondo che nel cuore dell’uomo opera il mistero della risurrezione di Cristo" - La luce del volto di Cristo risorto risplende oggi attraverso i tratti evangelici di cinque nuovi Santi: Arcangelo Tadini, Bernardo Tolomei, Nuno de Santa Maria Alvares Pereira, Gertrude Comensoli e Caterina Volpicelli. Alla cerimonia di canonizzazione, presieduta da Benedetto XVI in Piazza San Pietro, hanno partecipato pellegrini e fedeli provenienti da varie nazioni. Al Regina Coeli, il Papa ha poi sottolineato che i nuovi Santi aiutano a meditare sull'opera salvifica di Cristo. Il servizio di Amedeo Lomonaco:http://62.77.60.84/audio/ra/00159506.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00159506.RM
(Musica)
Soffermandosi sul brano evangelico odierno nel quale Gesù risorto appare nel Cenacolo, il Papa ricorda che Cristo si manifesta ai discepoli “aiutandoli a comprendere le Scritture e a rileggere gli eventi della salvezza alla luce della Pasqua”. Questa stessa esperienza – spiega il Santo Padre – ogni comunità la rivive nella celebrazione eucaristica. L’Eucaristia è il luogo privilegiato in cui la Chiesa riconosce “l’autore della vita”:
“Celebrando l’Eucaristia comunichiamo con Cristo, vittima di espiazione, e da Lui attingiamo perdono e vita. Cosa sarebbe la nostra vita di cristiani senza l’Eucaristia? L’Eucaristia è la perpetua e vivente eredità lasciataci dal Signore nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, che dobbiamo costantemente ripensare ed approfondire perché, come affermava il venerato Papa Paolo VI, possa imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale”.
Nutriti del Pane eucaristico, i nuovi Santi che oggi veneriamo – aggiunge il Pontefice – “hanno portato a compimento la loro missione di amore evangelico nei diversi campi in cui hanno operato con i loro peculiari carismi”. La luce del volto di Cristo risorto risplende oggi attraverso i loro tratti evangelici:
“Le diverse vicende umane e spirituali di questi nuovi Santi stanno a mostrarci il rinnovamento profondo che nel cuore dell’uomo opera il mistero della risurrezione di Cristo; mistero fondamentale che orienta e guida tutta la storia della salvezza. Giustamente pertanto la Chiesa sempre, ed ancor più in questo tempo pasquale, ci invita a dirigere i nostri sguardi verso Cristo risorto, realmente presente nel Sacramento dell’Eucaristia”.
Lunghe ore trascorreva in preghiera davanti all’Eucaristia Sant’Arcangelo Tadini, sacerdote nato nel 1846 a Verolanuova, in provincia di Brescia, che aiutava i suoi parrocchiani a crescere umanamente e spiritualmente. “Uomo tutto di Dio” e pronto in ogni circostanza a lasciarsi guidare dallo Spirito Santo, era disponibile a cogliere le urgenze del momento e a trovarvi rimedio. Assunse per questo – fa notare il Santo Padre - non poche iniziative concrete e coraggiose, come l’organizzazione della Società Operaia Cattolica di Mutuo Soccorso e la fondazione, nel 1900, della Congregazione delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth:
“Quanto profetica fu l’intuizione carismatica di Don Tadini e quanto attuale resta il suo esempio anche oggi, in un’epoca di grave crisi economica! Egli ci ricorda che solo coltivando un costante e profondo rapporto con il Signore, specialmente nel Sacramento dell’Eucaristia, possiamo poi essere in grado di recare il fermento del Vangelo nelle varie attività lavorative e in ogni ambito della nostra società”.
Anche in San Bernardo Tolomei, nato a Siena nel 1272, spicca l’amore per la preghiera. Vive da eremita, è “iniziatore di un singolare movimento monastico benedettino” e in occasione della grande peste del 1348, si reca ad assistere monaci e concittadini colpiti dal male. Muore a causa del morbo come autentico martire della carità. “La sua – sottolinea Benedetto XVI – fu un’esistenza eucaristica, tutta dedita alla contemplazione, che si traduce in umile servizio del prossimo”:
“Dall’esempio di questo Santo viene a noi l’invito a tradurre la nostra fede in una vita dedicata a Dio nella preghiera e spesa al servizio del prossimo sotto la spinta di una carità pronta anche al sacrificio supremo”.
Un’esemplare testimonianza di assoluta fiducia nell’aiuto di Dio è anche quella offerta dal portoghese Nuno de Santa Maria Alvares Pereira, che dopo essere stato comandante in capo dell’esercito e condottiero vittorioso depone le armi ed entra nel 1423 nel convento dei Carmelitani. Nonostante fosse un ottimo militare – ricorda il Papa - non ha mai lasciato che le sue doti personali si sovrapponessero all’azione suprema che viene da Dio:
“Sinto-me feliz por apontar à Igreja inteira esta figura exemplar...
Sono felice nell’indicare alla Chiesa intera questa figura esemplare di fede e preghiera specialmente presente in un contesto apparentemente poco favorevole che dimostra come in qualsiasi situazione anche, in ambito militare e bellico, sia possibile attuare e realizzare i valori e i principi della vita cristiana soprattutto se vissuta nel servizio del bene comune e nella gloria di Dio”.
Una particolare attrazione per Gesù presente nell’Eucaristia ha avvertito sin da bambina Santa Gertrude Comensoli, nata a Bienno, in provincia di Brescia, nel 1847. “Fu infatti davanti all’Eucaristia – spiega il Papa - che Santa Gertrude comprese la sua vocazione e missione nella Chiesa: quella di dedicarsi senza riserve all’azione apostolica e missionaria, specialmente a favore della gioventù”:
“In una società smarrita e spesso ferita, come è la nostra, ad una gioventù, come quella dei nostri tempi, in cerca di valori e di un senso da dare al proprio esistere, santa Gertrude indica come saldo punto di riferimento il Dio che nell’Eucaristia si è fatto nostro compagno di viaggio. Ci ricorda che l’adorazione deve prevalere sopra tutte le opere di carità perché è dall’amore per Cristo morto e risorto, realmente presente nel Sacramento eucaristico, che scaturisce quella carità evangelica che ci spinge a considerare fratelli tutti gli uomini”.
Testimone dell’amore divino è stata anche Santa Caterina Volpicelli, che si sforzò di “essere di Cristo, per portare a Cristo” quanti ha incontrato nella Napoli di fine Ottocento. “Anche per lei – sottolinea il Santo Padre – il segreto fu l’Eucaristia. E questa è anche oggi la condizione per proseguire la missione e l’opera da lei iniziate:
“Per essere autentiche educatrici della fede, desiderose di trasmettere alle nuove generazioni i valori della cultura cristiana, è indispensabile, come amava ripetere, liberare Dio dalle prigioni in cui lo hanno confinato gli uomini. Solo infatti nel Cuore di Cristo l’umanità può trovare la sua stabile dimora. Santa Caterina mostra alle sue figlie spirituali e a tutti noi, il cammino esigente di una conversione che cambi in radice il cuore, e si traduca in azioni coerenti con il Vangelo”.
Benedetto XVI ha poi esortato tutti a lasciarsi attrarre dall’esempio dei nuovi Santi:
“…Lasciamoci guidare dai loro insegnamenti, perché anche la nostra esistenza diventi un cantico di lode a Dio, sulle orme di Gesù, adorato con fede nel mistero eucaristico e servito con generosità nel nostro prossimo”.
(Musica)
Al Regina Coeli il Papa ha poi ricordato che oggi si celebra la Giornata dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. A 50 anni dalla morte del fondatore, padre Agostino Gemelli, l’augurio del Santo Padre è che “l’Università Cattolica sia sempre fedele ai suoi principi ispiratori, per continuare ad offrire una valida formazione alle nuove generazioni”. Il Pontefice ha infine ringraziato con grande affetto i numerosi pellegrini che hanno voluto rendere omaggio ai nuovi Santi e ha aggiunto:
“Auspico che questo pellegrinaggio, vissuto nel segno della santità e avvalorato dalla grazia dell’Anno Paolino, possa aiutare ciascuno a ‘correre’ con più gioia e più slancio verso la meta finale, verso il premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.
Luigi Bianco, pastore accanto agli ultimi - Ieri sera a Casale Monferrato il cardinale Bertone ha ordinato il nuovo nunzio apostolico in Honduras - DAL NOSTRO INVIATO A CASALE MONFERRATO - PAOLO VIANA – Avvenire, 26 Aprile 2009
Dal Monferrato all’Honduras per una doppia missione, quella di vescovo e quella di nunzio apostolico, da vivere facendosi prossimo ai poveri e agli ultimi nella continua volontà di essere, come recita il suo stesso motto episcopale, testimone della risurrezione di Cristo. È questo il mandato che ieri sera monsignor Luigi Bianco, sacerdote della diocesi di Casale Monferrato, finora consigliere della nunziatura apostolica in Spagna, ha ricevuto dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, che lo ha ordinato vescovo in una gremita Cattedrale casalese. Una missione, quella di Bianco, che è espressione, come ha sottolineato il porporato nella sua omelia, di una Chiesa che «vive e cresce sulla fresca gioia dell’incontro quotidiano con Cristo» e dove «la gente è gioiosa di trovare Cristo». Ecco perché il nuovo nunzio, come credente in Cristo, ha aggiunto Bertone, è chiamato a «intensificare il senso di appartenenza» a questa Chiesa, a «riscoprire la Chiesa/ istituzione, nella sua organicità e realtà vivente».
Sotto le navate medievali di Sant’Evasio, il duomo di Liutprando e dei Templari, prima del rito di consacrazione del nuovo vescovo, Bertone si è ricondotto a un recente intervento del Papa per ricordare che «il Cristo presente rimane il fondamento della verità del magistero, dell’azione santificante della Chiesa, e della stessa esistenza morale e sociale dei cri- stiani e delle comunità ecclesiali. La Chiesa non ha senso senza questo profondo e indissolubile legame con Cristo, di cui è Corpo e sacramento o segno». Cristo è presente, ha aggiunto, attraverso l’Eucaristia, nella Parola, tra i cristiani uniti nel suo nome. «Ma Gesù risorto è presente anche nei pastori della Chiesa, nella loro 'potestas' – ha aggiunto – che rappresenta quella di Cristo. Dobbiamo sostenere i nostri pastori e pregare per la loro fedeltà, perché sappiano vincere i loro turbamenti, essere dei puri servi di Cristo, esserne i segni». È tanto più importante adesso «riscoprire l’istituzione della Chiesa e le istituzioni della Chiesa che, al di là dei difetti delle persone, ci danno la sicurezza dei doni, della comunicazione della salvezza, l’autenticità della mediazione della Parola e dei Sacramenti, sulla via che conduce alla pienezza della vita». Lo è perché, ha rammentato Bertone, «anche noi, figli della Chiesa, a volte, con il nostro peccato abbiamo impedito che la Chiesa risplenda in tutta la sua bellezza. La nostra poca fede ha fatto cadere nell’indifferenza e allontanato molti da un autentico incontro con Cristo. Ma non cediamo allo scoraggiamento: l’abbraccio che il Padre riserva a chi, pentito, gli va incontro sarà la giusta ricompensa per l’umile riconoscimento delle colpe proprie e altrui. Negli Atti degli Apostoli e nelle vite dei santi troviamo la prova inoppugnabile che la Chiesa cresce come incarnazione di Cristo, nata dalla sua predicazione, dalla sua missione e dai suoi 'segni', che continuano a lievitare il mondo».
Una fiducia, ha sottolineato il segretario di Stato, che dovrà sostenere il nuovo vescovo nelle numerose prove che lo attendono. Bianco proviene dallo stesso paese monferrino di un altro pastore dell’America Latina, monsignor Luigi Lasagna, vescovo e superiore delle missioni salesiane dell’Uruguay e del Brasile. Negli anni della formazione diplomatica non ha mai interrotto il lavoro pastorale («Quando la carità è criterio e misura del sacerdozio, ogni azione diventa servizio al Regno di Dio; e il tempo di un ministero si riempie di infinite possibilità evangeliche, di molti gesti concreti e solidali», ha ricordato Bertone) e questo lo aiuterà non poco giacché in Honduras si confronterà con quelle «attese dei più poveri e degli umili che maggiormente rispecchiamo le beatitudini evangeliche ». Bertone, infine, ha sottolineato che la Chiesa è «da sempre vicina ai bisognosi» e che nel Paese americano questa vicinanza si traduce in numerose opere pastorali e sociali. Cresceranno ancora, ha detto, con l’aiuto di Nostra Signora di Suyapa: alla patrona dell’Honduras è stata affidata infatti la missione diplomatica e pastorale del nuovo nunzio.
Benedetto XVI rivendica la piena cittadinanza della fede nei luoghi dell'educazione e della cultura - La dimensione religiosa rende l'uomo più uomo - L'altissimo numero di quanti scelgono di avvalersi dell'insegnamento della religione dimostra il valore insostituibile che essa riveste nel percorso formativo. Lo ha ribadito il Papa ricevendo sabato mattina, 25 aprile, nell'Aula Paolo VI, gli insegnanti di religione cattolica nelle scuole italiane, accompagnati dal cardinale Angelo Bagnasco. - L'Osservatore Romano, 26 Aprile 2009
Cari fratelli e sorelle,
è un vero piacere per me incontrarvi quest'oggi e condividere con voi alcune riflessioni sulla vostra importante presenza nel panorama scolastico e culturale italiano, nonché in seno alla comunità cristiana. Saluto tutti con affetto, a cominciare dal Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, che ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto, presentandomi questa numerosa e vivace Assemblea. Ugualmente rivolgo un saluto cordiale a tutte le autorità presenti. L'insegnamento della religione cattolica è parte integrante della storia della scuola in Italia, e l'insegnante di religione costituisce una figura molto importante nel collegio dei docenti. È significativo che con lui tanti ragazzi si tengano in contatto anche dopo i corsi. L'altissimo numero di coloro che scelgono di avvalersi di questa disciplina è inoltre il segno del valore insostituibile che essa riveste nel percorso formativo e un indice degli elevati livelli di qualità che ha raggiunto. In un suo recente messaggio la Presidenza della Cei ha affermato che "l'insegnamento della religione cattolica favorisce la riflessione sul senso profondo dell'esistenza, aiutando a ritrovare, al di là delle singole conoscenze, un senso unitario e un'intuizione globale. Ciò è possibile perché tale insegnamento pone al centro la persona umana e la sua insopprimibile dignità, lasciandosi illuminare dalla vicenda unica di Gesù di Nazaret, di cui si ha cura di investigare l'identità, che non cessa da duemila anni di interrogare gli uomini".
Porre al centro l'uomo creato ad immagine di Dio (cfr. Gn 1, 27) è, in effetti, ciò che contraddistingue quotidianamente il vostro lavoro, in unità d'intenti con altri educatori ed insegnanti. In occasione del Convegno ecclesiale di Verona, nell'ottobre 2006, io stesso ebbi modo di toccare la "questione fondamentale e decisiva" dell'educazione, indicando l'esigenza di "allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell'intrinseca unità che le tiene insieme" (Discorso del 19 ottobre 2006: Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 2 [2006], 473; 471). La dimensione religiosa, infatti, è intrinseca al fatto culturale, concorre alla formazione globale della persona e permette di trasformare la conoscenza in sapienza di vita.
Il vostro servizio, cari amici, si colloca proprio in questo fondamentale crocevia, nel quale - senza improprie invasioni o confusione di ruoli - si incontrano l'universale tensione verso la verità e la bimillenaria testimonianza offerta dai credenti nella luce della fede, le straordinarie vette di conoscenza e di arte guadagnate dallo spirito umano e la fecondità del messaggio cristiano che così profondamente innerva la cultura e la vita del popolo italiano. Con la piena e riconosciuta dignità scolastica del vostro insegnamento, voi contribuite, da una parte, a dare un'anima alla scuola e, dall'altra, ad assicurare alla fede cristiana piena cittadinanza nei luoghi dell'educazione e della cultura in generale. Grazie all'insegnamento della religione cattolica, dunque, la scuola e la società si arricchiscono di veri laboratori di cultura e di umanità, nei quali, decifrando l'apporto significativo del cristianesimo, si abilita la persona a scoprire il bene e a crescere nella responsabilità, a ricercare il confronto ed a raffinare il senso critico, ad attingere dai doni del passato per meglio comprendere il presente e proiettarsi consapevolmente verso il futuro.
L'appuntamento odierno si colloca anche nel contesto dell'Anno Paolino. Grande è il fascino che l'Apostolo delle genti continua ad esercitare su tutti noi: in lui riconosciamo il discepolo umile e fedele, il coraggioso annunciatore, il geniale mediatore della Rivelazione. Caratteristiche, queste, a cui vi invito a guardare per alimentare la vostra stessa identità di educatori e di testimoni nel mondo della scuola. È Paolo, nella prima Lettera ai Tessalonicesi (4, 9), a definire i credenti con la bella espressione di theodidaktoi, ossia "ammaestrati da Dio", che hanno Dio per maestro. In questa parola troviamo il segreto stesso dell'educazione, come anche ricorda sant'Agostino: "Noi che parliamo e voi che ascoltate riconosciamoci come fedeli discepoli di un unico Maestro" (Serm. 23, 2).
Inoltre, nell'insegnamento paolino la formazione religiosa non è separata dalla formazione umana. Le ultime Lettere del suo epistolario, quelle dette "pastorali", sono piene di significativi rimandi alla vita sociale e civile che i discepoli di Cristo devono ben tenere a mente. San Paolo è un vero "maestro" che ha a cuore sia la salvezza della persona educata in una mentalità di fede, sia la sua formazione umana e civile, perché il discepolo di Cristo possa esprimere in pieno una personalità libera, un vivere umano "completo e ben preparato", che si manifesta anche in un'attenzione per la cultura, la professionalità e la competenza nei vari campi del sapere a beneficio di tutti. La dimensione religiosa non è dunque una sovrastruttura; essa è parte integrante della persona, sin dalla primissima infanzia; è apertura fondamentale all'alterità e al mistero che presiede ogni relazione ed ogni incontro tra gli esseri umani. La dimensione religiosa rende l'uomo più uomo. Possa il vostro insegnamento essere sempre capace, come lo fu quello di Paolo, di aprire i vostri studenti a questa dimensione di libertà e di pieno apprezzamento dell'uomo redento da Cristo così come è nel progetto di Dio, esprimendo così, nei confronti di tanti ragazzi e delle loro famiglie, una vera carità intellettuale.
Certamente uno degli aspetti principali del vostro insegnamento è la comunicazione della verità e della bellezza della Parola di Dio, e la conoscenza della Bibbia è un elemento essenziale del programma di insegnamento della religione cattolica. Esiste un nesso che lega l'insegnamento scolastico della religione e l'approfondimento esistenziale della fede, quale avviene nelle parrocchie e nelle diverse realtà ecclesiali. Tale legame è costituito dalla persona stessa dell'insegnante di religione cattolica: a voi, infatti, oltre al dovere della competenza umana, culturale e didattica propria di ogni docente, appartiene la vocazione a lasciar trasparire che quel Dio di cui parlate nelle aule scolastiche costituisce il riferimento essenziale della vostra vita. Lungi dal costituire un'interferenza o una limitazione della libertà, la vostra presenza è anzi un valido esempio di quello spirito positivo di laicità che permette di promuovere una convivenza civile costruttiva, fondata sul rispetto reciproco e sul dialogo leale, valori di cui un Paese ha sempre bisogno.
Come suggeriscono le parole dell'apostolo Paolo che fanno da titolo a questo vostro appuntamento, auguro a tutti voi che il Signore vi doni la gioia di non vergognarvi mai del suo Vangelo, la grazia di viverlo, la passione di condividere e coltivare la novità che da esso promana per la vita del mondo. Con questi sentimenti benedico voi e le vostre famiglie, insieme a tutti coloro - studenti e insegnanti - che ogni giorno incontrate in quella comunità di persone e di vita che è la scuola.
(©L'Osservatore Romano - 26 aprile 2009)
Neuro-mania - Il cervello non spiega chi siamo - di Lucetta Scaraffia - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
Non è facile leggere sui giornali un buon articolo di divulgazione scientifica, che cioè non gridi subito alla scoperta sensazionale e non tiri precipitose conclusioni da piccoli passi in avanti nella conoscenza del funzionamento della natura, e soprattutto del corpo umano. Infatti, se manca l'enfasi, o l'apparente novità, dov'è la notizia? Ma questo tipo di divulgazione esasperata - se pure serve a creare effimere celebrità scientifiche e, forse, ad attirare finanziamenti alla ricerca in questione - ha un effetto pericoloso sui lettori, perché li convince che sono stati trovati farmaci miracolosi, o che ogni stato emotivo e mentale dell'essere umano si spiega con la biologia. E crea illusioni che conteranno molto quando si dovranno affrontare questioni che da bioetiche sono diventate biopolitiche, contribuendo a influenzare in modo decisivo la loro idea di essere umano e di vita umana. Come, per fare un esempio, la ricerca sulle staminali embrionali. Proprio per questi rilevanti motivi è di grande interesse la lettura del libro di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà (uno psicologo cognitivo e un neuropsichiatra) intitolato Neuro-mania (Bologna, il Mulino, 2009, pagine 125, euro 9), che passa al vaglio critico proprio quella letteratura divulgativa, oggi tanto diffusa, che si occupa del cervello pretendendo di spiegare il funzionamento della mente umana. E, su questa base, tratta delle nuove ricerche e discipline che tendono ad abusare del prefisso neuro-, una aggiunta che - lo provano ricerche mirate - aumenta la credibilità dell'informazione presso il lettore inesperto. Siamo passati da un eccesso a un altro, scrivono gli autori: se negli anni Settanta ogni comportamento umano veniva spiegato con motivazioni socio-economiche, oggi la stessa cosa avviene con quelle biologiche; la chiave riduttiva è la stessa, ed è dovuta al fatto che le spiegazioni monocausali sono le più efficaci e le più credibili. Tutto però nasce da un reale progresso della ricerca perché oggi, effettivamente, cominciamo a conoscere da vicino le connessioni tra la mente e il corpo. Gli scienziati hanno scoperto che determinate aree presiedono alle funzioni specifiche di un dato compito: come, per esempio, la ricerca visiva di un volto noto, oppure la moltiplicazione mentale di due numeri a una cifra. Naturalmente, in queste operazioni si attivano anche aree "generiche", che presiedono a funzioni comuni a molti compiti, e cioè quelle visive, acustiche, motorie. La divulgazione scientifica, però, tende a mettere in rilievo di volta in volta una sola area, quella privilegiata, e a dare l'impressione che essa sia l'unica deputata a una particolare funzione o, addirittura, che sia la causa di quel determinato effetto psicologico. È nata così l'idea di poter vedere direttamente il cervello al lavoro, che tanto entusiasma i non esperti. Ma si tratta di un'idea fuorviante: ciò che si vede è il risultato di un artificio grafico che trasforma probabilità casuali in colori sovrapposti a una riproduzione schematica del cervello. Ci sono sempre altre funzioni, altri sistemi più complessi e ancora in parte sconosciuti che operano. Ma questo non fa notizia. Si diffondono così sia la certezza che ormai sappiamo tutto sul funzionamento del cervello sia l'idea che gli stati d'animo e le sensazioni mentali siano effetto di processi biochimici. La vita quotidiana sarebbe allora riconducibile a una realtà sottostante di natura biologica, in quanto l'uomo, inteso come corpo, fa parte a pieno titolo della natura. Viene in questo modo legittimata la speranza che se, in futuro, si riuscisse ad analizzare in dettaglio il funzionamento di tutte le parti del corpo umano, avremmo una corrispondenza biunivoca tra quanto scoperto dagli psicologi sperimentali e quanto emerge dall'esame di meccanismi biologici elementari. In altre parole, un unico linguaggio, quello della fisica-chimica e della biologia, sarebbe la spiegazione di tutti i fenomeni conosciuti dell'universo, dal moto dei corpi celesti alle particelle elementari, dal naturale al sociale. Certo, si tratta di un'utopia affascinante. Ma non funziona. Anch'essa è frutto di una moda, nata negli anni Cinquanta per effetto delle scoperte dei fisici. Oggi si vuole imitare il loro metodo di ricerca, riconducendo il complesso al semplice e cercando di ingabbiare il sapere in modelli matematici. Una moda che può perfino indurre a parlare, come è stato scritto recentemente su autorevoli quotidiani, di una neuroteologia: cioè, anche se Dio viene pensato dall'uomo nei modi più diversi, questi avrebbero un prerequisito comune, neuronale. Nasceremmo insomma con un cervello predisposto a credere. È evidente che una divulgazione di questo tipo ha l'effetto di cancellare ogni possibilità di scelta e ogni responsabilità dell'essere umano, e di conseguenza ogni possibilità di evoluzione morale. Anche se non è questo il problema messo a fuoco dai due scienziati, il libro è utile per la sua funzione critica nei confronti di una divulgazione spesso irresponsabile.
(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2009)
Le confessioni di Agostino (e di molti altri) - Quella sottile paura di rinascere - Si è aperto a Foggia, nella cripta della cattedrale, il terzo ciclo della "Lectura patrum Fodiensis" quest'anno dedicata a biografia e autobiografia in età cristiana. L'autore della relazione inaugurale ha sintetizzato per il nostro giornale il suo intervento. - di Marcello Marin - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
L'autobiografia letteraria ha le sue radici nella Bibbia (il prologo del Siracide), l'esempio più illustre nelle Retractationes agostiniane, importanti sviluppi poetici in Gregorio Nazianzeno e Prudenzio. Forte componente apologetica, secondo il modello già fornito nelle lettere di Paolo, ha l'autobiografia poetica del Nazianzeno. Più specificamente incentrate sugli aspetti interiori e tese a descrivere la conversione sono numerose autobiografie cristiane. Spesso il tema autobiografico assume le movenze della confessione del proprio comportamento nei riguardi di Dio (celebrazione di lode, confessione del peccato): questo elemento domina nelle Confessioni di Agostino, l'opera che ha influenzato profondamente tutta la letteratura autobiografica posterioreL'esempio più noto di convertito nel cristianesimo delle origini è certamente Paolo, che più volte nelle sue lettere ricorda la trasformazione da persecutore in apostolo del Cristo e sempre attribuisce questa trasformazione alla elezione divina. Ma solo negli Atti degli apostoli, e per tre volte, il radicale cambiamento di Paolo è collegato all'episodio dell'apparizione del Cristo sulla via di Damasco. Le tre narrazioni concordano nel dare all'avvenimento la funzione di "chiamata" da parte del Cristo, che affida a Paolo la missione di evangelizzatore, e sembrano seguire la falsariga delle vocazioni dei profeti dell'Antico Testamento (in primo luogo Geremia). Manca invece un qualsiasi cenno a crisi interiori o religiose che avrebbero favorito un processo di maturazione psicologica nella conversione di Paolo. A fondamento delle ragioni della conversione, la letteratura apologetica di lingua greca nel ii secolo cerca anche i punti di contatto tra la filosofia greca e la religione cristiana, che proprio per questo motivo dagli apologeti è definita anch'essa una filosofia. Così Giustino, nel Dialogo con Trifone, presenta le varie correnti filosofiche come degradazione dell'unico sapere filosofico e narra il suo personale itinerario di ricerca della verità presso le tante scuole. Infine, l'incontro con un misterioso vecchio gli rivela il messaggio dei profeti come il solo che contiene la verità: non è frutto di uno sforzo umano ma di una rivelazione divina. E su questo annuncio si opera la conversione di Giustino. Altri apologeti in quegli anni sottolineano la forza dei testi dei profeti per la conversione del cuore e della mente che in loro si è compiuta: così Taziano, discepolo dello stesso Giustino, e Teofilo sottolineano la piena armonia di fede e ragione. Un'ultima testimonianza greca ci porta all'autobiografia poetica del Nazianzeno e alla fine del IV secolo. Qui la spinta ad una ulteriore "conversione" dell'autore, cristiano dalla nascita, è favorita da circostanze esterne. Il racconto della traversata per mare da Alessandria d'Egitto verso l'Attica del quasi ventenne Gregorio descrive, in un ripiegamento interiore che non è usuale nella tradizione poetica greca, il rischio di morire in una violenta tempesta - e senza essere stato ancora battezzato - e l'impegno di consacrazione alla vita religiosa, che duplica il voto formulato dalla madre al momento della nascita. L'occidente ha sempre dimostrato più specifico interesse per l'individuo, la sua psicologia, il suo personale percorso esistenziale. In ambito profano, verso la fine del ii secolo, già Apuleio, con il romanzo Le metamorfosi o L'asino d'oro, iniziatico e pseudoautobiografico, segue le tappe di un itinerario spirituale segnato da vicende cruciali: errore del protagonista, infelicità, espiazione, perdono, felicità ritrovata. Nella letteratura cristiana latina un breve racconto autobiografico di conversione, attento alle condizioni interiori, appare nell'Ad Donatum, scritto da Cipriano verso il 246. Ancora prigioniero del paganesimo, Cipriano giace nelle tenebre di una notte cieca, sballottato dall'onda del secolo ancora ignora il senso della propria esistenza. Per descrivere lo stato di smarrimento propone una serie di immagini: alcune più usuali, le tenebre della notte, il mare in burrasca, l'ultima, meno sfruttata dalla letteratura, del moltiplicarsi delle vie con la conseguente incapacità di scegliere. Il suo animo è sollecitato all'esterno da una chiamata e oppresso nell'intimo dalla sfiducia di riuscire a vincere le abitudini contratte con la ricchezza e il grado sociale, associate all'ira, all'ambizione, alla lussuria. Rinascere attraverso il battesimo gli sembra inconcepibile. Ma finalmente riceve l'acqua rigeneratrice del battesimo e lo Spirito; il dubbio e le tenebre fanno posto alla certezza e alla luce. A distanza di un secolo, Ilario di Poitiers presenta in apertura del suo De Trinitate l'elaborazione teorica, molto più avanzata, di un itinerario intellettuale, morale e spirituale che fonde riflessione teologica e approfondimento della Scrittura. Alla condanna della vita umana tesa alla ricerca del piacere, Ilario ha unito il rifiuto del politeismo e delle filosofie che negano la Provvidenza; ha deciso quindi di consacrarsi alla ricerca dell'immortalità e di Dio, infiammato da un desiderio ardente di conoscerlo. Scoperto infine il Dio della Bibbia, passa dall'ansia alla gioia, accetta il battesimo e le responsabilità del sacerdozio. Fra gli abbozzi agostiniani che preludono alla stesura delle Confessioni, si impone l'esordio del De beata vita, che sotto il segno di una prolungata metafora (la traversata pericolosa di un mare in tempesta) offre una sincera confessio. Per linee essenziali, Agostino ripercorre il proprio itinerario interiore dalla scoperta della vocazione filosofica fino alla sua conversione milanese: un navigare lungo e senza meta, avvolto dalle nebbie. Ricorda la lettura dell'Hortensius di Cicerone, l'incontro con i manichei, l'adesione allo scetticismo degli accademici, la scoperta dell'immaterialità di Dio e dell'anima nei discorsi del vescovo Ambrogio e del platonizzante Manlio Teodoro; si rivede ancora trattenuto dagli allettamenti della donna e dalle seduzioni degli onori. La crisi decisiva è descritta sotto la forma di una tempesta, opportuna malgrado le apparenze: un grave dolore al petto gli consente di rinunciare al proprio incarico e di ricondurre la nave, sia pure tutta squassata, alla desiderata quiete. Nelle Confessioni ogni sottolineatura è sulla valenza della parola confessio. Agostino "lavora" parole e immagini per trarne una comunicazione quanto più evidente: come non ha esitato a proclamare (profiteri) agli uomini le sue assurde convinzioni ai tempi della fede manichea, così vuole confessare (confiteri) la misericordia divina che lo ha tratto dall'abisso. Con un naturale passaggio la confessio si tramuta in preghiera a Dio, che ci protegga e ci porti con sé: allontanàti da Dio, il nostro bene, siamo diventati cattivi; è tempo che ci volgiamo al Signore, per non essere travolti. L'uomo che volta le spalle a Dio si condanna alla debolezza e alla malvagità, l'uomo che a Dio si volge si salva dalla rovina e dalla perdizione. Dalla aversio da Dio, l'allontanamento che si compie nell'erranza, nasce la conversio a Dio, il tornare a cercare che rivela Dio presente nel cuore di chi a lui si confessa. È il Signore che torna a girare Agostino verso se stesso, perché possa riconoscere quanto nello sviamento sia diventato brutto e deforme, macchiato e piagato: messo a forza davanti ai propri occhi, Agostino scopre la malvagità dei suoi comportamenti, delle sue scelte esistenziali. Ma per quanto vicino alla decisione, il peggio inveterato continua ad avere su di lui maggior potere del meglio inusitato. E quanto più si avvicina l'istante della decisiva trasformazione, tanto più spavento gli incute: lo trattengono le futilità più futili e le vanità più vane, vecchie amiche che ripetutamente gli confidano a quante piacevoli abitudini, a quali turpitudini dovrà rinunciare, e in eterno. Le uniche parole dirette che Agostino pronuncia nella contesa fra la Consuetudo e la Continentia - "Ecco, adesso è il momento, adesso è il momento" - rivelano insieme urgenza e irresolutezza, il desiderio più che una decisione. Il cammino spirituale che dalla iniziale aversio riconduce a Dio nella conversio è duro e difficile: perché la conversione è una scelta operativa che va continuamente ribadita, è un punto di partenza che si rinnova costantemente fra i cedimenti, le tentazioni, le lotte interiori.
(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2009)
L'essenza del cristianesimo - Calcolo o gratuità? - "Benedetto XVI e l'essenza del cristianesimo" è stato il tema di un dibattito tenutosi a Catania il 20 aprile per iniziativa della Fondazione Sant'Agata e del Centro Culturale di Catania. Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi che l'autore, docente di Filosofia del diritto nell'ateneo catanese, ha scritto per "L'Osservatore Romano". - di Pietro Barcellona - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
In occasione delle dispute sugli interventi del Papa durante il viaggio in Africa e in altre occasioni che hanno visto muoversi persino le diplomazie e i governi europei, il commento più diffuso ha fatto riferimento a uno scontro tra l'Europa laica e il mondo cristiano, rappresentato dal Pontefice; e ha visto interloquire non solo intellettuali, ma, fatto a mio parere inaudito, anche istituzioni politiche. L'attacco alla figura del Papa mi sembra un dato obiettivo. Tuttavia ritengo suscettibile di pericolosi rischi di strumentalizzazioni politiche ridurre il problema implicato in questa vicenda alla pura circostanza di una supposta indebita ingerenza del potere religioso nelle vicende legislative dell'attività normativa dei governi e dei parlamenti europei. Chi ha risposto sul terreno della legittimità formale degli interventi del Papa non ha colto, a mio parere, la vera questione implicata in questa vicenda, apparentemente suscitata da occasioni contingenti come il viaggio in Africa. La questione del rapporto tra "sfera del divino e mondo profano" è, infatti, a mio parere, nell'epoca cruciale che stiamo vivendo, anzitutto una questione antropologica che non riguarda lo statuto di una particolare religione istituita. Il vero profondo attacco, che una parte della cultura dominante nel mondo occidentale sta portando alla sacralità della vita e della morte, è anzitutto un attacco all'uomo, nella sua specifica costituzione di essere libero e responsabile, attacco inteso a mettere in crisi i connotati della "soggettività spirituale" che ne hanno accompagnato la vicenda storica. Mi riferisco, per essere esplicito, all'equivalenza che le neuroscienze, nella loro visione riduzionistica, stanno cercando di stabilire tra il funzionamento della mente umana - e delle forme della coscienza - e le relazioni "meccaniche", che presiedono allo scambio di informazioni nel mondo vivente non umano - tra ogni organismo e l'ambiente. L'attacco all'uomo riguarda, a mio parere, questa diffusa tendenza a ridurre il funzionamento di ogni "soggettività pensante" a una pura macchina computazionale, fondata su automatismi neuronali e fisiologici. Il problema posto dal Papa sulla questione della possibilità di intervenire, attraverso tecniche manipolative, interventi protesici, modificazioni chimiche ed elettriche, sulle funzioni vitali della psiche non riflette per nulla la concezione del Dio a cui fanno riferimento i vari monoteismi, ma piuttosto la stessa "pensabilità dell'uomo" in quanto insorgenza soggettiva che si pone di fronte a una trascendenza, che in definitiva impone di scegliere fra l'empietà e l'amore. Non si può, a mio parere, pensare la libertà dell'uomo senza porlo di fronte all'immagine di un Dio che può apparire ingiusto e vendicativo, come a Giobbe abbandonato, oppure misericordioso e amorevole, come alle recentissime riflessioni di Julia Kristeva. La libertà dell'uomo non è compatibile con l'indifferenza verso il sacro e il divino, per questo ritengo che l'epoca che stiamo vivendo sia apocalittica nel senso fecondo della trasformazione, perché ormai, dopo la cosiddetta morte di Dio, è evidente che la posta in gioco è diventata la stessa possibilità di pensare l'uomo oltre ogni determinismo neurofisiologico e neurobiologico. Se l'uomo è un puro caso dell'evoluzione naturale non ha neppure senso aprire le discussioni su cui ci stiamo misurando. La domanda sull'uomo inoltre non può non essere costitutivamente legata alla consapevolezza del suo essere mortale, allo scarto incolmabile fra la finita caducità e l'eterna immutabilità. Il "chi sono io", che inaugura la riflessione della grande filosofia greca, non avrebbe senso se non venisse tradotto subito nella domanda: "Perché vale la pena vivere" se poi un'oscura Onnipotenza mi ha condannato alla morte e al dolore? Nessuno può dimenticare che l'uomo greco si è interrogato sul valore stesso del venire al mondo e ha subito il trauma mentale e psichico del dubbio che sia meglio non essere mai nati. Nessuna equivalenza tra organismo vivente umano e ambiente esterno potrà mai cancellare l'angoscia del pensatore greco che è giunta a noi, attraverso i secoli e attraverso i poeti e i filosofi, nelle parole strazianti di Giacomo Leopardi: è funesto a chi nasce il dì natale. In questo grumo irrisolto dell'esistenza di ciascuno avvengono lo scontro e il conflitto con il Dio di cui non si riesce ad afferrare il "volto". Dio è anche lo spazio di un conflitto passionale fra la ripulsa e la rivolta e l'accettazione fiduciosa in una risposta che "salva". In questo tessuto antropologico-esistenziale si è innestato il tema delle religioni e dei monoteismi istituiti. La grande tradizione biblica veterotestamentaria ha progettato la via di un contratto fra Dio e il suo popolo. Mosè è stato il mediatore del patto. Se osserverai i miei comandamenti la tua vita sarà salvata. Si è aperta così una storia di "negoziazione" fondata, in definitiva, su un calcolo di convenienza, la ragione strumentale di cui parlavano i francofortesi, che ha continuamente rinviato il momento del bilancio, producendo normative pratiche "per la buona vita": chi metterà a frutto i mezzi ricevuti avrà il premio del risultato. Ma la logica del premio è una logica dell'utile e il distacco tra divino e umano cresce in rapporto all'avidità delle convenienze di chi chiede salvezza offrendo prestazioni. A mio parere, questa storia si è consumata nelle guerre di religione, nella violenza in nome di Dio, nella Shoah che, non a caso, ha sconvolto il Papa durante la visita ai campi di sterminio: dov'era Dio mentre gli uomini divenivano carnefici dei propri fratelli? Per queste ragioni penso che Cristo rappresenti un "mutamento di paradigma" radicale nel rapporto fra il divino e l'umano. Sebbene i patti siano da osservare, secondo i canoni delle leggi, nessun patto è immune dalla sua trasgressione e, per certi versi, la evoca continuamente. Cristo sostituisce al Patto, la Comunione, e cioè l'incontro nella stessa persona dell'umano e del divino in una configurazione delle differenze che non distrugge l'unicità del contenitore: la Persona. Nella comunione non si attua uno "scambio", ma si compie un atto di amore. L'amore è un evento non deducibile da nessuna legge scritta, ma da un'emergenza esistenziale che determina un'attrazione fatale tra due forme d'essere differenti. Tutto viene spostato dal calcolo utilitaristico all'unione amorevole delle differenze, nell'assoluta gratuità dell'incontro. Ermanno Olmi alla domanda del giornalista - chi è Dio per te ? - risponde: "Il fiato di Gesù che mi soffia sul collo". Questo fiato è il vento dell'inquietudine contemporanea di fronte al dubbio, che anch'io avverto, sia si tratti di un sogno sia di un'allucinazione. Al punto in cui siamo giunti, però, al paradosso, questo sogno è forse per l'umanità il più realistico dei progetti di pacificazione. Scrive Raimon Panikkar in Lo spirito della parola: "Dopo due millenni di cristianità/cristianesimo, dopo l'esperienza storica delle guerre di religione e nella attuale condizione dell'umanità, non dovrebbe forse la comunità cristiana essere pronta a leggere "i segni dei tempi" e ricevere lo Spirito che penetra e rinnova tutto e scopre che il messaggio del Nazareno è il solo "realistico" per la sopravvivenza? È comprensibile come un tale compito non possa essere il lavoro di gretti controinquisitori o di grandi individualità". Spero che questo realismo non sia confuso con il pacifismo di moda, né riproduca un ennesimo fondamentalismo unilaterale a favore di un Dio gerarchicamente superiore a un altro, ma che, nella micidiale congiuntura in cui ci troviamo, ridia fiato a quanti pensano che non siamo destinati a essere soppiantati dall'intelligenza artificiale delle "macchine artificiali".
(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2009)
Dalla prossima visita del Papa verranno progressi nel processo storico di riconciliazione
Cattolici ed ebrei per la pace in Terra Santa - di David Rosen Gran rabbino, presidente dell'«International Jewish Committee for interreligious consultations», direttore internazionale per gli affari interreligiosi dell'«;American Jewish Committee» - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
Il 12 marzo scorso Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i delegati del Gran Rabbinato d'Israele e della Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo. Il Papa ha espresso la speranza che la sua visita in Israele rafforzi i rapporti fra cattolici ed ebrei e inoltre promuova la pace nella regione. Tutte le persone di buona volontà pregano con fervore affinché quest'ultima speranza si realizzi. Tuttavia, senza dubbio, la sua visita renderà di fatto più intenso il processo storico di riconciliazione tra cattolici ed ebrei, e non solo perché il Papa dimostrerà buona volontà ai circa sei milioni di ebrei che risiedono oggi in Terra Santa. Benedetto XVI ricalcherà le orme del suo grande predecessore, sia letteralmente sia figurativamente. Giovanni Paolo II, l'eroe della riconciliazione fra cattolici ed ebrei nei nostri tempi, comprese appieno che la visita di un Papa in Israele rivestiva in sé un significato speciale per la riconciliazione fra ebrei e cristiani. Già nella sua Lettera apostolica Redemptionis anno, pubblicata il 20 aprile 1984, Venerdì Santo, Giovanni Paolo II parlò della "terra che chiamiamo santa" riferendosi al significato che Gerusalemme ha per cristiani, musulmani ed ebrei. Per quanto riguarda questi ultimi scrisse: "per gli ebrei essa è oggetto di vivo amore e di perenne richiamo, ricca di numerose impronte e memorie, fin dal tempo di David che la scelse come capitale e di Salomone che vi edificò il tempio. Da allora essi guardano, si può dire, ogni giorno ad essa e la indicano come simbolo della loro nazione". Queste frasi penetranti riflettono la comprensione di Giovanni Paolo II non solo del significato storico, ma anche di quello religioso ed esistenziale della terra di Israele per il popolo ebraico. Gli ebrei "guardano" e tre volte al giorno si piegano in preghiera verso Israele, se sono in diaspora; verso Gerusalemme, se si trovano in Israele. Se sono a Gerusalemme si rivolgono al Monte del Tempio, il luogo che l'Onnipotente ha scelto "per stabilirvi il suo nome" (Deuteronomio, 12, 5-11). Il legame religioso fra la Terra Santa e la Città Santa è una parte integrante e ineliminabile del calendario religioso e della celebrazione liturgica ebraici. Ciò riflette semplicemente che il mandato biblico di essere "un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Esodo, 19, 6) esige che le persone vivano questo paradigma idealmente "come i giorni del cielo sopra la terra, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro" (Deuteronomio, 11, 21; cfr. Esodo, 6, 4-8). Infatti, tutto il racconto biblico è indissolubilmente legato alla terra. L'esilio da essa è visto non solo come un'umiliazione, ma anche come una "profanazione del nome divino". Di conseguenza, il ritorno alla terra non è considerato solo come elemento essenziale della missione universale di Israele, ma anche come la santificazione del nome divino stesso (Ezechiele, 36, 23). Questa centralità della città e della terra nella coscienza ebraica ha portato a una notevole autoidentificazione con esse, che si riflette in particolare nei profeti e specialmente nel libro di Isaia, in cui la popolazione è spesso descritta come "figlia di Sion" e persino come "Sion" stessa. Il passaggio nella liturgia del mattino del Sabbah "Abbi misericordia di Sion perché essa è la dimora della nostra vita" riflette questa identificazione. Le osservazioni di Giovanni Paolo II nella Redemptionis anno rispecchiano quest'idea, secondo cui per gli ebrei Gerusalemme e la Terra Santa non sono solo il punto focale storico, ma anche il "segno" della loro identità. Purtroppo, per la maggior parte della tragica storia dei rapporti fra cattolici ed ebrei, questo vincolo religioso ed esistenziale fra il popolo d'Israele e la Terra promessa è stato visto dalla cristianità come qualcosa di obsoleto, ormai privo di legittimità e validità. Di fatto l'idea stessa del ritorno del popolo ebraico in quella terra e del ripristino lì della sovranità è stata considerata spesso un anatema. Lo storico documento del concilio Vaticano ii Nostra aetate ha respinto l'idea che il popolo ebraico sia stato rifiutato da Dio e ha affermato che l'alleanza divina con il popolo d'Israele è eterna. Tuttavia, allo stesso tempo, la Santa Sede non ha riconosciuto il ritorno di una vita ebraica indipendente nel ripristinato Stato di Israele e il popolo ebraico (e credo anche il mondo cattolico) ha percepito che la Chiesa aveva ancora un "problema" con la sovranità ebraica in Terra Santa e a Gerusalemme. È interessante quanto raccontato dall'arcivescovo Loris Capovilla, che fu segretario di Giovanni xxiii. Il Pontefice, una volta affrontato il rapporto della Chiesa con il popolo ebraico - cosa avvenuta nella Nostra aetate - avrebbe voluto riconoscere ufficialmente lo Stato di Israele. Il Papa, però, non visse tanto da assistere alla promulgazione della Nostra aetate stessa ed eventi di carattere principalmente politico causarono un ritardo di altri ventotto anni nella normalizzazione di questi rapporti bilaterali. Il documento pubblicato nel 1985 dalla Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo, intitolato Note sul modo corretto di presentare gli ebrei e l'ebraismo nella predicazione e nel catechismo della Chiesa cattolica romana, basato sulla Nostra aetate, ha definito la persistenza di Israele "un fatto storico e un segno da interpretare nell'ambito del disegno di Dio". Il documento afferma che "la storia d'Israele non è terminata nel 70 a.d., è proseguita, in particolare in numerose comunità della diaspora che hanno permesso a Israele di recare al mondo intero una testimonianza, spesso eroica, della sua fedeltà all'unico Dio e di "esaltarlo alla presenza di tutti i viventi" (Tobit, 13, 4), mantenendo al contempo il ricordo della terra dei loro predecessori al centro della propria speranza (ossia Passover Seder)". Il documento aggiunge che "i cristiani sono invitati a comprendere questo attaccamento religioso, che affonda le proprie radici nella tradizione biblica". Di conseguenza, la promessa della terra è un aspetto essenziale di questa alleanza sempre valida, cosicché si riconosce che il rapporto fra il popolo ebraico e la terra d'Israele ha origine "nella tradizione biblica". Quindi è presentato come un aspetto della fede cristiana da esporre come tale nell'insegnamento e nella predicazione cattolici. Come ha affermato Eugene Fisher, allora responsabile per i rapporti fra cattolici ed ebrei nella Conferenza episcopale degli Stati Uniti, "l'importanza teologica e, di fatto, dottrinale di quest'affermazione non va dunque sottovalutata". Trascorsero altri otto anni prima che il riconoscimento si concretizzasse. Soprattutto grazie alla guida e all'impegno di Giovanni Paolo II, alla fine del 1993, la firma dell'Accordo fondamentale favorì pieni rapporti fra la Santa Sede e lo Stato d'Israele. Questo, a sua volta, rese possibile nell'anno 2000 lo storico pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa, che ebbe un enorme impatto. Uno degli aspetti caratteristici del pontificato di Giovanni Paolo II è stata l'abilità di trasmettere su vasta scala messaggi che fino a quel momento erano stati presenti soltanto negli insegnamenti e nei documenti del magistero. Lo ha fatto soprattutto comprendendo e utilizzando il potere del messaggio visivo. È stato il caso della sua visita alla Sinagoga di Roma nel 1986 e ancora di più della sua visita in Israele. La maggior parte degli ebrei israeliani e, in particolare, dei più osservanti e tradizionalisti, non ha mai conosciuto un cristiano moderno. Queste persone, quando viaggiano all'estero, incontrano i non ebrei solo come tali, raramente come cristiani. Quindi traggono l'immagine prevalente che hanno del cristianesimo da un passato tragico e negativo. La visita papale in Israele ha aperto loro gli occhi di fronte a questa realtà nuova. Non solo la Chiesa non è stata più considerata ostile al popolo ebraico, ma il suo capo è stato visto come un amico sincero! Su un ampio settore della società israeliana ha avuto un impatto profondo vedere il Papa allo Yad Vashem, memoriale della Shoah, in lacrime di solidarietà con il dolore degli ebrei; apprendere in che modo egli stesso aveva contribuito a salvare ebrei in quel tempo terribile e poi come sacerdote aveva restituito i bambini ebrei protetti in case cristiane alle proprie famiglie ebree; vedere il Papa lasciare presso il Muro Occidentale, in rispettosa riverenza per la tradizione ebraica, il testo della preghiera che aveva composto per la giornata penitenziale celebrata il 12 marzo nella basilica di San Pietro, in cui implorava il perdono divino per i peccati commessi contro gli ebrei nel corso dei secoli. Non da ultimo, anche se è stata descritta come pellegrinaggio, quella del Papa è stata pur sempre una visita di stato, con il relativo cerimoniale, e ha affermato il rispetto della Santa Sede per l'espressione contemporanea dell'indipendenza e dell'integrità ebraiche che sono legate indissolubilmente all'identità ebraica in tutto il mondo. La visita di Giovanni Paolo II ha anche ottenuto un altro importante risultato, quando, durante l'incontro con il Rabbino Capo e il Consiglio del Gran Rabbinato d'Israele, il Papa ha proposto l'istituzione di una speciale Commissione bilaterale per il dialogo fra la Santa Sede e il Gran Rabbinato, che a tempo debito è stata creata e svolge incontri annuali, alternativamente a Roma e a Gerusalemme. Negli ultimi otto anni, l'opera della Commissione presieduta dal rabbino capo Shera Yashuv Cohen e dal cardinale Jorge María Mejía ha condotto molte persone dell'ambiente rabbinico israeliano a un apprezzamento autentico della guida e dell'insegnamento dei cattolici e all'amicizia con essi. Questa Commissione coinvolge persone che fanno da cassa di risonanza e influenzano le percezioni e gli atteggiamenti di molte altre. Le immagini che lentamente giungono alla società israeliana grazie a questo incontro e a questa collaborazione sono molto importanti per la promozione del processo educativo volto a un maggior rispetto e a una maggiore comprensione reciproci. È stato grazie a questa Commissione, ricevuta da Benedetto XVI il 12 marzo, che si sono riaffermati i vincoli speciali della fede cattolica con il popolo ebraico e si è reiterato l'impegno profondo della Santa Sede nel continuare a promuovere il rapporto fra cattolici ed ebrei. Visitando Israele ed esprimendo il rispetto della Santa Sede per lo Stato ebraico, rafforzando l'impatto della visita pionieristica del suo predecessore, senza dubbio Benedetto XVI farà progredire ulteriormente il processo storico di riconciliazione fra ebrei e cattolici. Preghiamo affinché la sua visita possa anche promuovere l'altro obiettivo, prefissato dal Papa, della promozione della pace e della riconciliazione fra le popolazioni e le fedi in Terra Santa e in tutto il Medio Oriente.
(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2009)
25 Aprile 2009 - L'INEDITO - La «regola» di Wojtyla per le coppie di sposi - Avvenire, 25 aprile 2009
«Sorgente, dove sei?». La domanda contenuta in un verso del Trittico Romano, l’ultima fatica poetica di Giovanni Paolo II negli ultimi suoi anni, è sta-ta la chiave di lettura della ricerca sulla spiri-tualità familiare che ha accompagnato tutta la vita del Pontefice. Ed è risuonata ieri alla Pon-tificia Università Lateranense nei ricordi di co-loro che, durante gli anni giovanili vissero con lui l’esperienza di Srodowisko, l’Ambiente, un gruppo di giovani studenti e professori uni-versitari che avevano in lui, viceparroco di San Floriano, chiamato Wujek, lo zio - un punto di riferimento.
Sono emerse ieri presso la sede dell’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia durante la presentazione, organiz-zata dalla Cattedra Wojtyla, di un volume con-tenente tre inediti, due in prima traduzione i-taliana, l’altro in assoluto. È una «regola» di vi-ta per gruppi di coniugi ispirata all’enciclica di Paolo VI Humanae Vitae (ne riferiamo nel box a lato). Risale alla fine dei Sessanta, ma trae lo spunto dal vissuto dei vent’anni precedenti nella Polonia comunista e lo attualizza alla vi-sione della contestata enciclica. L’Ambiente e altre esperienze analoghe sono state definite dal presidente del Pontificio Consiglio per i lai-ci, cardinale Stanislaw Rylko, moderatore del-la mattinata, «strumenti di formazione uma-na e cristiana straordinariamente efficaci», la cui chiave stava, e sta, nell’amore come «cam- mino di santità da percorrere».
Alla ricerca di una sorgente spirituale, ma anche di tante sor-genti di montagna incontrate nelle tante e-scursioni compiute da Wujek e dai suoi. Sull’importanza di una regola per un amore che vada al di là della sola emozione e diventi responsabilità per l’altro e per la società ha in-sistito in apertura il preside dell’Istituto, mon-signor Livio Melina. Tale regola non può es-serci senza spiritualità e cioè senza che la re-lazione sentimentale tragga linfa dal proprio «anelito profondo». «L’amore non può sop-portare una precettistica imposta dall’ester-no », ha ricordato Melina. E, infatti, in quasi tutti gli interventi della mattinata è emerso co-me la visione della spiritualità coniugale del futuro Giovanni Paolo II nascesse dall’espe-rienza concreta con fidanzati e sposi.
Quelli che lui accompagnava nel cammino verso l’al-tare. E con i quali, a partire dagli anni di sno-do fra i Quaranta e i Cinquanta, si incammi-nava per lunghe escursioni: i celebri tour a ba-se di tende, bivacchi, canoe, canti e tanta pre-ghiera. Erano gli albori di un modello di pa-storale giovanile e familiare che, grazie anche al ruolo storico giocato dal Papa polacco, a-vrebbe fatto scuola nel mondo. Matrimonio e famiglia erano e sono «gli ulti-mi baluardi della libertà dell’uomo e della so-cietà », ha ricordato il direttore della Cattedra Wojtyla, Stanislaw Grygiel, il quale ha delineato l’humus religioso e culturale della Cracovia del tempo. Che ha forgiato testi di riflessione ai quali finora non era stata «dedicata sufficien-te attenzione».
Dai quali però emerge l’im-portanza di una famiglia basata su un legame di fedeltà e di apertura a Dio. Senza il quale la coppia è facile preda di tre tentazioni perico-lose: «edonismo, estetismo, cioè ricerca della sola bellezza esteriore, e utilitarismo». Succu-be dello scientismo. Con una società dominata dall’ideologia co-munista, ma anche con una modernità che spacciava per progresso elementi distruttivi della famiglia, come l’aborto, hanno avuto a che fare anche altri due Servi di Dio che ac-compagnano il connazionale Pontefice nel cammino verso gli altari. Significativamente sono un vescovo e un laico: Jan Pietraszko e Jerzy Ciesielski. La figura del primo - che il più giovane Wojtyla, divenuto arcivescovo, trovò come ausiliare a Cracovia - è stata ricostruita da Ludmila Grygiel. Pietraszko, da tempo im-pegnato nella pastorale con gli scout e gli uni-versitari in organizzazioni che conobbero la repressione del regime, fu colui che introdus-se il confratello destinato a ben altri incarichi alla comprensione del mondo giovanile. Gio-vanni Paolo Il lo definì suo «maestro» e lui stes-so parlava di sé come di un «dissidente evan-gelico », ha ricordato la studiosa, a connotare la dimensione di un impegno che andava ben al di là della mera critica politica al comunismo.
La vedova dell’ingegnere Ciesielski, morto tra-gicamente con due figli in un naufragio sul Ni-lo nel 1970, ha delineato un profilo del mari-to. E soprattutto dello 'zio' Karol: «Ancora og-gi non riesco a capire come ce la facesse a tro-vare il tempo necessario per i colloqui con noi. Chiariva, suggeriva, conduceva, senza mai co-stringere a prendere una determinata deci-sione. Quello toccava a noi». Nelle famiglie di origine, in quelle nuove, nel lavoro. E in quel gruppo giovanile molti decidevano per il «sì» definitivo. Lo ha ricordato la musicologa Tere-sa Malecka, che ha testimoniato di un legame con il connazionale durato tutta la vita. « Wujek è stato sempre presente e certamente lo è tut-tora con la preghiera che cerchiamo di ricam-biare ».
Gianni Santamaria
LA VICENDA DELLA GIOVANE ROM DI MILANO - L’etnia non è un destino Riscossa da scuola e amicizia - DAVIDE RONDONI - Avvenire, 25 aprile 2009
S chiavitù a Milano. Dove ci sono i negozi belli. Le fiere. Le belle borsette.
Schiavitù. A Milano c’è. Non è l’immagine usata da un sociologo. O da uno scrittore pessimista. No, è il verbale di un magistrato che ha arrestato per riduzione in schiavitù un numeroso clan familiare rom. Dovrebbe arrivarci in petto come una pugnalata. Tanto più se la vittima è una ragazza, ora di 19 anni, ma che negli anni scorsi è stata obbligata dal clan a cui appartiene a rubare. Schiavitù.
Niente di meno. Invece delle catene, su di lei botte e terrore. Che sono catene peggiori. Più vili. E più orrende, se possibile, quando vengono buttate addosso al corpo di una ragazza nata a Zagabria con l’unica colpa di essere rom, secondo l’accezione che di questa parola viene data, dal padre e dagli zii e dal cerchio dai parenti, con la connivenza della madre. Un cerchio che la teneva legata a quello che una ragazza come lei doveva fare, secondo loro. Come se tutti i rom dovessero per forza rubare, cosa che non è vera. Ma usata per rubare. Per fare quello che talora vediamo fare in giro nelle nostre città, nei negozi, nelle chiese, e anche negli ospedali.
Come se l’etnia fosse un destino. Ma lei in Germania dove era stata fino a qualche anno fa aveva avuto la possibilità di andare a scuola.
E non le andava invece che a Milano no, non poteva andare con gli altri ragazzi come lei a scuola, e doveva rubare. E allora la ragazza ha avuto la forza di rompere il cerchio denunciando tutto alla polizia. Che con discrezione e determinazione ha portato in fondo la faccenda. E ha arrestata questa famiglia di schiavisti. La scuola può fare anche questo. L’essere andata un po’ a scuola ha fatto in modo che questa ragazza immaginasse per sé un mondo diverso da quello che le stavano cucendo addosso gli schiavisti. La scuola può fare del bene anche senza fare chissà che. Così, solo imparando un po’ di cose, e facendo vedere ai ragazzi che nella vita si può migliorare. La scuola può fare molto anche senza accorgersene. Se ai ragazzi è permesso andarci. Se anche ai ragazzi che appartengono a questi gruppi etnici è permesso andare. È un bene dunque - anche per questi - che tra il nostro governo e l’Opera dei migranti stiano avanzando gli accordi per favorire gli inserimenti a scuola dei ragazzini rom in Italia. La scuola può fare molto anche senza fare cose speciali, essendo scuola e basta. Le cronache dicono che ad incoraggiare la ragazza al gesto che l’ha liberata dalla schiavitù è stata anche l’amicizia con un ragazzo italiano che cura un orto vicino al campo dove stava l’orrido clan.
Fa tenerezza e fa tremare questa storia di ragazzi. Sembrerebbe una scena da romanzo dell’ 800. Invece è oggi, è cronaca, è botte e catene, schiavitù vera. E riscossa vera.
L’amicizia e la scuola possono fare molto. La scuola da sola forse non può fare tutto. Per rompere la schiavitù ci vuole un amico. Ma la scuola offerta ai ragazzini è una grande risorsa. Sia per gli italiani che per quelli che lo possono diventare lasciandosi alle spalle antiche e nuove schiavitù. La vicenda della ragazzina che ha rotto le catene va raccontata nelle nostre scuole. E se la nostra televisione che si vorrebbe più alleata della scuola la raccontasse farebbe una cosa giusta, e bellissima.
La storia della ragazza che ha rotto le catene va raccontata nelle nostre classi. E in tv.
Fine vita, i medici cattolici: sì all’alleanza terapeutica - La presidenza Amci: dovute idratazione e alimentazione agli stati vegetativi - DA MILANO ENRICO NEGROTTI - Avvenire, 25 aprile 2009
Sostegno al manifesto «Liberi per vivere», difesa dell’alleanza terapeutica nel fine vita, apprez-zamento per il punto di equilibrio raggiunto con la legge 40 in relazione alle pratiche di fecondazione assistita. Sono gli argomenti che l’ufficio di presidenza dell’Associazione dei medici cattolici italiani (Amci) riunitosi a Roma ha discusso per far sentire la propria voce su temi di grande attualità: la campagna per la difesa della vita, il disegno di legge sul fine vita, l’at-tuazione della legge sulla procreazione assistita do-po l’intervento della Corte Costituzionale. Il presi-dente nazionale Vincenzo Saraceni, il segretario na-zionale Franco Balzaretti, insieme con i tre vicepre-sidenti nazionali Chiara Mantovani (Nord), Stefano Ojetti (Centro) e Aldo Bova (Sud) hanno sottoscritto un documento, «a nome delle 133 sezioni diocesane», che ribadisce la propria adesione al manifesto «Li-beri per vivere»: l’Amci, assicurano i suoi dirigenti na-zionali, «non farà mancare la propria operosa colla-borazione al progetto culturale che mira a diffonde-re capillarmente nel nostro Paese le conoscenze scien-tifiche ed etiche necessaria per affrontare realistica-mente e ragionevolmente le questioni bioetiche og-gi più dibattute». E sul tema specifico del fine vita, la presidenza na-zionale dell’Amci ripete, «nell’attuale circostanza so-ciale e politica», «il proprio impegno di «carità pro-fessionale» nella cura competente e amorevole alla persona ammalata e - sottolinea il documento - re-puta il disegno di legge sul fine-vita, approvato dal Se-nato (ddl Calabrò, ndr), un prezioso strumento per continuare un lavoro che vede nella alleanza tera-peutica tra il paziente e il medico il modello di ogni relazione sanitaria». Riguardo al dibattito circa l’ali-mentazione e l’idratazione ai pazienti in stato vege-tativo, la presidenza nazionale dell’Amci aderisce fe-delmente alle indicazioni fornite dalla Congregazio-ne per la dottrina della fede nel 2007 in risposta a due quesiti posti da alcuni vescovi americani: «La som- ministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e propor-zionato di conservazione della vita. Essa è quindi ob-bligatoria, nella misura in cui e fino a quanto dimo-stra di raggiungere la finalità sua propria, che consi-ste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del pa-ziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la mor-te dovute all’inanizione e alla disidratazione».
Altro tema che negli ultimi anni è stato al centro del dibattito bioetico è quello della fecondazione assi-stita. «L’Amci sottolinea con forza - ricorda il docu-mento della presidenza nazionale - la fondamenta-le importanza del riconoscimento della preziosità in-dividuale e sociale della vita umana sin dal suo esor-dio e della piena soggettività dell’embrione umano». Inoltre «l’Amci riconosce che la legge 40 ha rappre-sentato il punto più avanzato di sintesi delle diverse sensibilità culturali presenti nel Paese» e «ritiene che non debbano essere messi in discussione gli articoli che vietano il congelamento degli embrioni umani, la loro selezione a seguito di diagnosi pre-impianto e la destinazione degli embrioni crioconservati alla sperimentazione». Tenendo conto della recente sen-tenza della Corte Costituzionale, l’Amci «invita le for-ze politiche alla massima cautela e a tener conto del-le più recenti evidenze scientifiche in materia di ini-zio della vita le quali, in relazione alla analisi di una vastissima mole di dati, provenienti dalla genetica, dalla biologia cellulare e molecolare e dalla embrio-logia, consentono di affermare con ragionevole cer-tezza che il processo di fertilizzazione costituisce l’i-nizio alla esistenza di un nuovo organismo della spe-cie umana, quale ciascuno di noi è, cui è dovuto il ri-spetto riservato ad ogni persona umana».
1) 26/04/2009 11.37.49 – Radio Vaticana - Benedetto XVI durante la cerimonia di canonizzazione di 5 beati: "Questi nuovi Santi ci mostrano il rinnovamento profondo che nel cuore dell’uomo opera il mistero della risurrezione di Cristo" - La luce del volto di Cristo risorto risplende oggi attraverso i tratti evangelici di cinque nuovi Santi: Arcangelo Tadini, Bernardo Tolomei, Nuno de Santa Maria Alvares Pereira, Gertrude Comensoli e Caterina Volpicelli. Alla cerimonia di canonizzazione, presieduta da Benedetto XVI in Piazza San Pietro, hanno partecipato pellegrini e fedeli provenienti da varie nazioni. Al Regina Coeli, il Papa ha poi sottolineato che i nuovi Santi aiutano a meditare sull'opera salvifica di Cristo.
2) Luigi Bianco, pastore accanto agli ultimi - Ieri sera a Casale Monferrato il cardinale Bertone ha ordinato il nuovo nunzio apostolico in Honduras - DAL NOSTRO INVIATO A CASALE MONFERRATO - PAOLO VIANA – Avvenire, 26 Aprile 2009
3) Benedetto XVI rivendica la piena cittadinanza della fede nei luoghi dell'educazione e della cultura - La dimensione religiosa rende l'uomo più uomo - L'altissimo numero di quanti scelgono di avvalersi dell'insegnamento della religione dimostra il valore insostituibile che essa riveste nel percorso formativo. Lo ha ribadito il Papa ricevendo sabato mattina, 25 aprile, nell'Aula Paolo VI, gli insegnanti di religione cattolica nelle scuole italiane, accompagnati dal cardinale Angelo Bagnasco. - L'Osservatore Romano, 26 Aprile 2009
4) Neuro-mania - Il cervello non spiega chi siamo - di Lucetta Scaraffia - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
5) Le confessioni di Agostino (e di molti altri) - Quella sottile paura di rinascere - Si è aperto a Foggia, nella cripta della cattedrale, il terzo ciclo della "Lectura patrum Fodiensis" quest'anno dedicata a biografia e autobiografia in età cristiana. L'autore della relazione inaugurale ha sintetizzato per il nostro giornale il suo intervento. - di Marcello Marin - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
6) L'essenza del cristianesimo - Calcolo o gratuità? - "Benedetto XVI e l'essenza del cristianesimo" è stato il tema di un dibattito tenutosi a Catania il 20 aprile per iniziativa della Fondazione Sant'Agata e del Centro Culturale di Catania. Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi che l'autore, docente di Filosofia del diritto nell'ateneo catanese, ha scritto per "L'Osservatore Romano". - di Pietro Barcellona - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
7) Cattolici ed ebrei per la pace in Terra Santa - di David Rosen Gran rabbino, presidente dell'«International Jewish Committee for interreligious consultations», direttore internazionale per gli affari interreligiosi dell'«;American Jewish Committee» - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
8) 25 Aprile 2009 - L'INEDITO - La «regola» di Wojtyla per le coppie di sposi - Avvenire, 25 aprile 2009
9) LA VICENDA DELLA GIOVANE ROM DI MILANO - L’etnia non è un destino Riscossa da scuola e amicizia - DAVIDE RONDONI - Avvenire, 25 aprile 2009
10) Fine vita, i medici cattolici: sì all’alleanza terapeutica - La presidenza Amci: dovute idratazione e alimentazione agli stati vegetativi - DA MILANO ENRICO NEGROTTI - Avvenire, 25 aprile 2009
11) classici - Una iniziativa editoriale colma un vuoto italiano con una collana dedicata all’inventore di padre Brown, proprio mentre c’è una riscoperta internazionale dell’autore. - In questo romanzo, il suo più complesso, il protagonista è l’alter ego dello scrittore in lotta con il razionalismo tipico della modernità - Chesterton l’anti-Cartesio - DI FULVIO PANZERI - Avvenire, 25 aprile 2009
12) Guangzhou (AsiaNews) - Questa mattina alle 5 (ora locale) è morto all’età di 93 anni p. Francesco Tan Tiande, una delle personalità più stimate e conosciute della diocesi di Guangzhou, un vero apostolo e martire della fede, che ha passato 30 anni in carcere ai lavori forzati, ma non ha mai perduto la gioia della fede.
13) YES, WE CAN - Effetto Barack sull’agenda gay - Così negli Stati Uniti il vento del cambiamento gonfia le vele dei fautori del matrimonio omosex. Un fronte che avanza con l’aiuto dei giudici, evitando di fare i conti con la volontà popolare… - Tempi, 21 aprile 2009
14) A proposito dello Stato etico - Il diritto non è neutrale - di Stefano Semplici Università di Roma Tor Vergata - L'Osservatore Romano, 26 Aprile 2009
15) A colloquio con l'arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, in occasione della canonizzazione di quattro italiani e un portoghese - Nuovi testimoni della santità - di Nicola Gori - L'Osservatore Romano, 26 Aprile 2009
16) Il custode dell'amore - Pigi Colognesi - venerdì 24 aprile 2009 – ilsussidiario.net
17) TERREMOTO ABRUZZO/ Diario da L’Aquila: dopo l’emergenza, fatica e dolore si affrontano con gli amici - Redazione - domenica 26 aprile 2009 – ilsussidiario.net
18) «Eluana? Hanno tentato di alterare la verità dei fatti» - Le suore Misericordine di Lecco a un dibattito dei Medici cattolici «Per noi non è mai stata un caso. Ma qualcuno voleva proprio questo» - DA CAVA DE’TIRRENI (SALERNO) - VALERIA CHIANESE – Avvenire, 26 aprile 2009
19) Berlino oggi al voto per l’ora di religione - sfida nella capitale - Referendum popolare per reintrodurre l’insegnamento nelle scuole. Fronte del «sì» in vantaggio. Ma i rivali puntano sull’astensionismo - DA BERLINO VINCENZO SAVIGNANO – Avvenire, 26 aprile 2009
20) Ratzinger Chiesa e Israele: un incontro possibile? – Avvenire, 26 aprile 2009
26/04/2009 11.37.49 – Radio Vaticana - Benedetto XVI durante la cerimonia di canonizzazione di 5 beati: "Questi nuovi Santi ci mostrano il rinnovamento profondo che nel cuore dell’uomo opera il mistero della risurrezione di Cristo" - La luce del volto di Cristo risorto risplende oggi attraverso i tratti evangelici di cinque nuovi Santi: Arcangelo Tadini, Bernardo Tolomei, Nuno de Santa Maria Alvares Pereira, Gertrude Comensoli e Caterina Volpicelli. Alla cerimonia di canonizzazione, presieduta da Benedetto XVI in Piazza San Pietro, hanno partecipato pellegrini e fedeli provenienti da varie nazioni. Al Regina Coeli, il Papa ha poi sottolineato che i nuovi Santi aiutano a meditare sull'opera salvifica di Cristo. Il servizio di Amedeo Lomonaco:http://62.77.60.84/audio/ra/00159506.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00159506.RM
(Musica)
Soffermandosi sul brano evangelico odierno nel quale Gesù risorto appare nel Cenacolo, il Papa ricorda che Cristo si manifesta ai discepoli “aiutandoli a comprendere le Scritture e a rileggere gli eventi della salvezza alla luce della Pasqua”. Questa stessa esperienza – spiega il Santo Padre – ogni comunità la rivive nella celebrazione eucaristica. L’Eucaristia è il luogo privilegiato in cui la Chiesa riconosce “l’autore della vita”:
“Celebrando l’Eucaristia comunichiamo con Cristo, vittima di espiazione, e da Lui attingiamo perdono e vita. Cosa sarebbe la nostra vita di cristiani senza l’Eucaristia? L’Eucaristia è la perpetua e vivente eredità lasciataci dal Signore nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, che dobbiamo costantemente ripensare ed approfondire perché, come affermava il venerato Papa Paolo VI, possa imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale”.
Nutriti del Pane eucaristico, i nuovi Santi che oggi veneriamo – aggiunge il Pontefice – “hanno portato a compimento la loro missione di amore evangelico nei diversi campi in cui hanno operato con i loro peculiari carismi”. La luce del volto di Cristo risorto risplende oggi attraverso i loro tratti evangelici:
“Le diverse vicende umane e spirituali di questi nuovi Santi stanno a mostrarci il rinnovamento profondo che nel cuore dell’uomo opera il mistero della risurrezione di Cristo; mistero fondamentale che orienta e guida tutta la storia della salvezza. Giustamente pertanto la Chiesa sempre, ed ancor più in questo tempo pasquale, ci invita a dirigere i nostri sguardi verso Cristo risorto, realmente presente nel Sacramento dell’Eucaristia”.
Lunghe ore trascorreva in preghiera davanti all’Eucaristia Sant’Arcangelo Tadini, sacerdote nato nel 1846 a Verolanuova, in provincia di Brescia, che aiutava i suoi parrocchiani a crescere umanamente e spiritualmente. “Uomo tutto di Dio” e pronto in ogni circostanza a lasciarsi guidare dallo Spirito Santo, era disponibile a cogliere le urgenze del momento e a trovarvi rimedio. Assunse per questo – fa notare il Santo Padre - non poche iniziative concrete e coraggiose, come l’organizzazione della Società Operaia Cattolica di Mutuo Soccorso e la fondazione, nel 1900, della Congregazione delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth:
“Quanto profetica fu l’intuizione carismatica di Don Tadini e quanto attuale resta il suo esempio anche oggi, in un’epoca di grave crisi economica! Egli ci ricorda che solo coltivando un costante e profondo rapporto con il Signore, specialmente nel Sacramento dell’Eucaristia, possiamo poi essere in grado di recare il fermento del Vangelo nelle varie attività lavorative e in ogni ambito della nostra società”.
Anche in San Bernardo Tolomei, nato a Siena nel 1272, spicca l’amore per la preghiera. Vive da eremita, è “iniziatore di un singolare movimento monastico benedettino” e in occasione della grande peste del 1348, si reca ad assistere monaci e concittadini colpiti dal male. Muore a causa del morbo come autentico martire della carità. “La sua – sottolinea Benedetto XVI – fu un’esistenza eucaristica, tutta dedita alla contemplazione, che si traduce in umile servizio del prossimo”:
“Dall’esempio di questo Santo viene a noi l’invito a tradurre la nostra fede in una vita dedicata a Dio nella preghiera e spesa al servizio del prossimo sotto la spinta di una carità pronta anche al sacrificio supremo”.
Un’esemplare testimonianza di assoluta fiducia nell’aiuto di Dio è anche quella offerta dal portoghese Nuno de Santa Maria Alvares Pereira, che dopo essere stato comandante in capo dell’esercito e condottiero vittorioso depone le armi ed entra nel 1423 nel convento dei Carmelitani. Nonostante fosse un ottimo militare – ricorda il Papa - non ha mai lasciato che le sue doti personali si sovrapponessero all’azione suprema che viene da Dio:
“Sinto-me feliz por apontar à Igreja inteira esta figura exemplar...
Sono felice nell’indicare alla Chiesa intera questa figura esemplare di fede e preghiera specialmente presente in un contesto apparentemente poco favorevole che dimostra come in qualsiasi situazione anche, in ambito militare e bellico, sia possibile attuare e realizzare i valori e i principi della vita cristiana soprattutto se vissuta nel servizio del bene comune e nella gloria di Dio”.
Una particolare attrazione per Gesù presente nell’Eucaristia ha avvertito sin da bambina Santa Gertrude Comensoli, nata a Bienno, in provincia di Brescia, nel 1847. “Fu infatti davanti all’Eucaristia – spiega il Papa - che Santa Gertrude comprese la sua vocazione e missione nella Chiesa: quella di dedicarsi senza riserve all’azione apostolica e missionaria, specialmente a favore della gioventù”:
“In una società smarrita e spesso ferita, come è la nostra, ad una gioventù, come quella dei nostri tempi, in cerca di valori e di un senso da dare al proprio esistere, santa Gertrude indica come saldo punto di riferimento il Dio che nell’Eucaristia si è fatto nostro compagno di viaggio. Ci ricorda che l’adorazione deve prevalere sopra tutte le opere di carità perché è dall’amore per Cristo morto e risorto, realmente presente nel Sacramento eucaristico, che scaturisce quella carità evangelica che ci spinge a considerare fratelli tutti gli uomini”.
Testimone dell’amore divino è stata anche Santa Caterina Volpicelli, che si sforzò di “essere di Cristo, per portare a Cristo” quanti ha incontrato nella Napoli di fine Ottocento. “Anche per lei – sottolinea il Santo Padre – il segreto fu l’Eucaristia. E questa è anche oggi la condizione per proseguire la missione e l’opera da lei iniziate:
“Per essere autentiche educatrici della fede, desiderose di trasmettere alle nuove generazioni i valori della cultura cristiana, è indispensabile, come amava ripetere, liberare Dio dalle prigioni in cui lo hanno confinato gli uomini. Solo infatti nel Cuore di Cristo l’umanità può trovare la sua stabile dimora. Santa Caterina mostra alle sue figlie spirituali e a tutti noi, il cammino esigente di una conversione che cambi in radice il cuore, e si traduca in azioni coerenti con il Vangelo”.
Benedetto XVI ha poi esortato tutti a lasciarsi attrarre dall’esempio dei nuovi Santi:
“…Lasciamoci guidare dai loro insegnamenti, perché anche la nostra esistenza diventi un cantico di lode a Dio, sulle orme di Gesù, adorato con fede nel mistero eucaristico e servito con generosità nel nostro prossimo”.
(Musica)
Al Regina Coeli il Papa ha poi ricordato che oggi si celebra la Giornata dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. A 50 anni dalla morte del fondatore, padre Agostino Gemelli, l’augurio del Santo Padre è che “l’Università Cattolica sia sempre fedele ai suoi principi ispiratori, per continuare ad offrire una valida formazione alle nuove generazioni”. Il Pontefice ha infine ringraziato con grande affetto i numerosi pellegrini che hanno voluto rendere omaggio ai nuovi Santi e ha aggiunto:
“Auspico che questo pellegrinaggio, vissuto nel segno della santità e avvalorato dalla grazia dell’Anno Paolino, possa aiutare ciascuno a ‘correre’ con più gioia e più slancio verso la meta finale, verso il premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.
Luigi Bianco, pastore accanto agli ultimi - Ieri sera a Casale Monferrato il cardinale Bertone ha ordinato il nuovo nunzio apostolico in Honduras - DAL NOSTRO INVIATO A CASALE MONFERRATO - PAOLO VIANA – Avvenire, 26 Aprile 2009
Dal Monferrato all’Honduras per una doppia missione, quella di vescovo e quella di nunzio apostolico, da vivere facendosi prossimo ai poveri e agli ultimi nella continua volontà di essere, come recita il suo stesso motto episcopale, testimone della risurrezione di Cristo. È questo il mandato che ieri sera monsignor Luigi Bianco, sacerdote della diocesi di Casale Monferrato, finora consigliere della nunziatura apostolica in Spagna, ha ricevuto dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, che lo ha ordinato vescovo in una gremita Cattedrale casalese. Una missione, quella di Bianco, che è espressione, come ha sottolineato il porporato nella sua omelia, di una Chiesa che «vive e cresce sulla fresca gioia dell’incontro quotidiano con Cristo» e dove «la gente è gioiosa di trovare Cristo». Ecco perché il nuovo nunzio, come credente in Cristo, ha aggiunto Bertone, è chiamato a «intensificare il senso di appartenenza» a questa Chiesa, a «riscoprire la Chiesa/ istituzione, nella sua organicità e realtà vivente».
Sotto le navate medievali di Sant’Evasio, il duomo di Liutprando e dei Templari, prima del rito di consacrazione del nuovo vescovo, Bertone si è ricondotto a un recente intervento del Papa per ricordare che «il Cristo presente rimane il fondamento della verità del magistero, dell’azione santificante della Chiesa, e della stessa esistenza morale e sociale dei cri- stiani e delle comunità ecclesiali. La Chiesa non ha senso senza questo profondo e indissolubile legame con Cristo, di cui è Corpo e sacramento o segno». Cristo è presente, ha aggiunto, attraverso l’Eucaristia, nella Parola, tra i cristiani uniti nel suo nome. «Ma Gesù risorto è presente anche nei pastori della Chiesa, nella loro 'potestas' – ha aggiunto – che rappresenta quella di Cristo. Dobbiamo sostenere i nostri pastori e pregare per la loro fedeltà, perché sappiano vincere i loro turbamenti, essere dei puri servi di Cristo, esserne i segni». È tanto più importante adesso «riscoprire l’istituzione della Chiesa e le istituzioni della Chiesa che, al di là dei difetti delle persone, ci danno la sicurezza dei doni, della comunicazione della salvezza, l’autenticità della mediazione della Parola e dei Sacramenti, sulla via che conduce alla pienezza della vita». Lo è perché, ha rammentato Bertone, «anche noi, figli della Chiesa, a volte, con il nostro peccato abbiamo impedito che la Chiesa risplenda in tutta la sua bellezza. La nostra poca fede ha fatto cadere nell’indifferenza e allontanato molti da un autentico incontro con Cristo. Ma non cediamo allo scoraggiamento: l’abbraccio che il Padre riserva a chi, pentito, gli va incontro sarà la giusta ricompensa per l’umile riconoscimento delle colpe proprie e altrui. Negli Atti degli Apostoli e nelle vite dei santi troviamo la prova inoppugnabile che la Chiesa cresce come incarnazione di Cristo, nata dalla sua predicazione, dalla sua missione e dai suoi 'segni', che continuano a lievitare il mondo».
Una fiducia, ha sottolineato il segretario di Stato, che dovrà sostenere il nuovo vescovo nelle numerose prove che lo attendono. Bianco proviene dallo stesso paese monferrino di un altro pastore dell’America Latina, monsignor Luigi Lasagna, vescovo e superiore delle missioni salesiane dell’Uruguay e del Brasile. Negli anni della formazione diplomatica non ha mai interrotto il lavoro pastorale («Quando la carità è criterio e misura del sacerdozio, ogni azione diventa servizio al Regno di Dio; e il tempo di un ministero si riempie di infinite possibilità evangeliche, di molti gesti concreti e solidali», ha ricordato Bertone) e questo lo aiuterà non poco giacché in Honduras si confronterà con quelle «attese dei più poveri e degli umili che maggiormente rispecchiamo le beatitudini evangeliche ». Bertone, infine, ha sottolineato che la Chiesa è «da sempre vicina ai bisognosi» e che nel Paese americano questa vicinanza si traduce in numerose opere pastorali e sociali. Cresceranno ancora, ha detto, con l’aiuto di Nostra Signora di Suyapa: alla patrona dell’Honduras è stata affidata infatti la missione diplomatica e pastorale del nuovo nunzio.
Benedetto XVI rivendica la piena cittadinanza della fede nei luoghi dell'educazione e della cultura - La dimensione religiosa rende l'uomo più uomo - L'altissimo numero di quanti scelgono di avvalersi dell'insegnamento della religione dimostra il valore insostituibile che essa riveste nel percorso formativo. Lo ha ribadito il Papa ricevendo sabato mattina, 25 aprile, nell'Aula Paolo VI, gli insegnanti di religione cattolica nelle scuole italiane, accompagnati dal cardinale Angelo Bagnasco. - L'Osservatore Romano, 26 Aprile 2009
Cari fratelli e sorelle,
è un vero piacere per me incontrarvi quest'oggi e condividere con voi alcune riflessioni sulla vostra importante presenza nel panorama scolastico e culturale italiano, nonché in seno alla comunità cristiana. Saluto tutti con affetto, a cominciare dal Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, che ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto, presentandomi questa numerosa e vivace Assemblea. Ugualmente rivolgo un saluto cordiale a tutte le autorità presenti. L'insegnamento della religione cattolica è parte integrante della storia della scuola in Italia, e l'insegnante di religione costituisce una figura molto importante nel collegio dei docenti. È significativo che con lui tanti ragazzi si tengano in contatto anche dopo i corsi. L'altissimo numero di coloro che scelgono di avvalersi di questa disciplina è inoltre il segno del valore insostituibile che essa riveste nel percorso formativo e un indice degli elevati livelli di qualità che ha raggiunto. In un suo recente messaggio la Presidenza della Cei ha affermato che "l'insegnamento della religione cattolica favorisce la riflessione sul senso profondo dell'esistenza, aiutando a ritrovare, al di là delle singole conoscenze, un senso unitario e un'intuizione globale. Ciò è possibile perché tale insegnamento pone al centro la persona umana e la sua insopprimibile dignità, lasciandosi illuminare dalla vicenda unica di Gesù di Nazaret, di cui si ha cura di investigare l'identità, che non cessa da duemila anni di interrogare gli uomini".
Porre al centro l'uomo creato ad immagine di Dio (cfr. Gn 1, 27) è, in effetti, ciò che contraddistingue quotidianamente il vostro lavoro, in unità d'intenti con altri educatori ed insegnanti. In occasione del Convegno ecclesiale di Verona, nell'ottobre 2006, io stesso ebbi modo di toccare la "questione fondamentale e decisiva" dell'educazione, indicando l'esigenza di "allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell'intrinseca unità che le tiene insieme" (Discorso del 19 ottobre 2006: Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 2 [2006], 473; 471). La dimensione religiosa, infatti, è intrinseca al fatto culturale, concorre alla formazione globale della persona e permette di trasformare la conoscenza in sapienza di vita.
Il vostro servizio, cari amici, si colloca proprio in questo fondamentale crocevia, nel quale - senza improprie invasioni o confusione di ruoli - si incontrano l'universale tensione verso la verità e la bimillenaria testimonianza offerta dai credenti nella luce della fede, le straordinarie vette di conoscenza e di arte guadagnate dallo spirito umano e la fecondità del messaggio cristiano che così profondamente innerva la cultura e la vita del popolo italiano. Con la piena e riconosciuta dignità scolastica del vostro insegnamento, voi contribuite, da una parte, a dare un'anima alla scuola e, dall'altra, ad assicurare alla fede cristiana piena cittadinanza nei luoghi dell'educazione e della cultura in generale. Grazie all'insegnamento della religione cattolica, dunque, la scuola e la società si arricchiscono di veri laboratori di cultura e di umanità, nei quali, decifrando l'apporto significativo del cristianesimo, si abilita la persona a scoprire il bene e a crescere nella responsabilità, a ricercare il confronto ed a raffinare il senso critico, ad attingere dai doni del passato per meglio comprendere il presente e proiettarsi consapevolmente verso il futuro.
L'appuntamento odierno si colloca anche nel contesto dell'Anno Paolino. Grande è il fascino che l'Apostolo delle genti continua ad esercitare su tutti noi: in lui riconosciamo il discepolo umile e fedele, il coraggioso annunciatore, il geniale mediatore della Rivelazione. Caratteristiche, queste, a cui vi invito a guardare per alimentare la vostra stessa identità di educatori e di testimoni nel mondo della scuola. È Paolo, nella prima Lettera ai Tessalonicesi (4, 9), a definire i credenti con la bella espressione di theodidaktoi, ossia "ammaestrati da Dio", che hanno Dio per maestro. In questa parola troviamo il segreto stesso dell'educazione, come anche ricorda sant'Agostino: "Noi che parliamo e voi che ascoltate riconosciamoci come fedeli discepoli di un unico Maestro" (Serm. 23, 2).
Inoltre, nell'insegnamento paolino la formazione religiosa non è separata dalla formazione umana. Le ultime Lettere del suo epistolario, quelle dette "pastorali", sono piene di significativi rimandi alla vita sociale e civile che i discepoli di Cristo devono ben tenere a mente. San Paolo è un vero "maestro" che ha a cuore sia la salvezza della persona educata in una mentalità di fede, sia la sua formazione umana e civile, perché il discepolo di Cristo possa esprimere in pieno una personalità libera, un vivere umano "completo e ben preparato", che si manifesta anche in un'attenzione per la cultura, la professionalità e la competenza nei vari campi del sapere a beneficio di tutti. La dimensione religiosa non è dunque una sovrastruttura; essa è parte integrante della persona, sin dalla primissima infanzia; è apertura fondamentale all'alterità e al mistero che presiede ogni relazione ed ogni incontro tra gli esseri umani. La dimensione religiosa rende l'uomo più uomo. Possa il vostro insegnamento essere sempre capace, come lo fu quello di Paolo, di aprire i vostri studenti a questa dimensione di libertà e di pieno apprezzamento dell'uomo redento da Cristo così come è nel progetto di Dio, esprimendo così, nei confronti di tanti ragazzi e delle loro famiglie, una vera carità intellettuale.
Certamente uno degli aspetti principali del vostro insegnamento è la comunicazione della verità e della bellezza della Parola di Dio, e la conoscenza della Bibbia è un elemento essenziale del programma di insegnamento della religione cattolica. Esiste un nesso che lega l'insegnamento scolastico della religione e l'approfondimento esistenziale della fede, quale avviene nelle parrocchie e nelle diverse realtà ecclesiali. Tale legame è costituito dalla persona stessa dell'insegnante di religione cattolica: a voi, infatti, oltre al dovere della competenza umana, culturale e didattica propria di ogni docente, appartiene la vocazione a lasciar trasparire che quel Dio di cui parlate nelle aule scolastiche costituisce il riferimento essenziale della vostra vita. Lungi dal costituire un'interferenza o una limitazione della libertà, la vostra presenza è anzi un valido esempio di quello spirito positivo di laicità che permette di promuovere una convivenza civile costruttiva, fondata sul rispetto reciproco e sul dialogo leale, valori di cui un Paese ha sempre bisogno.
Come suggeriscono le parole dell'apostolo Paolo che fanno da titolo a questo vostro appuntamento, auguro a tutti voi che il Signore vi doni la gioia di non vergognarvi mai del suo Vangelo, la grazia di viverlo, la passione di condividere e coltivare la novità che da esso promana per la vita del mondo. Con questi sentimenti benedico voi e le vostre famiglie, insieme a tutti coloro - studenti e insegnanti - che ogni giorno incontrate in quella comunità di persone e di vita che è la scuola.
(©L'Osservatore Romano - 26 aprile 2009)
Neuro-mania - Il cervello non spiega chi siamo - di Lucetta Scaraffia - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
Non è facile leggere sui giornali un buon articolo di divulgazione scientifica, che cioè non gridi subito alla scoperta sensazionale e non tiri precipitose conclusioni da piccoli passi in avanti nella conoscenza del funzionamento della natura, e soprattutto del corpo umano. Infatti, se manca l'enfasi, o l'apparente novità, dov'è la notizia? Ma questo tipo di divulgazione esasperata - se pure serve a creare effimere celebrità scientifiche e, forse, ad attirare finanziamenti alla ricerca in questione - ha un effetto pericoloso sui lettori, perché li convince che sono stati trovati farmaci miracolosi, o che ogni stato emotivo e mentale dell'essere umano si spiega con la biologia. E crea illusioni che conteranno molto quando si dovranno affrontare questioni che da bioetiche sono diventate biopolitiche, contribuendo a influenzare in modo decisivo la loro idea di essere umano e di vita umana. Come, per fare un esempio, la ricerca sulle staminali embrionali. Proprio per questi rilevanti motivi è di grande interesse la lettura del libro di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà (uno psicologo cognitivo e un neuropsichiatra) intitolato Neuro-mania (Bologna, il Mulino, 2009, pagine 125, euro 9), che passa al vaglio critico proprio quella letteratura divulgativa, oggi tanto diffusa, che si occupa del cervello pretendendo di spiegare il funzionamento della mente umana. E, su questa base, tratta delle nuove ricerche e discipline che tendono ad abusare del prefisso neuro-, una aggiunta che - lo provano ricerche mirate - aumenta la credibilità dell'informazione presso il lettore inesperto. Siamo passati da un eccesso a un altro, scrivono gli autori: se negli anni Settanta ogni comportamento umano veniva spiegato con motivazioni socio-economiche, oggi la stessa cosa avviene con quelle biologiche; la chiave riduttiva è la stessa, ed è dovuta al fatto che le spiegazioni monocausali sono le più efficaci e le più credibili. Tutto però nasce da un reale progresso della ricerca perché oggi, effettivamente, cominciamo a conoscere da vicino le connessioni tra la mente e il corpo. Gli scienziati hanno scoperto che determinate aree presiedono alle funzioni specifiche di un dato compito: come, per esempio, la ricerca visiva di un volto noto, oppure la moltiplicazione mentale di due numeri a una cifra. Naturalmente, in queste operazioni si attivano anche aree "generiche", che presiedono a funzioni comuni a molti compiti, e cioè quelle visive, acustiche, motorie. La divulgazione scientifica, però, tende a mettere in rilievo di volta in volta una sola area, quella privilegiata, e a dare l'impressione che essa sia l'unica deputata a una particolare funzione o, addirittura, che sia la causa di quel determinato effetto psicologico. È nata così l'idea di poter vedere direttamente il cervello al lavoro, che tanto entusiasma i non esperti. Ma si tratta di un'idea fuorviante: ciò che si vede è il risultato di un artificio grafico che trasforma probabilità casuali in colori sovrapposti a una riproduzione schematica del cervello. Ci sono sempre altre funzioni, altri sistemi più complessi e ancora in parte sconosciuti che operano. Ma questo non fa notizia. Si diffondono così sia la certezza che ormai sappiamo tutto sul funzionamento del cervello sia l'idea che gli stati d'animo e le sensazioni mentali siano effetto di processi biochimici. La vita quotidiana sarebbe allora riconducibile a una realtà sottostante di natura biologica, in quanto l'uomo, inteso come corpo, fa parte a pieno titolo della natura. Viene in questo modo legittimata la speranza che se, in futuro, si riuscisse ad analizzare in dettaglio il funzionamento di tutte le parti del corpo umano, avremmo una corrispondenza biunivoca tra quanto scoperto dagli psicologi sperimentali e quanto emerge dall'esame di meccanismi biologici elementari. In altre parole, un unico linguaggio, quello della fisica-chimica e della biologia, sarebbe la spiegazione di tutti i fenomeni conosciuti dell'universo, dal moto dei corpi celesti alle particelle elementari, dal naturale al sociale. Certo, si tratta di un'utopia affascinante. Ma non funziona. Anch'essa è frutto di una moda, nata negli anni Cinquanta per effetto delle scoperte dei fisici. Oggi si vuole imitare il loro metodo di ricerca, riconducendo il complesso al semplice e cercando di ingabbiare il sapere in modelli matematici. Una moda che può perfino indurre a parlare, come è stato scritto recentemente su autorevoli quotidiani, di una neuroteologia: cioè, anche se Dio viene pensato dall'uomo nei modi più diversi, questi avrebbero un prerequisito comune, neuronale. Nasceremmo insomma con un cervello predisposto a credere. È evidente che una divulgazione di questo tipo ha l'effetto di cancellare ogni possibilità di scelta e ogni responsabilità dell'essere umano, e di conseguenza ogni possibilità di evoluzione morale. Anche se non è questo il problema messo a fuoco dai due scienziati, il libro è utile per la sua funzione critica nei confronti di una divulgazione spesso irresponsabile.
(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2009)
Le confessioni di Agostino (e di molti altri) - Quella sottile paura di rinascere - Si è aperto a Foggia, nella cripta della cattedrale, il terzo ciclo della "Lectura patrum Fodiensis" quest'anno dedicata a biografia e autobiografia in età cristiana. L'autore della relazione inaugurale ha sintetizzato per il nostro giornale il suo intervento. - di Marcello Marin - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
L'autobiografia letteraria ha le sue radici nella Bibbia (il prologo del Siracide), l'esempio più illustre nelle Retractationes agostiniane, importanti sviluppi poetici in Gregorio Nazianzeno e Prudenzio. Forte componente apologetica, secondo il modello già fornito nelle lettere di Paolo, ha l'autobiografia poetica del Nazianzeno. Più specificamente incentrate sugli aspetti interiori e tese a descrivere la conversione sono numerose autobiografie cristiane. Spesso il tema autobiografico assume le movenze della confessione del proprio comportamento nei riguardi di Dio (celebrazione di lode, confessione del peccato): questo elemento domina nelle Confessioni di Agostino, l'opera che ha influenzato profondamente tutta la letteratura autobiografica posterioreL'esempio più noto di convertito nel cristianesimo delle origini è certamente Paolo, che più volte nelle sue lettere ricorda la trasformazione da persecutore in apostolo del Cristo e sempre attribuisce questa trasformazione alla elezione divina. Ma solo negli Atti degli apostoli, e per tre volte, il radicale cambiamento di Paolo è collegato all'episodio dell'apparizione del Cristo sulla via di Damasco. Le tre narrazioni concordano nel dare all'avvenimento la funzione di "chiamata" da parte del Cristo, che affida a Paolo la missione di evangelizzatore, e sembrano seguire la falsariga delle vocazioni dei profeti dell'Antico Testamento (in primo luogo Geremia). Manca invece un qualsiasi cenno a crisi interiori o religiose che avrebbero favorito un processo di maturazione psicologica nella conversione di Paolo. A fondamento delle ragioni della conversione, la letteratura apologetica di lingua greca nel ii secolo cerca anche i punti di contatto tra la filosofia greca e la religione cristiana, che proprio per questo motivo dagli apologeti è definita anch'essa una filosofia. Così Giustino, nel Dialogo con Trifone, presenta le varie correnti filosofiche come degradazione dell'unico sapere filosofico e narra il suo personale itinerario di ricerca della verità presso le tante scuole. Infine, l'incontro con un misterioso vecchio gli rivela il messaggio dei profeti come il solo che contiene la verità: non è frutto di uno sforzo umano ma di una rivelazione divina. E su questo annuncio si opera la conversione di Giustino. Altri apologeti in quegli anni sottolineano la forza dei testi dei profeti per la conversione del cuore e della mente che in loro si è compiuta: così Taziano, discepolo dello stesso Giustino, e Teofilo sottolineano la piena armonia di fede e ragione. Un'ultima testimonianza greca ci porta all'autobiografia poetica del Nazianzeno e alla fine del IV secolo. Qui la spinta ad una ulteriore "conversione" dell'autore, cristiano dalla nascita, è favorita da circostanze esterne. Il racconto della traversata per mare da Alessandria d'Egitto verso l'Attica del quasi ventenne Gregorio descrive, in un ripiegamento interiore che non è usuale nella tradizione poetica greca, il rischio di morire in una violenta tempesta - e senza essere stato ancora battezzato - e l'impegno di consacrazione alla vita religiosa, che duplica il voto formulato dalla madre al momento della nascita. L'occidente ha sempre dimostrato più specifico interesse per l'individuo, la sua psicologia, il suo personale percorso esistenziale. In ambito profano, verso la fine del ii secolo, già Apuleio, con il romanzo Le metamorfosi o L'asino d'oro, iniziatico e pseudoautobiografico, segue le tappe di un itinerario spirituale segnato da vicende cruciali: errore del protagonista, infelicità, espiazione, perdono, felicità ritrovata. Nella letteratura cristiana latina un breve racconto autobiografico di conversione, attento alle condizioni interiori, appare nell'Ad Donatum, scritto da Cipriano verso il 246. Ancora prigioniero del paganesimo, Cipriano giace nelle tenebre di una notte cieca, sballottato dall'onda del secolo ancora ignora il senso della propria esistenza. Per descrivere lo stato di smarrimento propone una serie di immagini: alcune più usuali, le tenebre della notte, il mare in burrasca, l'ultima, meno sfruttata dalla letteratura, del moltiplicarsi delle vie con la conseguente incapacità di scegliere. Il suo animo è sollecitato all'esterno da una chiamata e oppresso nell'intimo dalla sfiducia di riuscire a vincere le abitudini contratte con la ricchezza e il grado sociale, associate all'ira, all'ambizione, alla lussuria. Rinascere attraverso il battesimo gli sembra inconcepibile. Ma finalmente riceve l'acqua rigeneratrice del battesimo e lo Spirito; il dubbio e le tenebre fanno posto alla certezza e alla luce. A distanza di un secolo, Ilario di Poitiers presenta in apertura del suo De Trinitate l'elaborazione teorica, molto più avanzata, di un itinerario intellettuale, morale e spirituale che fonde riflessione teologica e approfondimento della Scrittura. Alla condanna della vita umana tesa alla ricerca del piacere, Ilario ha unito il rifiuto del politeismo e delle filosofie che negano la Provvidenza; ha deciso quindi di consacrarsi alla ricerca dell'immortalità e di Dio, infiammato da un desiderio ardente di conoscerlo. Scoperto infine il Dio della Bibbia, passa dall'ansia alla gioia, accetta il battesimo e le responsabilità del sacerdozio. Fra gli abbozzi agostiniani che preludono alla stesura delle Confessioni, si impone l'esordio del De beata vita, che sotto il segno di una prolungata metafora (la traversata pericolosa di un mare in tempesta) offre una sincera confessio. Per linee essenziali, Agostino ripercorre il proprio itinerario interiore dalla scoperta della vocazione filosofica fino alla sua conversione milanese: un navigare lungo e senza meta, avvolto dalle nebbie. Ricorda la lettura dell'Hortensius di Cicerone, l'incontro con i manichei, l'adesione allo scetticismo degli accademici, la scoperta dell'immaterialità di Dio e dell'anima nei discorsi del vescovo Ambrogio e del platonizzante Manlio Teodoro; si rivede ancora trattenuto dagli allettamenti della donna e dalle seduzioni degli onori. La crisi decisiva è descritta sotto la forma di una tempesta, opportuna malgrado le apparenze: un grave dolore al petto gli consente di rinunciare al proprio incarico e di ricondurre la nave, sia pure tutta squassata, alla desiderata quiete. Nelle Confessioni ogni sottolineatura è sulla valenza della parola confessio. Agostino "lavora" parole e immagini per trarne una comunicazione quanto più evidente: come non ha esitato a proclamare (profiteri) agli uomini le sue assurde convinzioni ai tempi della fede manichea, così vuole confessare (confiteri) la misericordia divina che lo ha tratto dall'abisso. Con un naturale passaggio la confessio si tramuta in preghiera a Dio, che ci protegga e ci porti con sé: allontanàti da Dio, il nostro bene, siamo diventati cattivi; è tempo che ci volgiamo al Signore, per non essere travolti. L'uomo che volta le spalle a Dio si condanna alla debolezza e alla malvagità, l'uomo che a Dio si volge si salva dalla rovina e dalla perdizione. Dalla aversio da Dio, l'allontanamento che si compie nell'erranza, nasce la conversio a Dio, il tornare a cercare che rivela Dio presente nel cuore di chi a lui si confessa. È il Signore che torna a girare Agostino verso se stesso, perché possa riconoscere quanto nello sviamento sia diventato brutto e deforme, macchiato e piagato: messo a forza davanti ai propri occhi, Agostino scopre la malvagità dei suoi comportamenti, delle sue scelte esistenziali. Ma per quanto vicino alla decisione, il peggio inveterato continua ad avere su di lui maggior potere del meglio inusitato. E quanto più si avvicina l'istante della decisiva trasformazione, tanto più spavento gli incute: lo trattengono le futilità più futili e le vanità più vane, vecchie amiche che ripetutamente gli confidano a quante piacevoli abitudini, a quali turpitudini dovrà rinunciare, e in eterno. Le uniche parole dirette che Agostino pronuncia nella contesa fra la Consuetudo e la Continentia - "Ecco, adesso è il momento, adesso è il momento" - rivelano insieme urgenza e irresolutezza, il desiderio più che una decisione. Il cammino spirituale che dalla iniziale aversio riconduce a Dio nella conversio è duro e difficile: perché la conversione è una scelta operativa che va continuamente ribadita, è un punto di partenza che si rinnova costantemente fra i cedimenti, le tentazioni, le lotte interiori.
(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2009)
L'essenza del cristianesimo - Calcolo o gratuità? - "Benedetto XVI e l'essenza del cristianesimo" è stato il tema di un dibattito tenutosi a Catania il 20 aprile per iniziativa della Fondazione Sant'Agata e del Centro Culturale di Catania. Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi che l'autore, docente di Filosofia del diritto nell'ateneo catanese, ha scritto per "L'Osservatore Romano". - di Pietro Barcellona - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
In occasione delle dispute sugli interventi del Papa durante il viaggio in Africa e in altre occasioni che hanno visto muoversi persino le diplomazie e i governi europei, il commento più diffuso ha fatto riferimento a uno scontro tra l'Europa laica e il mondo cristiano, rappresentato dal Pontefice; e ha visto interloquire non solo intellettuali, ma, fatto a mio parere inaudito, anche istituzioni politiche. L'attacco alla figura del Papa mi sembra un dato obiettivo. Tuttavia ritengo suscettibile di pericolosi rischi di strumentalizzazioni politiche ridurre il problema implicato in questa vicenda alla pura circostanza di una supposta indebita ingerenza del potere religioso nelle vicende legislative dell'attività normativa dei governi e dei parlamenti europei. Chi ha risposto sul terreno della legittimità formale degli interventi del Papa non ha colto, a mio parere, la vera questione implicata in questa vicenda, apparentemente suscitata da occasioni contingenti come il viaggio in Africa. La questione del rapporto tra "sfera del divino e mondo profano" è, infatti, a mio parere, nell'epoca cruciale che stiamo vivendo, anzitutto una questione antropologica che non riguarda lo statuto di una particolare religione istituita. Il vero profondo attacco, che una parte della cultura dominante nel mondo occidentale sta portando alla sacralità della vita e della morte, è anzitutto un attacco all'uomo, nella sua specifica costituzione di essere libero e responsabile, attacco inteso a mettere in crisi i connotati della "soggettività spirituale" che ne hanno accompagnato la vicenda storica. Mi riferisco, per essere esplicito, all'equivalenza che le neuroscienze, nella loro visione riduzionistica, stanno cercando di stabilire tra il funzionamento della mente umana - e delle forme della coscienza - e le relazioni "meccaniche", che presiedono allo scambio di informazioni nel mondo vivente non umano - tra ogni organismo e l'ambiente. L'attacco all'uomo riguarda, a mio parere, questa diffusa tendenza a ridurre il funzionamento di ogni "soggettività pensante" a una pura macchina computazionale, fondata su automatismi neuronali e fisiologici. Il problema posto dal Papa sulla questione della possibilità di intervenire, attraverso tecniche manipolative, interventi protesici, modificazioni chimiche ed elettriche, sulle funzioni vitali della psiche non riflette per nulla la concezione del Dio a cui fanno riferimento i vari monoteismi, ma piuttosto la stessa "pensabilità dell'uomo" in quanto insorgenza soggettiva che si pone di fronte a una trascendenza, che in definitiva impone di scegliere fra l'empietà e l'amore. Non si può, a mio parere, pensare la libertà dell'uomo senza porlo di fronte all'immagine di un Dio che può apparire ingiusto e vendicativo, come a Giobbe abbandonato, oppure misericordioso e amorevole, come alle recentissime riflessioni di Julia Kristeva. La libertà dell'uomo non è compatibile con l'indifferenza verso il sacro e il divino, per questo ritengo che l'epoca che stiamo vivendo sia apocalittica nel senso fecondo della trasformazione, perché ormai, dopo la cosiddetta morte di Dio, è evidente che la posta in gioco è diventata la stessa possibilità di pensare l'uomo oltre ogni determinismo neurofisiologico e neurobiologico. Se l'uomo è un puro caso dell'evoluzione naturale non ha neppure senso aprire le discussioni su cui ci stiamo misurando. La domanda sull'uomo inoltre non può non essere costitutivamente legata alla consapevolezza del suo essere mortale, allo scarto incolmabile fra la finita caducità e l'eterna immutabilità. Il "chi sono io", che inaugura la riflessione della grande filosofia greca, non avrebbe senso se non venisse tradotto subito nella domanda: "Perché vale la pena vivere" se poi un'oscura Onnipotenza mi ha condannato alla morte e al dolore? Nessuno può dimenticare che l'uomo greco si è interrogato sul valore stesso del venire al mondo e ha subito il trauma mentale e psichico del dubbio che sia meglio non essere mai nati. Nessuna equivalenza tra organismo vivente umano e ambiente esterno potrà mai cancellare l'angoscia del pensatore greco che è giunta a noi, attraverso i secoli e attraverso i poeti e i filosofi, nelle parole strazianti di Giacomo Leopardi: è funesto a chi nasce il dì natale. In questo grumo irrisolto dell'esistenza di ciascuno avvengono lo scontro e il conflitto con il Dio di cui non si riesce ad afferrare il "volto". Dio è anche lo spazio di un conflitto passionale fra la ripulsa e la rivolta e l'accettazione fiduciosa in una risposta che "salva". In questo tessuto antropologico-esistenziale si è innestato il tema delle religioni e dei monoteismi istituiti. La grande tradizione biblica veterotestamentaria ha progettato la via di un contratto fra Dio e il suo popolo. Mosè è stato il mediatore del patto. Se osserverai i miei comandamenti la tua vita sarà salvata. Si è aperta così una storia di "negoziazione" fondata, in definitiva, su un calcolo di convenienza, la ragione strumentale di cui parlavano i francofortesi, che ha continuamente rinviato il momento del bilancio, producendo normative pratiche "per la buona vita": chi metterà a frutto i mezzi ricevuti avrà il premio del risultato. Ma la logica del premio è una logica dell'utile e il distacco tra divino e umano cresce in rapporto all'avidità delle convenienze di chi chiede salvezza offrendo prestazioni. A mio parere, questa storia si è consumata nelle guerre di religione, nella violenza in nome di Dio, nella Shoah che, non a caso, ha sconvolto il Papa durante la visita ai campi di sterminio: dov'era Dio mentre gli uomini divenivano carnefici dei propri fratelli? Per queste ragioni penso che Cristo rappresenti un "mutamento di paradigma" radicale nel rapporto fra il divino e l'umano. Sebbene i patti siano da osservare, secondo i canoni delle leggi, nessun patto è immune dalla sua trasgressione e, per certi versi, la evoca continuamente. Cristo sostituisce al Patto, la Comunione, e cioè l'incontro nella stessa persona dell'umano e del divino in una configurazione delle differenze che non distrugge l'unicità del contenitore: la Persona. Nella comunione non si attua uno "scambio", ma si compie un atto di amore. L'amore è un evento non deducibile da nessuna legge scritta, ma da un'emergenza esistenziale che determina un'attrazione fatale tra due forme d'essere differenti. Tutto viene spostato dal calcolo utilitaristico all'unione amorevole delle differenze, nell'assoluta gratuità dell'incontro. Ermanno Olmi alla domanda del giornalista - chi è Dio per te ? - risponde: "Il fiato di Gesù che mi soffia sul collo". Questo fiato è il vento dell'inquietudine contemporanea di fronte al dubbio, che anch'io avverto, sia si tratti di un sogno sia di un'allucinazione. Al punto in cui siamo giunti, però, al paradosso, questo sogno è forse per l'umanità il più realistico dei progetti di pacificazione. Scrive Raimon Panikkar in Lo spirito della parola: "Dopo due millenni di cristianità/cristianesimo, dopo l'esperienza storica delle guerre di religione e nella attuale condizione dell'umanità, non dovrebbe forse la comunità cristiana essere pronta a leggere "i segni dei tempi" e ricevere lo Spirito che penetra e rinnova tutto e scopre che il messaggio del Nazareno è il solo "realistico" per la sopravvivenza? È comprensibile come un tale compito non possa essere il lavoro di gretti controinquisitori o di grandi individualità". Spero che questo realismo non sia confuso con il pacifismo di moda, né riproduca un ennesimo fondamentalismo unilaterale a favore di un Dio gerarchicamente superiore a un altro, ma che, nella micidiale congiuntura in cui ci troviamo, ridia fiato a quanti pensano che non siamo destinati a essere soppiantati dall'intelligenza artificiale delle "macchine artificiali".
(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2009)
Dalla prossima visita del Papa verranno progressi nel processo storico di riconciliazione
Cattolici ed ebrei per la pace in Terra Santa - di David Rosen Gran rabbino, presidente dell'«International Jewish Committee for interreligious consultations», direttore internazionale per gli affari interreligiosi dell'«;American Jewish Committee» - L’Osservatore Romano, 25 aprile 2009
Il 12 marzo scorso Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i delegati del Gran Rabbinato d'Israele e della Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo. Il Papa ha espresso la speranza che la sua visita in Israele rafforzi i rapporti fra cattolici ed ebrei e inoltre promuova la pace nella regione. Tutte le persone di buona volontà pregano con fervore affinché quest'ultima speranza si realizzi. Tuttavia, senza dubbio, la sua visita renderà di fatto più intenso il processo storico di riconciliazione tra cattolici ed ebrei, e non solo perché il Papa dimostrerà buona volontà ai circa sei milioni di ebrei che risiedono oggi in Terra Santa. Benedetto XVI ricalcherà le orme del suo grande predecessore, sia letteralmente sia figurativamente. Giovanni Paolo II, l'eroe della riconciliazione fra cattolici ed ebrei nei nostri tempi, comprese appieno che la visita di un Papa in Israele rivestiva in sé un significato speciale per la riconciliazione fra ebrei e cristiani. Già nella sua Lettera apostolica Redemptionis anno, pubblicata il 20 aprile 1984, Venerdì Santo, Giovanni Paolo II parlò della "terra che chiamiamo santa" riferendosi al significato che Gerusalemme ha per cristiani, musulmani ed ebrei. Per quanto riguarda questi ultimi scrisse: "per gli ebrei essa è oggetto di vivo amore e di perenne richiamo, ricca di numerose impronte e memorie, fin dal tempo di David che la scelse come capitale e di Salomone che vi edificò il tempio. Da allora essi guardano, si può dire, ogni giorno ad essa e la indicano come simbolo della loro nazione". Queste frasi penetranti riflettono la comprensione di Giovanni Paolo II non solo del significato storico, ma anche di quello religioso ed esistenziale della terra di Israele per il popolo ebraico. Gli ebrei "guardano" e tre volte al giorno si piegano in preghiera verso Israele, se sono in diaspora; verso Gerusalemme, se si trovano in Israele. Se sono a Gerusalemme si rivolgono al Monte del Tempio, il luogo che l'Onnipotente ha scelto "per stabilirvi il suo nome" (Deuteronomio, 12, 5-11). Il legame religioso fra la Terra Santa e la Città Santa è una parte integrante e ineliminabile del calendario religioso e della celebrazione liturgica ebraici. Ciò riflette semplicemente che il mandato biblico di essere "un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Esodo, 19, 6) esige che le persone vivano questo paradigma idealmente "come i giorni del cielo sopra la terra, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro" (Deuteronomio, 11, 21; cfr. Esodo, 6, 4-8). Infatti, tutto il racconto biblico è indissolubilmente legato alla terra. L'esilio da essa è visto non solo come un'umiliazione, ma anche come una "profanazione del nome divino". Di conseguenza, il ritorno alla terra non è considerato solo come elemento essenziale della missione universale di Israele, ma anche come la santificazione del nome divino stesso (Ezechiele, 36, 23). Questa centralità della città e della terra nella coscienza ebraica ha portato a una notevole autoidentificazione con esse, che si riflette in particolare nei profeti e specialmente nel libro di Isaia, in cui la popolazione è spesso descritta come "figlia di Sion" e persino come "Sion" stessa. Il passaggio nella liturgia del mattino del Sabbah "Abbi misericordia di Sion perché essa è la dimora della nostra vita" riflette questa identificazione. Le osservazioni di Giovanni Paolo II nella Redemptionis anno rispecchiano quest'idea, secondo cui per gli ebrei Gerusalemme e la Terra Santa non sono solo il punto focale storico, ma anche il "segno" della loro identità. Purtroppo, per la maggior parte della tragica storia dei rapporti fra cattolici ed ebrei, questo vincolo religioso ed esistenziale fra il popolo d'Israele e la Terra promessa è stato visto dalla cristianità come qualcosa di obsoleto, ormai privo di legittimità e validità. Di fatto l'idea stessa del ritorno del popolo ebraico in quella terra e del ripristino lì della sovranità è stata considerata spesso un anatema. Lo storico documento del concilio Vaticano ii Nostra aetate ha respinto l'idea che il popolo ebraico sia stato rifiutato da Dio e ha affermato che l'alleanza divina con il popolo d'Israele è eterna. Tuttavia, allo stesso tempo, la Santa Sede non ha riconosciuto il ritorno di una vita ebraica indipendente nel ripristinato Stato di Israele e il popolo ebraico (e credo anche il mondo cattolico) ha percepito che la Chiesa aveva ancora un "problema" con la sovranità ebraica in Terra Santa e a Gerusalemme. È interessante quanto raccontato dall'arcivescovo Loris Capovilla, che fu segretario di Giovanni xxiii. Il Pontefice, una volta affrontato il rapporto della Chiesa con il popolo ebraico - cosa avvenuta nella Nostra aetate - avrebbe voluto riconoscere ufficialmente lo Stato di Israele. Il Papa, però, non visse tanto da assistere alla promulgazione della Nostra aetate stessa ed eventi di carattere principalmente politico causarono un ritardo di altri ventotto anni nella normalizzazione di questi rapporti bilaterali. Il documento pubblicato nel 1985 dalla Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo, intitolato Note sul modo corretto di presentare gli ebrei e l'ebraismo nella predicazione e nel catechismo della Chiesa cattolica romana, basato sulla Nostra aetate, ha definito la persistenza di Israele "un fatto storico e un segno da interpretare nell'ambito del disegno di Dio". Il documento afferma che "la storia d'Israele non è terminata nel 70 a.d., è proseguita, in particolare in numerose comunità della diaspora che hanno permesso a Israele di recare al mondo intero una testimonianza, spesso eroica, della sua fedeltà all'unico Dio e di "esaltarlo alla presenza di tutti i viventi" (Tobit, 13, 4), mantenendo al contempo il ricordo della terra dei loro predecessori al centro della propria speranza (ossia Passover Seder)". Il documento aggiunge che "i cristiani sono invitati a comprendere questo attaccamento religioso, che affonda le proprie radici nella tradizione biblica". Di conseguenza, la promessa della terra è un aspetto essenziale di questa alleanza sempre valida, cosicché si riconosce che il rapporto fra il popolo ebraico e la terra d'Israele ha origine "nella tradizione biblica". Quindi è presentato come un aspetto della fede cristiana da esporre come tale nell'insegnamento e nella predicazione cattolici. Come ha affermato Eugene Fisher, allora responsabile per i rapporti fra cattolici ed ebrei nella Conferenza episcopale degli Stati Uniti, "l'importanza teologica e, di fatto, dottrinale di quest'affermazione non va dunque sottovalutata". Trascorsero altri otto anni prima che il riconoscimento si concretizzasse. Soprattutto grazie alla guida e all'impegno di Giovanni Paolo II, alla fine del 1993, la firma dell'Accordo fondamentale favorì pieni rapporti fra la Santa Sede e lo Stato d'Israele. Questo, a sua volta, rese possibile nell'anno 2000 lo storico pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa, che ebbe un enorme impatto. Uno degli aspetti caratteristici del pontificato di Giovanni Paolo II è stata l'abilità di trasmettere su vasta scala messaggi che fino a quel momento erano stati presenti soltanto negli insegnamenti e nei documenti del magistero. Lo ha fatto soprattutto comprendendo e utilizzando il potere del messaggio visivo. È stato il caso della sua visita alla Sinagoga di Roma nel 1986 e ancora di più della sua visita in Israele. La maggior parte degli ebrei israeliani e, in particolare, dei più osservanti e tradizionalisti, non ha mai conosciuto un cristiano moderno. Queste persone, quando viaggiano all'estero, incontrano i non ebrei solo come tali, raramente come cristiani. Quindi traggono l'immagine prevalente che hanno del cristianesimo da un passato tragico e negativo. La visita papale in Israele ha aperto loro gli occhi di fronte a questa realtà nuova. Non solo la Chiesa non è stata più considerata ostile al popolo ebraico, ma il suo capo è stato visto come un amico sincero! Su un ampio settore della società israeliana ha avuto un impatto profondo vedere il Papa allo Yad Vashem, memoriale della Shoah, in lacrime di solidarietà con il dolore degli ebrei; apprendere in che modo egli stesso aveva contribuito a salvare ebrei in quel tempo terribile e poi come sacerdote aveva restituito i bambini ebrei protetti in case cristiane alle proprie famiglie ebree; vedere il Papa lasciare presso il Muro Occidentale, in rispettosa riverenza per la tradizione ebraica, il testo della preghiera che aveva composto per la giornata penitenziale celebrata il 12 marzo nella basilica di San Pietro, in cui implorava il perdono divino per i peccati commessi contro gli ebrei nel corso dei secoli. Non da ultimo, anche se è stata descritta come pellegrinaggio, quella del Papa è stata pur sempre una visita di stato, con il relativo cerimoniale, e ha affermato il rispetto della Santa Sede per l'espressione contemporanea dell'indipendenza e dell'integrità ebraiche che sono legate indissolubilmente all'identità ebraica in tutto il mondo. La visita di Giovanni Paolo II ha anche ottenuto un altro importante risultato, quando, durante l'incontro con il Rabbino Capo e il Consiglio del Gran Rabbinato d'Israele, il Papa ha proposto l'istituzione di una speciale Commissione bilaterale per il dialogo fra la Santa Sede e il Gran Rabbinato, che a tempo debito è stata creata e svolge incontri annuali, alternativamente a Roma e a Gerusalemme. Negli ultimi otto anni, l'opera della Commissione presieduta dal rabbino capo Shera Yashuv Cohen e dal cardinale Jorge María Mejía ha condotto molte persone dell'ambiente rabbinico israeliano a un apprezzamento autentico della guida e dell'insegnamento dei cattolici e all'amicizia con essi. Questa Commissione coinvolge persone che fanno da cassa di risonanza e influenzano le percezioni e gli atteggiamenti di molte altre. Le immagini che lentamente giungono alla società israeliana grazie a questo incontro e a questa collaborazione sono molto importanti per la promozione del processo educativo volto a un maggior rispetto e a una maggiore comprensione reciproci. È stato grazie a questa Commissione, ricevuta da Benedetto XVI il 12 marzo, che si sono riaffermati i vincoli speciali della fede cattolica con il popolo ebraico e si è reiterato l'impegno profondo della Santa Sede nel continuare a promuovere il rapporto fra cattolici ed ebrei. Visitando Israele ed esprimendo il rispetto della Santa Sede per lo Stato ebraico, rafforzando l'impatto della visita pionieristica del suo predecessore, senza dubbio Benedetto XVI farà progredire ulteriormente il processo storico di riconciliazione fra ebrei e cattolici. Preghiamo affinché la sua visita possa anche promuovere l'altro obiettivo, prefissato dal Papa, della promozione della pace e della riconciliazione fra le popolazioni e le fedi in Terra Santa e in tutto il Medio Oriente.
(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2009)
25 Aprile 2009 - L'INEDITO - La «regola» di Wojtyla per le coppie di sposi - Avvenire, 25 aprile 2009
«Sorgente, dove sei?». La domanda contenuta in un verso del Trittico Romano, l’ultima fatica poetica di Giovanni Paolo II negli ultimi suoi anni, è sta-ta la chiave di lettura della ricerca sulla spiri-tualità familiare che ha accompagnato tutta la vita del Pontefice. Ed è risuonata ieri alla Pon-tificia Università Lateranense nei ricordi di co-loro che, durante gli anni giovanili vissero con lui l’esperienza di Srodowisko, l’Ambiente, un gruppo di giovani studenti e professori uni-versitari che avevano in lui, viceparroco di San Floriano, chiamato Wujek, lo zio - un punto di riferimento.
Sono emerse ieri presso la sede dell’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia durante la presentazione, organiz-zata dalla Cattedra Wojtyla, di un volume con-tenente tre inediti, due in prima traduzione i-taliana, l’altro in assoluto. È una «regola» di vi-ta per gruppi di coniugi ispirata all’enciclica di Paolo VI Humanae Vitae (ne riferiamo nel box a lato). Risale alla fine dei Sessanta, ma trae lo spunto dal vissuto dei vent’anni precedenti nella Polonia comunista e lo attualizza alla vi-sione della contestata enciclica. L’Ambiente e altre esperienze analoghe sono state definite dal presidente del Pontificio Consiglio per i lai-ci, cardinale Stanislaw Rylko, moderatore del-la mattinata, «strumenti di formazione uma-na e cristiana straordinariamente efficaci», la cui chiave stava, e sta, nell’amore come «cam- mino di santità da percorrere».
Alla ricerca di una sorgente spirituale, ma anche di tante sor-genti di montagna incontrate nelle tante e-scursioni compiute da Wujek e dai suoi. Sull’importanza di una regola per un amore che vada al di là della sola emozione e diventi responsabilità per l’altro e per la società ha in-sistito in apertura il preside dell’Istituto, mon-signor Livio Melina. Tale regola non può es-serci senza spiritualità e cioè senza che la re-lazione sentimentale tragga linfa dal proprio «anelito profondo». «L’amore non può sop-portare una precettistica imposta dall’ester-no », ha ricordato Melina. E, infatti, in quasi tutti gli interventi della mattinata è emerso co-me la visione della spiritualità coniugale del futuro Giovanni Paolo II nascesse dall’espe-rienza concreta con fidanzati e sposi.
Quelli che lui accompagnava nel cammino verso l’al-tare. E con i quali, a partire dagli anni di sno-do fra i Quaranta e i Cinquanta, si incammi-nava per lunghe escursioni: i celebri tour a ba-se di tende, bivacchi, canoe, canti e tanta pre-ghiera. Erano gli albori di un modello di pa-storale giovanile e familiare che, grazie anche al ruolo storico giocato dal Papa polacco, a-vrebbe fatto scuola nel mondo. Matrimonio e famiglia erano e sono «gli ulti-mi baluardi della libertà dell’uomo e della so-cietà », ha ricordato il direttore della Cattedra Wojtyla, Stanislaw Grygiel, il quale ha delineato l’humus religioso e culturale della Cracovia del tempo. Che ha forgiato testi di riflessione ai quali finora non era stata «dedicata sufficien-te attenzione».
Dai quali però emerge l’im-portanza di una famiglia basata su un legame di fedeltà e di apertura a Dio. Senza il quale la coppia è facile preda di tre tentazioni perico-lose: «edonismo, estetismo, cioè ricerca della sola bellezza esteriore, e utilitarismo». Succu-be dello scientismo. Con una società dominata dall’ideologia co-munista, ma anche con una modernità che spacciava per progresso elementi distruttivi della famiglia, come l’aborto, hanno avuto a che fare anche altri due Servi di Dio che ac-compagnano il connazionale Pontefice nel cammino verso gli altari. Significativamente sono un vescovo e un laico: Jan Pietraszko e Jerzy Ciesielski. La figura del primo - che il più giovane Wojtyla, divenuto arcivescovo, trovò come ausiliare a Cracovia - è stata ricostruita da Ludmila Grygiel. Pietraszko, da tempo im-pegnato nella pastorale con gli scout e gli uni-versitari in organizzazioni che conobbero la repressione del regime, fu colui che introdus-se il confratello destinato a ben altri incarichi alla comprensione del mondo giovanile. Gio-vanni Paolo Il lo definì suo «maestro» e lui stes-so parlava di sé come di un «dissidente evan-gelico », ha ricordato la studiosa, a connotare la dimensione di un impegno che andava ben al di là della mera critica politica al comunismo.
La vedova dell’ingegnere Ciesielski, morto tra-gicamente con due figli in un naufragio sul Ni-lo nel 1970, ha delineato un profilo del mari-to. E soprattutto dello 'zio' Karol: «Ancora og-gi non riesco a capire come ce la facesse a tro-vare il tempo necessario per i colloqui con noi. Chiariva, suggeriva, conduceva, senza mai co-stringere a prendere una determinata deci-sione. Quello toccava a noi». Nelle famiglie di origine, in quelle nuove, nel lavoro. E in quel gruppo giovanile molti decidevano per il «sì» definitivo. Lo ha ricordato la musicologa Tere-sa Malecka, che ha testimoniato di un legame con il connazionale durato tutta la vita. « Wujek è stato sempre presente e certamente lo è tut-tora con la preghiera che cerchiamo di ricam-biare ».
Gianni Santamaria
LA VICENDA DELLA GIOVANE ROM DI MILANO - L’etnia non è un destino Riscossa da scuola e amicizia - DAVIDE RONDONI - Avvenire, 25 aprile 2009
S chiavitù a Milano. Dove ci sono i negozi belli. Le fiere. Le belle borsette.
Schiavitù. A Milano c’è. Non è l’immagine usata da un sociologo. O da uno scrittore pessimista. No, è il verbale di un magistrato che ha arrestato per riduzione in schiavitù un numeroso clan familiare rom. Dovrebbe arrivarci in petto come una pugnalata. Tanto più se la vittima è una ragazza, ora di 19 anni, ma che negli anni scorsi è stata obbligata dal clan a cui appartiene a rubare. Schiavitù.
Niente di meno. Invece delle catene, su di lei botte e terrore. Che sono catene peggiori. Più vili. E più orrende, se possibile, quando vengono buttate addosso al corpo di una ragazza nata a Zagabria con l’unica colpa di essere rom, secondo l’accezione che di questa parola viene data, dal padre e dagli zii e dal cerchio dai parenti, con la connivenza della madre. Un cerchio che la teneva legata a quello che una ragazza come lei doveva fare, secondo loro. Come se tutti i rom dovessero per forza rubare, cosa che non è vera. Ma usata per rubare. Per fare quello che talora vediamo fare in giro nelle nostre città, nei negozi, nelle chiese, e anche negli ospedali.
Come se l’etnia fosse un destino. Ma lei in Germania dove era stata fino a qualche anno fa aveva avuto la possibilità di andare a scuola.
E non le andava invece che a Milano no, non poteva andare con gli altri ragazzi come lei a scuola, e doveva rubare. E allora la ragazza ha avuto la forza di rompere il cerchio denunciando tutto alla polizia. Che con discrezione e determinazione ha portato in fondo la faccenda. E ha arrestata questa famiglia di schiavisti. La scuola può fare anche questo. L’essere andata un po’ a scuola ha fatto in modo che questa ragazza immaginasse per sé un mondo diverso da quello che le stavano cucendo addosso gli schiavisti. La scuola può fare del bene anche senza fare chissà che. Così, solo imparando un po’ di cose, e facendo vedere ai ragazzi che nella vita si può migliorare. La scuola può fare molto anche senza accorgersene. Se ai ragazzi è permesso andarci. Se anche ai ragazzi che appartengono a questi gruppi etnici è permesso andare. È un bene dunque - anche per questi - che tra il nostro governo e l’Opera dei migranti stiano avanzando gli accordi per favorire gli inserimenti a scuola dei ragazzini rom in Italia. La scuola può fare molto anche senza fare cose speciali, essendo scuola e basta. Le cronache dicono che ad incoraggiare la ragazza al gesto che l’ha liberata dalla schiavitù è stata anche l’amicizia con un ragazzo italiano che cura un orto vicino al campo dove stava l’orrido clan.
Fa tenerezza e fa tremare questa storia di ragazzi. Sembrerebbe una scena da romanzo dell’ 800. Invece è oggi, è cronaca, è botte e catene, schiavitù vera. E riscossa vera.
L’amicizia e la scuola possono fare molto. La scuola da sola forse non può fare tutto. Per rompere la schiavitù ci vuole un amico. Ma la scuola offerta ai ragazzini è una grande risorsa. Sia per gli italiani che per quelli che lo possono diventare lasciandosi alle spalle antiche e nuove schiavitù. La vicenda della ragazzina che ha rotto le catene va raccontata nelle nostre scuole. E se la nostra televisione che si vorrebbe più alleata della scuola la raccontasse farebbe una cosa giusta, e bellissima.
La storia della ragazza che ha rotto le catene va raccontata nelle nostre classi. E in tv.
Fine vita, i medici cattolici: sì all’alleanza terapeutica - La presidenza Amci: dovute idratazione e alimentazione agli stati vegetativi - DA MILANO ENRICO NEGROTTI - Avvenire, 25 aprile 2009
Sostegno al manifesto «Liberi per vivere», difesa dell’alleanza terapeutica nel fine vita, apprez-zamento per il punto di equilibrio raggiunto con la legge 40 in relazione alle pratiche di fecondazione assistita. Sono gli argomenti che l’ufficio di presidenza dell’Associazione dei medici cattolici italiani (Amci) riunitosi a Roma ha discusso per far sentire la propria voce su temi di grande attualità: la campagna per la difesa della vita, il disegno di legge sul fine vita, l’at-tuazione della legge sulla procreazione assistita do-po l’intervento della Corte Costituzionale. Il presi-dente nazionale Vincenzo Saraceni, il segretario na-zionale Franco Balzaretti, insieme con i tre vicepre-sidenti nazionali Chiara Mantovani (Nord), Stefano Ojetti (Centro) e Aldo Bova (Sud) hanno sottoscritto un documento, «a nome delle 133 sezioni diocesane», che ribadisce la propria adesione al manifesto «Li-beri per vivere»: l’Amci, assicurano i suoi dirigenti na-zionali, «non farà mancare la propria operosa colla-borazione al progetto culturale che mira a diffonde-re capillarmente nel nostro Paese le conoscenze scien-tifiche ed etiche necessaria per affrontare realistica-mente e ragionevolmente le questioni bioetiche og-gi più dibattute». E sul tema specifico del fine vita, la presidenza na-zionale dell’Amci ripete, «nell’attuale circostanza so-ciale e politica», «il proprio impegno di «carità pro-fessionale» nella cura competente e amorevole alla persona ammalata e - sottolinea il documento - re-puta il disegno di legge sul fine-vita, approvato dal Se-nato (ddl Calabrò, ndr), un prezioso strumento per continuare un lavoro che vede nella alleanza tera-peutica tra il paziente e il medico il modello di ogni relazione sanitaria». Riguardo al dibattito circa l’ali-mentazione e l’idratazione ai pazienti in stato vege-tativo, la presidenza nazionale dell’Amci aderisce fe-delmente alle indicazioni fornite dalla Congregazio-ne per la dottrina della fede nel 2007 in risposta a due quesiti posti da alcuni vescovi americani: «La som- ministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e propor-zionato di conservazione della vita. Essa è quindi ob-bligatoria, nella misura in cui e fino a quanto dimo-stra di raggiungere la finalità sua propria, che consi-ste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del pa-ziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la mor-te dovute all’inanizione e alla disidratazione».
Altro tema che negli ultimi anni è stato al centro del dibattito bioetico è quello della fecondazione assi-stita. «L’Amci sottolinea con forza - ricorda il docu-mento della presidenza nazionale - la fondamenta-le importanza del riconoscimento della preziosità in-dividuale e sociale della vita umana sin dal suo esor-dio e della piena soggettività dell’embrione umano». Inoltre «l’Amci riconosce che la legge 40 ha rappre-sentato il punto più avanzato di sintesi delle diverse sensibilità culturali presenti nel Paese» e «ritiene che non debbano essere messi in discussione gli articoli che vietano il congelamento degli embrioni umani, la loro selezione a seguito di diagnosi pre-impianto e la destinazione degli embrioni crioconservati alla sperimentazione». Tenendo conto della recente sen-tenza della Corte Costituzionale, l’Amci «invita le for-ze politiche alla massima cautela e a tener conto del-le più recenti evidenze scientifiche in materia di ini-zio della vita le quali, in relazione alla analisi di una vastissima mole di dati, provenienti dalla genetica, dalla biologia cellulare e molecolare e dalla embrio-logia, consentono di affermare con ragionevole cer-tezza che il processo di fertilizzazione costituisce l’i-nizio alla esistenza di un nuovo organismo della spe-cie umana, quale ciascuno di noi è, cui è dovuto il ri-spetto riservato ad ogni persona umana».
classici - Una iniziativa editoriale colma un vuoto italiano con una collana dedicata all’inventore di padre Brown, proprio mentre c’è una riscoperta internazionale dell’autore. - In questo romanzo, il suo più complesso, il protagonista è l’alter ego dello scrittore in lotta con il razionalismo tipico della modernità - Chesterton l’anti-Cartesio - DI FULVIO PANZERI - Avvenire, 25 aprile 2009
C’ è un ritorno di attenzione sul-l’opera di uno dei grandi scrit-tori del Novecento, G.K.Che-sterton, anche a livello internazionale. Basti pensare che la domenica di Pasqua il 'Washington Times' ha riproposto al-l’attenzione dei suoi lettori una serie di estratti da Ortodossia, mentre è annun-ciata per i prossimi mesi l’uscita in A-merica di Manalive, un film diretto da Joey Odendahl, sceneggiato da Dale Ahhlquist, presidente dell’American Chesterton Society. Ad impersonare lo straordinario personaggio di Innocent Smith, alter ego di Chesterton stesso, sarà Mark Shea, scrittore americano convertitosi, nel 1987, al cattolicesimo. Proprio questo romanzo, pubblicato nel 1912, e riconosciuto come il capolavo-ro dello scrittore inglese, senz’altro me-no conosciuto in Italia di altre sue ope-re e presentato ai nostri lettori con il ti-tolo «Le avventure di un uomo vivo», ri-torna in libreria, pubblicato da una pic-cola casa editrice di Treviso, la Morgan-ti, che ha scelto di ri-valorizzare nel no-stro paese il pensiero e l’arte di Che-sterton, con un’intera collana dedicata alla sua opera, 'Chestertoniana'. Que-sta collana, curata da Paolo Morganti, che è anche il nuovo traduttore dell’o-pera nella sua integrità, correggendo di-storsioni e tagli presenti nelle edizioni precedenti, colma un vuoto, attraverso un rigoroso lavoro di indagine filologi-ca e storica, un apparato di note di com-mento che favoriscono la comprensio-ne del testo, una premessa esaustiva che ne spiega i contenuti e presenta utili in-dizi interpretativi. Tra i titoli già usciti segnaliamo Il candore di padre Brown e La saggezza di Padre Brown, cui ora si aggiunge Uomovivo, il più complesso romanzo dello scrittore inglese, e anche il suo capolavoro, tutto da rileggere e da riscoprire, in quanto, at-traverso la figura di Innocent Smith, per-sonaggio bizzarro e stravagante che, in un caldo pomeriggio d’estate, irrompe, portato da un turbine di vento, nel giar-dino di un piccolo cottage, la pensione di una signora piuttosto taciturna. La bizzarria e i comportamenti inconsueti dell’uomo fanno nascere sospetti e dub-bi sulla sua identità, tanto da arrivare a ritenerlo pericoloso e a indurre i villeg-gianti a raccogliere prove infondate su presunti comportamenti illeciti che van-no dall’omicidio con furto alla bigamia. In una situazione paradossale, ma alta-mente emblematica, Innocent Smith viene processato, anche se lui accondi-scende di buon grado a quella farsa che si sta inscenando, fino a che sarà il suo avvocato che dimostrerà la sua inno-cenza e spiegherà il valore simbolico del suo vero nome, quello di «Uomovivo» che diventa non solo indicazione ana-grafica, ma condizione esistenziale e morale a tutti gli effetti.
Abbiamo già detto di quanto Chester-ton, attraverso Innocent Smith, raccon-ti di se stesso, ma in una sorta di «auto-biografia del pensiero», che mette in lu-ce il nodo del suo cristianesimo, a par-tire da quella preminenza del tema del-la «meraviglia» di fronte alle cose dell’e-sistenza, ai suoi aspetti più quotidiani e poveri, visti nell’ottica di un dono, di u-na dimensione della grazia. Secondo Paolo Morganti è questo «l’unico modo per accettare l’arbitrarietà della vita, o, come direbbe un ateo, per tollerare l’an-goscia della morte». E un altro aspetto chiarificatore che mette in luce il cura-tore e che deriva da questa dimensione dello «stupore» cosmico, è il suo essere cristiano che si manifesta attraverso «la naturale e inevitabile posizione di un uomo che ha combattuto contro l’idea di un uomo moderno, che vuole impor-si nel mondo e sulle cose del mondo, in-vece che viverle nella consapevolezza che nulla gli appartiene».
Questa è anche la risposta al clima cul-turale di una modernità, imperante nel-la sua epoca, che fonda tutto sul valore della scienza e del razionalismo, sul lo-ro tentativo di addomesticare gli uomi-ni secondo i principi di una illusoria ci-viltà. Questo romanzo, strutturalmente moderno e attualissimo, viene definito a ragione, dal Morganti, «una favola an-tropologica » e il concetto stesso di «Uo-movivo » diventa la risposta concreta e morale alle derive culturali di cui sente il mondo in balia. L’uomo vivo di cui Chesterton traccia il ritratto narrativo è quello che ha bisogno di recuperare l’i-dea del Sacro e del vissuto, non lascian-dosi sedurre dalle illusioni e dalle false promesse di un razionalismo che ha co-me prospettiva l’infelicità.
Gilbert Keith Chesterton
UOMOVIVO - Morganti editore. Pagine 256. Euro 15,00
morto P. Francesco Tan Tiande,
testimone gioioso dopo 30 anni di lager
Arrestato per la fede nel 1953, dal regime comunista cinese, ha lavorato nei lager dell’Heilongjiang (nord-est) come agricoltore. É ritornato a Guangzhou nel 1983. Da allora ha svolto opera di catechesi e di evangelizzazione, stimato come martire da tutti i fedeli della diocesi di Guangzhou.
In un brano del suo diario, parlando dei durissimi anni di prigionia, egli scriveva: «Anche negli anni in cui era severamente proibito qualsiasi segno religioso, io non ho mai rinunciato, in mezzo ai prigionieri, a fare il segno della Croce. Avevo paura di dimenticare che tutto mi veniva dalle Sue mani, che tutto era segno di amore, che tutto mi era donato perché io divenissi una persona che sa amare... Quel ‘segno’ mi è costato innumerevoli punizioni… Ma io dovevo salvare la mia dignità di credente, per non trovarmi senza forza».
Guangzhou (AsiaNews) – Questa mattina alle 5 (ora locale) è morto all’età di 93 anni p. Francesco Tan Tiande, una delle personalità più stimate e conosciute della diocesi di Guangzhou, un vero apostolo e martire della fede, che ha passato 30 anni in carcere ai lavori forzati, ma non ha mai perduto la gioia della fede.
Nato nel 1916 a Shunde (Guangdong), da una famiglia cattolica da generazioni, entra da ragazzo in seminario e studia teologia nel seminario regionale della Cina meridionale ad Hong Kong (oggi «Holy Spirit»). Per tre anni è campione di atletica e nuoto. Questo spirito sportivo – fatto di forza fisica e di forza di volontà - egli dice che lo ha aiutato in seguito «nelle carceri e nei campi di lavoro del nord-est». È ordinato sacerdote nel 1941 nella cattedrale di Guangzhou, la «Shishi» («Casa di Pietra»), dedicata al Sacro Cuore. Dopo un periodo pastorale nel capoluogo, viene mandato nell’isola di Hainan e poi ad Hong Kong, per tornare a Guangzhou nel ’51.
Incarcerato nel 1953 a causa della sua fede, viene mandato in un campo di lavori forzati nel nord-est della Cina (Heilongjiang) dove rimane per 30 anni. In origine era stato condannato, senza processo, al carcere a vita. A poco a poco, grazie al suo comportamento pieno di servizio e amorevole, i giudici gli riducono la pena. Solo nel 1983 riceve il permesso di ritornare a Guangzhou, dove ha vissuto come sacerdote aiutante della cattedrale, amato da fedeli cristiani e non cristiani.
Per comprendere lo spessore della sua fede e testimonianza, basta leggere dal suo diario (pubblicato da AsiaNews nel 1990 in «Cina oggi», n. 10, pp 191-206) il modo in cui egli ripensa alla sua prigionia. In esso egli descrive le ingiustizie; i processi popolari contro di lui (perché è cattolico e prete); la miseria e la fame vissuta da tutti i prigionieri. Ma descrive pure la sua testimonianza di carità verso prigionieri e guardie, il suo sostenerli a riscoprire la dignità umana attraverso la fede in Dio. In un brano del diario egli scrive:
«Durante i 30 anni in cui vissi nel nerd-est, l’agricoltura era la mia occupazione principale Ogni anno, quando arrivava la primavera, dovevamo cercare di concimare un terreno che era duro come l’acciaio [a causa del freddo polare – ndr]. Usavamo picconi per scavare la terra. Una volta reso il terreno più morbido, lo innaffiavamo e vi piantavamo i semi. Oggi, descrivendo tutto ciò, non ki sembra così tremendo. In realtà a quel tempo eravamo denutriti. Tutto quel lavoro era al di là delle nostre forze, cosicché anche ogni minuto era un’agonia»….
«La gente potrebbe chiedersi come io abbia potuto sopravvivere in queste condizioni tremende. Per chi non crede è un enigma senza soluzione. Per chi ha fede è la volontà di Dio. La vita è il suo dono più prezioso all’uomo. Devo avere grande cura di questo dono per non essere un ingrato. Perciò per sopravvivere mangiavo erbe selvatiche e la corteccia degli alberi…. Ho vissuto in condizioni tali da sperimentare le azioni brutali dei miei compagni… Questo dolore è anche più grande della fame. Avrei voluto correre nei campi e gridare ad alta voce: Dio, dove sei?... Non so quante volte ho pensato di farla finita. Ma proprio al momento cruciale vedevo Gesù sulla croce che mi guardava con occhi misericordiosi… e lo sentivo dire: O uomo di poca fede! Dubiti forse che io ti ami?».
«Anche negli anni in cui era severamente proibito qualsiasi segno religioso, io non ho mai rinunciato, in mezzo ai prigionieri, a fare il segno della Croce. Avevo paura di dimenticare che tutto mi veniva dalle Sue mani, che tutto era segno di amore, che tutto mi era donato perché io divenissi una persona che sa amare. Temevo di finire col pensare che c’è qualcosa di cui posso non dire grazie anzitutto al Signore, di finire col vergognarmi di Lui, di ritenere qualcuno o qualcosa più forte di Lui. Quel ‘segno’ mi è costato innumerevoli punizioni… Ma io dovevo salvare la mia dignità di credente, per non trovarmi senza forza».
AsiaNews 23/04/2009 11:24
YES, WE CAN - Effetto Barack sull’agenda gay - Così negli Stati Uniti il vento del cambiamento gonfia le vele dei fautori del matrimonio omosex. Un fronte che avanza con l’aiuto dei giudici, evitando di fare i conti con la volontà popolare… - Tempi, 21 aprile 2009
La frontiera si sposta nel Midwest. Il 3 aprile la Corte suprema dell’Iowa ha cancellato il divieto alle nozze gay in vigore dal 1998, scatenando l’entusiasmo degli attivisti che ora auspicano che il caso faccia scuola in altri contesti dove i tribunali statali o le assemblee legislative stanno discutendo sui «gay marriage». Nel giro di pochi giorni Iowa e Vermont si sono uniti a Massachusetts e Connecticut, portando a quattro il numero degli Stati americani dove le coppie dello stesso sesso godono degli stessi diritti di quelle eterosessuali.
Fra matrimoni, unioni civili, partner-ship domestiche, registri delle convivenze omosex, la mappa dei diritti delle coppie gay in America è variegata. Con sfumature spesso sostanziali. Agli Stati che concedono agli omosessuali gli stessi benefit, esenzioni fiscali e diritti di eredità delle coppie eterosessuali sposate, se ne aggiungono sette che ammettono qualche forma di unione civile (con relativi diritti, come, ad esempio, quello di visitare i parenti malati in ospedale o la co-intestazione dei contratti di locazione). Altri ancora, come il District of Columbia e New York (dove è partito il 16 aprile l’iter per approvare le nozze gay), concedono a chi ha contratto un «matrimonio» altrove di godere delle medesime tutele e garanzie delle coppie tradizionali. Ma ci sono anche quelli – e sono la netta maggioranza – che affermano e hanno fatto inserire nel codice di famiglia o nella Costituzione statale che il matrimonio è da intendersi solo come l’unione fra un uomo e una donna. In 41 Stati dell’Unione la definizione tradizionale di matrimonio è sancita da leggi approvate dai Congressi locali. Ciò non impedisce però il riconoscimento legale delle convivenze omosex. È il caso di Hawaii, Stato di Washington e Maryland. Trenta Stati hanno rafforzato il bando ai matrimoni gay ed emendato la Costituzione con l’inserimento della definizione del matrimonio tradizionale come vincolante. Altri ancora hanno recepito il Doma, il Defense of Marriage Act, la legge promulgata nel 1996 da Bill Clinton che autorizza i singoli Stati a non riconoscere le unioni contratte da coppie dello stesso sesso in altri Stati.
La battaglia fra i pro-family e gli attivisti del movimento gay sta comunque vivendo negli States una nuova e animata stagione. Dopo gli anni di presidenza Bush il clima politico e culturale è mutato. L’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca ha galvanizzato la base liberal e ridato fiato alle rivendicazioni degli omosessuali. Tom Messner, visiting fellow alla Heritage Foundation, spiega a Tempi che «è probabile che l’effetto Obama abbia qualche conseguenza, ma è altrettanto innegabile che il presidente finora si sia mosso con grande cautela». Obama ha infatti sempre dichiarato di ritenere il matrimonio come l’esclusiva unione di un uomo e una donna. Eppure la sua idea di revocare il Doma lascia aperte diverse opzioni per i sostenitori dei diritti gay. Tuttavia, dice a Tempi Joe Mathews, della New America Foundation, «Obama è intelligente e sa che non tutti lo seguirebbero se decidesse di imbarcarsi in un’iniziativa a favore dei matrimoni gay. Anche qui vale la regola che l’economia è più importante».
La strategia delle lobby gay è presentare ricorsi e sollevare dibattiti laddove le condizioni sono più favorevoli. Ovvero dove la maggioranza nelle Corti supreme statali è ritenuta favorevole alle unioni omo. Altra via è quella legislativa, il classico iter di presentazione e approvazione di proposte di legge nei parlamenti statali. Ma la via «giudiziaria» offre le migliori chance di successo. Ha notato infatti il New York Times che sebbene il consenso alla legalizzazione delle nozze gay è andato negli ultimi anni crescendo, solo un terzo degli americani è favorevole a chiamare matrimoni le unioni fra persone del medesimo sesso. «Quando la gente può esprimersi, sostiene il matrimonio tradizionale, come è accaduto nei 30 Stati che negli anni si sono espressi sui Marriage Protection Amendaments», racconta a Tempi Michael Geer, presidente del Pennsylvania Family Institute. Che aggiunge: «Credo che in Iowa la gente non avrebbe approvato l’equiparazione tra unioni omosex e matrimoni». Il sondaggio del quotidiano progressista newyorkese poggia su dati difficilmente smentibili: in tre Stati che oggi consentono le nozze gay è stata la Corte suprema a imporre la norma. Solo in Vermont è stata l’assemblea legislativa a dare semaforo verde ai matrimoni omosessuali. Ma nel piccolo Stato del Nordest, che sui diritti civili fa spesso corsa a sé, le unioni civili, praticamente equiparate al matrimonio, erano in vigore da nove anni.
Mathews giudica il caso dell’Iowa emblematico: «Tutti sanno che l’America è ancora contraria ai matrimoni gay. È vero che le cose stanno cambiando, che il clima politico e culturale è in divenire, ma è ancora presto per pensare di cambiare l’istituto del matrimonio dal basso». Una corte che «legifera», che vuole sostituirsi ai Parlamenti e alla volontà popolare per modificare i costumi e le regole (come accusava George W. Bush), è l’unica strada che hanno le lobby per fare avanzare «l’agenda gay».
Basta dare un’occhiata ai numeri per capire quanto gli statunitensi siano ostili a stravolgimenti così radicali nei costumi: negli undici Stati in cui il 2 novembre del 2004 si votò sui «gay marriage» il no prevalse con oltre, in media, il 70 per cento dei consensi. Più recente e ancora più emblematico il caso della California. Nel 2000 in un referendum la popolazione del Golden State sostenne a stragrande maggioranza (61 per cento) una legge di iniziativa popolare (Proposition 22) che definiva il matrimonio come unione fra uomo e donna. Ma nel 2005 la volontà dei cittadini fu rovesciata dal Parlamento, che aprì la strada al riconoscimento delle partnership domestiche. Ancora troppo poco evidentemente per le star di Hollywood e dello show business, sempre pronte a staccare robusti assegni per queste cause. Così, nel maggio del 2008, la Corte suprema statale ha trasformato le partnership domestiche in diritto al matrimonio. Da qui la sfida di un gruppo di attivisti pro-family cattolici, ebrei, mormoni, evangelici e conservatori, che ha lanciato una consultazione (Proposition 8) per rovesciare il pronunciamento della Corte e confermare la validità giuridica della definizione di matrimonio. Ebbene il 4 novembre 2008 il 52 per cento dei californiani ha bocciato l’estremismo dei giudici e lo strappo dei legislatori.
A rischio la libertà di culto
Il braccio di ferro attorno al «gay marriage» non è una logomachia. Il salto da unioni civili a matrimonio è concettuale e sostanziale. Secondo Geer «assegnare il titolo di sposi a due omosessuali significa portare un grande cambiamento nella cultura e nei costumi. Con tutte le ripercussioni pratiche che si riflettono nella vita quotidiana». Considerare infatti lo scontro sui matrimoni gay una battaglia meramente ideologica rischia di essere non solo riduttivo, ma anche un abbaglio. Messner, che ha studiato le conseguenze sulla società dell’introduzione del «gay marriage», parla apertamente di minaccia al Primo emendamento della Costituzione americana, quello che tutela la libertà di culto, parola e stampa. «Se infatti – argomenta lo studioso – il matrimonio fra omosessuali diventasse norma condivisa, non solo sarebbe alterato il significato del matrimonio tradizionale, ma diventerebbe discriminatorio il non riconoscere la legittimità dell’unione fra gay». Se le coppie omosessuali entrassero a far parte del codice di famiglia, gli istituti caritatevoli di ispirazione cristiana (ma non solo) che rifiutano di riconoscere le unioni fra persone dello stesso sesso potrebbero essere accusati di condotta discriminatoria ed essere esclusi dai finanziamenti statali per i servizi sociali che offrono. Non è uno scenario così lontano. Racconta lo stesso Messner che nel New Jersey, dove esistono le unioni civili gay, un istituto religioso ha rifiutato di cedere a una coppia di lesbiche una sala per celebrare la cerimonia della loro unione. Ne è nata una causa contro l’istituto, accusato di violazione dei diritti civili. La conseguenza? Lo Stato del New Jersey ha cancellato il regime di esenzione fiscale per l’istituto.
di Alberto Simoni
TEMPI 21 Aprile 2009
A proposito dello Stato etico - Il diritto non è neutrale - di Stefano Semplici Università di Roma Tor Vergata - L'Osservatore Romano, 26 Aprile 2009
Non esiste lo Stato perfetto. Ha ragione Isaiah Berlin: forse potremmo accettare di sacrificare una parte della nostra libertà in cambio della ricetta con la quale rendere l'umanità "giusta e felice, creativa e armoniosa per sempre", ma il problema è che tale ricetta non c'è. Proprio perché gli uomini sono liberi. Hegel non è il padre dei totalitarismi del Novecento. Cionondimeno, la sua Ragione condivide con la violenza politica esercitata "a fin di bene" l'illusione che la realtà dello Stato possa coincidere con quella dell'Idea etica e diventare lo strumento operativo della sua Verità.
Il congedo dallo Stato etico, irreversibile nelle moderne società liberali e democratiche, è il congedo dalla prepotenza comunque implicita nella pretesa coincidenza fra l'interesse e la volontà individuali e l'unità sostanziale di ciò che è e deve essere di tutti: di fronte all'evidenza di una costellazione di valori, fini e stili di vita diversi e spesso distanti, non si può usare la scorciatoia della costrizione per ottenere quel che non si realizza spontaneamente e anche se quanto si impone lo si impone rispettando la legge della maggioranza lo Stato tradisce il suo ruolo, che non è quello di stabilire per legge cosa sia il bene, ma di consentire a ognuno di vivere secondo la sua visione del bene, purché ciò avvenga senza danno per gli altri.
Questa conclusione è ampiamente condivisibile e segna da tempo uno spartiacque negli stessi rapporti fra religione e politica. Ben pochi sono ormai i nostalgici dei modelli teocratici che trasformano quel che per una religione è peccato in reato. Per il cattolicesimo, in particolare, il concilio Vaticano II ha fissato un punto di non ritorno: l'uomo - così si legge nella Dignitatis humanae - "è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività" la coscienza e "nella società va rispettata la norma secondo la quale agli esseri umani va riconosciuta la libertà più ampia possibile", limitandola solo "quando e in quanto è necessario". Perché, allora, evocare l'ombra cupa dello Stato etico, soprattutto quando ci si confronta su leggi come quelle sull'inizio e la fine della vita o sulla famiglia?
Uno Stato non etico non è per questo uno Stato senza valori. Le costituzioni non sono mai un semplice catalogo di regole formali per la produzione legittima di decisioni vincolanti. Raccolgono i principi che si vogliono fondamentali appunto perché posti a base e garanzia di un'identità e di un sentimento di appartenenza capaci di durare nel tempo. È dai valori - ha ribadito Barack Obama nel suo discorso di insediamento - che dipende la nostra possibilità di successo. Dai valori, cioè da cose "antiche" come il lavoro duro e l'onestà, il coraggio e il fair play, la tolleranza e la curiosità, la lealtà e il patriottismo. Occorre condividere una "giusta causa" per essere davvero forti e sicuri.
Uno Stato non etico, dunque, non è uno Stato eticamente neutrale. È però uno Stato che traccia e rispetta una linea di confine fra pubblico e privato. Ed è qui che nasce il problema. Da una parte è evidente che nella sfera più intima del vivere, del soffrire, dell'amare è molto difficile accettare che altri decidano per noi e dunque più forte sarà la richiesta di una libertà senza condizioni. Dall'altra, tuttavia, è innegabile che tale confine non corrisponde a un taglio netto, perché ci sono scelte private che proiettano le loro conseguenze sui valori e sui beni che costituiscono l'insostituibile pavimento etico di una società.
I conflitti sulla bioetica e sul biodiritto sono particolarmente laceranti e non si lasciano risolvere con il lessico tutto polemico degli zelanti persecutori del fondamentalismo o, viceversa, del nichilismo. In gioco ci sono il riconoscimento e la tutela della vita umana, cioè il cardine stesso di ogni possibile convivenza, prima ancora che della relazione giuridica. La fatica della mediazione è allora politicamente doverosa e un limite all'autodeterminazione può non valere automaticamente una violazione della libertà. Discutere di questo limite non significa volere sostituire la legge alla coscienza, ma prendere atto di una reale difficoltà.
Il diritto non è neutrale. Può apparire tale solo fino a quando è chiamato ad applicare l'astratta correttezza formale delle sue procedure per sancire l'incontestabilità di un contenuto normativo sostanzialmente condiviso, ma questo equilibrio si spezza quando diventa necessario decidere di un conflitto fra principi ugualmente irrinunciabili e fra i quali non tutti accettano lo stesso ordine di priorità. Che è quanto accade e accadrà sempre più spesso. Lo Stato etico non c'entra.
C'entra semmai la capacità di raccogliere la sfida ad ampliare il consenso intorno ai valori, soprattutto quelli che si considerano non negoziabili e tuttavia non sono più condivisi, con la ferma serenità di comportamenti credibili, oltre che con la richiesta di "buone" leggi. Magari rinunciando tutti insieme all'ostinato pregiudizio per il quale, su questioni tanto complesse e delicate, chi pensa diversamente pensa male. O, peggio ancora, non ha capito la lezione della storia.
(©L'Osservatore Romano - 26 aprile 2009)
A colloquio con l'arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, in occasione della canonizzazione di quattro italiani e un portoghese - Nuovi testimoni della santità - di Nicola Gori - L'Osservatore Romano, 26 Aprile 2009
Don Carlo Gnocchi sarà beatificato a ottobre a Milano, mentre la causa di Giovanni Paolo II procede "abbastanza sollecitamente" su una corsia preferenziale voluta da Benedetto XVI. Sono alcune delle novità emerse dall'intervista al nostro giornale con l'arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, alla vigilia della prima liturgia papale di canonizzazione del 2009: quattro italiani (Arcangelo Tadini, Bernardo Tolomei, Geltrude Comensoli e Caterina Volpicelli) e un portoghese (Nuno de Santa Maria Álvares Pereira) verranno proclamati santi da Benedetto XVI domenica 26 aprile in piazza San Pietro.
Qual è la caratteristica di questi cinque nuovi santi?
Una caratteristica comune nei quattro santi italiani è quella di essere fondatori, cioè hanno dato vita a delle congregazioni religiose. Si tratta di due uomini e di due donne appartenenti a vari ceti sociali e con percorsi di vita originali. In quanto fondatori, la loro santità è anche un incentivo per la santificazione dei loro figli e figlie spirituali.
Cominciamo con il più antico in ordine cronologico: Bernardo Tolomei, fondatore della Congregazione benedettina di Santa Maria di Monte Oliveto. La sua peculiare caratteristica è la conversione alla preghiera. Era un laico nobile, vissuto tra il XIII e il XV secolo, che si ritirò in solitudine. Nonostante la scelta di vita ascetica e solitaria, non si tirò indietro davanti ai bisogni dei fratelli. Infatti, si impegnò nell'assistenza agli ammalati, tanto è vero che morì proprio dando aiuto agli appestati di Siena nel 1348. Il secondo santo è un eroe, un nobile soldato, Nuno di Santa Maria, l'unico portoghese del gruppo dei cinque. Abbandonò la vita militare e si dedicò alla preghiera e alla penitenza tra i carmelitani. Sua caratteristica è di aver vissuto la prima parte della vita in maniera avventurosa, mentre la seconda la passò in contemplazione e in preghiera. Arcangelo Tadini, invece, era un sacerdote diocesano, fondatore della Congregazione delle suore operaie della Santa Casa di Nazareth. Il nome scelto indica già il carisma particolare di questa Congregazione. Segue poi in ordine di nascita Geltrude Comensoli, fondatrice delle suore del Santissimo Sacramento, dette sacramentine: anche qui c'è la sintesi del suo carisma. Infine, abbiamo Caterina Volpicelli, fondatrice delle ancelle del Sacro Cuore. La Volpicelli è famosa a Napoli e altrove per le sue istituzioni educative. Anche lei, nobildonna, ebbe una progressiva conversione. La sua spiritualità era basata soprattutto sulla riparazione delle offese al Sacro Cuore di Gesù e fondò una congregazione che a partire dall'amore di Dio si aprisse all'apostolato a tutto campo nei confronti dei bisogni di ogni tipo.
Quale aspetto dei nuovi santi è maggiormente attuale per la Chiesa e la società?
Tutti perché la santità è sempre attuale. Il capitolo V della Lumen gentium sottolinea l'universale vocazione alla santità di tutti i battezzati. Quindi ogni santo è sempre attuale. Perché? Per due caratteristiche, per la sequela Christi nell'eroicità delle virtù della fede, speranza e carità e per l'apostolato che viene di conseguenza. L'eroicità della fede, della speranza e della carità, modelli che non tramontano mai.
Perché solo ora vengono canonizzate figure vissute tra il XIII e il XV secolo?
I ritardi sono dovuti essenzialmente a complicazioni storiche. A quel tempo vi erano continui conflitti locali, regionali, nazionali, per cui era difficile mantenere una successione nelle pratiche processuali. Prendiamo il più antico dei canonizzandi: il Tolomei. A circa tre mesi dalla morte un atto giuridico pubblico già lo chiama beato. Quindi il suo culto si diffuse subito dopo la sua morte. Le vicende storiche che sconvolsero gli Ordini religiosi e quindi anche gli olivetani dalla seconda metà del XVIII secolo al XIX, non permisero di portare a termine il processo di canonizzazione. Si dovette attendere la restaurazione della Congregazione benedettina olivetana nella seconda metà del XIX secolo per poter riavviare la causa. La stessa cosa si può dire di Nuno Álvares Pereira: subito dopo la sua morte, il re del Portogallo don Duarte e suo fratello don Pedro promossero la sua canonizzazione. Da un documento del 1437 risulta che Eugenio IV dette il suo permesso all'inizio del processo, che per cause sconosciute non giunse a conclusione. Però dalla prima metà del XVI secolo il suo culto era già diffuso. Solo nel 1894, per iniziativa dell'allora postulatore dei carmelitani, la curia diocesana di Lisbona si incaricò di avviare il processo per il riconoscimento del culto ab immemorabili, concesso nel 1918 da Benedetto XV. Dobbiamo anche ricordare che a quel tempo, non c'erano le istruzioni procedurali come le abbiamo adesso. Nel 1588 Sisto v istituì la Congregazione dei Riti che aveva competenza sulla beatificazione e canonizzazione con procedure particolari confermate da Benedetto XIV e poi precisate varie volte nel corso dello scorso secolo. Basti ricordare quelle di Giovanni Paolo II nel 1983 e quelle di due anni fa, con la pubblicazione dell'istruzione Sanctorum mater, in cui si precisa la procedura per l'indagine diocesana, che deve seguire un particolare e puntiglioso iter per poi venire trasferita a Roma.
Questo significa che le procedure del tempo erano meno rigorose?
Non dobbiamo dimenticare che la documentazione antica è molto accurata, perché allora non c'era il pienone di cause come adesso e ci sono dei miracoli ben documentati. D'altra parte, dobbiamo attenerci alla documentazione e alla scienza di quel tempo, non possiamo vedere con gli occhi e la mentalità di adesso. Per confermare quanto fossero puntuali e precise le procedure del tempo, basti ricordare come venne riconosciuto il famoso miracolo di Calanda avvenuto per intecessione della Madonna del Pilar di Saragozza. Calanda è un paese a circa 100 chilometri a sud di Saragozza. Vi abitava un giovane che, mentre lavorava, si era tranciato una gamba sotto un carretto. Non potendo più lavorare, si era ridotto a fare il mendicante con il permesso ufficiale della cattedrale di Saragozza. Per anni fece il mendicante, fino a quando un giorno rientrò a Calanda e si addormentò. Il mattino seguente sua madre lo svegliò e con meraviglia vide che la gamba troncata era integra. Venne immediatamente chiamato il vescovo, il quale convocò il notaio che prese nota di tutte le testimonianze. La documentazione relativa al miracolo fu quindi molto accurata, perché allora c'era lo spauracchio dell'Inquisizione.
Perché alcune volte la Congregazione per la Dottrina della Fede ha bloccato delle cause di canonizzazione e poi a distanza di anni ha tolto il vincolo?
La Congregazione per la Dottrina della Fede ha come compito di verificare che in un candidato alla canonizzazione non vi sia, ad esempio, falso misticismo. Nel caso venga constatato, la causa viene bloccata. A volte, a distanza di anni, vi sono supplementi di indagine che permettono di chiarire e di superare gli impedimenti che avevano portato a un determinato blocco. Quando ero segretario del dicastero si è dato il via libera ad alcuni casi. Se c'è l'obstare della Congregazione per la Dottrina della Fede non si può procedere oltre.
Mancano in questa giornata di canonizzazioni figure a noi più vicine nel tempo, perché?
Non facciamo delle programmazioni. Dipende dalle situazioni che hanno permesso a queste cause di maturare. Le anticipo che a ottobre avremo a Milano la beatificazione di don Gnocchi, un nostro contemporaneo. Vorrei far notare inoltre anche un fattore che per secoli ha ritardato la beatificazione dei candidati. Prima vi erano cinquanta anni di attesa dalla morte della persona in odore di santità per poter dare avvio alla causa, ora sono stati ridotti a cinque. Vi sono molte cause di contemporanei che aspettano la conclusione, ma proprio perché sono di contemporanei usiamo un'accuratezza procedurale maggiore, perché non possiamo esasperare le situazioni. Il Papa poi può concedere la deroga all'attesa dei cinque anni dalla morte del candidato per avviare il processo, come ha fatto Benedetto XVI nei confronti di quella di Giovanni Paolo II. Di fatto ha messo la sua procedura su una corsia preferenziale, sgombra. In questa corsia però bisogna seguire varie tappe dell'iter. Credo comunque che si arriverà a conclusione abbastanza sollecitamente. Ci sono allo studio anche dei presunti miracoli attribuiti al servo di Dio, ma prima si deve concludere l'iter per la dichiarazione dell'eroicità delle virtù.
Quanto incide il problema economico?
Il problema non è a livello economico, perché se ci sono difficoltà in tal senso noi veniamo incontro. Il problema è che c'è bisogno di raccogliere la documentazione e senza l'intervento della diocesi e della parrocchia è molto difficile. La comunità ecclesiale dovrebbe comunque farsi carico di portare avanti l'iter processuale anche di candidati laici. Non credo sia questione di mancanza di fondi. Il problema è che molte volte, mentre per un fondatore ci sono i figli spirituali che si interessano di portare avanti la causa di canonizzazione, per i laici spesso manca questa sollecitudine.
Le nuove istruzioni della Sanctorum mater possono facilitare una maggiore attenzione alla santità laicale?
Di per sé la nuova istruzione Sanctorum mater tratta della procedura del processo diocesano. Ovviamente, l'attenzione al laicato, il discernimento e la valutazione della santità laicale spettano soprattutto ai vescovi e ai parroci.
Quanto influisce la fama di santità?
Molto. La fama di santità è importante. Ci sono delle figure esemplari che vengono subito notate dal popolo, dai fedeli, dai parroci. Anche i vescovi propongono delle figure molte belle. Spesso ci sono cause che non vanno avanti perché manca il miracolo. Per questo, vorrei invitare a pregare e a invocare
(©L'Osservatore Romano - 26 aprile 2009)
Il custode dell'amore - Pigi Colognesi - venerdì 24 aprile 2009 – ilsussidiario.net
Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, lo scrittore Alessandro Piperno ha riproposto ai lettori il libro che un giovanissimo Samuel Beckett aveva dedicato a Marcel Proust. «Beckett – scrive Piperno – vede in Proust un uomo che non crede nella comunicazione tra gli esseri. Che si sente immerso in un irredimibile mare di egoismo. E che vive i rapporti umani come uno sconfortante nonché beffardo succedersi di fraintendimenti». A conferma di ciò, cita due frasi folgoranti del drammaturgo irlandese. La prima: «L’amicizia è la negazione di quella solitudine senza rimedio alla quale è condannato ogni essere umano». La seconda: «L’amicizia è un espediente sociale, come la tappezzeria o la distribuzione di bidoni delle immondizie». La conclusione è radicalmente nichilista (e, infatti, l’articolo si intitola: E Beckett smascherò il Proust nichilista): «Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti».
Queste frasi, ho detto, sono folgoranti; ma mi sono chiesto se sono anche vere. Vere per quanto posso desumere dalla mia esperienza e chi mi legge trarre dalla propria. Ho concluso che non lo sono. Partiamo dalla prima frase. È vero che spesso mi sono sentito condannato ad una «solitudine senza rimedio». Ma, appunto, l’amicizia è stata per me la «negazione» di questa condanna; non perché mi ha fatto fingere di non vederla, ma perché ha dimostrato che essa non è «senza rimedio». Il rimedio è proprio la possibilità di condividere con altri il cammino verso il proprio compimento; in ciò consiste l’amicizia.
Ma allora l’altra affermazione di Beckett, quella secondo cui l’amicizia è un puro «espediente sociale» rappresenta una conclusione indebita. Certo che ogni rapporto può essere vissuto con una superficialità che deborda nello sfruttamento. Tutti noi abbiamo avuto esperienza di nessi che chiamavamo amicizia ed invece non erano che una semplice vicinanza casuale o addirittura connivenza. Ma abbiamo anche sperimentato qualcosa di radicalmente diverso: una comunanza di destino così profonda che fa sentire il compagno di cammino realmente come un sostegno indispensabile, un amico.
Per questo mi sembra che la conclusione nichilista sia una opzione a cui mancano delle ragioni, parziale. Sento molto più vicina alla mia storia la posizione vissuta e descritta da tanti uomini del medioevo, impregnati di cristianesimo. Uno di loro, Aelredo di Rievaulx (1110-1167) ha scritto uno splendido trattato intitolato L’amicizia spirituale. Aelredo è un realista, sa che «l’amicizia può essere carnale, mondana, spirituale. Quella carnale nasce dalla sintonia del vizio; quella mondana si accende per la speranza di un guadagno; quella spirituale si cementa tra coloro che sono buoni, in base a una somiglianza di vita, abitudini, gusti, aspirazioni». Ma, proprio perché realista, sa anche che «fin dal principio la natura ha impresso nello spirito umano il desiderio dell’amicizia, un desiderio che il sentimento interiore dell’amore presto intensificò dandogli un certo gusto di dolcezza», per cui «un uomo senza amici è come una bestia». Bestie sono «quanti pensano che l’ideale sia vivere senza dover consolare nessuno, senza essere di peso o causa di dolore per alcuno; senza trarre gioia alcuna dal bene degli altri, né amareggiarli con i propri sbagli; stando bene attenti a non amare nessuno, e non curandosi di essere amati da qualcuno».
L’opzione nichilista nega in definitiva la possibilità dell’amore, che Aelredo definisce «un sentimento dell’anima razionale per cui essa, spinta dal desiderio, cerca qualcosa e brama di goderne, ne gode con una certa dolcezza e soavità interiore, abbraccia poi l’oggetto di questa ricerca, e conserva quello che ha trovato». Per concludere che «l’amico è come un custode dell’amore».
TERREMOTO ABRUZZO/ Diario da L’Aquila: dopo l’emergenza, fatica e dolore si affrontano con gli amici - Redazione - domenica 26 aprile 2009 – ilsussidiario.net
E’ tempo di rivedere amici. A tre settimane dal terremoto la fase di emergenza sembra superata. Si comincia a incontrare di nuovo facce conosciute, persone che fortunatamente si portano dietro solo lo spavento di quella notte o, meno fortunatamente, piangono un amico o un parente che non c’è più. Ognuno con la sua esperienza, tanti con quello che da quella notte hanno imparato. La prima mossa tra di noi è stata quella di cercarci, rintracciarci, e fare la conta – mi ha raccontato un amico - quindi lo stupore e la gratitudine di essere stati tutti preservati: il primo grande miracolo. Già da subito è accaduta la disponibilità di farsi carico dei vari bisogni che intercettavamo. Questa tentativo di abbracciare, con tutta la nostra inadeguatezza, chi sta nel dolore è stato fondamentale perché attraverso il semplice rapporto siamo stati introdotti a scorgere nelle "macerie" della nostra compagnia e del popolo abruzzese fatti che macerie non erano affatto.
Il terremoto non ha solo spostato la città di quindici centimetri. Ha rovistato nelle coscienze delle persone, li ha messi di fronte al mistero della vita, della morte. Quando accantono il G8, le visite dei politici nello sconquasso di Onna per commemorare il 25 aprile, mi trovo di fronte a queste storie. Storie di umana presenza, di uomini e di donne che si chiamano per nome. Che insieme costruiscono il futuro. Oggi è uscito il sole, pallido ma bello dopo le giornate di pioggia, vento e grandine trascorse. Anche in questo caso è bello imparare ad apprezzare anche una giornata di sole. La maestosità della natura passa anche attraverso un raggio di sole. Adesso prendo pause dalla routine quotidiana fatta di conferenze stampa, confronti sulle storie che vengono fuori solo per sfamare la voracità dei mass media. Incontro amici e ascolto i racconti del terremoto.
Ognuno con la sua storia, con la sua sofferenza. La fatica e il dolore che vengono superati stando insieme agli amici e guardando insieme come cambiare questa difficile situazione guardando la realtà, osservando e comprendendo i bisogni di chi sta accanto. Sono tanti gli episodi che incontro adesso, a tre settimane dal terremoto. Nelle lunghe giornate passate in giro per la città. Quella parte di città fuori il centro storico che prima non frequentavo. Persone, anche conosciute da pochi minuti, che ti raccontano la loro storia, la loro sofferenza. In tanti gridano al miracolo, non solo di essere vivi ma di aver riscoperto il gusto della vita, il piacere delle piccole cose, il senso della propria esistenza.
Comincia una nuova settimana, attendo il primo maggio per riposarmi. Mai come quest’anno sento il significato della festa dei lavoratori. Si apre una settimana importante. La visita del Papa sarà l’occasione per sentire come muoversi attraverso il dramma della natura, la sofferenza e la morte. Attendo le sue parole per capire se ho fatto qualcosa di buono, se e dove migliorare. Un modo per affidare ancora una volta la mia vita e il mio mestiere in mani più grandi.
(Fabio Capolla - Giornalista de Il Tempo)
«Eluana? Hanno tentato di alterare la verità dei fatti» - Le suore Misericordine di Lecco a un dibattito dei Medici cattolici «Per noi non è mai stata un caso. Ma qualcuno voleva proprio questo» - DA CAVA DE’TIRRENI (SALERNO) - VALERIA CHIANESE – Avvenire, 26 aprile 2009
Il ricordo di Eluana palpita vivo negli occhi delle suore che per lungo tempo l’hanno accudita. È lei stessa, la donna assistita, coccolata, curata con amore per 16 anni, è viva, presente, reale, nelle parole tenere e sussurrate, nei sorrisi che si indovinano commossi di suor Annalisa Nava, Madre generale delle Suore Misericordine e di suor Rosangela Ferrario. La storia di Eluana Englaro, la tragica vicenda che ha scosso le coscienze di tutti ed ha posto ineludibili interrogativi sul vivere e sul morire, oltre a determinare un profondo e talvolta aspro dibattito a livello politico, giuridico e legislativo tuttora in corso, è stata ripercorsa ieri in Campania. Le due suore sono state ospiti di un incontro promosso ed organizzato dalla sezione ' San Giuseppe Moscati' dell’Associazione medici cattolici italiani ( Amci) dell’arcidiocesi di Amalfi- Cava de’ Tirreni. Un dibattito pubblico ospitato nella sala Paolo VI dell’episcopio cavese dal significativo titolo anche perché riprende la frase di Matteo ( 25,35) ' Poiché ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere…'.
« Noi non ci riteniamo meritevoli di nulla», ha spiegato subito suor Rosangela Ferrario, che è stata la religiosa più vicina alla giovane e sfortunata Eluana, quella che l’ha assistita amorevolmente e con dedizione assoluta, durante i lunghi anni della disabilità. «Sono più eroiche le famiglie che accudiscono questi malati, nella solitudine e spesso nel dolore – ha aggiunto –. È questo che vorremmo dire alla politica. Grazie a questa esperienza, capiamo quanto sia difficile per le famiglie avere aiuti, supporti, strutture, sovvenzioni». E 'togliere il sondino', in questa realtà complessa e solitaria, diventa paradossalmente la soluzione più semplice, la più triste e al tempo stesso la più facile. «Dopo tanti anni accanto ad una persona malata, che non comunica esplicitamente, la tentazione di lasciare viene, se non si può contare su aiuti importanti», ha poi sottolinea suor Annalisa, che ha spiegato come dall’esperienza della cura di Eluana tutte le religiose abbiamo imparato tanto sulla persona fragile. E, soprattutto, abbiano compreso come, attraverso il dolore umano, ci si possa sentire più vicini al Cristo sofferente.
Così la speranza non ha mai cessato di esistere, come non veniva meno il respiro seppure flebile di Eluana. I giorni successivi alla sentenza della Cassazione che ha pronunciato una parola decisiva per la sorte della giovane donna – hanno ricordato ancora le suore – sono forse stati i più difficili. «Eluana non è mai stata un 'caso', lei non è mai stata un 'fastidio', non ha mai creato 'disturbi' », osserva suor Rosangela. «In questi ultimi mesi è diventata un ' caso', ma forse c’era qualcuno che voleva proprio questo».
Difficile è stato gestire quello che suor Annalisa definisce «l’accanimento mediatico», la propensione stupefacente ad «alterare la verità». È stato soprattutto questo aspetto che « ci ha rattristato » , è stato il commento di monsignor Orazio Soricelli, arcivescovo di Amalfi e Cava de’ Tirreni. « Abbiamo visto un’Italia divisa tra chi era a favore della vita e chi in opposizione, con egoismo, con libertà presunta, con l’autodeterminazione ad ogni costo. Siamo rimasti però molto colpiti dalla semplicità delle nostre sorelle - ha detto ancora –. Molti cristiani danno ai loro malati altrettanto, nel silenzio delle famiglie». Ed è questo che nella storia di Eluana e nei suoi giorni si può riconoscere di positivo. «Il valore della carità e il dover prendersi cura di questi fratelli ammalati. È emerso questo problema con tutto il disagio e delle manchevolezze », è stata ancora l’opinione del vescovo. Tre sono i motivi che hanno convinto Giuseppe Bettimelli, presidente diocesano e consigliere nazionale Amci, a preparare l’incontro di ieri. Che « fosse di testimonianza, per onore della verità e della giustizia». «Le suore Misericordine hanno scritto una pagina di autentica carità cristiana – ha spiegato –. Hanno messo al centro la persona disabile, di cui tutti si devono prendere cura. E questo è uno dei valori più laici di una società democratica, che la rafforza e la caratterizza: prendersi cura del disabile e del debole». Il cammino è appena agli inizi. La legge in Parlamento sul fine vita e sul testamento biologico ha, secono Bettimelli, un buon inizio, una buona base di discussione. È il seguito che lascia incerti e timorosi, perché potrebbe essere modificata e non verso la vita. Ora Eluana dorme in pace e forse – ha concluso Bettimelli – il suo sacrificio non è stato vano se consentirà alla politica di aiutare altre famiglie». Lei vive nel cuore delle suore e in un suo golfino bianco che suor Annalisa conserva.
Berlino oggi al voto per l’ora di religione - sfida nella capitale - Referendum popolare per reintrodurre l’insegnamento nelle scuole. Fronte del «sì» in vantaggio. Ma i rivali puntano sull’astensionismo - DA BERLINO VINCENZO SAVIGNANO – Avvenire, 26 aprile 2009
Un prete cristiano e un taleban ritratti entrambi a fare lezione a dei bambini in una classe. È il manifesto della discordia, che ha provocato critiche e reazioni da parte del mondo cattolico e non solo. È stato utilizzato dall’associazione “Pro Ethik” per difendere l’obbligatorietà delle lezioni di etica in tutte le scuole superiori di Berlino. Oggi nella capitale tedesca si va alle urne per decidere se reintrodurre dalla settima classe, ovvero dai 15 anni, la possibilità di seguire lezioni di religione come chiede l’associazione “Pro Reli” promotrice del referendum, formata da cattolici, protestanti, ebrei, musulmani moderati e sostenuta apertamente dall’Unione Cdu-Csu di Angela Merkel.
Il cancelliere ieri ha auspicato che il «maggior numero possibile» di cittadini si dichiari a favore dell’introduzione della religione come materia obbligatoria. La “Pro Reli”, a prescindere dal risultato di oggi, una vittoria l’ha già ottenuta: riuscire a sensibilizzare la cittadinanza su una questione forse troppo a lungo sottovalutata. Per richiedere il referendum bastavano 170.000 firme, ne sono state raccolte più di 260.000, grazie all’intervento delle Chiese cattolica ed evangelica e all’instancabile Christoph Lehmann, l’ideatore di “Pro Reli”, avvocato 46enne cattolico e legato alla Cdu. È nato e cresciuto a Berlino ovest dove ha uno studio professionale sulla Kurfürstendamm. «Ci muoviamo evitando ogni tipo di strumentalizzazione politica – ha ripetuto per tutti questi mesi – e la nostra proposta non si ferma solo alle confessioni cristiane: vogliamo che ogni studente possa scegliere fra la lezione di etica e una regolare lezione di religione, sia essa cattolica, evangelica, ebraica o musulmana».
Quest’ultimo è il punto che più mette in difficoltà i suoi avversari, tra i quali c’è il sindaco di Berlino, Klaus Wowereit. Il socialdemocratico, alla guida di una coalizione rossa-rossa tra Spd e postcomunisti della Linke, non vede di buon oc- chio l’iniziativa e con l’appoggio del Senato di Berlino è riuscito ad evitare l’abbinamento con il voto europeo di giugno. Spera nell’astensionismo: perché il referendum sia valido occorre che si rechino alle urne almeno 600mila elettori.
Wowereit decise di introdurre l’obbligatorietà dell’ora di etica nelle scuole superiori nel 2006, a seguito della morte di Hatun Sürücü, ragazza curda uccisa dal fratello che non tollerava i suoi atteggiamenti filo-occidentali. Lo scopo dell’iniziativa era far dialogare tutti i ragazzi, di tutte le confessioni, dalla settima alla decima classe. Con le lezioni di etica, Berlino è diventata un’eccezione nel Paese. Nella maggior parte dei 16 Länder tedeschi, infatti, religione (cristiana, ebraica, musulmana o qualsiasi altra) o etica universale sono materie facoltative, alternative, a pari dignità. Molti studenti di Berlino per questioni d’età oggi non potranno votare «ma probabilmente decidere sull’ora di religione spettava solo a noi», dice Richard studente di 15 anni del Dathe-Gymnasium nel quartiere Friedrichsain. «A casa parlo molto su temi di etica, poco di quelli religiosi», aggiunge Laura-Marie di 14 anni. «Nel mio paese del Nord Reno Westfalia seguivo lezioni di religione, qui a Berlino non è possibile, non mi sembra giusto», sottolinea Ulrike. Gli ultimi sondaggi, intanto, danno al “sì” un lieve vantaggio, il 51%, nonostante si calcola che i berlinesi non credenti siano 6 su 10. Ma quella di oggi, in realtà, non è solo una questione religiosa, ma soprattutto di libertà di scelta e quindi di tolleranza. «La tolleranza è possibile solo quando si conosce a fondo la propria religione», recita lo slogan di uno dei manifesti dell’associazione “Pro Reli”.
Ratzinger Chiesa e Israele: un incontro possibile? – Avvenire, 26 aprile 2009
La storia dei rapporti tra Israele e la cristianità è intrisa di lacrime e sangue, è una storia di diffidenza e di ostilità, ma anche – grazie a Dio – una storia sempre attraversata da tentativi di perdono, di comprensione, di accoglienza reciproca.
Dopo Auschwitz il compito della riconciliazione e dell’accoglienza si è presentato davanti a noi in tutta la sua imprescindibile necessità. Pur sapendo che Auschwitz è la terrificante espressione di un’ideologia che non si limitava a volere la distruzione dell’ebraismo, ma che odiava l’eredità ebraica anche nel cristianesimo e cercava di cancellarla, dinanzi a eventi di questo genere resta la domanda sulle ragioni della presenza nella storia di tanta ostilità tra coloro che, invece, avrebbero dovuto riconoscere la propria affinità in forza della fede nell’unico Dio e della professione della sua volontà.
Questa ostilità proviene forse proprio dalla fede dei cristiani, dall’'essenza del cristianesimo', così che per giungere a una vera riconciliazione bisognerebbe di necessità astrarre da questo nucleo e negare il contenuto centrale del cristianesimo? Si tratta di una ipotesi che, dinanzi agli orrori della storia, è stata formulata negli ultimi decenni proprio da alcuni pensatori cristiani. Ma allora la professione di fede in Gesù di Nazareth come figlio del Dio vivente e la fede nella croce come redenzione dell’umanità implicano necessariamente una condanna degli ebrei per la loro ostinazione e cecità, in quanto colpevoli della morte del figlio di Dio? Davvero le cose stanno così, quasi che il nucleo stesso della fede cristiana porti all’intolleranza, anzi all’ostilità nei confronti degli ebrei e che, al contrario, l’auto-considerazione degli ebrei, la difesa della loro dignità storica e delle loro convinzioni più profonde esiga da parte dei cristiani la rinuncia al centro stesso della propria fede, e dunque una rinuncia alla tolleranza? Il conflitto è insito nella natura più intima della religione e può essere superato solo con il suo abbandono?
In questa sua drammatica acutizzazione il problema si pone oggi ben al di là di un dialogo puramente accademico tra le religioni, coinvolgendo le scelte fondamentali di questo momento storico.
Si cerca spesso di sdrammatizzare il problema presentando Gesù come un maestro ebreo che, nella sostanza, non si è di molto scostato da quel che era concepibile nella tradizione giudaica. La sua uccisione dovrebbe allora essere intesa nel quadro delle tensioni tra giudei e romani: in effetti, la sua condanna a morte fu eseguita secondo modalità che l’autorità romana riservava alla punizione dei ribelli politici. La sua esaltazione come figlio di Dio sarebbe quindi avvenuta in seguito, nel quadro del contesto culturale ellenistico, e la responsabilità della sua morte in croce sarebbe stata trasferita dai romani ai giudei proprio in considerazione della situazione politica dell’epoca. Questa interpretazione dei fatti può rappresentare una sfida che costringe l’esegesi a un ascolto attento e preciso dei testi e, in tal modo, può forse essere anche di qualche utilità. Tuttavia letture di questo genere non parlano del Gesù delle fonti storiche, ma costruiscono un Gesù nuovo e differente; relegano nell’ambito mitico la fede storica della Chiesa in Cristo. Egli appare così come un prodotto della religiosità greca e di particolari interessi politici nell’impero romano. In tal modo, però, non si rende ragione della serietà della questione, semplicemente ci si ritrae da essa.
Resta allora la domanda: può la fede cristiana, senza perdere il suo rigore e la sua dignità, non solo tollerare l’ebraismo, ma accoglierlo nella sua missione storica?
Può esserci vera riconciliazione senza abbandono della fede oppure la riconciliazione è legata a una simile rinuncia?
Per rispondere a questa domanda non voglio esporre le mie riflessioni, ma piuttosto cercare di mostrare quale sia la posizione del Catechismo della Chiesa cattolica edito nel 1992. Questo libro fu pubblicato dal magistero della Chiesa come espressione autentica della propria fede; allo stesso tempo, proprio avendo davanti agli occhi Auschwitz e il compito lasciato dal Vaticano II, la questione della riconciliazione vi è affrontata come intimamente connessa alla questione stessa della fede. Vediamo dunque in che modo esso si ponga rispetto alla nostra domanda a partire da questo suo compito (...).
Non c’è nulla di tanto discusso quanto la questione del Gesù storico. Il Catechismo, come libro della fede, muove dalla convinzione che il Gesù dei Vangeli è l’unico Gesù autenticamente storico. Qui ci occuperemo in particolare del capitolo centrale su Gesù e Israele, che è fondamentale anche per l’interpretazione del concetto di regno di Dio e per la comprensione del mistero pasquale. Ora, sono proprio i temi della Legge, del Tempio, dell’unicità di Dio a portare in sè tutta la carica esplosiva delle lacerazioni ebraico-cristiane. È possibile comprenderli in maniera storicamente corretta, coerente con la fede e nel primato della riconciliazione?
A dare di farisei, sacerdoti e giudei un’immagine generalmente negativa non sono state solo le prime interpretazioni della storia di Gesù. Proprio la letteratura liberale e moderna ha riportato in auge il cliché delle contrapposizioni: farisei e sacerdoti vi compaiono come sostenitori di un rigido legalismo, come rappresentanti della legge eterna del potere costituito, delle autorità religiose e politiche, che impediscono la libertà e vivono dell’oppressione altrui. In linea con queste interpretazioni ci si pone a fianco di Gesù e si ritiene di continuare la sua battaglia, impegnandosi contro il potere clericale nella Chiesa e contro l’ordine stabilito nello Stato. Le immagini del nemico di certe battaglie moderne per la libertà si confondono con le immagini della storia di Gesù e tutta la sua storia è in fondo interpretata, in tale prospettiva, come una battaglia contro il dominio dell’uomo sull’uomo mascherato dalla religione. Se Gesù dev’essere visto così, se la sua morte va intesa in un contesto del genere, il suo messaggio non può essere la riconciliazione.
È di per sè chiaro che il Catechismo non condivide questa ottica. Per tali questioni esso si attiene soprattutto all’immagine di Gesù del Vangelo di Matteo e vede in Gesù il Messia, il più grande nel regno dei cieli; come tale egli si sapeva obbligato a «osservare la Legge, praticandola nella sua integralità fin nei minimi precetti» (578).
Il Catechismo collega dunque la particolare missione di Gesù alla sua fedeltà alla Legge; vede in lui il Servo di Dio, che porta davvero il diritto (Is 42,3) e diventa perciò «Alleanza del popolo» (Is 42,6; Catechismo 580). Il nostro testo è dunque molto lontano dai superficiali tentativi di armonizzazione della storia di Gesù carica di tensioni. E anziché interpretare il suo cammino in modo superficiale, nel senso di un presunto attacco profetico al rigido legalismo, cerca di far emergere la sua autentica profondità teologica.
Lo si vede chiaramente nel passo che segue: «Il principio dell’integralità dell’osservanza della Legge, non solo nella lettera ma nel suo spirito, era caro ai farisei. Mettendolo in forte risalto per Israele, essi hanno condotto molti ebrei del tempo di Gesù a uno zelo religioso estremo. E questo, se non voleva risolversi in una casistica 'ipocrita', non poteva che preparare il popolo a quell’inaudito intervento di Dio che sarà l’osservanza perfetta della Legge da parte dell’unico Giusto al posto di tutti i peccatori» (579). Questo pieno adempimento della Legge implica che Gesù prenda «su di sé 'la maledizione della legge' (Gal 3,13 ), in cui erano incorsi coloro che non erano rimasti fedeli 'a tutte le cose scritte nel libro della Legge' (Gal 3,10)» (580). La morte in croce trova così una spiegazione teologica a partire dall’intima solidarietà con la Legge e con Israele; in questo contesto il Catechismo pone un legame con il giorno dell’Espiazione e intende la morte di Cristo come il grande evento espiativo-conciliativo, come piena e completa realizzazione di ciò che i segni del giorno dell’Espiazione significano (433; 578).
Con queste affermazioni siamo giunti al centro del dialogo ebraico-cristiano, al decisivo punto nodale tra riconciliazione e lacerazione.
Laddove il conflitto di Gesù con il giudaismo del suo tempo viene presentato in maniera superficialmente polemica, si finisce per derivarne un’idea di liberazione che può intendere la Torah solo come una servitù a riti e osservanze esteriori.
La visione del Catechismo porta logicamente a una prospettiva del tutto diversa: «La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge (= della Torah). Il Discorso del Signore sulla montagna, lungi dall’abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l’uomo sceglie tra il puro e l’impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità [...]. Così il Vangelo porta la Legge alla sua pienezza mediante l’imitazione della perfezione del Padre celeste [...]» (1968).
Questa visione di una profonda unità tra l’annuncio di Gesù e l’annuncio del Sinai viene ancora una volta sintetizzata con riferimento a un’affermazione neotestamentaria, che non è solo comune alla tradizione sinottica, ma ha un carattere centrale anche negli scritti giovannei e paolini: dall’unico comandamento dell’amore di Dio e del prossimo dipendono tutta la Legge e i Profeti. Per i popoli l’inclusione nella discendenza di Abramo si compie concretamente aderendo alla volontà di Dio, in cui precetto morale e confessione dell’unicità di Dio sono inseparabili, come risulta particolarmente chiaro nella versione marciana di questa tradizione, in cui il duplice comandamento è espressamente legato allo Shema’ Isra’el, al sì all’unico Dio. All’uomo viene comandato di assumere come criterio la misura di Dio e la sua perfezione.
Con ciò si palesa anche la profondità ontologica di queste affermazioni: con il sì al duplice comandamento l’uomo assolve il compito della sua natura, che è stata voluta dal creatore come immagine e somiglianza di Dio e che, in quanto tale, si realizza nella condivisione dell’amore divino. Qui, al di là di tutte le discussioni storiche e strettamente teologiche, veniamo a trovarci proprio al cuore della responsabilità presente di ebrei e cristiani dinanzi al mondo contemporaneo.
Questa responsabilità consiste precisamente nel sostenere la verità dell’unica volontà di Dio davanti al mondo e di porre così l’uomo davanti alla sua verità interiore, che è al tempo stesso la sua via. Ebrei e cristiani devono rendere testimonianza all’unico Dio, al creatore del cielo e della terra (...).
Con le riflessioni svolte fin qui non si è certo sviscerato fino in fondo il tema proposto, lo si è solo introdotto. Si sono quindi poste le basi per affrontare la questione del rapporto Israele-Chiesa, nella consapevolezza che una trattazione dettagliata richiederebbe uno studio il cui svolgimento andrebbe ben oltre i limiti di questo saggio. Ancor meno si può qui affrontare la grande questione di un compito comune di ebrei e cristiani nel mondo attuale.
Mi pare però che il nucleo fondamentale di tale compito traspaia da quanto si è detto e risalti di per se stesso: ebrei e cristiani devono accogliersi reciprocamente in una più profonda riconciliazione, senza nulla togliere alla loro fede e, tanto meno, senza rinnegarla, ma anzi a partire dal fondo di questa stessa fede. Nella loro reciproca riconciliazione essi dovrebbero divenire per il mondo una forza di pace.
Mediante la loro testimonianza davanti all’unico Dio, che non vuole essere adorato in nessun altro modo che attraverso l’unità tra amore di Dio e amore del prossimo, essi dovrebbero spalancare nel mondo la porta a questo Dio, perché sia fatta la sua volontà e ciò possa avvenire in terra così come «in cielo»: «perché venga il Suo Regno'».